

5 ALCOOL, DROGHE E DISAGIO PSICHICO: UNA RELAZIONE SUI NUMERI DEL FENOMENO SOCIALE di Stefania Chiappini
9 IL PERCORSO UNIVERSITARIO DEGLI STUDENTI: TRA SUCCESSI E DIFFICOLTÀ di Sondra Badolamenti
15 OVERCOMING BARRIERS TO SUICIDE PREVENTION di Franco Di Cesare
22 AL - INFORMA STUDENTI - “STUDENTI PER GLI STUDENTI”. ACCOMPAGNATI PER MANO DA SIGMA NEL PRESENTE VERSO IL FUTURO
Intervista a cura di Matteo Mancinelli
29 NUOVI STRUMENTI DIGITALI PER LA VALUTAZIONE, DIAGNOSI E GESTIONE DEI DISTURBI DI INTERESSE PSICHIATRICO di Armando Piccinni e Valentina Formica
37 MENS SANA IN SOCIETATE SANA di Adriano Acciarino
44 MEDICINA ESTETICA DEL VISO: IL MASTER DI UNICAMILLUS DOVE GLI STUDENTI “IMPARANO FACENDO” intervista a cura di Tommaso Fefè
50 URT - LE PROFESSIONI SANITARIE E I CORSI DI STUDIO UNIVERSITARI a cura di Marco Coccimiglio
55 MEDICINA DI GENERE, ETICA E IA, SICUREZZE DEL LAVORO di Donatella Padua
66 AL - NEWS DA UNIWEB - “UN CUORE MATTO? ANCHE NO!” I CIBI OK E QUELLI KO PER LA SALUTE CARDIOVASCOLARE di Giorgia Martino
68 AL - UNICAMILLUS GLOBAL HEALTH JOURNAL: HEALTH 4.0 AS A KEY ENABLER OF SOCIETY 5.0
EDITORIALE
di Gianni Profita
Rettore
Freud sosteneva che i tre mestieri più difficili in assoluto sono, nell’ordine, il genitore, l’insegnante e lo psicologo. Difficile dargli torto. In UniCamillus cerchiamo di fare al meglio almeno gli ultimi due, formando futuri professionisti anche nel campo della salute mentale e assistendo i nostri studenti nel loro percorso di formazione. Ed è proprio della cura della salute mentale che in questo numero di UniCamillus Magazine abbiamo voluto occuparci, per contribuire a far prendere coscienza di quanto essa sia importante a tutti i livelli.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che “la salute non è una semplice condizione di assenza di malattia o infermità ma una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale”. Disturbi mentali e situazioni di disagio psicologico riguardano infatti indistintamente uomini e donne, giovani e anziani di qualunque condizione sociale. Ciascuno di noi, in forme e modi diversi, deve fare i conti con ansia, depressione, stress, insonnia, e altre analoghe problematiche che generano numerosi sintomi, riconducibili ad una sofferenza mentale. Il più delle volte il problema viene ignorato, sottovalutato o addirittura amplificato, anche se inconsapevolmente. D’altra parte paura, vergogna, stigma sociale e pregiudizi portano a ritardare l’accesso alle cure, o a rinunciare del tutto a ricorrervi. Ma in tal modo la condizione non fa che peggiorare.
I dati sono allarmanti. Uno su tutti è quello diffuso dal Ministero della Sanità italiano, secondo cui la depressione è la seconda principale causa di suicidio, in particolare tra i più giovani. Adolescenti e adulti under 30 sono anche le persone maggiormente esposte all’insorgenza di comportamenti schizofrenici e molto spesso le famiglie e gli affetti più cari non hanno idea di quali siano i segnali d’allarme e delle più opportune pratiche per intervenire per tempo.
In UniCamillus portiamo avanti alcune iniziative proattive come lo sportello di counseling la cui bravissima responsabile racconta in questo numero alcuni problemi e disagi comuni degli studenti. Nell’ateneo è anche attiva un’associazione universitaria che si adopera per sostenere i colleghi nel loro percorso accademico. Un lavoro di squadra che offre una possibilità di consulto e di crescita in stretta sinergia tra gli stessi studenti.
Citando ancora Freud,“non è tanto facile suonare lo strumento della mente”. Siamo convinti però di essere nella giusta direzione per contribuire a rendere tutti un po’ più consapevoli di quanto sia importante prendersi cura della propria salute mentale.
by Gianni Profita Rector
Freud maintained that the three most difficult professions of all were, in order, being a parent, a teacher and a psychologist. It is hard to blame him. At UniCamillus we try to do at least the last two as best we can, training future professionals in the field of mental health and assisting our students in their education path. And it is precisely mental health that we wanted to cover in this issue of the UniCamillus Magazine to help raise awareness of how important it is at all levels. The World Health Organization affirms: “Health is a state of complete physical, mental and social well-being and not merely the absence of disease or infirmity”. Mental disorders and situations of psychological distress affect men and women, young and old, of all social conditions indiscriminately. Each of us, in different forms and ways, has to deal with anxiety, depression, stress, insomnia, and other similar problems that generate numerous symptoms which can be traced back to mental suffering. Very often, the problem is ignored, underestimated or even amplified albeit unconsciously, with fear, shame, social stigma and prejudice leading to delayed access to treatment, or to not wanting to seek it at all. In this way, the condition can only worsen. The data is alarming. The Italian Ministry of Health have reported that depression is the second leading cause of suicide, particularly among young people. Teenagers and adults under the age of 30 are also the most likely to be exposed to the onset of schizophrenic behaviour, and very often their families and loved ones are totally unaware of the warning signs or the best practices to adopt in order to intervene in time. At UniCamillus, we have launched proactive initiatives such as the counselling desk run by Prof. Sondra Badolamenti, lecturer in Clinical Psychology, who describes the common problems and difficulties experienced by students. A university association is also active at UniCamillus, and works to support colleagues in their academic journey. This is an all-round team effort involved in offering opportunities for consultation and growth in close synergy with the students initiatives that go in the firm direction of helping everyone become a little more aware of how important it is to take care of your mental health. Quoting Freud one again, “it is not so easy to play upon the instrument of the mind”. However, we are convinced that we are on the right path to helping everyone become a little more aware of how important it is to look after one’s own mental health.
di
Stefania Chiappini
La Professoressa Chiappini è Medico Psichiatra, ricercatrice presso UniCamillus e PhD in Farmacologia presso School of Life and Medical Sciences - Allied Health Professions, Dentistry, Nursing and Pharmacy, Department of Clinical, Pharmaceutical and Biological Sciences, University of Hertfordshire, Hatfield, Herts (UK). Collabora con il Prof. Giovanni Martinotti, professore ordinario presso l’ Università di Chieti e docente presso UniCamillus
La relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia evidenzia nel 2023, rispetto all’anno precedente, un aumento della percentuale dei giovani dai 15 ai 19 anni che consuma sostanze - almeno una nell’ultimo anno - con un incremento dal 18,7% al 27,9%. Similmente è aumentata anche la popolazione giovanile che dichiara di “aver consumato sostanze illecite negli ultimi 30 giorni”, che passa dal 10,9% al 18,3%. Tali dati sono in linea con quelli europei pubblicati nell’ultimo report European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs (ESPAD), che riporta che il 33% degli studenti europei adolescenti consuma alcol dai 13 anni o anche in precedenza ed il 6.7 % nella medesima fascia di età ha manifestato un quadro di intossicazione alcolica. In generale più della metà degli studenti (79%) ha riportato di aver consumato alcolici almeno una volta nella vita, ed il 47 % negli ultimi 30 giorni. Per quanto riguarda le sostanze illecite, il 17 % riportava l’utilizzo almeno una volta nella vita, essendo la cannabis la sostanza più accessibile e consumata. Segnalava, inoltre, il consumo di nuove sostanze psicoattive (NSP) e di farmaci a scopo ricreativo. Similmente, tali sostanze presentano un trend in crescita anche nella popolazione giovanile italiana (15-19 anni), rispettivamente per le
NSP dal 3.0 al 5.8% nell’ultimo anno, per i farmaci dal 6.6 al 10.8%.
Le NSP, anche conosciute come “droghe di sintesi” o “designer drugs”, sono sostanze chimicamente simili a sostanze psicoattive già controllate, ma modificate in modo da eludere le leggi sulle sostanze stupefacenti (art. 1 della Decisione Quadro 2004/757/GAI del Consiglio del 25 ottobre 2004, come modificata dalla Direttiva (UE) 2017/2103 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 novembre 2017). Queste sostanze sono spesso create in laboratorio con l’obiettivo di produrre effetti simili o maggiori rispetto a quelli delle sostanze già considerate illegali più comuni come la cannabis, l’LSD, l’ecstasy o gli oppiacei, ma con composizioni chimiche diverse. Esse possono includere una vasta gamma di composti, tra cui:
Prof.ssa Chiappini
• Cannabinoidi sintetici: sostanze progettate per mimare gli effetti del tetraidrocannabinolo (THC, cannabinoide psicoattivo della cannabis), ma spesso più potenti e con effetti imponenti a livello psichico. Esempi includono il JWH-018 e il PB-22;
• Catinoni sintetici: stimolanti che possono causare effetti simili a quelli della cocaina o delle anfetamine;
• Fenetilamine, sostanze che agiscono come stimolanti o psichedelici, simili all’LSD o all’MDMA;
• Oppioidi sintetici, sostanze che imitano gli effetti degli oppioidi naturali come l’eroina o l’ossicodone.
Questa ricerca di effetti psicoattivi imponenti si evidenzia anche in sostanze ‘tradizionali’ come la cannabis: sempre secondo la relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze del 2023 il valore medio del contenuto di THC riscontrato nei campioni di cannabis in foglie e infiorescenze (THC 13%) risulta pressoché invariato dal 2017, mentre quello rilevato nei campioni di resina (hashish) risulta in costante crescita: fino al 2016 mostrava valori inferiori al 10%, nel 2019 raggiungeva un tenore del 20% arrivando, nel 2022, a mostrare un valore del 29%.
LE CONSEGUENZE?
1.Livelli maggiori di psicopatologia
Nel 2022 in Italia gli accessi al Pronto Soccorso (PS) per patologie direttamente sostanze-relate sono stati 8.152 (+31% rispetto ai 6.233 accessi del 2021). Il 42% di essi era riferito a persone di età compresa tra i 25 e i 44 anni, il 23% tra i 45 e i 64 anni e quasi il 10% a minorenni, con rilevanti differenze di genere: il 71% degli accessi maschili ha riguardato 25-64enni, mentre il 13% e il 19%
Gli individui affetti da psicosi che consumano regolarmente cannabis hanno sintomi positivi maggiori, ricadute più frequenti, e richiedono più ospedalizzazioni.
di quelli femminili si riferivano rispettivamente a minorenni e over 65enni. È preoccupante notare che la diagnosi principale attribuita al 51% degli accessi sostanze-relati è stata psicosi indotta da droghe, al 42% abuso di droghe senza dipendenza, al 6% dipendenza da droghe e, in percentuali minori, avvelenamento da sostanze psicotrope (0,7%) e avvelenamento da analgesici, antipiretici e antireumatici (0,3%). Ancor più grave è la possibilità che le sostanze vengano utilizzate da soggetti affetti da patologia psichiatrica, peggiorando chiaramente la prognosi e rendendo più difficile il trattamento. È ormai noto che gli individui affetti da psicosi che consumano regolarmente cannabis hanno sintomi positivi maggiori, ricadute più frequenti, e richiedono più ospedalizzazioni. Altrettanto gravi sono inoltre gli effetti correlati al consumo di NSP, spesso sottostimato dai consumatori; i cannabinoidi sintetici si presentano in forma liquida (olio) o solida, quest’ultima come sostanza vegetale essiccata alla quale sono aggiunti uno o più cannabinoidi. Gli effetti psicoattivi derivano dall’agonismo sui recettori dei cannabinoidi che imitano gli effetti del THC e dell’anandamide interagendo con il recettore CB1 nel cervello. Essi sono: euforia,
rilassamento, modifiche della percezione uditiva, visiva, spaziale, temporale e delle sensazioni corporee. I consumatori riferiscono di effetti molto intensi e di possibili allucinazioni. A causa del forte e del prolungato legame sui recettori CB e della possibile azione su altri recettori del sistema nervoso centrale, gli effetti dei cannabinoidi sintetici sono più intensi più lunghi e il rischio di sovradosaggio è più elevato. Possono indurre un forte, infatti, indurre ansia, paranoia, agitazione, e allucinazioni.
2. Decessi associati ad uso di sostanze
In più della metà dei decessi per intossicazione acuta letale (51-60%) in Italia la causa di morte è stata riferibile direttamente a una sola e specifica sostanza, mentre nei casi in cui il decesso è stato causato dall’azione sinergica di 2 o più sostanze (40-49% dei casi), le combinazioni di sostanze più frequentemente rilevate sono le seguenti:
• cocaina ed eroina (34-42%)
• cocaina e metadone (1822%)
• eroina e alcol (16-20%)
• cocaina e alcol (12-20%)
• cocaina e benzodiazepine (17-19%)
• metadone e benzodiazepine (15-24%)
La condizione di poli-abuso consiste nel abuso simultaneo o sequenziale di diverse sostanze psicoattive, che possono includere alcol, droghe illegali, farmaci prescritti e sostanze sintetiche.
• alcol, cocaina ed eroina (8-11%)
Oltre alle sostanze d’abuso “classiche”, cinque casi nel triennio passato sono ascrivibili a NSP, nella fattispecie cantinoni e fenetilamine.
3.Violenza e reati correlati al consumo di sostanze stupefacenti
L’abuso di sostanze è legato alla violenza in due modi. In primo luogo, la violenza può essere e viene perpetrata sotto l’effetto di sostanze e, in secondo luogo, la violenza legata all’abuso di sostanze deriva dal commercio di droga, che spesso si concentra nelle comunità povere e poco servite. Essa, in particolare, può includere comportamenti antisociali, aggressioni, violenza e attività criminale. Infine, popolazioni vulnerabili come le persone con gravi malattie mentali potrebbero essere a maggior rischio di suicidalità o di comportamenti autolesivi.
La condizione di poli-abuso è diventata, nel corso degli ultimi anni, sempre più frequente in Italia, così come in molti altri paesi. Si tratta dell’abuso simultaneo o sequenziale di diverse sostanze psicoattive, che possono includere alcol, droghe illegali, farmaci prescritti e sostanze sintetiche (NSP). In tale contesto clinico, per molti operatori dei servizi pubblici è diventato evidente che l’approccio terapeutico non può essere mirato, semplicisticamente, all’astinenza dall’uso di una sostanza, ma va orientato, soprattutto, alla persona problematica. I “programmi terapeutici e socio-riabilitativi” vanno, perciò, orientati più alla cura della persona e delle sue problematiche bio-psicosociali, che al solo abuso di sostanze. Infatti, spesso, l’abuso di sostanze psicoattive e d’alcol è solo un aspetto esteriore e sintomatico di un più complesso e profondo disagio psico-sociale. A conferma di ciò, alta risulta la comorbilità psichiatrica tra gli utenti dei servizi per l’alcolismo e le tossicodipendenze. L’abuso di sostanze ed alcol, spesso, risulta essere l’epifenomeno di una complessa combinazione di fattori predisponenti e concausali che possono avere, di volta in volta, maggiore rilevanza sul piano socio-relazionale, psicopatologico e/o clinico-medico. Risulta, perciò, opportuno e necessario un approccio in cui tali fattori sociali, psichici e somatici vengano contestualmente e contemporaneamente valutati e trattati. Negli ultimi e più recenti anni, l’attenzione di molti clinici e ricercatori è stata focalizzata sulla comorbilità psichiatrica presente tra i pazienti con dipendenza patologica da sostanze, nell’ipotesi che tali dipendenze potessero rappresentare una sorta di paradossale e problematica auto-medicazione, ma anche l’espressione di una specifica vulnerabilità psico-biologica. La doppia diagnosi, per l’appunto, si verifica quando una persona presenta contemporaneamente un disturbo legato all’uso di sostanze e un disturbo psichiatrico, come depressione, ansia, disturbo bipolare o disturbo da stress post-traumatico. Queste condizioni possono influenzarsi reciprocamente e complicare il trattamento e la gestione dei disturbi sia di natura psichiatrica che legati all’abuso di sostanze.
by Stefania Chiappini
Professor Stefania Chiappini is a psychiatrist and researcher at UniCamillus
The annual report on the phenomenon of drug addiction in Italy, which was presented to Parliament at the end of 2023, shows, compared to the previous year, an increase in the percentage of young people aged 15 to 19 years using drugs, from 18.7% to 27.9%. Similarly, the proportion of young people who say they have ‘consumed illegal substances in the last 30 days’ has also increased, from 10.9% to 18.3%. This data is in line with European figures published in the latest European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs (ESPAD), which reports that 33% of European teenage students drink alcohol at or before the age of 13. Moreover, 6.7% of the population in the same age group have experienced alcohol intoxication. Overall, more than half of the students (79%) reported drinking alcohol at least once in their lives, and 47% in the last 30 days. With regard to illegal substances, 17% reported having used them at least once in their lives, cannabis being the most accessible and consumed drugs. They also reported the use of new psychoactive substances (NPSs) and recreational drugs. Similarly, these substances also show an increasing trend in the Italian youth population (15-19 year-olds), respectively for NPSs from 3.0% to 5.8% in the last year, for pharmaceuticals from 6.6% to 10.8%.
NPSs, also known as ‘synthetic drugs’, are substances that are chemically similar to already controlled psychoactive substances but modified to circumvent drug laws. These substances are often created in laboratories with the aim of producing similar or greater effects than the most common illegal substances such as cannabis, LSD, ecstasy or opiates, but with different chemical compositions.
In 2022, there were 8,152 admissions to the emergency department (ED) in Italy for substance-related diseases. 42% of them referred to persons aged 25-44, 23% to persons aged 45-64 and almost 10% to minors, with significant gender differences: 71% of male admissions concerned 25-64 year-olds, while 13% and 19% of female accesses referred to minors and over-65 year-olds respectively. Worryingly, the main diagnosis attributed to 51% of substancerelated admissions was drug-induced psychosis, 42% drug abuse without dependence, 6% drug dependence and, in smaller percentages, poisoning by psychotropic substances (0.7%) and poisoning by analgesics, antipyretics and anti-rheumatics (0.3%). Even more serious is the possibility that the substances are used by individuals with psychiatric disorders, clearly worsening the prognosis and making treatment more difficult. It is now known that individuals with psychosis who regularly use cannabis have greater positive symptoms, more frequent relapses, and require more hospitalisation. Equally serious are the effects related to NPS consumption, which is often underestimated by users; synthetic cannabinoids come in liquid (oil) or solid form, the latter as a dried plant substance to which one or more cannabinoids are added. Psychoactive effects result from agonism on cannabinoid receptors that mimic the effects of THC and anandamide by interacting with the CB1 receptor in the brain. Due to the strong and prolonged binding on CB receptors and the possible action on other receptors in the central nervous system, the effects of synthetic cannabinoids are longer and more intense, and the risk of overdose is higher.
In recent years, polysubstance abuse has become increasingly common in Italy, as in many other countries. It consists of the simultaneous or sequential abuse of several psychoactive substances. In this clinical context, it has become evident to many public service workers that the therapeutic approach cannot be aimed, simplistically, at abstinence from the use of drugs, but must be oriented, above all, towards the person experiencing the problem. Therapeutic and socio-rehabilitative programmes must therefore be focused more on treating the person and their bio-psychosocial problems than on substance abuse merely. In fact, psychoactive substance and alcohol abuse is often only an outward and symptomatic aspect of a more complex and profound psycho-social malaise. Confirming this, psychiatric comorbidity among service users for alcoholism and drug addiction is high. Drug and alcohol abuse often turns out to be the epiphenomenon of a complex combination of predisposing and concausal factors that may have, from time to time, greater socio-relational, psychopathological and/or clinical-medical relevance. It is therefore appropriate and necessary to have an approach in which these social, psychic and somatic factors are contextually and simultaneously assessed and treated.
Traduzione curata dal Centro Linguistico di Ateneo
di Sondra Badolamenti
La Prof.ssa Badolamenti (in foto a destra) è docente in UniCamillus di Scienze Infermieristiche, di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni e di Psicologia Clinica.
L’argomento “percorso universitario” e le difficoltà ad esso legate è piuttosto complesso. In Italia, secondo l’Istat, il 33% degli universitari soffre di ansia e il 27% di depressione. Molti rischiano il ritiro sociale e la rinuncia agli studi, con tassi di abbandono in costante aumento (nel 2022 la vetta al 7,3%, dati Mur) Negli ultimi anni alcuni quotidiani (Il sole 24 ore, La Repubblica, Il Corriere della Sera, Open online, Il Mattino, solo per citarne alcuni), hanno preso in considerazione tanti argomenti. Il problema è veramente complesso e andrebbe esaminato prendendo in considerazione i diversi aspetti coinvolti nell’esperienza universitaria dello studente. Ciò significa che porre attenzione esclusivamente sulle richieste dell’Università o della società rischia di non intercettare adeguatamente tutte le sfaccettature
del problema.
Infatti, in condizioni analoghe non tutti gli studenti reagiscono allo stesso modo; quindi, andrebbe compreso meglio quali elementi possono produrre nei ragazzi un percorso universitario difficile, percepito a volte “senza una via d’uscita”. Cercherò di formulare alcune riflessioni, a partire dalla mia esperienza di counselor per gli studenti universitari. Presso la sede della Università Unicamillus è attivo da alcuni anni lo sportello di ascolto e counseling rivolto agli studenti; esso rappresenta un punto di vista privilegiato per guardare al disagio espresso dagli studenti universitari ed uno strumento p rivilegiato per poter fornire loro un supporto.
A mio parere le difficoltà degli studenti possono essere ricondotte a tre grandi macroaree, che spesso sono concomitanti. La prima area contiene tutto quello che riguarda la metodologia di studio ovvero problemi legati alla concentrazione, alla scarsa qualità della metodologia di studio, problematiche legate alla difficoltà alla comprensione e memorizzazione dei concetti e tutto quello che riguarda nel concreto l’organizzazione dello studio ovvero la gestione del tempo dedicato allo studio e quello dedicato al tempo libero. Si evidenzia l’esistenza di situazioni diametralmente opposte: o si studia tantissime ore oppure ci si diverte rinunciando a studiare, aumentando così l’ansia e lo stress provocati dai sensi di colpa per aver occupato il tempo utile allo studio. Il tempo libero non esiste, si “affonda” nel libro, non avendo consapevolezza del fatto che i break fanno parte dello studio e incidono sulla qualità dello studio; oppure si comincia a studiare tardi, ad es nel pomeriggio, quando il cervello non è fresco nell’assimilare le nozioni, e spesso, siccome non assimilo i concetti, si decide che è meglio rinviare all’indomani. Un domani che rischia di trasformarsi in un mai. Ecco cosa è la procrastinazione! Essa, seppure in un primo momento può darmi un sollievo momentaneo, successivamente mi chiede il conto di quello che non ho fatto o ho rimandato per troppo tempo. Si ha quindi la sensazione che il tempo scivoli via troppo velocemente e subentrano pensieri del tipo “non ce la farò mai, è meglio rinviare l’esame al prossimo appello!” La maggior parte degli studenti affermano di non avere un vero e proprio piano di studi giornaliero definito. Non sanno ad esempio che è opportuno svegliarsi ad un certo orario e dedicare X ore a questa materia e Y a quell’altra e non fanno una revisione settimanale dei progressi; non hanno un programma definito della giornata. Alla seconda area appartengono tutte le problematiche legate all’ansia da prestazione, lo stress, la depressione, attacchi di panico, la paura di non riuscire a fare fronte alle richieste da parte delle famiglie a procedere velocemente e bene. Questo è in parte legato all’aumento dei
Le difficoltà degli studenti sono spesso legate a una errata metodologia di studio (foto a destra): o si studia troppo o si procrastina, aumentando ansia e frustrazione.
costi che una famiglia deve sostenere per il mantenimento di un figlio all’università, costi che aumentano in maniera spropositata se lo studente è fuori sede. Certe volte basta un rallentamento, a causa di eventi di vita quali la morte di un parente, la separazione dal ragazzo/a che causano un temporaneo rallentamento degli studi; altre volte ci sono flessioni nel rendimento che possono normalmente accadere e sono legate al passaggio di facoltà, alla difficoltà che presenta il nuovo contesto o anche semplicemente ad uno specifico esame. E’ in queste condizioni che si può anche presentare la difficoltà a recuperare, causando un progressivo isolamento dagli altri studenti e successivamente uno stato di ansia e depressione. Anche le ambizioni che i genitori proiettano sui figli sono fonte di pressione per gli studenti che raccontano di cercare di essere motivo di orgoglio per i genitori, ma di non riuscirci ; sono storie in cui le pressioni ricevute sono tali che, quando non si passa un esame o quando si è indietro di qualche esame ci si sente motivo di vergogna. La paura del fallimento rappresenta un vissuto emotivo concreto, tangibile e viene interpretato dallo studente come espressione delle proprie incapacità. Potrebbe allora succedere che il disagio conseguente al non riuscire a soddisfare le attese degli altri, si concretizzi in alcuni sintomi quali disturbi dell’umore e senso di sfiducia nella propria capacità di riuscire a fare fronte alle difficoltà incontrate. Talvolta non sono i sensi di colpa a farli sentire inadeguati, quanto piuttosto i genitori stessi ad affermare che il figlio/la figlia rappresenta un motivo di vergogna perché l’aspirazione ad un modello di successo e non l’acquisizione graduale di conoscenze e il raggiungimento di una matura consapevolezza della professione che svolgerai, deve rappresentare la priorità assoluta! Altre storie di studenti parlano dei sensi di colpa verso la famiglia, del dispiacere di avere deluso le aspettative, ma anche di non sentirsi compresi per l’impegno dedicato. Come se i familiari talvolta dessero importanza solo alla eccellenza dei risultati e non considerassero adeguatamente l’impegno
mostrato verso lo studio. Il tema delle aspettative provenienti dalla famiglia è importante da considerare perché rimandano agli aspetti relazionali tra i componenti della famiglia. Quali sono i motivi che rendono difficile ad un ragazzo comunicare al padre o alla madre le difficoltà che si stanno incontrando negli studi? Paura delle reazioni dei genitori? Paura di deludere? Vergogna? Le aspettative possono essere alla base di alcune bugie dette in famiglia; i ragazzi possono mentire sul loro andamento universitario per tantissimi motivi. Il problema è che, quando questa strategia (che funziona al momento) diviene sistematica e non occasionale, la situazione che si viene a creare diventa fonte di uno stress significativo e pericoloso. Esso, infatti, può generare un circolo vizioso che autoalimenta il mancato raggiungimento dell’obiettivo (ad es. il superamento dell’esame). Il problema centrale è il tipo di rapporto con i genitori o è più strettamente legato al
percorso di studi? (es sono veramente convinto del percorso di studi scelto? ho scelto questo percorso per soddisfare le aspettative di uno dei miei genitori o per cercare un confronto con lui/lei?). Il confronto con i genitori così come con gli altri è da considerare fondamentale. Quando mi confronto con gli altri studenti, come mi sento? Se sono indietro con gli esami, per svariati motivi, mi sento incapace? Mi isolo? Gli altri mi fanno sentire incapace? Un’altra grande macroarea è quella legata allo stile di vita dello studente, ovvero il sonno, l’alimentazione, le attività fisiche e sportive praticate o non. Mantenere una buona salute fisica significa prendersi cura del proprio corpo e assicurarsi un suo corretto funzionamento. Cattive abitudini alimentari quali un uso eccessivo di cibi precotti e di fast food (Pizza e hamburger sono quasi sempre disponibili nelle mense e nei bar), una dieta estremamente ipocalorica o saltare i pasti
non favorisce un adeguato apporto nutritivo e può avere un impatto negativo sulla vigilanza e sulla concentrazione, rendendo difficile lo studio. Il sonno è ciò a cui gli studenti rinunciano più spesso nel programmare lo studio e le attività sociali. Rimanere alzati fino a tardi o fare le “notti in bianco” per studiare gli ultimi giorni prima dell’esame riduce l’energia e favorisce solo la memoria a breve termine. Fare attività fisica può aiutare a dormire meglio di notte e a rimanere svegli durante il giorno. Una recente ricerca dell’Università del Texas a Dallas ha dimostrato che l’attività fisica migliora non solo la memoria, ma anche altre capacità cognitive. L’esercizio fisico incide anche sul miglioramento del tono dell’umore, generando endorfine, che influiscono sulla per-
Il disagio dei giovani studenti si lega anche al non riuscire a soddisfare le attese degli altri e si concretizzi in alcuni sintomi quali disturbi dell’umore e senso di sfiducia nella propria capacità di riuscire a fare fronte alle difficoltà incontrate (foto in basso).
cezione del benessere generale, In questa ottica è importante utilizzare le risorse messe a disposizione dall’università. L’accesso degli studenti alle palestre del campus è in genere gratuito o estremamente economico e facilmente fruibile. Un altro vantaggio dell’utilizzo delle strutture sportive accademiche o dell’iscrizione ad una squadra universitaria è la possibilità di conoscere altri studenti e questi contesti di socializzazione possono permettere allo studente di scambiarsi informazioni. Sono tanti gli interventi che si possono programmare con lo studente, e ciascun intervento è specifico per ogni studente e le sue difficoltà ma la base che sta all’inizio di ogni tipo di supporto è il riconoscimento di aver bisogno di un piccolo aiuto.
By Sondra Badolamenti Lecturer in Clinical Psychology
and responsible for the UniCamillus Counselling Service.
The topic of the ‘university journey’ and the difficulties associated with it is quite complex. In Italy, according to the National Statistics Institute (ISTAT), 33% of university students suffer from anxiety and 27% from depression. Many are at risk of social withdrawal and dropping out of studies, with early school leaving rates rising steadily. In recent years, a number of newspapers have raised this issue, which is complex and should be examined by taking into consideration the different aspects involved in the student's university experience. In similar conditions not all students react in the same way. Therefore, it should be better understood what elements can produce in students a difficult university career, sometimes perceived as being ‘without a way out’.
The Listening and Counselling Service for students has been active at UniCamillus for several years now. It is a unique opportunity to look at the discomfort expressed by students and a tool to provide them with support. Students' distress can be traced back to several major macro-areas, which are often concomitant. One of them is related to study methodology and time management. It shows the existence of two diametrically opposed situations: either you study long hours, or you enjoy yourself by giving up studying, thus increasing anxiety and stress caused by guilt. Most students claim that they do not have a defined daily schedule; they do not know, for example, that it is appropriate to wake up at a certain time and devote some hours to one subject and others to another; they do not review progress, nor do they have a precise plan for the day. To the second area belong all the problems related to performance anxiety and the fear of not being able to cope with family demands.
Sometimes life events such as the death of a relative or a separation from one's partner are enough for a temporary slowdown in studies. At other times there are downturns that can normally occur, linked to a change in the subject of study, the difficulty presented by a new context or even simply to a specific exam. It is in these conditions that difficulty with catching up can occur, causing progressive isolation from other students and subsequently a state of anxiety and depression.
The ambitions that parents project onto their children are also a source of pressure for the students who tell of trying to be a source of pride for their parents but fail to do so. Sometimes, it is not the feelings of guilt that make them feel inadequate, rather the parents themselves who say that their son or daughter is a source of shame, since aspiring to a successful model rather than the gradual acquisition of knowledge or being fully aware of your profession represent the absolute priority.
Another major macro-area is related to the student's lifestyle. Maintaining good physical health means taking care of one's body and ensuring that it functions properly. Bad eating habits, an extremely low-calorie diet or skipping meals do not promote adequate nutrient intake and can have a negative impact on clarity of mind and concentration. Sleep is what students give up most often when planning study and social activities. Staying up late or having late nights to study the last days before an exam reduces energy and only favours short-term memory. Physical activity can help you sleep better at night and stay awake during the day. With this in mind, it is important to make use of all the resources provided by the university. There are several interventions that can be planned with the student, each being specifically tailored to thembut the basis that lies at the beginning of any kind of support is acknowledging that they need help.
Traduzione curata dal Centro Linguistico di Ateneo
by Franco Di Cesare Professor of Pharmacology at Unicamillus University. Independent pharmaceutical physician. Expert in global neuroscience product development
Talking (or writing) about suicide is always challenging. The burden of suffering behind the word “suicide” is immense. Suicide is the 10th leading cause of death. About 800,000 persons worldwide die from suicide yearly. It is the 2nd leading cause of death for persons aged 10–34 years old. However, suicidal behavior is preventable. Talking about suicide is a powerful tool to prevent suicide or to erect psychosocial barriers to avoid a factual and effective approach to protect and save lives.
“Myths” about suicide play a key role in reinforcing social stigma against persons living the experience of suicidality. Myths are strong socio-cultural or individual convictions on how things work based on poor factual evidence. One myth is that “only certain people experience suicidal thoughts, people with a serious mental health disease.” Not unusually, persons who attempt or die by suicide get derogatory and unjustified characterization such as selfish, cowardly, weak, attention-seeking, or affected by a mental health condition. The reality is that the occurrence of suicidal thoughts is quite common in the general population in situations of intense social and psychological distress. Suicidal ideation may arise while facing stressful life events such as problematic personal relationships, criminal or legal matters, job/academic failure, eviction or home loss, grief, a devastating or debilitating illness, or other traumatic situations. In a dramatic situation, the person may end up choosing between whether life is still worth living or whether suicide is the only solution. The feelings we may experience are the likes of ‘I do not know how to get out of this
moment. I feel so overwhelmed. I feel so stressed. I feel so sad that this opportunity to escape is what I need, and I do not feel I have any other choice.’ There may be some volition in attempting suicide, but suicidal thoughts can be so overwhelming that they crowd out everything else. However, only a minority of all persons experiencing suicidal thoughts start planning and preparing to take his/her life. Notably, this “minority group” is a quite substantial number of people. For example, 1.2 million persons by year attempt suicide in the USA. Myth number 2 is “people who attempt suicide are selfish”. There is an evident derogatory connotation that comes with the word selfish as if somebody is making this decision typically for a pleasurable reason. The reality is that being suicidal is an extremely painful psychological condition. A suicidal person constantly endures devastating psychological pain as thinking of and planning his/her death. As we know, intense pain obscures our ability to think, control emotions and behaviors, selfconfidence, the be with others. Rather than being selfish (or coward or weak), a suicidal person is extremely vulnerable, continually exposed to the probability of self-harm, either physical or emotional. As such, with an unaddressed need for particular care, support, and protection. Some people think that those who express suicidal thoughts are attention seekers or that they are aware of the sympathy they might engender but do not intend to die. Therefore, we should not bother too much about it. “People who threaten suicide are just seeking attention” is Myth number 3. The reality is that a person who expresses the intention to commit
suicide is definitively seeking attention. To prevent suicide or for other reasons. Regardless of how we respond to this request, a compassionate approach should prevail. We still must take it cautiously that within there is a kernel of truth: that this person truly intends this and is struggling to avoid killing him/herself. Persons who die from suicide have often told someone about not wanting to live anymore or they do not see the future. It is always important to take seriously anybody who talks about feeling suicidal. Myth number 4: Talking about it will lead to or encourage suicide. There is fear that if you talk about suicide, it is going to encourage it, and so people shy away from it. Talking about suicide may reduce, rather than increase, suicidal ideation. It is important to be kind and sensitive. Having honest conversations about suicide can help reduce the stigma and empower persons living with suicidality to seek help. Opening this conversation helps the person find an alternative view of their existing circumstances, rethink their options, and share her/his story with others. Asking someone about warning signs of suicidal behavior you have noticed might feel awkward, but it does not lead to suicide. Quite the opposite: It improves mental health-related outcomes and the likelihood that the person would seek treatment. Unfortunately, the credence that you cannot stop someone from attempting suicide (Myth number 5) is prevalent in our society. Sometimes people think asking someone about suicide is pointless because they will do it anyway: “Once an individual is suicidal, he or she will always remain suicidal.” However, some clinical research has found a suicidal person can perceive interrupted or survived attempts as a “new lease on life.” Of note, robust research findings indicate that the largest proportion of persons who attempted suicide will not make any other attempt in their lifetime. Suicide is often an attempt to control deep, painful emotions and thoughts. Once these negative and painful thoughts dissipate, so will the suicidal ideation. While suicidal thoughts can return, they are not permanent. A person with suicidal thoughts and attempts can live a long, successful life. People typically do what they want to do. However, there are things that we can do along the way that help mitigate some of the issues that are
It
is important to be kind and sensitive. Having honest conversations about suicide can help reduce the stigma and empower persons living with suicidality to seek help.
happening to them. For example, having that sense of various signs of suicide potential is helpful. If someone we care about is struggling, it is well worth the effort to familiarize ourselves with the signs our loved one is at risk for suicide. Myth number 6: Improved mood means the risk of suicide is gone. If someone attempts suicide but then seems to be doing better in the days or months afterward, you might think that their risk is gone. But the reality might be the opposite. The three months following an attempt is when someone is most at risk of dying by suicide. The apparent lifting of the problems could mean the person has made a firm decision to die by suicide and feels better because of this decision. The biggest indicator of risk for subsequent attempts is past suicide attempts or having had family members or friends who attempted suicide. What loved ones and mental health professionals respond to a person’s suicide attempt might provide temporary relief or set in motion support efforts. But what initially drove the person to attempt suicide might still be at play. The post-suicidal period is a time of increased vulnerability for the person with living suicidality. Myth number 7: There are no warning signs before a suicide attempt. The fact is there are always warning signs before a suicide attempt. Authoritative mental health care organizations suggest paying attention to specific behaviors in a person at imminent risk of suicidal behavior. They may include the following common signs.
• Talking about suicide (making statements such as “I’m going to kill myself,” “I wish I were dead” or “I wish I hadn’t been born.”)
• Getting the means to take your own life, such as buying a gun or stockpiling pills.
• Withdrawing from social contact and wanting to be left alone.
• Having mood swings, such as being emotionally high one day and deeply discouraged the next.
• Being preoccupied with death, dying, or violence.
• Feeling trapped or hopeless about a situation.
• Increasing use of alcohol or drugs.
• Changing normal routine, including eating, or sleeping patterns.
• Doing risky or self-destructive things, such as using drugs or driving recklessly.
• Giving away belongings or getting affairs in order when there is no other logical explanation for doing this.
• Saying goodbye to people as if they will not be seen again.
• Developing personality changes or being severely anxious or agitated, particularly when experiencing some of the warning signs listed above. Myths and misconceptions about mental health shape people’s beliefs and attitudes about suicide. Myths on suicide contribute to the stigma that can prevent persons who are suicidal from seeking the help they need; at a social level, falsify understanding of the motivations behind suicidal behavior. Misconceptions about mental health could be also a major barrier to
Authoritative mental health care organizations suggest paying attention to specific behaviors in a person at imminent risk of suicidal
seeking help for us and our loved ones. Debunking myths about suicide and increasing social awareness of its realities can help us view these tragic deaths with more understanding and compassion, realize the importance of helping others get help, and address our mental health problems if we are struggling. People do not die of suicide by deliberate choice. Often, a person who dies of suicide experiences significant emotional pain and finds it difficult to consider different views or see a way out of their situation. In most cases, the reasons behind suicide remain unknown. Even though suicide is not predictable, it is preventable. The acknowledgment and recognition of the status of vulnerability the suicidal person lives in is the starting point to protect lives. Particularly, young lives.
di Franco Di Cesare
Il Professor Franco Di Cesare è un medico farmaceutico indipendente, esperto nello sviluppo globale di prodotti per le neuroscienze. In UniCamillus insegna Farmacologia nel Corso di Laurea in Infermieristica.
Parlare (o scrivere) di suicidio è sempre impegnativo. Il carico di sofferenza che si cela dietro la parola suicidio è immenso, e si stima che questa sia la decima causa di morte al mondo, con circa 800.000 casi annui registrati. Il suicidio rappresenta, in particolare, la seconda causa di morte per le persone di età compresa tra i 10 e i 34 anni. Tuttavia, il comportamento suicida è prevenibile: parlare di suicidio è uno strumento molto potente che può aiutare ad impedirlo.
I “miti” sul suicidio giocano un ruolo fondamentale nel rafforzare lo stigma sociale nei confronti delle persone che vivono l’esperienza della suicidalità. I miti sono forti convinzioni socio-culturali o individuali su come funzionano le cose, ma con alla base scarse evidenze fattuali.
Un primo mito su questo tema è che “solo alcune persone, persone con una grave malattia mentale, hanno pensieri suicidi”. Non di rado, infatti, le persone che tentano il suicidio o ne muoiono vengono caratterizzate in modo dispregiativo e ingiustificato come egoiste, vigliacche, deboli, in cerca di attenzioni o affette da una malattia mentale. La realtà è che l’insorgere di pensieri suicidi è abbastanza comune nelle persone in situazioni di intenso disagio sociale e psicologico. L’ideazione suicidaria può insorgere quando si affrontano eventi di vita stressanti come relazioni personali problematiche, questioni penali o legali, fallimenti lavorativi/accademici, sfratti o perdita della casa, lutti, malattie devastanti o debilitanti o altre situazioni traumatiche.
La persona che sta affrontando un dramma può finire col chiedersi se vale ancora la pena di vivere la propria vita o se il suicidio è l’unica soluzione. Tra i pensieri che si possono avere ci sono: “non so come uscire da questo momento. Mi sento sopraffatto/a. Mi sento stressato/a. Mi sento così triste che questa opportunità di fuga è ciò di cui ho bisogno e non sento di avere altra scelta”.
Sicuramente può esserci un certo livello di intenzionalità nel tentare il suicidio, ma i pensieri suicidi talvolta possono essere così opprimenti da offuscare tutto il resto. Tuttavia, solo una minoranza di tutte le persone che sperimentano pensieri suicidi inizia a pianificare il proprio suicidio ed a prepararsi a togliersi la vita. Questa “minoranza”, però, costituisce un numero piuttosto consistente di persone. Ad esempio, negli Stati Uniti ogni anno 1,2 milioni di persone tentano il suicidio.
Il secondo mito su questo tema è che “le persone che tentano il suicidio sono egoiste”. La parola egoista, infatti, ha un’evidente connotazione dispregiativa, come se qualcuno prendesse questa decisione tipicamente per motivi di piacere. La realtà, però, è che il suicidio è una condizione psicologica estremamente dolorosa. Una persona con questi istinti sopporta costantemente un dolore psicologico devastante mentre pensa e pianifica la propria morte. Come sappiamo, un dolore intenso compromette la nostra capacità di pensare, di controllare le emozioni e i comportamenti, di avere fiducia in noi stessi e di stare con gli altri. Piuttosto che ricorrere a parole quali egoista, codardo/a o debole, dovremmo pensare ad una persona suicida come una persona estremamente vulnerabile, continuamente esposta alla probabilità di autolesionismo, sia fisico che emotivo. In quanto tale, ha bisogno di cure, sostegno e protezione particolari.
Alcuni pensano che coloro che esprimono pensieri suicidi siano soltanto in cerca di attenzione, consapevoli dell’empatia che potrebbero suscitare, ma non hanno davvero intenzione di morire, pertanto, non dovremmo preoccuparcene troppo.
“Le persone che minacciano di suicidarsi sono solo in cerca di attenzione” è il mito numero tre. La realtà è che una persona che manifesta l’intenzione di suicidarsi è indubbiamente in cerca di attenzioni. Indipendentemente da come rispondiamo a questa richiesta, ciò che dovrebbe prevalere è certamente un approccio compassionevole. Dobbiamo comunque considerare che all’interno c’è un fondo di verità: questa persona ha davvero intenzione di togliersi la vita e sta lottando per evitare di farlo. Le persone che muoiono per suicidio spesso hanno confidato a qualcuno di non voler più vivere o di non riuscire ad immaginare un futuro. Per questo, è sempre importante prendere sul serio chiunque menzioni istinti suicidi.
Mito numero quattro: parlare di suicidio porterà al suo compimento o lo incoraggerà. Si teme infatti che parlare di suicidio possa incoraggiare questo atto e quindi le persone lo evitano; ma parlarne può invece ridurre la possibilità di ideazione suicidaria. È importante essere gentili e sensibili. Conversare onestamente sul tema del suicidio può aiutare a ridurre lo stigma e a mettere le persone che vivono una situazione di suicidalità in condizione di cercare aiuto. Aprire questa conversazione aiuta la persona a trovare una visione alternativa della sua situazione, a ripensare alle sue opzioni e a condividere la sua storia con gli altri. Fare domande a qualcuno in merito ai segnali di allarme di un comportamento suicida che avete notato può sembrare imbarazzante, ma non ha come diretta conseguenza
il suicidio di quella persona. Al contrario: può contribuire ad un miglioramento della sua salute mentale, e aumenta la probabilità che la persona che ne abbia bisogno si attivi per cercare aiuto. Purtroppo, la credenza che non si possa impedire a qualcuno di tentare il suicidio (mito numero cinque) è prevalente nella nostra società. A volte si pensa che porre domande a una persona riguardo il suicidio sia inutile, perché lo farà comunque: “una volta che una persona inizia a pensare al suicidio, continuerà a farlo”. Tuttavia, alcune ricerche cliniche hanno rilevato che una persona che pensa al suicidio può percepire i tentativi interrotti o l’eventuale sopravvivenza ad un tentato suicidio come un “nuovo inizio” per la propria vita. I risultati della ricerca indicano inoltre che la maggior parte delle persone che hanno tentato il suicidio una volta, tendono a non fare altri tentativi nel corso della loro vita. Il suicidio è spesso il frutto di un ricercato controllo delle emozioni e dei pensieri profondi e dolorosi, e una volta che questi pensieri negativi e dolorosi si dissolvono, anche l’idea suicida si dissolve. Anche se i pensieri suicidi possono tornare, non sono permanenti, ed è sbagliato pensare che una persona con pensieri suicidi ed episodi di tentato suicidio nel proprio percorso non possa avere una vita lunga e felice. Come linea generale, le persone fanno ciò che vogliono della propria vita; tuttavia, ci sono cose che possiamo fare che aiutano a mitigare alcuni dei problemi che stanno affrontando. Ad esempio, è utile avere un’idea dei vari segnali di potenziale suicidio. Vale la pena, dunque, di fare uno sforzo per imparare a riconoscere i segnali che indicano se una persona a cui teniamo sta lottando ed è a rischio di suicidio. Mito numero sei: se l’umore migliora significa che il rischio di suicidio è scomparso. Se qualcuno tenta il suicidio ma poi sembra stare meglio nei giorni o nei mesi successivi, si potrebbe pensare che il rischio sia scomparso. Ma la realtà potrebbe essere l’opposto. I tre mesi successivi a un tentativo di suicidio sono quelli in cui il rischio di morire per suicidio è maggiore. L’apparente risoluzione dei problemi, infatti, potrebbe significare che la persona ha preso la ferma decisione di suicidarsi e che si sente meglio grazie a questa risoluzione. Il principale indicatore di rischio di ulteriori tentativi di suicidio è rappresentato dai tentativi passati o dall’aver avuto familiari o amici che hanno tentato il suicidio. La reazione delle persone care e degli operatori sanitari al tentato suicidio di una persona può fornire un sollievo temporaneo o mettere in moto iniziative di supporto. Ma ciò che inizialmente ha spinto la persona a tentare il suicidio potrebbe essere ancora in gioco; per questo, il periodo successivo al tentato suicidio è un momento di maggiore vulnerabilità per la persona con suicidalità. Mito numero sette: “non ci sono segnali di allarme prima di un tentato suicidio”. Ci sono sempre segnali di allarme, e varie autorevoli organizzazioni che si occupano di salute mentale suggeriscono di prestare attenzione a comportamenti specifici in una persona a rischio imminente di suicidio. Essi possono includere i seguenti segnali comuni:
• parlare di suicidio (fare affermazioni come “Mi ucciderò”, “Vorrei essere morto” o “Vorrei non essere nato”);
• procurarsi i mezzi per togliersi la vita, come comprare una pistola o fare scorta di pillole;
• ritirarsi dalle relazioni sociali e desiderare di essere lasciati soli;
• avere sbalzi d’umore, presentando picchi molto alti seguiti da sensazioni di profondo scoraggiamento il giorno successivo;
• essere ossessionati dalla morte, dal morire o dalla violenza;
• sentirsi intrappolati o senza speranza in una situazione;
• aumentare l’uso di alcol o droghe;
• modificare la normale routine, comprese le abitudini alimentari o gli schemi del sonno;
• compiere azioni rischiose o autodistruttive, come l’uso di droghe o la guida spericolata;
• dare via i propri beni o mettere in ordine gli affari quando non c’è un’altra spiegazione logica per farlo;
• salutare le persone come se non le si vedesse più.
• sviluppare cambiamenti di personalità o essere gravemente ansiosi o agitati.
I miti e le false credenze sulla salute mentale influenzano le convinzioni e gli atteggiamenti delle persone nei confronti del suicidio. I miti sul suicidio contribuiscono allo stigma che può impedire alle persone con tendenze suicide di cercare l’aiuto di cui hanno bisogno; a livello sociale, alterano la comprensione delle motivazioni alla base del comportamento suicida. I preconcetti sulla salute mentale possono essere un ostacolo importante alla ricerca di aiuto per noi e per i nostri cari. Sfatare i miti sul suicidio e aumentare la consapevolezza sociale della sua realtà può aiutarci a guardare a queste tragiche morti con maggiore comprensione e compassione, a capire l’importanza di aiutare gli altri a trovare aiuto e ad affrontare i nostri problemi di salute mentale se siamo in difficoltà.
Le persone non muoiono di suicidio per scelta deliberata. Spesso una persona che muore per suicidio prova un dolore emotivo significativo e trova difficile prendere in considerazione punti di vista diversi o vedere una via d’uscita dalla propria situazione. Nella maggior parte dei casi, le ragioni del suicidio rimangono sconosciute. Anche se il suicidio non è prevedibile, è prevenibile. Riconoscere lo stato di vulnerabilità in cui vive una persona è il punto di partenza per salvare vite umane. In particolare, giovani vite.
Informa studenti
“STUDENTI PER GLI STUDENTI”: accompagnati per mano da sigma nel presente, verso il futuro
Intervista a cura di Matteo Mancinelli
Studente al 4° anno di Medicina e Chirurgia in UniCamillus, anche lui membro di SIGMA, l’associazione studentesca che fornisce un supporto agli studenti universitari nel loro percorso accademico e professionale.
Nel panorama universitario italiano, soprattutto se lo si restringe a quello delle facoltà di medicina in lingua inglese, Unicamillus detiene il primato di ateneo più giovane. Il successo della sede di Roma ha permesso inoltre quest’anno l’inaugurazione di una nuova sede a Venezia; ma un’altra conferma del prolifico fermento dell’Ateneo arriva dai diverse attività satelliti che gravitano intorno all’università. Una di queste è rappresentato dall’operato dell’associazione S.IG.M.A. La sigla sta per Students Improvement and Growth Medical Association: si tratta di un’associazione studentesca senza scopi di lucro che è impegnata a fornire un supporto completo agli studenti universitari nel loro percorso accademico e professionale. Quattro i soci fondatori: Francesco Ingusci (Presidente), Manuelmaria Carbone (Vice Presidente), Mario Bonfanti (Tesoriere) Marco Patrick Cabella (Segretario), tutti studenti che stanno concludendo il IV anno del CDL ‘Medicine and Surgery’. La realtà che sono riusciti a concretizzare a partire da ottobre 2023, rispecchia a pieno la dinamicità dell’Università Unicamillus, ma anche la generosità del Santo protettore dei malati che ha ispirato proprio la nascita dell’ateneo. Un progetto tanto ambizioso, tenendo conto della vita da studente di medicina, quanto travolgente, se si pensa che già 83 iscritti fanno parte di SIGMA. Il Presidente Francesco Ingusci, con orgoglio ma anche senso di responsabilità, ci aiuta a capire cosa sia SIGMA, oltre lo statuto.
Come è nato il progetto Sigma e quali obiettivi si è posto?
“A maggio 2023 su una panchina dell’università notando che la maggior parte delle persone
come un esperimento, una sfida personale che ci siamo fatti noi 4 compagni di corso, amici, abbiamo voluto fare una prova e organizzare un corso riservato a 20 persone ed abbiamo notato tanto interesse, ma soprattutto è stato bello notare la condivisione dell’interesse per la medicina e la freschezza giovanile con cui si sono posti i ragazzi l’uno con l’altro e da lì in poi abbiamo detto ‘perché non farla diventare una relatà, perché non trasformarla in qualcosa che ha basi fondamentali?”
Come si riesce a conciliare la gestione di questo progetto con la vita da studenti di medicina?
“Vengo da un ambiente che è quello imprenditoriale, infatti SIGMA è nata da una base di imprinting prettamente imprenditoriale. Proprio per questo abbiamo stabilito sul nascere della fondazione una certa collaborazione, divisione dei ruoli, divisione dei compiti e focalizzare il tutto sul team working che è la base sostanziale dell’associazionismo perché l’associazionismo è mettere a disposizione degli altri le proprie potenzialità, i propri averi o cmq i propri interessi. Però tra il principio base sul quale si basa l’associazionismo e la realizzazione stessa dell’associazione, c’è il ‘team working’, il lavoro di gruppo. In teoria la difficoltà iniziale è stata far partire la macchina associativa, quindi i primi 4 mesi sono stati i più ardui ma per il semplice fatto che bisognava mettere delle basi rigide. Dopo di che siamo andati a delegare, ad assegnare comunque dei ruoli terze persone, sempre nostri associati, che ci danno supporto senza interessi personali, quindi nella totale beneficenza del no-profit”. Quali sono gli aspetti di questa esperienza
Un corso di primo soccorso organizzato in UniCamillus da SIGMA
che ritenete possano esservi d’aiuto per diventare buoni medici in futuro?
“Il fatto di fare squadra, di andare oltre quello che è lo studio della medicina. In un futuro mi darà delle basi al livello di gestione del personale, della sanità o altro ma in generale, parlando a nome anche degli altri, non solo dei fondatori ma anche delle persone che collaborano con noi, dà quel senso di appartenenza che la medicina oggigiorno, soprattutto in un ambiente del genere non ti dà. Per il semplice motivo che è molto concorrenziale come ambiente. Quindi andare a creare una struttura ‘quadra’, ti fa già entrare in quello che è il concetto di equipe medica o comunque in quell’ottica di collaborazione inter-ambulatoriale per chi non è chirurgo. Dunque la collaborazione tra vari medici e vari settori e categorie della medicina affinché poi si realizzi quello che è il principio ultimo ossia di curare il paziente nel migliore dei modi. Poi, in teoria ti fa anche arrivare ad essere medico perché la strada per la medicina è difficile; andare a stare in un ambiente accademico come quello di un’università di medicina ti porta a vedere meglio la vita da studente perché non basta semplicemente la solita cerchia ristretta di amici per andare a divertirsi, a bere una birra: servono anche persone vere su cui poter contare. Oggi giorno con l’arrivo dei social è molto più difficile creare una connessione
con le persone, quindi questo sicuramente, l’associazione in generale, aiuta. Senza contare poi il fatto che saremo tutti medici, quindi il fatto di creare una connessione prima di diventare medici, poi si realizza in futuro con una rete resistente in un futuro tra eccellenze della medicina o medici in generale. È questo che l’associazionismo in generale proietta nel futuro”.
Prima o poi, inevitabilmente, l’eredità di Sigma dovrà passare a qualche altro studente, dopo la conclusione del vostro ciclo di studi: avete già pianificato questo passaggio di consegne con gli altri ragazzi del gruppo? E poi quali priorità vorreste venissero conservate da chi prenderà in consegna il progetto?
“La base è di una startup dunque già sul nascere abbiamo già segnato su carta, e anche all’Agenzia delle Entrate, uno statuto ben redatto nel quale c’è già scritto tutto ciò di cui necessita l’associazione. I futuri eredi è ancora presto per dirlo, perché siamo nati da meno di un anno. Secondo lo statuto le nostre cariche decadono dopo 3 anni, a meno che non decadano prima. L’elezione è sotto assemblea degli associati; ecco perché è importante fare un’associazione fatta per bene con i soci che versano una quota associativa, perché saranno loro ad eleggere la persona più papabile candidata a prendere le redini. Quello che mi auguro rimanga è il senso di unione e collettività tra gli studenti, il senso di responsabilità verso il prossimo, che non vuol dire sempre verso il paziente. Vuol dire verso il compagno di corso, verso qualcuno che sta in università ma che ci starà più di te perché è negli anni precedenti o chi sta negli anni successivi ed ha un problema e tu puoi andare in aiuto. Quello che vorrei è che la stessa aria leggiadra e bella, di cui ci si innamora, rimanesse. Vorrei che rimanesse l’amore per la medicina e l’amore per la condivisione in una squadra. Una squadra che però non è chiusa e sbatte le porte in faccia agli altri ma quanto più estroversa e coinvolgente possibile. Quindi quello che mi piacerebbe vedere è che rimanga ciò per cui è nata SIGMA: studenti per gli studenti”.
Quali tematiche vi piacerebbe affrontare in un prossimo convegno? C’è qualche ospite importante che sognate di poter coinvolgere?
“Sicuramente non posso dare informazioni premature. Sicuramente non abbiamo un target specifico perché l’interesse dello studente è talmente tanto vasto che sarebbe inopportuno anticipare collaborazioni sulle quali stiamo lavorando. Come temi generali, ci piacerebbe l’anno prossimo lavorare sia sulla questione della salute mentale per lo studente, quindi del vivere quella che è la realtà accademica dello studente, ma ci piacerebbe anche andare un po’ più a fondo sulla gestione dell’urgenza. Per urgenza sia quella di primo soccorso, primo soccorso stradale, esterno e nella sala operatoria ed altro. Abbiamo intenzione di effettuare vari corsi, molto più professionalizzanti di quelli che abbiamo fatto finora, in modo tale che lo studente abbia un curriculum vitae molto più corposo rispetto uno studente normale di medicina, e soprattutto che dia la possibilità in un futuro di lavorare direttamente in ambulanza o trovare un pronto impiego sia come informatore, ma anche come personale sanitario, al di là delle specializzazioni. Poi ci piacerebbe andare più a fondo su temi che sono molti toccati dalla maggior parte degli studenti, come la cardiologia o l’ortopedia. Soprattutto rimanendo sempre sul coinvolgimento dello studente su temi quali quelli della carità e della beneficenza. Mi piacerebbe molto lavorare sull’empatia degli studenti perché non sono temi che possono essere insegnati ma solo dall’esperienza di vita. Mi piacerebbe dare l’opportunità di cominciare quella che dovrebbe essere la loro empatia da futuro medico tramite la beneficenza e la carità. Ad esempio, quello che stiamo già facendo ossia portare pasti caldi e vestiti alle persone bisognose (ndr con i City Angels), ti cambia la vita. Ti cambia la vita non come medico ma come persona, però questo cambiamento può essere portato nella vita alla realtà di ogni giorno e cioè all’ospedale. Ad esempio, quando ti arriva un paziente devi essere empatico, come devi gestirlo. Io non lo so fare, io voglio imparare a farlo e visto che io ho questo interesse, vorrei tanto che la realizzazione di questo interesse e la conoscenza di quale sia il limite, sia messo a disposizione di tutti. Ecco cos’è l’associazionismo: a me interessa una cosa? Non lo faccio da solo, lo faccio in squadra perché in squadra perché so che magari ad altre 10 persone, ma anche 5, quell’argomento può
interessare. Dunque vorrei che SIGMA non avesse limiti o target in futuro. E anche che con le collaborazioni che stiamo aprendo, possiamo portare il progetto a curare la sanità del domani perché siamo il futuro della medicina. Dunque riuscire a mettere un seme nella testa dei medici del domani è molto più potente che andare a curare delle teste già formate. Il mio progetto di vita è quello di riuscire a migliorare quello che è la sanità oggi, partendo dagli studenti. Perché quello che non si è capito è che i problemi ci sono e non riusciremo mai a concluderli se non istruiamo prima noi ragazzi, noi studenti. E con la fuga di medici che c’è, con la carenza di personale sanitario in Italia, l’unico modo per farlo è lavorare su loro, sui ragazzi che andranno a coprire tutti quei posti. Un citazione che ho fatto nella lettera del presidente alla prima riunione dei soci: SIGMA crea, SIGMA salva, SIGMA unisce. Crea connessioni e relazioni, eventi. Salva perché ci sono tanti studenti che soffrono e li aiuta ma non solo al livello emotivo, anche nell’ambito decisionale di una specializzazione o altro, o per lo studio, la voglia di studiare. E unisce perché da perfetti sconosciuti siamo diventati una grande famiglia unita che conosce la gerarchia, il limite, ma allo stesso tempo sa fare la parte seria di un’associazione al pari della parte del divertimento, della condivisione delle più piccole perplessità di ogni studente”.
I ragazzi di SIGMA si impegnano anche in attività solidali di volontariato
di Armando Piccinni e Valentina Formica
Il Professor Piccinni e docente di Psicologia Generale in UniCamillus.
Le sue ricerche riguardano il Disturbo Bipolare, le patologie psichiatriche ed il morbo di Parkinson, il deterioramento cognitivo e le dipendenze comportamentali.
La Dottoressa Formica è una psicologa con un master post-lauream in intelligenza artificiale.
Lavora come ricercatrice in neuroscienze e psichiatria presso la Fondazione BRF Onlus, di cui il Prof. Piccinni è presidente.
Negli ultimi decenni, il progresso tecnologico ha trasformato molti aspetti della nostra vita quotidiana, rivoluzionando diversi settori, incluso quello della salute. Nel 2019, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato le “Raccomandazioni sugli interventi digitali per rafforzare il sistema sanitario”, linee guida progettate per favorire l’integrazione delle più recenti applicazioni tecnologiche nella sanità. I progressi digitali degli ultimi anni hanno infatti indotto le istituzioni sanitarie a ripensare la salute e trovare modalità innovative per mettere le nuove tecnologie al servizio della medicina con l’obiettivo di ottenere un’assistenza sanitaria il più possibile centrata sul paziente, conveniente ed efficace. Da alcuni anni la salute digitale è stata considerata una priorità emergente e strategica, ma è con la pandemia da Covid-19 e l’interruzione della maggior parte delle attività umane, che è stato evidenziato il ruolo cruciale della digital health nel sistema sanitario anche in tempi non emergenziali, accelerando significativamente l’integrazione delle nuove tecnologie nell’ambito della salute. Con digital health ci si riferisce all’uso delle tecnologie
Il Prof. Piccinni
dell’informazione e della comunicazione (ICT) in ambito sanitario. Include tutti i settori che impiegano tecnologie digitali per la salute, comprendendo l’e-Health e settori ancora più innovativi come la mHealth (uso di tecnologie wireless e mobili, come app e dispositivi indossabili), l’elaborazione avanzata dei big data, la genomica e l’intelligenza artificiale. Il campo della digital health è quindi ampio e diversificato, racchiudendo strumenti tecnologici vari, dai più consolidati nella pratica clinica e assistenziale ai più innovativi. Tra le tecnologie digitali più tradizionali possiamo trovare le cartelle cliniche elettroniche, l’archiviazione digitale dei dati sanitari, la telemedicina e l’erogazione remota di cure integrate. Tra gli sviluppi più recenti ci sono le app per il monitoraggio della salute e per la prevenzione (ad esempio, monitoraggio del peso corporeo o del sonno), dispositivi indossabili, nanotecnologie e medicina personalizzata. In questo contesto, l’utilizzo dei mezzi informatici nella gestione delle malattie psichiatriche rappresenta una delle evoluzioni più significative, offrendo nuove opportunità per migliorare l’accesso alle cure, la qualità e la personalizzazione dei trattamenti, la gestione
Un consulto con la psicologa tramite smartphone
complessiva dei disturbi d’interesse psichiatrico e ridurre il pesante stigma legato alla salute mentale. L’era digitale ha portato alla creazione di numerose applicazioni e strumenti progettati per migliorare la salute mentale. Dalle app di meditazione e gestione dello stress alle piattaforme di monitoraggio dell’umore, la psichiatria digitale offre soluzioni personalizzate per affrontare un’ampia varietà di problematiche psicologiche. Questi nuovi modi di fare terapia stanno ridefinendo la nostra concezione di assistenza psicologica, aprendo porte a una gamma più ampia di soluzioni. Innanzitutto, l’avvento della telemedicina ha reso possibile per i pazienti ricevere consulenze psicologiche e psichiatriche da remoto attraverso videoconferenze. Questo risulta particolarmente utile per coloro che vivono in aree rurali o che hanno difficoltà a spostarsi, permettendogli di contattare gli specialisti indipendentemente dalla loro ubicazione geografica. Varie piattaforme offrono accesso a terapeuti qualificati, permettendo ai pazienti di programmare sessioni di terapia video in base alle loro esigenze. Questo approccio non solo aumenta l’accessibilità, ma riduce anche lo stigma legato al recarsi personalmente presso lo studio di uno specialista. Numerose ricerche suggeriscono che la telepsichiatria può essere efficace quanto la terapia faccia a faccia in molte situazioni, offrendo la stessa qualità di assistenza delle sedute tenute di persona, fornendo una gamma completa di servizi, dalla diagnosi al trattamento, alla gestione a lungo termine di disturbi mentali. Inoltre, può essere impiegata anche in situazioni di emergenza o crisi. Questa modalità può essere particolarmente utile per la gestione di disturbi come l’ansia e disturbi legati a situazioni traumatiche. Le piattaforme digitali hanno introdotto nuovi strumenti per la valutazione e la diagnosi dei disturbi mentali. Applicazioni mobili e software specifici consentono ai medici di utilizzare questionari standardizzati e scale di valutazione per raccogliere dati sui sintomi dei pazienti in modo più rapido ed efficiente. Ad esempio, strumenti come il Patient Health
L’era digitale ha portato alla creazione di numerose applicazioni e strumenti progettati per migliorare la salute mentale.
Questionnaire (PHQ-9) e il Generalized Anxiety Disorder Scale (GAD-7) possono essere somministrati digitalmente, facilitando la raccolta di dati e la loro analisi. Le piattaforme di gestione del paziente, come quelle offerte da sistemi di cartelle cliniche elettroniche, facilitano la gestione continua dei disturbi mentali. Queste piattaforme permettono ai medici di tenere traccia delle condizioni dei pazienti, dei trattamenti prescritti e dei progressi nel tempo, migliorando la coordinazione delle cure e la continuità del trattamento. Inoltre, le applicazioni mobili per la gestione dell’umore offrono ai pazienti un maggiore controllo sulla propria salute mentale coinvolgendoli attivamente nella gestione dei propri disturbi favorendo un senso di autoefficacia e migliorando l’aderenza ai trattamenti prescritti. Queste app offrono una serie di funzionalità, come la registrazione giornaliera dell’umore, del sonno, l’analisi di questi dati e suggeriscono tecniche di autoaiuto basate sulla terapia cognitivo-comportamentale (CBT), oppure esercizi di meditazione o di mindfulness. Inoltre, alcuni servizi utilizzano chatbot basati sull’intelligenza artificiale per fornire supporto immediato e consigli per la gestione dello stress e dell’ansia. Questi strumenti possono offrire supporto 24/7 e sono in grado di riconoscere situazioni di crisi, indirizzando gli utenti a risorse adeguate.
I dispositivi indossabili, quali smartwatch e braccialetti fitness, che integrano al loro interno vari sensori rappresentano un’altra innovazione chiave. Questi dispositivi possono monitorare parametri fisiologici come la frequenza cardiaca, il livello di attività fisica e i modelli di sonno, fornendo dati preziosi sui sintomi dei disturbi dell’umore e sulle condizioni di benessere generale dei pazienti. Ad esempio, i cambiamenti nei pattern di sonno possono essere un indicatore precoce di un episodio depressivo o maniacale nel disturbo bipolare. L’intelligenza artificiale (IA) e il machine learning (ML) stanno emergendo come strumenti potenti nella diagnosi e nella predizione dei disturbi psichiatrici. Algoritmi avanzati possono analizzare grandi quantità di dati provenienti
dai pazienti (ad esempio dai dispositivi indossabili), aiutando a identificare modelli e a prevedere episodi di crisi o ricadute. Questi strumenti possono supportare i professionisti della salute mentale nel personalizzare i trattamenti e in particolare nell’intervenire tempestivamente in caso di cambiamenti nello stato di salute dei pazienti.
Anche il metaverso, concetto che inizialmente apparteneva al mondo dei giochi e della fantascienza, sta diventando una realtà tangibile nel contesto della salute e più in particolare in quello della salute mentale. Si tratta di un ambiente virtuale tridimensionale condiviso in cui le persone possono interagire in tempo reale, utilizzando avatar personalizzati per esplorare ambienti digitali. Il termine “metaverso” denota un mondo virtuale capace di sfidare i confini tra realtà e virtualità, offrendo esperienze immersive e una fusione continua tra il mondo digitale e quello reale. Nella realtà mista quello che facciamo nel mondo fisico influenza l’esperienza nel mondo virtuale e viceversa. Questo legame profondo tra mondo digitale e fisico è reso possibile grazie ai “gemelli digitali”, cloni virtuali degli oggetti reali collegati direttamente alle loro controparti digitali. Indossando dispositivi di realtà mista come occhiali ibridi VR/AR, gli utenti possono interagire con oggetti e persone sia nel mondo fisico che in quello virtuale, creando una connessione spaziale e temporale. La peculiarità del metaverso rispetto ad altri sistemi di videoconferenza e altre piattaforme di socialità digitale risiede nella capacità di attivare i neuroni GPS consentendoci di creare ricordi con una collocazione spaziotemporale chiara. Infatti, i neuroni GPS del nostro cervello, che si attivano quando occupiamo una posizione nell’ambiente fisico, svolgendo un ruolo importante nella navigazione spaziale, contribuiscono a stabilire una mappa cognitiva dell’ambiente circostante e aiutano a orientarsi e a navigare attraverso di esso. Questi neuroni non solo ci aiutano a navigare nel mondo fisico ma contribuiscono anche a plasmare chi siamo attraverso la nostra
Un mondo virtuale privo di giudizio sociale consente l’esposizione graduale e sicura alle situazioni temute in un ambiente favorevole senza il timore del giudizio negativo.
memoria. Sono la bussola della nostra identità. Giocano infatti un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra memoria autobiografica. La nostra identità, infatti, è intrecciata con i luoghi che frequentiamo. Grazie alle sue potenzialità, lo spazio del Metaverso offre nuove opportunità per la terapia, consentendo agli utenti di immergersi in scenari controllati, affrontare le proprie paure, migliorare la propria consapevolezza emotiva, rafforzare le proprie abilità sociali, le abilità comunicative e l’autostima. La terapia nel metaverso sembra essere particolarmente utile nel trattare disturbi d’ansia, fobie specifiche e fobia sociale. Un mondo virtuale privo di giudizio sociale consente l’esposizione graduale e sicura alle situazioni temute in un ambiente favorevole senza il timore del giudizio negativo. Allo stesso modo la possibilità di fare esperienza in maniera graduale di situazioni fobiche rende il metaverso uno strumento utile nel trattamento delle fobie specifiche. La personalizzazione di ambienti virtuali per simulare scenari traumatici rilevanti può aiutare i pazienti con disturbo da stress post-traumatico nello sviluppo di risposte e meccanismi di coping appropriati. Inoltre, la creazione di avatar con diverse corporature offre un’opportunità di ristrutturazione cognitiva per le persone con dismorfismo corporeo o disturbi dell’alimentazione, contribuendo a sviluppare una maggiore accettazione di sé. Il metaverso trova applicazione anche in contesti neuroriabilitativi e nell’ambito delle malattie neurodegenerative, quali Alzheimer e Parkinson. Le applicazioni del Metaverso nella salute mentale non si fermano qui. Le sessioni di terapia di gruppo, le esperienze immersive per il rilassamento e la meditazione e il supporto fornito dagli avatar virtuali possono aiutare ad affrontare i sentimenti di solitudine, ansia e isolamento sociale, specialmente in situazioni di emergenza, quali il lockdown durante la pandemia da COVID-19.
I VANTAGGI
I mezzi informatici hanno quindi portato numerosi benefici nella gestione delle malattie
Un consulto medico nel metaverso, tramite visore di realtà aumentata
psichiatriche, con un impatto significativo sull’accessibilità, la personalizzazione del trattamento, l’efficienza, la riduzione dei costi e l’empowerment dei pazienti. Un vantaggio fondamentale è l’aumento dell’accessibilità alle cure. Grazie alle tecnologie digitali, un numero sempre maggiore di persone può accedere a trattamenti e supporto, indipendentemente dalla loro ubicazione geografica. Questo significa che anche chi vive in aree remote o ha difficoltà finanziarie può ricevere assistenza adeguata. Le tecnologie informatiche permettono inoltre di personalizzare i trattamenti in base alle esigenze specifiche di ogni paziente. Ad esempio, le applicazioni di monitoraggio dell’umore possono raccogliere dati personali e fornire feedback mirati, adattando gli interventi in modo dinamico. Questa personalizzazione migliora l’efficacia delle terapie, rendendole più aderenti alle reali necessità dei pazienti. Un altro aspetto rilevante è l’incremento dell’efficienza e la riduzione dei costi complessivi delle cure. L’uso della telemedicina, delle terapie digitali e del monitoraggio remoto diminuisce la necessità di visite in persona, riducendo così i costi di trasporto e ottimizzando l’utilizzo delle risorse sanitarie. Questo consente di destinare più risorse alla cura diretta dei pazienti, migliorando l’efficienza del sistema sanitario nel suo complesso.
La mancanza di interazione faccia a faccia può essere una limitazione per alcuni pazienti, che potrebbero trarre maggior beneficio dalla terapia in persona.
L’uso della telemedicina e del monitoraggio remoto diminuisce la necessità di visite in persona, riducendo così i costi di trasporto e ottimizzando l’utilizzo delle risorse sanitarie.
La gestione dei dati sensibili dei pazienti rappresenta una sfida cruciale in termini di privacy e sicurezza. È imprescindibile assicurarsi che le informazioni personali e mediche siano al riparo da accessi non autorizzati e che le piattaforme digitali siano conformi alle normative sulla protezione dei dati. Inoltre, nonostante il progresso nell’accessibilità, persistono disuguaglianze nell’approccio alle tecnologie digitali. Individui in aree rurali o con risorse economiche limitate possono ancora incontrare difficoltà nell’avere accesso a dispositivi e connessioni Internet stabili, necessarie per fruire dei servizi digitali. Alcuni pazienti possono inoltre mostrare resistenza nell’utilizzo di strumenti digitali per gestire la propria salute mentale, mentre le disparità nelle com-
petenze tecnologiche possono influenzare l’efficacia degli interventi. In più, la mancanza di interazione faccia a faccia può essere una limitazione per alcuni pazienti, che potrebbero trarre maggior beneficio dalla terapia in persona. È essenziale sottoporre a rigorose prove scientifiche la validità e l’efficacia delle terapie digitali. Non tutte le applicazioni o le piattaforme digitali sono basate su evidenze scientifiche, e adottare trattamenti non validati può non apportare reali benefici o addirittura comportare rischi. Guardando al futuro, l’intelligenza artificiale e il machine learning potrebbero rivoluzionare ulteriormente la gestione delle malattie psichiatriche. Gli algoritmi di intelligenza artificiale potrebbero analizzare vasti insiemi di dati per individuare modelli e marker patologici e anticipare episodi di malattia, offrendo interventi personalizzati e tempestivi. L’integrazione delle tecnologie digitali con i sistemi sanitari esistenti è essenziale per massimizzare i benefici. Le piattaforme digitali dovrebbero poter interagire con le cartelle cliniche elettroniche e altri strumenti di gestione sanitaria, garantendo una visione completa e coordinata delle cure. In conclusione, l’utilizzo delle nuove tecnologie sta ridefinendo in modo significativo l’assistenza psicologica, offrendo una gamma più ampia di soluzioni accessibili, personalizzate ed efficaci. Tuttavia, è essenziale mantenere un delicato equilibrio tra l’entusiasmo per queste tecnologie innovative e la necessità di garantire che siano sicure, affidabili ed etiche. Con un’attenzione costante all’innovazione, all’integrazione e all’educazione, le tecnologie informatiche hanno il potenziale di rivoluzionare la gestione della salute mentale, migliorando la qualità della vita per milioni di persone in tutto il mondo. Ma per costruire un futuro in cui la salute mentale sia accessibile a tutti, è richiesto un approccio ponderato e responsabile all’evoluzione delle terapie digitali. Grazie a questa combinazione di visione, cautela e passione, possiamo aspirare ad un domani in cui le nuove tecnologie lavorano a braccetto con l’intervento umano per offrire cure psicologiche di altissimo livello, all’avanguardia e al contempo rispettose dell’individuo.
By Armando Piccinni and Valentina Formica
Professor Piccinni is lecturer in General Psychology at UniCamillus.
Dr. Formica is a psychologist and works as a researcher in neurosciences and psychiatry at Fondazione BRF Onlus.
Over the last few decades, technological progress has transformed many aspects of our daily lives, revolutionising several areas, including health. Indeed, the digital advances of recent years have led healthcare institutions to rethink health and find innovative ways of putting new technologies at the service of medicine with the aim of achieving healthcare that is as patient-centred, affordable and effective as possible. For several years, digital health has been considered an emerging and strategic priority. However, it is with the COVID-19 pandemic and the disruption of most human activities that the crucial role of digital health in our system has been highlighted, even in non-emergency times, significantly accelerating the integration of new technologies in healthcare.
The advent of telemedicine has made it possible for patients to receive psychological and psychiatric counselling remotely via videoconferencing. Various platforms offer access to qualified therapists, allowing patients to schedule video therapy sessions according to their needs. Digital platforms have introduced new tools for the assessment and diagnosis of mental disorders. Mobile applications and specific software allow clinicians to use standardised questionnaires and rating scales to collect data on patients' symptoms more quickly and efficiently. Patient management platforms, such as those offered by electronic health record systems, facilitate the ongoing management of mental disorders. These platforms allow clinicians to keep track of patients' conditions, improving care coordination and continuity of treatment.
Wearable devices, such as smartwatches and fitness wristbands, represent another key innovation. These devices can monitor physiological parameters such as heart rate, physical activity level and sleep patterns, providing valuable data on the symptoms of mood disorders and the general well-being of patients. Artificial intelligence (AI) and machine learning (ML) are emerging as powerful tools in the diagnosis and prediction of psychiatric disorders. Advanced algorithms can analyse large amounts of data from patients (e.g. from wearable devices), helping to identify patterns and predict episodes of crisis or relapse.
Even the metaverse, a concept that initially belonged to the world of videogames and science fiction, is becoming a tangible reality in the context of health and, more specifically, mental health. The peculiarity of the metaverse compared to other videoconferencing systems and other digital social platforms lies in its ability to activate GPS neurons, allowing us to create memories with a clear space-time location. These neurons not only help us navigate the physical world but also help shape who we are through our memory. Therapy in the metaverse seems to be particularly useful in treating anxiety disorders, specific phobias and social phobia. A virtual world without social judgement allows gradual and safe exposure to feared situations in a favourable environment without the fear of negative judgement. Similarly, the possibility of gradually experiencing phobic situations makes the metaverse a useful tool in the treatment of specific phobias and also finds application in neurorehabilitation contexts and in the context of neurodegenerative diseases such as Alzheimer's or Parkinson's. Group therapy sessions, immersive experiences for relaxation and meditation, and the support provided by virtual avatars can help deal with feelings of loneliness, anxiety and social isolation especially in emergency situations such as lockdown during the COVID-19 pandemic.
Traduzione curata dal Centro Linguistico di Ateneo.
di Adriano Acciarino
Il Professor Acciarino (in foto a centro pagina) è docente di Pedagogia Generale e Sociale nei Corsi di Laurea di UniCamillus in Infermieristica e in Ostetricia.
Le relazioni sociali e affettive nella cura della salute mentale e nella riabilitazione psicologica giocano un ruolo fondamentale. Il sostegno sociale viene ritenuto un fattore ambientale protettivo, cruciale soprattutto per alcune fasce di popolazione più vulnerabili e gioca un ruolo essenziale anche nella cosiddetta “assistenza informale”.
Sappiamo bene che l’essere umano è un animale, una “scimmia nuda”, come direbbe Desmond Morris (1967), e che in quanto tale condivide molte caratteristiche biologiche con altre specie. C’è qualcosa però che lo distingue dagli altri animali, e sicuramente si tratta della sua vita mentale. Rispetto agli altri esseri viventi, noi produciamo pensieri complessi, che esprimiamo con il linguaggio (e non solo) per comunicarli ad altri individui della nostra stessa specie, che riescono a loro volta a produrre pensieri comunicabili. Siamo dotati di una psiche, quella che le culture arabofone definiscono poeticamente “nafsyi”, ovvero “anima”. William James (1961), psicologo statunitense di fine ‘800, definiva la psiche come l’espressione dell’effettiva interazione tra l’organismo (in questo caso l’essere umano) e l’ambiente. Quest’ultimo elemento, però, non può essere completamente sconnesso né dal nostro semplice essere animali, né tantomeno dal nostro essere animali pensanti. In fondo, una delle caratteristiche principali dell’ambiente in cui siamo immersi sin dalla nascita è sicuramente quella di essere composto per buona parte da altri esseri umani come noi. Non possiamo quindi prescindere dalla dimensione sociale del nostro ambiente. Le persone sono per natura animali sociali, e si ritiene che la vita di gruppo sia uno dei mec-
canismi evolutivi più significativi attraverso i quali gli esseri umani sono riusciti a sopravvivere e prosperare (Caporael, 1997). Il nostro bisogno di appartenenza alla comunità è fondamentale, guida pensieri, emozioni e comportamenti interpersonali (Baumeister & Leary, 1995). Si può riassumere tutto questo definendo l’essere umano come un animale “bio-psicosociale”, ed è proprio a partire da qui che Engel (1977) rivoluziona la medicina, dando corpo a quello che ancora oggi chiamiamo, appunto, “modello biopsicosociale”.
Al centro di questo modello troviamo una profonda modificazione del concetto di “malattia”, non più intesa come mera disfunzione organica, ma piuttosto come risultante della complessa interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali. Dal punto di vista della psicologia, la malattia non è dunque più concepita come una modificazione dello stato di benessere fisiologico dell’organismo, ma bensì coinvolge la dimensione biologica tanto quanto quella psicologica (immaginate la vita mentale di una persona affetta da una patologia in fase terminale) e quella sociale (immaginate ora le ripercussioni dell’evento sulla famiglia di questa persona). Questo punto di vista fornisce sicuramente valore clinico alle problematiche di natura psicologica, ma soprattutto orienta l’attenzione scientifica sull’importanza della rete sociale di ogni individuo.
Possiamo definire la rete sociale come l’insieme dei legami interpersonali che le persone di tutte le età costruiscono e mantengono (Mitchell, 1969). In accordo con il modello socio-contestuale di Berg e collaboratori (1998), l’individuo (e quindi anche la sua mente) non può essere considerato come un oggetto di studio isolato, ma va inserito nel contesto in cui vive. Il focus diventa dunque il processo attraverso il quale ogni individuo, in connessione con gli altri, affronta gli eventi della vita, costituendo un’unità sociale, un vero e proprio “Noi” che va al di là delle caratteristiche dei singoli individui. Questo processo, ovvero il supporto sociale, è definito come la percezione o l’esperienza che ognuno di noi ha di essere amato e stimato dagli altri, considerato come un nodo di una rete sociale di mutuo supporto e assistenza (Wills, 1991). Secondo diverse ricerche scientifiche, la presenza fisica di una persona di supporto, sia essa amica o estranea, riduce costantemente le risposte psicofisiologiche allo stress e facilita il recupero dagli effetti che lo stress acuto ha sul nostro organismo (Taylor et al., 2002).
Non stupisce affatto che le persone che vivono in solitudine presentano un più alto rischio di insorgenza di problemi fisici e mentali. Il supporto sociale, in quest’ottica, appare estremamente cruciale per il benessere di ognuno di noi.
La relazione tra eventi stressanti e cambiamenti psicologici viene ormai indagata da molto tempo, un esempio ne è il modello dello stress psicosociale proposto da Dohrenwend (1978), per cui le caratteristiche personali di un individuo (potremmo dire la sua genetica) e le situazioni ambientali che affronta stabiliscono la possibilità di vivere come stressanti o meno specifici eventi (si parla infatti non di eventi stressanti, ma di eventi “potenzialmente” stressanti). Le reti sociali sono riconosciute come canali di sostegno per l’individuo, attraverso i quali si ricevono una serie di benefici, come un maggiore senso di appartenenza, una guida cognitiva e un’assistenza concreta nell’adempimento dei compiti di vita quotidiana (Litwin, 2000). Il sostegno sociale viene ritenuto un fattore ambientale protettivo (Brewin et al., 2000; Markey et al., 2003), ma a seguito di avvenimenti potenzialmente stressanti, secondo il “modello della deterrenza del deterioramento del sostegno sociale” (Norris & Kaniasty, 1996), gli esiti possibili sono due: da un lato l’individuo può perdere parte del sostegno sociale nella sua vita (immaginiamo il caso di un incidente
stradale o di una catastrofe naturale, che porta alla morte di persone care), mentre dall’altro il sostegno, da parte di partner, familiari, amici o conoscenti, risulta amplificato. Le strategie di coping (ovvero di gestione dello stress), infatti, coinvolgono attivamente il nostro gruppo sociale di riferimento (Sbattella, 2009). Dunque il ruolo degli altri, e del contesto sociale in generale, non è un semplice sostegno per l’individuo, ma è piuttosto un elemento fondamentale per la costruzione del processo di coping (ibidem). Basti pensare che in uno studio di ben 25 anni fa è stato dimostrato come avere davanti a sé un audience virtuale (per nulla realistico, considerando i livelli della grafica di allora) con espressione annoiata e disinteressata influenzi un qualunque speaker a percepire livelli di ansia maggiori e una minore efficacia come oratore (Slater et al., 1999). Alla luce di tutte queste considerazioni, non ci dovrebbe stupire che le persone che vivono in solitudine presentano un più alto rischio di insorgenza di problemi fisici e mentali (Quadt et al., 2020), come ad esempio depressione (Domènech-Abella et al., 2019) e problematiche cardiovascolari (Winterton & Quintana, 2019). In poche parole, uno stato di solitudine si associa a maggior rischio di malattia, ma anche di mortalità (Quadt et al., 2020).
È importante evidenziare come la dimensione sociale sia cruciale per alcune fasce di popolazione più vulnerabili, come ad esempio gli anziani. Litwin (2000) sintetizza alcuni risultati scientifici importanti, che dimostrano l’associazione tra il benessere degli anziani e alcuni elementi del dominio sociale, quali la dimensione della loro rete, la percentuale di membri della rete considerati “intimi”, la configurazione della rete sociale, la frequenza dei contatti
personali con gli amici e i legami tra fratelli. Il supporto sociale, in quest’ottica, appare estremamente cruciale per il benessere di ognuno di noi. Cosa si intende esattamente con supporto sociale? Il supporto sociale è stato definito in modi differenti e con prospettive diverse: secondo Cobb (1976), può essere considerato come quell’insieme di informazioni che portano la persona a credere di essere amata, apprezzata e tenuta in considerazione e/o di appartenere a una rete caratterizzata da comunicazione e impegno reciproci; Thoits (1982), invece, definisce questo tipo di supporto come il grado in cui i bisogni sociali di base di una persona vengono gratificati attraverso l’interazione con gli altri, i quali forniscono aiuto emotivo o strumentale; infine, Cohen e colleghi (2000) raggruppano nel supporto sociale tutte quelle risorse che le persone percepiscono come disponibili, o che sono effettivamente forni-
te loro, in contesti sia formali che informali. Come si nota, tutte queste definizioni delineano un sistema composto da due elementi, il “sé” e gli “altri”, che mettono in comune gratificazioni, risorse e informazioni. Nel suo libro “Support System and comunity mental health”, Caplan (1974) ha definito i “sistemi supportivi” come una configurazione di rapporti sociali che giocano un ruolo fondamentale nel mantenere la salute psicofisica dell’individuo. Nella mia esperienza come psicologo clinico e dell’emergenza, ho potuto osservare come la rete sociale, e il supporto che ne deriva, abbia un peso specifico non indifferente nel recupero del benessere psicofisico. Persone con una famiglia supportiva, un partner comprensivo e di sostegno, un gruppo di amici intimi e altre relazioni interpersonali significative (ad esempio con i colleghi di lavoro) sono riuscite a recuperare il loro benessere anche dopo eventi importanti, come un’emigrazione complessa, un incidente stradale potenzialmente traumatico o un lutto. Nel contesto della migrazione, è stato osservato come dotare i rifugiati di risorse psicologiche positive potrebbe promuovere maggiori livelli di soddisfazione e di
prosperità nella vita, e quindi migliorare i programmi psicosociali preventivi attuati dai governi dei paesi ospitanti (Yıldırım et al., 2024). Avendo lavorato nel campo del supporto psicosociale a persone migranti, ho osservato molto spesso la nascita di rapporti stretti fra persone che non si erano mai conosciute prima, ma che condividevano esperienze di viaggio e di sofferenza molto simili. Volendo fare riferimento a una situazione che recentemente ha toccato tutti noi, durante il lockdown dovuto alla pandemia di Covid-19, i livelli di solitudine percepita dalla popolazione generale sono aumentati (Ernst et al., 2022), portando di conseguenza alla riduzione del supporto sociale e all’incremento del rischio di malattia.
La rete sociale e il supporto delle persone care, come già spiegato, è sicuramente un fattore protettivo rispetto a diverse patologie (tanto organiche quanto psicologiche), ma gioca un ruolo essenziale anche nell’affrontare malattie oramai conclamate. Si parla infatti del cosiddetto “informal caregiving”, letteralmente “assistenza informale”, in riferimento a quelle situazioni un cui un familiare (nella maggior parte dei casi il coniuge o il/la figlio/a) o un amico fornisce cure gratuite a una persona bisognosa. Il termine inglese caregiver è entrato ormai stabilmente nell’uso comune per indicare chi si prende cura di qualcun altro, e si riferisce alle persone che assistono, per un periodo di tempo continuativo, un loro congiunto non autosufficiente. Molte persone si prendono cura del partner, di un familiare, di un amico o di un vicino che ha bisogno di aiuto nella gestione della casa o nella cura personale, solo ed esclusivamente motivati dalla relazione affettiva che li lega e da un senso di dover aiutare l’altro. Si tratta sicuramente di una delle espressioni più forti e significative dei concetti di “umanità” e “presa in cura”. Inoltre, vivere la propria malattia nel contesto familiare di riferimento è sicuramente di supporto per chi sta soffrendo.
Molte persone si prendono cura del partner, di un familiare, di un amico o di un vicino che ha bisogno di aiuto nella gestione della casa o nella cura personale, solo ed esclusivamente motivati dalla relazione affettiva.
Il supporto sociale, però, non è per forza confinato allo spazio fra noi e le persone a noi più intime. Questo è evidente in contesti di maxiemergenze (come può essere un terremoto o un’inondazione), dove è la comunità a supportare gli stessi membri che la compongono. Elemento chiave di questo processo è sicuramente la “resilienza”, ovvero il tempo richiesto a un sistema (in questo caso l’essere umano) per ritornare all’usuale equilibrio dopo una rottura (Pietrantoni & Prati, 2009). Si tratta, in altre parole, della capacità di ottenere un buon adattamento nonostante l’esposizione a fattori di rischio o traumatici (ibidem). La resilienza sicuramente viene favorita da risorse personali (tratti caratteriali che ci portano a raggiungere l’adattamento funzionale con più facilità), ma anche da risorse definite “socioambientali”, tra cui è importante considerare il riconoscimento e la validazione da parte della comunità delle nostre sofferenze.
Le comunità, sono composte di persone che non necessariamente si conoscono, ma che condividono alcuni aspetti delle proprie vite, accomunate da qualcosa nella loro quotidianità.
Parlando di comunità, chiaramente, parliamo di persone che non necessariamente si conoscono, ma che condividono alcuni aspetti delle proprie vite: territorio, abitudini, usanze e costumi. In pratica, persone che non si conoscono ma che sono comunque accomunate da qualcosa nella loro quotidianità. È possibile però che si crei una rete anche fra persone che non condividono niente all’infuori di un evento estremamente traumatico? Per rispondere, farò riferimento a un’associazione nota come “Comitato 8 Ottobre 2001”, che, controintuitivamente, è stata fondata nel 2004. Nella data 08/10/2001, quasi un mese dopo l’attentato al World Trade Center, anche l’Italia ha assistito al disastro aereo più importante della sua storia: alle ore 8:10 del mattino, all’aeroporto di Milano-Linate, un piccolo velivolo modello Cessna finisce per errore nella pista di decollo principale dell’aeroporto, entrando in collisione con un aereo di linea. L’impatto uccide tutti gli occupanti del Cessna e danneggia l’aereo di linea impedendogli di completare il decollo e facendolo conseguentemente schiantare con-
Durante il lockdown dovuto alla pandemia di Covid-19, i livelli di solitudine percepita dalla popolazione in generale sono aumentati
tro un hangar per lo smistamento dei bagagli, situato sul prolungamento della pista. L’impatto e l’incendio che ne consegue, uccidono anche tutti gli occupanti dell’aereo di linea, e quattro addetti che lavoravano nell’hangar (un quinto, nonostante le ustioni riportate, si salverà, e sarà l’unico superstite del disastro), arrivando a un totale di 118 deceduti. Questa tragedia ha spinto familiari e amici delle vittime a fare gruppo, a sostenersi a vicenda e a combattere per conoscere come sono andate veramente le cose. Da qui nasce il comitato: una delle forme più forti di resilienza collettiva che l’Italia abbia mai visto.
Questo principio, che potremmo anche definire “associazionismo supportivo”, lo possiamo ritrovare anche in condizioni molto meno catastrofiche. Basti pensare ai gruppi di Auto-Mutuo-Aiuto (gli AMA; un esempio è nella foto in basso), in cui persone che condividono una stessa problematica, situazione di vita o esperienza si mettono in contatto e decidono di incontrarsi periodicamente per ascoltarsi e confrontarsi senza reciproco giudizio. L’esempio
più prototipico di questi gruppi è sicuramente quello degli alcolisti anonimi, dove persone con problemi di alcolismo si incontrano per cercare di darsi supporto a vicenda (e trovare supporto per sé stessi) nel tentativo di uscire dalla dipendenza.
In più di 100 ricerche scientifiche, il supporto sociale è stato collegato alla riduzione dei rischi per la salute di tutti i tipi, influenzando sia la probabilità di malattia iniziale (riducendola), sia il decorso del recupero dalla malattia (Seeman, 1996). Questo è un dato importantissimo, perché ci permette di riflettere sull’efficacia che l’interazione sociale può avere nel coadiuvare le terapie mediche e/o psicoterapeutiche. Non pensiamo mai che la vicinanza e il supporto siano elementi secondari, poco utili alle persone a noi care quando si trovano in condizioni difficili, perché, come abbiamo avuto la possibilità di discutere a fondo in questo articolo, il supporto sociale è uno dei pilastri del nostro star bene. Potremmo quindi decisamente affermare “mens sana in corpore sano et in societate sana”.
by Adriano Acciarino
Adjunct professor of General and Social Pedagogy and Social Psychology and.Didactic and DSA tutor for UniCamillus. We know that the human being is an animal, a ‘naked ape’, as Desmond Morris would say, and that as such human beings share many biological characteristics with other species. There is something, however, that distinguishes them from other animals, and that is certainly their mental life. Compared to other living beings, we produce complex thoughts, which we express with language in order to communicate them to other individuals of our own species, who can in turn produce communicable thoughts. After all, the environment in which we are immersed from birth is largely composed of other human beings like us. We cannot therefore disregard the social dimension of our environment. People are by nature social animals, and group life is believed to be one of the most significant evolutionary mechanisms through which human beings have managed to survive and thrive. Our need to belong to a community is fundamental, guiding our thoughts, emotions and interpersonal behaviour. This can be summed up by defining the human being as a ‘biopsychosocial’ animal, and it is from here that Engel revolutionised medicine, giving shape to what we still call the ‘biopsychosocial model’. At the heart of this model is a profound modification of the concept of ‘disease’, no longer understood as a mere organic dysfunction, but rather as the result of the complex interaction between biological, psychological and social factors. From the point of view of psychology, illness is thus no longer conceived as a modification of the organism’s physiological state of well-being but it involves the biological dimension as much as the psychological and social ones. This perspective certainly provides clinical value to psychological problems, but above all it directs scientific attention to the importance of each individual’s social network. We can define the social network as a set of interpersonal ties that people of all ages build and maintain. In accordance with the social-contextual model of Berg and his collaborators, the individual cannot be considered an isolated object of study but must be placed in the context in which they live. The focus therefore becomes the process through which each individual, in connection with others, copes with life events, constituting a social unity, a real ‘We’ that goes beyond the characteristics of individuals. This process, i.e. social support, is defined as the perception or experience each of us has of being loved and valued by others, considered as a node in a social network of mutual support and assistance. The relationship between stressful events and psychological changes has been investigated for a long time now. Social networks are recognised as channels of support for the individual, through which one receives a number of benefits, such as a greater sense of belonging, cognitive guidance and concrete assistance in fulfilling daily life tasks. Social support is considered to be a protective environmental factor, but, according to the social support deterioration deterrence model, following potentially stressful events, there are two possible outcomes: on the one hand, the individual may lose some of the social support in their life; on the other, support from partners, family members, friends or acquaintances is amplified. Coping strategies actively involve our social reference group. It is important to emphasise how the social dimension is crucial for certain vulnerable population groups, such as the elderly. Litwin summarises some important scientific findings, which demonstrate the association between the well-being of the elderly and certain elements of the social domain. Among these, there are the size of their network, the percentage of network members considered ‘intimate’, the configuration of the social network, the frequency of personal contact with friends and sibling ties. The social network and the support of loved ones, as already explained, is a protective factor against various diseases, but it also plays an essential role in coping with established illnesses. This is known as ‘informal caregiving’, referring to situations in which a family member or friend provides free care to a person in need. The English term ‘caregiver’ is now firmly established in common usage to refer to someone who cares for someone else, particularly people who care for a dependent relative for a continuous period of time. Many people take care of their partner, a family member, friend or neighbour who needs help with household management or personal care, solely and exclusively motivated by the emotional relationship that binds them and a sense of having to help others. This is definitely one of the strongest and most significant expressions of the concepts of ‘humanity’ and ‘caring’. Moreover, experiencing your illness in the family context of reference is certainly supportive if you are suffering. Social support, however, is not necessarily confined to the space between us and those closest to us. This is evident in maxi-emergency contexts, where it is the community that supports its own members. A key element in this process is resilience, i.e. the time required for a system to return to its usual equilibrium after breakdown. It is, in other words, the ability to achieve good adaptation despite exposure to risk or traumatic factors. Resilience is fostered by personal resources but also by so-called ‘socio-environmental’ resources, among which it is important to consider community recognition and validation of our suffering. In more than 100 studies, social support has been linked to a reduction in health risks of all kinds, influencing both the probability of initial illness and the course of recovery from illness. This is a very important fact as it allows us to reflect on how effective social interaction can be in assisting medical and/or psychological treatment. Thus, let us never think that closeness and support are secondary elements, of little use to our loved ones when they are in difficult circumstances. As we have seen in this article, social support is one of the pillars of our well-being. We could therefore say ‘mens sana in corpore sano et in societate sana’.
Intervista a Antonella Franceschelli (in foto al centro), direttrice del Master di II livello di UniCamillus in “Medicina Estetica del Viso: Teoria e Pratica innovativa” a cura di Tommaso Fefè
Da novembre scorso in UniCamillus il Master di II livello in “Medicina Estetica del Viso | Teoria e Pratica innovativa” sta riscuotendo un grande successo in termini di gradimento da parte dei frequentanti. Il corso approfondisce tutte le metodiche che mirano a migliorare l'aspetto e quindi il benessere della persona. “Si tratta di un master aperto a tutti i laureati in medicina e chirurgia e in odontoiatria”, spiega la Professoressa Antonella Franceschelli, direttrice del Master, “Ogni modulo del corso prevede una sessione teorica a cui segue una dimostrazione pratica del docente e una prova pratica di tutti i frequentanti che vengono affiancati da un medico tutor. Tutti provano quindi realmente ciò che viene spiegato in aula. In sostanza, imparano facendo. In più tutti quanti i discenti effettuano un tirocinio pratico negli istituti accreditati con l'università; c'è un medico tutor ad affiancarli durante il loro percorso formativo nel lavoro quotidiano, così da poter apprendere ancor di più che cosa si fa negli studi di medicina estetica. In più, tutti quanti i nostri docenti sono anche opinion leader aziendali a livello nazionale e internazionale e portano avanti progetti di ricerca di grande spessore”.
nell’ottica di un recupero e mantenimento della fisiologica armoniosità del viso. Questo Master fa riferimento a questi aspetti?
“Assolutamente sì. Questa è proprio la nostra filosofia che portiamo avanti: ripristinare quello che si perde con il tempo. Le tecniche che esistono oggi ci permettono di invecchiare con grazia e di correggere qualche difetto, che per le persone possono ritenere, da un punto di vista personale, psicologico, sociale, un problema. È per questo peraltro che ho voluto fortemente che ci fossero all'interno del Master anche delle lezioni mirate alla psicologia del paziente, per far passare il messaggio di quanto sia importante la verifica che le problematiche avanzate da una persona che si rivolge al medico estetico sussistano veramente. Solo così è possibile evitare quei risultati aberranti, che purtroppo ci capita di osservare in alcune situazioni. In questo Master in pratica cerchiamo di impartire una formazione specifica ai professionisti su come portare avanti il rapporto con i pazienti in maniera etica, senza assecondare sempre e comunque qualunque desiderio abbiano, per seguire le mode del momento, se non c’è un’oggettiva necessità”.
Le nuove linee guida della Medicina Estetica sembrano sempre più orientati verso interventi che siano poco visibili e meno invasivi possibili,
La SIME, Società Italiana di Medicina Estetica, in base ai dati emersi nell’ultimo rapporto annuale di maggio 2024, sostiene la necessità di implementare i percorsi comunicativo-informativi diretti con i pazienti, per educare a
Gli interventi di medicina estetica devono mantenere inalterata la fisiologica espressività del volto.
un più corretto utilizzo della Medicina Estetica. Lei è d’accordo?
“Sono totalmente d'accordo. Come dicevo, la comunicazione deve sempre essere etica e professionale, in maniera tale da informare i nostri pazienti su quelli che sono le opportunità che la nostra disciplina offre. Noi non dobbiamo cercare di creare un bisogno; dobbiamo invece far capire quali possono essere i modi per risolvere il bisogno che si è creato in un paziente. Non facciamo marketing: è un cosa che non riguarda i medici estetici. Non dobbiamo effettuare trattamenti sulle persone semplicemente perché in quel momento ce lo hanno chiesto. Il medico estetico deve intervenire laddove esista una reale necessità altrimenti creeremmo solo dei pazienti perennemente scontenti e insoddisfatti dei risultati. Andremmo a svilire quella che è la nostra professionalità”.
Il Master affronta anche le nuove prospettive offerte dai recenti sviluppi della Medicina Estetica Rigenerativa, considerata in qualche modo la nuova frontiera per il futuro della Medicina Estetica?
“Sì. Teniamo conto che quando parliamo di medicina estetica rigenerativa intendiamo tutte quante quelle metodiche che stimolano le nostre stesse risorse cellulari a rigenerarsi e quindi, in un certo senso, a ritornare un pochino indietro negli anni. Grazie a queste tecniche si ottiene l’effetto di rendere la cute più adatta a tornare appunto a rigenerarsi. Si va a potenziare e migliorare la qualità della
pelle, senza necessariamente continuare a iniettare materiali dall'esterno, che si accumulano nel corso degli anni. Quindi, onde evitare di avere eccessi di riempimento, di cui abbiamo accennato prima, l’intento è quello di rigenerare i nostri tessuti stimolando un percorso molto più naturale e anche più elegante”.
Siamo d’accordo che non esisterà mai una pozione magica per la bellezza; ma si può comunque affermare che le tecniche di Medicina Estetica, se applicate correttamente, possono diventare uno strumento di cura e prevenzione?
“In nessun caso si potrà mai andare a soddisfare qualsiasi richiesta immaginifica con la medicina estetica. Uno strumento che impedisca l'invecchiamento ancora non lo abbiamo. Magari chi lo inventerà un giorno vincerà il premio Nobel, ma al momento mi sembra una prospettiva improbabile. Al contrario adesso quello che si sta sempre più diffondendo è un’informazione sempre più approfondita delle persone, in particolare i più giovani, su quali siano le corrette condotte per una cura del proprio corpo. È questa la maniera più adatta per prevenire gli effetti dell'invecchiamento e per normalizzare i parametri cutanei. Quindi assolutamente la medicina estetica è una medicina preventiva e del benessere. In questo Master insegniamo ai nostri studenti che la prima cosa da fare è proprio la diagnostica. Hanno a disposizione degli strumenti di ultima genera-
zione, sia dal punto di vista della mappatura dei lineamenti, sia per lo studio dei parametri cutanei. Addirittura tutti quanti i nostri frequentanti vengono formati a studiare l'anatomia del volto tramite indagine ecografica, che permette di avere una conoscenza approfondita dello stato di salute generale del viso del paziente e di capire quali sono gli interventi più mirati da fare. Parliamo di medicina estetica veramente innovativa perché l'ecografia ha un valore aggiunto notevolissimo in questa disciplina, proprio per la profonda conoscenza anatomica che ci permette di acquisire, permettendo quindi di conseguenza di intervenire solo se e dove è necessario, in maniera molto sicura e mirata”.
Il Master è rivolto a diversi specialisti. Perché questa scelta?
“Una delle ricchezze più grandi di questo master, e in particolare della classe di questo primo anno che si è rivelato davvero speciale, è proprio la varietà delle persone che la compongono. Abbiamo veramente persone che vengono dalla Sicilia al Friuli Venezia Giulia, passando per ogni regione d'Italia; professionisti di ogni età, di ogni regione, di ogni estrazione culturale. A mio avviso la riuscita di un corso, di laurea o di master che sia, dipende non solo da quanto viene insegnato, ma anche da quanto gli studenti mettono loro stessi a disposizione degli altri. Se c’è questo confronto si crea veramente una ricchezza, perché ognuno secondo la propria disciplina di appartenenza, ognuno anche secondo la propria esperienza, apporta qualcosa. Le competenze del neolaureato, fresco di nozioni apprese da poco si uniscono all’esperienza sul campo di persone più grandi, con la manualità di chi lavora da tanti anni. Questo scambio accresce tutti, noi docenti per primi. Questo è quello che fa di questo Master una grandissima esperienza a mio avviso. L’apertura a tante peculiarità professionali diverse è una fonte di ricchezza personale e professionale enorme e sposa a pieno la filosofia internazionale e di apertura al mondo e confronto fra culture diverse della nostra Università Internazionale Unicamillus”.
per arrivare a stare bene con se stessi, ma come fare per evitare di cadere in quegli eccessi spesso indotti dal sistema mediatico che vuole tutto e subito e oggi ulteriormente amplificati a dismisura dai social?
“Io credo che non si possa prescindere dall’insegnare ai medici come comunicare, come rapportarsi con i pazienti e in questo l’uso corretto dei social media è ormai indispensabile. Studiare come rapportarsi ai nostri pazienti nel modo migliore rispecchia peraltro il significato stesso della parola estetica, che viene dal greco antico e che vuol dire ascoltare profondamente qualcosa e aprirsi a tutti gli aspetti attraverso l’uso dei sensi.
Sopra il QR code per la pagina LinkedIn della dottoressa Franceschell
La Medicina Estetica può essere un mezzo
Bisogna prima di tutto capire che dietro un'esigenza, che può essere anche una mera volontà di apparire all’esterno in un certo modo, c’è sempre un sentimento più profondo. Ed è a quello che noi dobbiamo rispondere, altrimenti rischiamo di fare dei trattamenti che portano avanti solo, come detto anche prima, la logica della moda, che sui social imperversa. Ho recentemente pubblicato proprio un lavoro fatto dal mio profilo TikTok Dr. Anthos (QR code in basso a destra), focalizzato sui dati di visualizzazione dei video che parlano di pazienti affetti da obesità. Si tratta di materiale che sui social media a livello divulgativo riesce ad avere un impatto enorme che sui media tradizionali, attorno al medesimo argomento, non si riesce ad avere. Si tratta di tematiche che per alcuni potrebbero risultare noiose sulla carta, ma in un video on line, anche se trattato in maniera meno prettamente medica, vengono comunque ascoltate molto di più. Sono diverse le testate internazionali, sia in ambito medico, sia di divulgazione più generale, che parlano di questo impatto dei social, della loro potenzialità e importanza. Di social media nella nostra disciplina si può e si deve parlare. E per questo ritengo opportuno che i professionisti del settore imparino anche a parlare tramite i social, facendo una divulgazione corretta che permetta ai nostri pazienti di orientarsi nella maniera più opportuna ed è per questo che anche la materia di comunicazione medica attraverso i social media è materia che abbiamo voluto fortemente all’interno del master”.
Sotto, il QR code per il sito del Master
Una foto di gruppo del Master
Secondo i dati presentati durante il 45° congresso della Società Italiana di Medicina Estetica (SIME) a Maggio 2024 è aumentata dal 25% la richiesta di interventi estetici da parte degli uomini.
Secondo il presidente della SIME, Prof. Emauele Bartoletti, “gli uomini si affidano molto di più alle indicazioni del medico estetico rispetto alle donne, che invece arrivano spesso con richieste specifiche, difficili da smontare”.
Soprattutto tra i pazienti maschi più giovani non è inusuale la comparsa di problemi psicologici rilevanti, indotti dalla cattiva percezione di sé stessi, a causa della presenza di cicatrici d’acne.
Nuova rubrica di UniCamillus Magazine per fare chiarezza sui temi che riguardano la burocrazia universitaria, il funzionamento tecnico-organizzativo dei corsi di laurea e l’applicazione delle norme contenute nei decreti e nei regolamenti.
a cura di Marco Coccimiglio*
Dirigente del Ministero dell’Università e della Ricerca
I*Quanto riportato nel presente articolo rappresenta opinioni e fatti raccontati a titolo peronale dall’autore, senza alcun coinvolgimento o legame diretto con posizioni ufficiali del Ministero.
n conseguenza degli effetti ampliati dalla pandemia da COVID-19, gli Atenei si sono adoperati per attivare un crescente numero di corsi studio delle professioni sanitarie. Formare professionisti specializzati in grado di accedere immediatamente al mercato del lavoro.è diventata un esigenza per il rafforzamento del personale del sistema sanitario nazionale. Il totale dei corsi di studio delle professioni sanitarie attivati, nell’anno accademico 2023- 2024, di primo e di secondo livello, è arrivato a superare le seicento unità a livello nazionale. Tenendo conto delle risultanze dell’Accordo raggiunto in Conferenza Stato-Regioni nel giugno 2023, in attesa del nuovo Accordo e della definizione dei posti disponibili presso le Università, il fabbisogno formativo di alcune professioni sanitarie non risulta tuttavia completamente soddisfatto dall’offerta formativa degli Atenei. Basti pensare ad esempio ai professionisti che operano nell’area infermieristica o quelli afferenti alle materie della podologia, dell’ortottica e assistenza oftalmologica, delle terapia della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva e tanti altri ancora.Alcuni dati più precisi possono fornire interessanti elementi e spunti di riflessione. Nel dettaglio, lo scostamento tra il fabbisogno emerso in sede di Accordo raggiunto in Conferenza Stato-Regioni e l’offerta formativa erogata dalle Università risulta
abbastanza rilevante: i posti disponibili a livello nazionale sono inferiori del circa il 20% rispetto al fabbisogno complessivo. A titolo esemplificativo, si cita il corso di infermieristica che presenta uno squilibrio decisamente notevole, con 6.840 posti in meno rispetto a quanto rilevato come fabbisogno. Nel complesso, il quadro d’insieme delle ventidue professioni sanitarie risulta tuttavia abbastanza eterogeneo e la maggiore carenza di professionisti sanitari rispetto all’offerta formativa erogata si registra nell’ambito di tredici professioni sanitarie: quella dell’educatore e professionale e terapista occupazionale con una carenza del 55%, del tecnico audiometrista con una carenza del 49%, del podologo con una carenza del 45%, dell’audioprotesista con una carenza del 37% e del tecnico ortopedico con una carenza del 31% e così via. Se si tiene conto del parametro rappresentato dal fabbisogno che emerge in sede di Conferenza Stato-Regioni, solo per la formazione di poche professioni sanitarie è possibile disporre sul territorio nazionale di un numero più che adeguato di corsi di studio. Si citano le professioni del dietista, del tecnico di neurofisiopatologia e dell’igienista dentale. Una situazione di sostanziale equilibrio si registra per le professioni del logopedista, dell’ortottista e dell’ostetrica. Com’è noto, del resto, alcuni vincoli e
paletti sono posti dalla normativa vigente ma, correttamente, a tutela della qualità dei corsi erogati, in particolare in relazione al numero e alla tipologia di docenti, dei tutor e delle strutture che gli Atenei riescono a mettere a disposizione degli studenti per la loro formazione. Al fine di tutelare la qualità dell’offerta formativa erogata, l’ANVUR ha, infatti, dettato delle linee guida e fornito delle raccomandazioni in materia, anche con riguardo alla gestione delle risorse umane e strumentali di questi corsi di studio. Buone prassi e previsioni specifiche sono dettate, in relazione al numero degli studenti, in materia di docenti e tutor. I tutor, responsabili della supervisione degli studenti, devono ricevere una specifica e adeguata formazione ed essere in possesso almeno di laurea di I livello, oppure Diploma Universitario, oppure titolo equipollente di cui alla legge n. 42/1999 e successivi rispettivi decreti adottati dal Ministero della Salute il 27 luglio 2000. A livello nazionale si registrano, tuttavia, dati ancora non soddisfacenti in relazione al numero di tutor a disposizione degli studenti. L’ANVUR richiama correttamente l’attenzione sulla necessità che il rapporto tra studenti e il numero di tutor dello stesso profilo a disposizione non possa essere superiore a 2, ai sensi del Decreto MURST-Sanità 24/09/1997, Tab.1, d2. Tale soglia risulta rispettata, però, da un numero di corsi di studio a livello nazionale non ancora soddisfacente: nello specifico, circa il 40% in termini assoluti sul totale di corsi di studio delle professioni sanitarie attivi sul panorama nazionale. I docenti di ruolo e i professionisti con incarico di insegnamento relativo ad ambiti/attività ospedaliere e/o ambulatoriali e territoriali, devono, inoltre, essere adeguati, per numero e qualificazione e formazione, a sostenere le esigenze didattiche previste per il raggiungimento degli obiettivi formativi. È da considerarsi buona prassi
la presenza di almeno un docente di riferimento incardinato in uno dei settori scientifico disciplinari caratterizzanti del corso - contrassegnati con asterisco nelle tabelle dell’Allegato A del Decreto Interministeriale 19/02/2009. Tuttavia, a livello nazionale, si registra una insufficiente presenza di docenti appartenenti allo specifico profilo professionale, chiamati in ruolo da parte delle Università, e si ricorre all’affidamento degli insegnamenti a docenti a contratto, in gran parte dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale. Attualmente fanno parte dell’Area 6 di medicina 9.800 docenti, di cui 666 all’interno delle classi di laurea MED/45-50, e solo il 14% dei docenti sul totale dell’Area appartengono ai profili delle professioni sanitarie dei settori specifici. All’interno del settore MED/45 sono presenti 68 docenti strutturati di cui 66 afferiscono alla professione infermieristica; questi numeri, però, risultano ad oggi insufficienti se viene presa in considerazione la presenza di 47 corsi di studio ripartiti per più di duecento sedi. Anche le strutture cliniche, le attrezzature e le risorse materiali, in generale di sostegno alla didattica, compresi i laboratori attrezzati per attività di simulazione clinica, devono essere adeguati a fornire agli studenti una gamma appropriata di esperienze, in contesti di pratica generalista e specialistica. Questo aspetto è da considerare anche con riferimento alle strutture esterne convenzionate, al fine di mettere a disposizione degli studenti adeguate strutture per lo svolgimento dei tirocini formativi che riguardano la pratica clinica e il corretto svolgimento dei laboratori professionalizzanti e del tirocinio in ambiente clinico. Percorsi formativi accademici all’altezza devono, infatti, fondarsi su adeguate strutture a sostegno alla didattica, anche in tutte le sedi decentrate del Corso di studio, in cui vengono svolte le attività formative profes-
L’ANVUR richiama l’attenzione sulla necessità che il rapporto tra studenti e il numero di tutor dello stesso profilo a disposizione non possa essere superiore a 2.
sionalizzanti, tenendo conto altresì dei servizi e delle strutture per la didattica eventualmente messi a disposizione dalle aziende sanitarie (di riferimento o convenzionate) ed indicate nelle convenzioni attuative in vigore, nel rispetto della normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro per gli studenti nelle strutture di tirocinio. In tale contesto esigente e impattante, anche l’Università Unicamillus ha fatto la sua parte, con risultati di eccellenza, attivando cinque corsi di studio delle professioni sanitarie che tengono conto delle raccomandazioni formulate dall’ANVUR. L’Ateneo ha attivato cinque corsi di Laurea triennale nelle professioni sanitarie: i Corsi di laurea in lingua inglese in Fisioterapia, Infermieristica e Tecniche di Radiologia Medica, per Immagini e Radioterapia e i Corsi di laurea in lingua italiana in Ostetricia e Tecniche di Laboratorio Biomedico. I corsi di Fisioterapia e Tecniche di radiologia medica, per immagini e radioterapia, sono ad esempio perfettamente in linea, per ciò che concerne il rapporto studenti/tutor, con i dettami sopra richiamati, stabiliti dal Decreto MURST – Sanità del 24 settembre 1997. L’Ateneo ha provveduto alla scelta dei Tutor clinici, su indicazione del Direttore Didattico, tra i professionisti sanitari appartenenti al profilo professionale dello specifico corsi di studio sulla base delle competenze cliniche e didattiche di ognuno di loro, preferibilmente attingendo tra i dipendenti della Struttura Sanitaria in cui viene svolta l’attività di tutoraggio clinico nel contesto del percorso assistenziale. La figura del Tutor clinico è indispensabile per far sviluppare agli studenti competenze professionalizzanti in situazione protetta, utilizzando metodologie didattiche appropriate. Il tutor è quindi una guida per lo studente
La figura del Tutor clinico è indispensabile per far sviluppare agli studenti competenze in situazioni protette, con metodologie appropriate.
durante tutto il percorso pratico. Il tutor deve rendere lo studente in grado di partecipare attivamente al processo formativo, promuovendone l’autonomia professionale. Lo studente, per parte sua, deve collaborare con il Tutor didattico nella valutazione del raggiungimento degli obiettivi formativi delle attività professionalizzante e i Tutor clinici partecipano alla valutazione certificativa del tirocinio pratico. Per l’orientamento in itinere, ogni Corsi di studio cura il Servizio di Tutorato che ha lo scopo di favorire l’inserimento dello studente nel percorso formativo dell’Università. L’Ateneo sta sviluppando per tutti i Corsi di studio un servizio di tutorato articolato in Tutorato Personale di Ateneo per l’inserimento e accompagnamento alla vita universitaria, un Tutorato Didattico Personalizzato per un supporto nello studio, un Tutorato Tecnico che sostiene gli studenti nell’accesso ai diversi ambienti telematici del Corsi di studio. In aggiunta, lo studente è accompagnato durante tutto il percorso accademico dal Front Office Studenti, ufficio impegnato ad offrire supporto sulle procedure amministrative legate alla vita universitaria. Per quanto riguarda la scelta dei Tutor clinici, questa viene effettuata, su indicazione della struttura sede delle attività pratiche e proposte al Consiglio del corso di studio dal Direttore Didattico, tra i professionisti sanitari appartenenti al profilo professionale dello specifico Corsi di studio sulla base delle loro competenze cliniche e didattiche. Per quanto concerne i Tutor clinici, si rileva che i Corsi di studio hanno recepito i suggerimenti del Nucleo di valutazione di Ateneo riguardanti l’indicazione del nome del Tutor clinico di riferimento sulla scheda tirocinio con la quale lo studente si reca nella struttura
clinica; ciò al fine di facilitare l’interazione tra Tutor clinico e studente. Si segnala anche che, a partire dal 2022, l’Ateneo ha provveduto alla digitalizzazione delle schede di valutazione del tirocinio formativo degli studenti, in modo da rendere fruibili a tutti gli Organi interessati i risultati della rilevazione. L’Ateneo ha provveduto infine alla somministrazione di uno specifico questionario digitalizzato anche ai Tutor clinici, per poterne rilevare l’opinione circa lo svolgimento del tirocinio stesso. Anche guardando al rapporto studenti/docenti, emerge che l’Ateneo sta raggiungendo risultati più che soddisfacenti. Del resto, valori del tutto positivi, rispetto alla media nazionale e di area, si riscontrano per gli indicatori riguardanti il rapporto studenti iscritti/docenti (pesato per le ore di docenza) e per l’indicatore riguardante il rapporto studenti iscritti al primo anno/docenti degli insegnamenti del primo anno (pesato per le ore di docenza), per tutti i corsi di studio erogati dall’Ateneo. Dall’analisi dei dati disponibili si rileva, inoltre, che il valore dell’indicatore che riporta la percentuale di laureati entro la durata normale del corso, è di molto superiore alla media nazionale e di area per tutti i corsi di studio. L’Università ha del resto a cuore le istanze e le esigenze degli studenti: la comunicazione tra studenti ed Organi di gestione dei Corsi di studio è facilitata dall’introduzione di un link per segnalazioni degli studenti nel sito dell’Ateneo con l’obiettivo di favorire una comunicazione adeguata e diretta tra gli studenti e i referenti dell’Università. E la qualità dei
A partire dal 2022
l’Ateneo ha provveduto alla digitalizzazione delle schede di valutazione del tirocinio formativo degli studenti.
L’Università ha a cuore le istanze e le esigenze degli studenti: la comunicazione tra studenti ed organi di gestione dei corsi di studio è facilitata dall’introduzione di un link per segnalazioni degli studenti nel sito dell’Ateneo,
percorsi attivati non può che essere confermata dalle opinioni degli studenti dell’Ateneo che si sono espressi al riguardo. Basti, ad esempio, fare riferimento ai Corsi di studio in Infermieristica, Ostetricia, Tecniche di Laboratorio Biomedico”e Tecniche di Radiologia Medica, per Immagini e Radioterapia, ove si è constatato che i valori degli item riguardanti l’organizzazione dell’insegnamento, la docenza e la soddisfazione complessiva degli studenti sono al di sopra della media dell’Ateneo. Leggendo le opinioni espresse dagli studenti dell’Ateneo, si può agevolmente constatare che, quest’ultimi hanno espresso, ogni anno, un livello di gradimento della didattica molto alto, attribuendo un punteggio che, in media, non va mai sotto il punteggio di 8/10. Le domande poste agli studenti riguardano, diversi aspetti, tra cui il modo in cui vengono svolti gli insegnamenti, l’utilità di svolgere tutoraggi, esercitazioni, laboratori e il modo in cui i docenti svolgono le lezioni.Prendendo come esempio il corso di studio in Infermieristica, il corso di studio in Ostetricia e il Corso di studio in Tecniche di laboratorio Biomedico, si può notare che i corsi di studio hanno ottenuto valutazioni decisamente positive da parte degli studenti. Con riferimento a tutti e tre i corsi sopra citati, si può notare che i valori degli item riguardanti l’organizzazione dell’insegnamento, la docenza e la soddisfazione complessiva, si attestano al di sopra della media dell’Ateneo. Tutti i punteggi superano nettamente il sette, indicato dal Nucleo di valutazione dell’Ateneo come valore sufficiente.
La Prof.ssa Padua e il Dott. Alberto Malva, Responsabile Area Medicina Digitale SIICP e Referente MedQuestio, sul palco durante la conferenza Medicina ed Etica nell’era dell’Intelligenza Artificiale
di Donatella Padua
Professoressa Associata di Sociologia Generale in UniCamillus
Dottoressa di Ricerca in Scienze dell’Educazione
Delegata UniCamillus per la Terza Missione dell’Università
La conclusione del Primo Ciclo di Conferenze di Terza Missione A.A. 2023/2024.
Si è concluso a fine maggio 2024 il primo ciclo di conferenze di Terza Missione UniCamillus, intitolato 'Orizzonti della Medicina: dove la Scienza incontra la Società’, promosso da UniCamillus Management Academy e dalla Facoltà Dipartimentale di Medicina UniCamillus.
L’obiettivo degli otto incontri, partiti a luglio 2023 e terminati a maggio 2024, ha seguito gli intenti della Terza Missione volti all’apertura dell’Ateneo verso il contesto economico, sociale, ambientale al fine di creare ‘scambio’ con l’esterno, valorizzando e trasferendo le conoscenze scientifiche, tecnologiche, culturali prodotte al suo interno. Questa iniziativa, che ha reso l’Ateneo generatore di valore e crescita sociale, si è tradotta in risultati di impatto, quali il coinvolgimento di 40 organizzazioni private e pubbliche, atenei, associazioni, attraverso i loro rappresentanti; oltre 1500 partecipanti, più di 110.000 visualizzazioni sui social.
Gli eventi hanno esplicato la funzione di terza missione attraverso tre livelli: il public engagement, ossia, il coinvolgimento della società; secondariamente, attraverso la scelta delle tematiche che coniugano scienza e società, divulgazione e sapere scientifico; infine, attraverso un’innovativa funzione didattica della terza
missione che crea contesti idonei allo sviluppo di softskills per i medici del futuro. Gli ultimi tre eventi, impostati secondo il format della tavola rotonda, hanno affrontato il tema del rapporto tra medicina e genere, della medicina tra etica ed intelligenza artificiale, ed, infine, l’argomento conclusivo del ciclo di conferenze ha trattato il tema estremamente rilevante della medicina e sicurezza del lavoro.
MEDICINA E GENERE
La tavola rotonda del 16 aprile 2024 che ha affrontato il tema ‘Medicina di genere’ ha visto la partecipazione di massime esperte nel settore.
Il tema della medicina di genere (MdG) analizza l’impatto del sesso biologico e dell’identità di genere sulla salute, come definito dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) (Masella, Busani, Ruggieri, Ortona, 2023). Questo approccio è fondamentale in tutte le specialità mediche poiché
Sotto, la tavola rotonda su Innovazione digitale e AI in Sanità’, moderata da Donatella Padua.
Ospiti: Andrea Celli, Amministratore Delegato Philips Italia; Fabio Ferrari, Fondatore e membro del CdA di Ammagamma; Daniele Di Ianni, Customer Innovation Manager di Roche Italia; Roberta Taurino, Direttore Amm. Territoriale ASL Roma2 e DPO di UniCamillus.
considera attentamente sesso e identità di genere nella prevenzione e cura, garantendo interventi equi, appropriati ed efficaci e promuovendo una medicina personalizzata. Questa definizione integra la posizione del paziente, nella sua connotazione biologica ed identitaria con quella del medico, il cui genere femminile, la storia ci dimostra, ha incontrato forti barriere all’ingresso nel campo della medicina. Il termine MdG è stato usato per la prima volta nel 1991 dalla cardiologa Bernardine Healy, che pubblicò un articolo sul New England Journal Medicine, denunciando la discriminazione delle donne nella gestione delle patologie cardiovascolari. Il tema della presenza di medici donne nella sanità, oggi, riflette la scarsità del genere femminile ai vertici del sistema e conferma il cosiddetto ‘soffitto di cristallo’. Tuttavia, è stato sottolineato nell’ambito della tavola rotonda come proprio tale presenza rappresenterebbe il motore del cambiamento culturale di sensibilità verso i problemi femminili e la spinta alla modifica dell’agenda, sia quella medica che politica e giurisprudenziale.
Vi è anche un altro tema rilevante nella MdG: la relazione medico-paziente. Studi scientifici dimostrano che un medico donna utilizza uno stile di comunicazione non verbale più coinvolgente, più emotivo, meno dominante e più orientato al paziente rispetto al genere maschile ed ha una maggiore accuratezza nel valutare i sentimenti e i tratti della personalità. Tale empatia si riflette in un tempo di cura più ampio rispetto al collega di genere maschile. Il tema del genere in medicina coinvolge tutti: le nostre famiglie, le comunità, il lavoro, la società. Oggi, nel mondo medico-sanitario, stiamo assistendo all’entrata, o meglio, ad un’ondata di una nuova terminologia, dalla medicina delle 4P (Personalizzata, Predittiva, Preventiva, Partecipativa) al concetto di ‘esperienza del paziente’, al ‘patient journey’ ossia ‘Viaggio del paziente’, alla medicina di precisione; per arrivare al tema della ‘medicina di genere’. Sono termini che provengono spesso dal mondo anglosassone, dal marketing sanitario, e sono sospinti dalla trasformazione digitale del settore della salute. Tuttavia, essi
sono spesso confusi o male interpretati, assumendo frequentemente la funzione di mero slogan. Lo scopo dell’incontro, pertanto, è stato mettere a confronto massimi esperti nel campo, coloro che sono in prima linea sul campo, per diffondere una ‘cultura della medicina di genere’, per fare chiarezza sul termine e per comprenderne la reale portata.
Quello che occorre evidenziare dalla prospettiva della terza missione è la dimensione sociale ed umanistica che è complementare a quella clinica e di ricerca. Tre concetti sono esplicativi in tal senso: in primis, la consapevolezza.
Trattare la MdG significa parlare di vita della donna, di come, da sempre, la donna ha subito le conseguenze di risposte diverse a fronte di farmaci sperimentati solo sull’uomo; di come la donna consumi farmaci in maniera differente rispetto all’uomo; presenti decorso ed incidenza di malattie diverse rispetto all’uomo; riceva diagnosi che sono diverse. In sostanza, parlare di MdG significa parlare di vita e di morte ‘diverse’.
Secondariamente, il significato, il raggio di azione della ‘medicina di genere': quando parliamo di genere non ci riferiamo solo al
dato biologico, al sesso donna-uomo, sarebbe senz’altro riduttivo. Ci riferiamo, invece, alle determinanti ambientali, socio-economiche, psicologiche, culturali che completano le determinanti biologiche. Le peculiarità femminili e maschili rappresentano un elemento fondante nel definire la salute e il benessere individuale: i processi di costruzione culturale che accompagnano la formazione delle identità di genere (quello che percepisco di me stessa e quello che percepisco che gli altri percepiscono di me stessa) condizionano grandemente la progressione ed il decorso delle patologie, oltre a influenzare in modo sensibile l'accesso, la qualità e l'aderenza alle cure stesse. In tale quadro, è necessaria un’integrazione umanistica alla pratica biomedica, per l’approfondimento di conoscenze sulle caratteristiche di sesso e genere, identità sessuale e di genere, orientamento sessuale, ruolo sessuale e sessuato. Terzo, l’impatto economico: come definisce il World Economic Forum "Le disparità nella salute delle donne influiscono non solo sulla qualità della vita delle donne, ma anche sulla loro partecipazione economica e sulla capacità di guadagnarsi da vivere per sé e per le loro
La tavola rotonda durante l’evento sulla medicina di genere. Al podio, Barbara Tavazzi. Sedute, le ospiti (da sinistra) Antonella Ciabattoni, Adriana Albini, Cinzia M. Callà, Jessica Faroni, Antonella Vezzani, Anna M. Moretti.
Foto di gruppo dopo la conferenza sulla medicina e lo sport, con il Rettore, gli ospiti dell’evento e alcuni degli studenti di UniCamillus.
famiglie. La salute è strettamente legata alla produttività economica, alle prospettive di prosperità e al contributo alla produzione economica". Infine, il collegamento con la medicina di precisione e personalizzata. I maggiori organismi internazionali, compresi gli organismi istituzionali europei, hanno raccomandato che le attività di ricerca biomedica, farmacologica e psico-sociale tengano conto delle differenze di genere, promuovendo lo sviluppo di una medicina di precisione e personalizzata, fondata sull’appropriatezza degli interventi. Qui, occorre una precisazione sociologica: stiamo parlando di differenze, non di diversità: le differenze sono tra individuo e individuo, mentre la diversità implica una comparazione tra soggetti, gruppi, es. uomo-donna. La medicina di precisione si basa sull’utilizzo di grandi quantità di dati biologici per scopi individuali per lo più in linea con il modello biomedico della salute. Un approccio più completo, preciso e persino “personale” alla salute richiederebbe di tenere conto delle determinanti ambientali, socio-economiche, psicologiche e biologiche: questo significa mettere la ‘persona-paziente al centro’. I dati entrano fortemente nella medicina specifica di genere, nello studio di come le malattie differiscono tra uomini e donne in termini di prevenzione, segnali clinici, approccio terapeutico, prognosi, impatto psicologico e sociale. L'aggregazione dei dati a livello così granulare, a livello del singolo individuo, viene realizzata tramite tecnologie digitali alimentate da dati. E quando parliamo di dati, non possiamo non menzionare il rischio di ‘bias’ dell’IA. I dati di partenza, infatti, quelli che istruiscono il sistema, devono tenere conto delle diversità e delle differenze. Oggi si sta acquisendo consapevolezza e si sta intervenendo legislativamente. In sostanza, stiamo andando incontro ad un’evoluzione della cultura dell’approccio alla cura ed alla salute, da monistico ad olistico, ossia, ad un approccio più ampio e comprensivo, ed anche personalizzato, che si apre alla considerazione di determinanti ambientali, socio-economiche, psicologiche, oltre a quelle biologiche. Un approccio multidimensionale, in altre parole. Non solo, ma il cambiamento deve essere omnicomprensivo e deve essere operato ad ogni livello: dalla ricerca, formulazione di farmaci, sviluppo di tecnologie alla
cultura ed approccio dei medici: si tratta di un vero e proprio salto di ‘mindset’ del mondo medico che richiede nuove competenze del professionista sanitario in ambito di prevenzione, segni clinici, approccio terapeutico, prognosi, ma di valutazione anche dell’impatto psicologico e sociale.
In sintesi, la tavola rotonda su MdG ha generato attenzione di carattere etico, sociale, culturale, oltre all’interesse scientifico sull’urgenza di passare da modelli stereotipici ad approcci personalizzati e comprensivi, al fine di dare più salute, più vita e benessere alle persone. A tutte le persone, nessuno escluso.
Il dibattito si è inquadrato, da un punto di vista sociologico, all’interno dei concetti di diversità-differenza legati ai temi dell’ uguaglianza (delle posizioni di partenza, ossia, di poter fruire dei medesimi diritti, indipendentemente da qualsiasi differenza ) ed equità (dei punti di arrivo, ossia, equità di accesso alle cure e fruizione in base alle differenze ). In sintesi, ciò implica garantire a tutti le medesime opportunità, tenendo conto delle differenze, ossia, garantire le ‘pari opportunità’. E’ un processo di evoluzione scientifico-culturale che è in atto, che molta strada ha da percorrere, che è accelerato da alcuni fattori come la trasformazione digitale ma è senz’altro un percorso che eleva la civiltà della nostra società, concetto legato al tema della cultura, non intesa come solo come istruzione, educazione, bensì, nell’accezione tedesca di Kultur, che esprime ‘valori distintivi superiori’.
ED INTELLIGENZA ARTIFICIALE
Il secondo tema, affrontato nella tavola rotonda “Medicina ed etica nell’era dell’Intelligenza Artificiale”, tenutasi il 7 maggio 2024 è stato quello del rapporto tra medicina, etica ed intelligenza artificiale e le sfide nella formazione dei professionisti sanitari.
Ormai, il dilagante tema dell’Intelligenza Artificiale (IA) è soggetto ad ogni tipo di speculazione. UniCamillus, nella posizione di istituzione formatrice della nuova classe di medici e professionisti sanitari, ha voluto fare il punto con esperti di IA in vari ambiti e settori: dal medtech al pharma, alla ricerca, allo scopo di comprendere qual’è il profilo di competenze in IA realmente utili al mondo
medico, quali sono i contenuti dell’offerta formativa, quali modalità possono trasmettere competenze tecnologico-informatiche, di data science, mediche ed etiche. Si tratta di una sfida complessa per gli atenei di oggi, alle prese con percorsi curriculari precisi e con pochi spazi di integrazione di queste competenze innovative.
C’è anche l’aspetto psicologico da considerare: in sanità l’AI è vista con interesse, ma anche con preoccupazione. Si tratta di uno strumento di supporto al medico o punta a sostituirlo? E dove si trova questo spartiacque? Non c’è dubbio che il medico debba restare il punto di riferimento e debba svolgere il ruolo di medico e non di data scientist. Inoltre, i limiti dell’IA odierna sono evidenti: uno strumento di AI non può sentire l’odore della pelle o vedere il colore dell’incarnato del paziente. Dettagli che molto spesso rivelano diagnosi. Il medico deve essere formato ad integrare la competenza insostituibile umana con il supporto straordinario della tecnologia IA. L’obiettivo è comprendere come tale supporto sia massimamente efficace ed efficiente e come debba avvenire tale integrazione. Il medico, in questo nuovo ruolo deve mantenere l’identità di medico, a cui spetta l’ultima valutazione diagnostica e la decisione sul percorso di cura. Ed è altresì necessario stabilire i principi
etici che non devono essere superati, come l’utilizzo inappropriato dell’AI. Ciò implica un’evoluzione del modello formativo, verso una maggiore interdisciplinarietà, fondato su una corretta cultura ed etica, finalizzato al miglior utilizzo di questi sistemi. Si tratta di un ‘cambiamento di mindset’, di quella ‘forma mentis’ capace di connettere le scienze umane con la matematica, la fisica e la medicina. Solo in questa maniera si realizza la vera integrazione tra uomo e algoritmo, non sostitutiva del medico, bensì collaborativa. Questo cambiamento deve integrare modelli di pensiero profondamente diversi: quello di natura deterministica, proprio dell’uomo, ovvero, che elabora passaggio per passaggio, con quello dell’IA che arriva a un risultato di tipo stocastico estraendo dall’insieme dei dati un risultato, molto più accurato, predittivo, ma difficile da spiegare. Non solo, ma tale processo deve integrare nel professionista sanitario quelle soft skills legate alla curiosità ed alla interdisciplinarietà, che consente la collaborazione del medico con l’ingegnere ed il data scientist. Inoltre, nella formazione dei futuri medici un principio che deve valere sempre è quello della dimensione umana che si realizza in una relazione di ascolto del paziente soprattutto oggi che quest’ultimo ha a disposizione strumenti che gli permettono
La tavola rotonda durante l’evento sulla sicurezza sul lavoro
La tavola rotonda, moderata da Alberto Malva, durante il convegno del 7 maggio, cui hanno partecipato (da destra) Giuseppe Recchia, Co-fondatore daVi DigitalMedicine; Daniele Roberto Giacobbe, Professore Associato in Malattie Infettive DISSAL, Università di Genova; Alessandro Boccanelli, Prof. di Medicina Narrativa Corso di Filosofia Morale UniCamillus.
di avere notizie prima della visita.
Le applicazioni dell’AI sono infinite, basti pensare alle terapie digitali, ossia, software che nelle cure terapeutiche dei pazienti, ad esempio, cronici, favoriscono la compliance del paziente alla terapia, realizzando, così, un impatto diretto sulla salute. Il principio attivo è un algoritmo che agisce modificando i pensieri profondi e di conseguenza i comportamenti. L’innovazione tecnologica diventa un bene per un paziente quando diviene innovazione terapeutica. Un altro impiego è quello relativo alla somministrazione dei farmaci e al contrasto della resistenza antimicrobica, processo che vede lavorare in maniera sinergica medici, ingegneri e statistici. Un nodo cruciale è la comprensione dei principi etici delle aziende medtech di cui alcune tendono a considerare l’innovazione a condizione che sia umana, digitale e sostenibile. Questo vuol dire che deve supportare l’uomo, migliorare il modo di fare le cose, essere accessibile alle comunità più svantaggiate e sostenibile dal punto di vista ambientale.
MEDICINA
E SICUREZZE NEL LUOGO DI LAVORO Il 24 maggio 2024, l’ultimo appuntamento del Ciclo di Conferenze ha trattato il tema delle sicurezze nel luogo del lavoro. Il recente Rapporto Inail 2023 ha portato alla luce una realtà inquietante: gli infermieri sono la categoria più esposta ai rischi lavorativi nel Sistema Sanitario Nazionale (SSN). La loro posizione di ‘front line’ del SSN li espone più delle altre categorie a rischi di aggressioni verbali e fisiche da parte di un pubblico che non riconosce più l’autorevolezza del professionista sanitario e sostiene il disagio dalle lunghe attese. Tuttavia è da considerarsi anche la possibile ‘difficoltà relazionale’ dell’infermiere stesso, determinata dalla stanchezza di turni estenuanti.
La tavola rotonda UniCamillus è voluta andare oltre al tema più riconosciuto della sicurezza in sanità per esplorare le tante altre forme di rischio cui il medico o il professionista sanitario incorrono. Esperti di settore, responsabili di
vertice di strutture sanitarie, rappresentanti di associazioni di settore si sono confrontati sull’altro volto della professione medica, che affronta rischi biologici, legali, professionali, in un ambiente complesso ed in costante evoluzione.
Si tratta di una insicurezza che a volte non è percepita né insegnata in accademia, che presenta rischi sia evitabili, come i turni massacranti e la mancanza di organizzazione, sia non evitabili, come le aggressioni e il rischio biologico. In particolare, i rischi legati alle malattie occupazionali implicano lo stress cronico; i turni estenuanti e le responsabilità gravose influenzano negativamente la salute degli operatori sanitari. Le malattie più frequenti includono patologie osteo-articolari, malattie del sistema nervoso, problemi all’udito, tumori, malattie respiratorie e malattie della pelle. In questo contesto, il medico del lavoro riveste un ruolo importante, intervenendo nella prevenzione degli infortuni e nella promozione della salute dei lavoratori. Questo professionista deve possedere competenze mediche e lavorative e buone capacità comunicative per sensibilizzare i lavoratori sull’importanza delle misure di sicurezza.
Altro problema è il burnout, uno dei maggiori rischi per gli operatori sanitari, rischio che può portare anche a gesti estremi, come è stato indicato durante il dibattito.
In conclusione, non si può parlare di sicurezza bensì si deve parlare di sicurezze. a fronte della numerosità di rischi sostenuti dagli operatori della salute, prioritariamente dagli operatori sanitari in prima linea, ossia, degli infermieri. Il Rapporto Inail 2023 e le discussioni emerse dal convegno UniCamillus mostrano che ci sono ancora molti passi da fare per garantire un ambiente di lavoro sicuro e sano per chi lavora ogni giorno per la nostra salute. La sensibilizzazione, la formazione e una migliore organizzazione sono essenziali per affrontare questa sfida e proteggere i nostri operatori sanitari.
Con questi temi si è concluso il primo ciclo di Conferenze di terza missione, realizzando una serie di risultati importanti di creazione di reti di relazioni esterne ed interne, attraverso le quali si è creato scambio di conoscenze e di emozioni, realizzando una maggiore coesione e rafforzando il ruolo istituzionale di UniCamillus.
L’intervento del prof. Boccanelli durante la conferenza sul rapporto tra Medicina e Intelligenza Artificiale
di Giorgia Martino
Noi siamo quello che mangiamo, diceva il filosofo Ludwig Feuerbach. E questo vale a partire dalle condizioni del nostro cuore, il motore del nostro corpo. Un’alimentazione sana aiuta a controllare il peso corporeo, il colesterolo, la pressione sanguigna e il diabete, oltre a fornire nutrienti cardioprotettivi, che riducono l’infiammazione e i danni cellulari. «Il 90% degli infarti è legato a fattori di rischio quali dislipidemia, ipertensione, diabete, obesità, cattiva alimentazione, isolamento sociale, depressione, fumo – afferma il Prof. Loreto Nemi, docente presso il Corso di Laurea Magistrale in Scienze della Nutrizione Umana di UniCamillus – Le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di mortalità nel mondo occidentale, e la prevenzione è una delle armi più efficaci. Il primo elemento da valutare è di sicuro l’alimentazione, su cui possiamo agire direttamente ogni giorno». Correlazione tra alimentazione e salute cardiovascolare: gli ultimi studi
Non è un caso che parecchie analisi scientifiche
si concentrino proprio su come le abitudini alimentari possano migliorare o, al contrario, inficiare la salute cardiaca. Uno di questi è, ad esempio, la ricerca condotta dall’Istituto per la bioeconomia del CNR e dall’Università di Pisa. Lo studio, pubblicato su Nutrients, ha rivelato che gli scarti dei frutti di melograno offrono una considerevole protezione cardiovascolare dall’ipertensione. «Gli scarti di melagrana contengono delle molecole chiamate ellagitannini, dove si trovano l’acido ellagico e la punicalagina, ossia delle sostanze che agiscono sul miglioramento dello spessore dell’endotelio, riducendo così la pressione arteriosa» afferma il Prof.Nemi, commentando così lo studio del CNR. «Già da molti anni sono noti gli effetti antinfiammatori e antiossidanti del succo di melagrana, poiché contribuisce alla diminuzione delle citochine, molecole che determinano una risposta infiammatoria dell’organismo». Un altro studio che analizza l’importanza della correlazione fra nutrizione e salute cardiovascolare è stato presentato, invece, a un meeting dell’American
Heart Association, ed è stato guidato da Victor Wenze Zhong, ricercatore dell’Università Jiao Tong di Shanghai (Cina). La ricerca si è concentrata sugli effetti che il digiuno intermittente aveva sulla salute cardiaca dei 20mila statunitensi analizzati. Il digiuno intermittente è un modello alimentare che alterna periodi di digiuno con periodi di alimentazione. Ci sono diversi approcci al digiuno intermittente, ma uno dei più comuni è il metodo 16/8, dove si digiuna per 16 ore consecutive e si mangia durante una finestra di 8 ore. Dall’analisi del gruppo guidato da Zhong, è emerso che i soggetti che mangiavano in finestre temporali ristrette, negli anni accumulavano un rischio di morte per malattie cardiovascolari più alto del 91% rispetto agli altri. «Occorre però fare delle considerazioni in merito a questo studio, e filtrarne le informazioni –precisa il Prof. Nemi – Alla base del funzionamento del digiuno intermittente, vi è il fatto che è stato dimostrato come astenersi dal cibo per determinate ore porti alla produzione di sirtuine, ossia le proteine della longevità. Inoltre, nei soggetti affetti da insulino-resistenza, non mangiare nelle ore serali migliora la condizione metabolica». Quando, dunque, il digiuno intermittente è nocivo secondo il nostro esperto? «Semplicemente quando nella fascia oraria dedicata all’assunzione di cibo si mangia male! Se in quell’arco temporale ci si rimpinza di hamburger e patatine fritte, di sicuro il cuore ne risente –spiega il Prof. Nemi – al contrario, se nelle 8 ore di alimentazione si assume la giusta quantità di macronutrienti, favorendo alimenti quali frutta, verdura, cereali integrali, proteine magre e grassi monoinsaturi, il digiuno intermittente può migliorare la sensibilità all’insulina e, al contrario, ridurre il rischio di malattie cardiache e diabete di tipo 2».
Cuore: alimenti sì e alimenti no Una sana alimentazione si traduce in un cuore sano. Ma quali sono gli alimenti che fanno bene alla salute cardiovascolare, e quali quelli nocivi? Uno degli obiettivi nutrizionali principali, in questo senso, è il controllo
della pressione sanguigna. «Il controllo dell’ipertensione avviene limitando il consumo di sale, di cui vanno consumati massimo 5 g al giorno» afferma il Prof. Nemi. Per questo, il primo step per migliorare la qualità della propria dieta è quello di contenere il sodio, eliminando o riducendo significativamente cibi processati, insaccati, formaggi stagionati, salse e condimenti salati e alimenti da fast food.
Ancora, è fondamentale tenere a bada il colesterolo cattivo (LDL) che può portare alla formazione di placche nelle arterie, aumentando il rischio di malattie cardiache. «Anche in questo caso, occorre assumere con molta moderazione i cibi processati e gli alimenti ricchi di grassi saturi e trans –continua il Prof. Nemi – Gli alimenti che invece tengono a bada il colesterolo sono i cereali integrali e i legumi, ricchi di fibre e betaglucani, e il pesce azzurro, fonte di omega 3, con effetto antinfiammatorio e di controllo dei trigliceridi». Tra gli altri alimenti con potere antinfiammatorio, il Prof. Nemi menziona anche l’olio extravergine d’oliva, «preziosissimo elemento della nostra dieta mediterranea, con la sua ricchezza in acidi grassi monoinsaturi, in polifenoli e in molecole antiossidanti quali lo squalene e l’idrossitirolo», e ancora i semi oleosi e la frutta secca come mandorle, noci e nocciole. Per migliorare la salute del cuore, è fondamentale controllare anche il diabete di tipo 2, che è un grosso fattore di rischio per le malattie cardiache. «Un eccessivo consumo di dolci e di alimenti zuccherini porta ad uno squilibrio glicemico e insulinemico, favorendo così un possibile sviluppo di diabete alimentare». Tuttavia il Prof. Nemi ci lascia una dolce trasgressione: il cioccolato fondente che, «mangiato con moderazione, è benefico per il cuore, in quanto contiene magnesio e polifenoli», che hanno effetti positivi sulla pressione sanguigna, riducono l’infiammazione delle arterie e prevengono l’aterosclerosi.
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In crescita i detenuti iscritti a un corso di laurea: oggi 1.707, erano 796 nel 2019. Effetti concreti sulla riduzione della recidiva. A dirlo è l’ultimo monitoraggio effettuato dal Cnupp (Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari).
Fra il 2025 e il 2022 sono rientrati dall’estero in Italia 754 ricercatori. Il merito è delle politiche di sgravio fiscale per arginare la cosiddetta “fuga dei cervelli”. Per chi sceglie di tornare a fare ricerca nel nostro paese sono previste riduzioni di tasse fino al 90% dell’imponibile.
Il vecchio “numero chiuso” a Medicina sta per lasciare il campo a un nuovo processo di selezione. Nel testo base adottato dalla commissione Istruzione del Senato il filtro si sposta alla fine del primo semestre. Andrà avanti nel percorso di studi solo chi supererà gli esami obbligatori e otterrà i crediti formativi necessari.
Lo Svimez lancia l’allarme: entro il 2040 gli atenei del Mezzogiorno potrebbero perdere fino al 30% degli immatricolati a causa del calo demografico in corso in Italia.
L’offerta formativa delle università italiane per l’anno accademico 2024/25 vedrà diverse novità tra i corsi. Sono in arrivo una trentina di lauree nuove in ambito sanitario e altre 17 che investono su sostenibilità e ambiente. Gran parte delle novità riguarderanno i corsi magistrali. In generale, in tutte le facoltà verranno inoltre modificati oltre 460 corsi di laurea già esistenti.
GLOBAL
HEALTH
JOURNAL
Summary of the article published in UGHJ no.5 on Decembre 2023, by Oleg Missikoff (MLitt, PhD. Sapienza University, Rome)
TThe concept of Society 5.0 was introduced by the Japanese government in 2016 and materialized as a visionary blueprint for the future. This ground-breaking initiative advocates for a more effective integration of cutting-edge technologies, particularly artificial intelligence, into the very fabric of our societal frame- work. Rooted in the tangible manifestations of the Fourth Industrial Revolution (4IR), Society 5.0 was first unveiled by the Japanese Government’s Cabinet Office’s Council for Science, Technology, and In- novation. This revelation occurred within the context of the 5th Science and Technology Basic Plan, as articulated by the late Japanese Prime Minister Shinzo Abe in 2019. At its core, this approach envisions a human-centric society that seamlessly harmonizes economic progress with the resolution of societal challenges through the integration of cyberspace and physical space, now defined in the scientific literature as “cyber-physical systems”. The overarching goal of Society 5.0 is to empower every individual within our society to lead a life that is safe, secure, comfortable, and healthy. Simultaneously, it aspires to allow individuals to manifest their desired lifestyle. This transformative social endeavour seeks to establish a progressive society transcending the current sense of stagnation, fostering mutual respect, breaking generational boundaries, and enabling everyone to lead an active and fulfilling life. [...]
Al lato, traduzione italiana curata dal Centro Linguistico di Ateneo
Il concetto di Società 5.0 è stato introdotto dal governo giapponese nel 2016 ed è stato definito come un progetto visionario per il futuro. Questa iniziativa innovativa sostiene un’integrazione più efficace delle tecnologie all’avanguardia, in particolare dell’intelligenza artificiale, nel tessuto stesso della nostra società. Radicata nelle manifestazioni tangibili della Quarta Rivoluzione Industriale (4IR), la Società 5.0 è stata presentata per la prima volta dal Consiglio per la Scienza, la Tecnologia e l’Innovazione dell’Ufficio di Gabinetto del governo giapponese. Questa rivelazione è avvenuta nel contesto del 5° Programma base per la scienza e la tecnologia, articolato dal defunto Primo Ministro giapponese Shinzo Abe nel 2019. Questo approccio prevede una società incentrata sull’uomo che armonizza senza soluzione di continuità il progresso economico con la risoluzione delle sfide sociali attraverso l’integrazione del cyber-spazio e dello spazio fisico, oggi definiti nella letteratura scientifica come “sistemi cyber-fisici”. L’obiettivo generale della Società 5.0 è quello di consentire a ogni individuo della nostra società di condurre una vita al sicuro, protetta, confortevole e sana. Allo stesso tempo, aspira a consentire agli individui di manifestare lo stile di vita che desiderano. Questo sforzo sociale trasformativo cerca di creare una società progressista che trascenda l’attuale senso di stagnazione, promuova il rispetto reciproco, rompa i confini generazionali e permetta a tutti di condurre una vita attiva e appagante. [...]
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Direttore Responsabile: Gianni Profita Redazione a cura di: Tommaso Fefè
Immagini: UniCamillus Media, AdobeStock Traduzioni a cura del Centro Linguistico d’Ateneo
UniCamillus: Federica Alota, Damiano Giani, Ginevra Guidoni, Giorgia Martino, Claudia Romano, Daniela Mariani.
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