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Gianluca Aicardi

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La Disney del Duemila

Prefazione di Ferruccio Giromini

Le virgole. Argomenti 8


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I edizione: luglio 2006 Copyright © Tunué Srl Via degli Ernici 30 04100 Latina – Italy www.tunue.com info@tunue.com

Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento riservati per tutti i Paesi. Per le immagini, ove non diversamente specificato, copyright © degli aventi diritto.

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ISBN 88-89613-15-7

ISBN-13 EAN 978-88-89613-15-3

Progetto grafico: Daniele Inchingoli Grafica di copertina: Carlo Piscicelli

Stampa e legatura: Tipografia Monti Srl Via Appia Km 56,149 04012 Cisterna di Latina (LT) Italy


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Indice

Prefazione di Ferruccio Giromini Introduzione

I. A PIXAR’S LIFE Sotto le ceneri Suoni, luci e magie Dall’analogico al digitale Su immagini nuove facciamo trucchi antichi L’Uomo della Mela Verso l’infinito… … E oltre In pieno Rinascimento Giocattoli tecnologici Non solo Lasseter Il pesce dei record La Disney del Duemila II. I CORTOMETRAGGI Luxo Jr. Red’s Dream Tin Toy Knick Knack Geri’s Game

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For the Birds Boundin’ One Man Band

III. I LUNGOMETRAGGI Toy Story A Bug’s Life Toy Story 2 Monsters, Inc. Finding Nemo The Incredibles Cars Ratatouille

Appendice I. Schede biografiche Appendice II. Filmografia Appendice III. Palmarès essenziale

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Prefazione di Ferruccio Giromini*

Welcome to Pixarland

Ci vuole sempre qualche anno per sistemare nella giusta prospettiva quanto è accaduto, quanto si è vissuto. Mentre gli avvenimenti si vivono, si finisce per attraversarli e lasciarsene attraversare con una certa naturalezza, come di fronte all’inevitabile quotidiano, e solo a distanza ci si accorge di avere magari occupato un posto in prima fila dinanzi a momenti riconosciuti come storici, a spettacoli destinati a divenire di culto, a snodi culturali importanti o persino fondamentali. È questo il caso, per esempio, delle prime prove della Pixar di John Lasseter nel settore dell’immagine tridimensionale animata. Parliamo dunque degli anni Ottanta, che oggi sembrano già lontanissimi; anzi, ancora più indietro. Ricorrendo a qualche testimonianza personale, anche emotiva, devo premettere che sono sempre stato un appassionato di cinema d’animazione, fin da bambino naturalmente; e poi a partire dalla metà degli anni Settanta, quando ventenne ho cominciato ad esercitare il

* Ferruccio Giromini è studioso di immagine e arti visive. Si occupa di fumetto, animazione, illustrazione, arte contemporanea, con articoli, cure di mostre, rassegne a livello nazionale e internazionale. Suo, con Maria Grazia Mattei, è uno dei primi, rivelatori libri italiani sul cinema d’animazione in computergrafica: Computer Animation Stories, Roma, Mare Nero, 1998.


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giornalismo, pure in veste professionale. Pertanto una delle mie maggiori gioie è sempre stata partecipare ai festival specializzati, a partire dal glorioso Salone di Lucca degli anni d’oro, per poi procurarmi provvidenziali accrediti relazionando per qualunque testata compiacente sui vari incontri periodici di Treviso, Annecy, Genova, Milano, Roma, e poi via via Positano, Genzano, fino a – massima libidine – organizzarne altri io stesso, da Perugia ad Atene. Negli anni Ottanta, allora con la scusa di scriverne per Comic Art o per Zoom, ogni anno a febbraio frequentavo con diletto l’esclusivo forum dedicato alle neonate immagini elettroniche Imagina di Montecarlo, nel Principato di Monaco, che per me genovese era pure di accesso relativamente facile. Nelle primissime edizioni, mi ritrovai unico giornalista italiano presente. Poi cominciarono ad arrivare Maria Grazia Mattei, allora critica soprattutto di videoarte, e Antonio Caronia, in veste specialmente di esperto di fantascienza e di filosofo della scienza. E poi, pian piano, anche qualche inviato di quotidiano più curioso degli altri. Non sembrino notazioni oziose. Il senso di questo amarcord è che allora, per l’intero decennio Ottanta e perfino ancora un po’ oltre, la computer animation veniva considerata, in genere, come una originalità scientifica, una sorta di estensione tecnica di quello che si chiamava ancora CAD (computer aided design), insomma un giochino ancora riservato soprattutto agli ingegneri informatici. E bisogna riconoscere che le immagini animate in 3D, in quegli anni, di fatto erano molto «ingegneristiche» e davvero molto poco «artistiche». Le brevi animazioni prodotte rappresentavano una sorta di saggetto di fine corso, in cui venivano concentrate ed esibite le applicazioni di innovativi software appena completati e che spesso si intendeva commercializzare. Erano brevi e brevissime dimostrazioni di algoritmi, di regola non narrative. Per quanto vieppiù stupefacenti dal punto di vista tecnico, e idealmente spettacolari, apparivano come sequenze senza capo né coda. 8


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PREFAZIONE

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Per chi volesse qualche riferimento cronologico immediato, ricorderò a chi c’era – e chiedo invece a chi non c’era un piccolo sforzo di documentazione o d’immaginazione – che i primi videogiochi a grande diffusione (Pac-Man, Donkey Kong, Mario) sono del 1981; la prima workstation Silicon Graphics, imponente e costosissima, è del 1982; il primo software Wavefront per effetti tridimensionali è del 1984; il primo PC Commodore Amiga, particolarmente versato per la grafica dei videogiochi, ancora in gran parte 2D, è del 1985. Siamo in epoca pionieristica, dunque, in eroica atmosfera da conquista irruente della Silicon Valley. Le prime immagini tridimensionali sono rigorosamente puri solidi geometrici e al massimo composizioni un po’ più complesse di figure semplici. Basterà ricordare che il grezzo (ma nel 1981 quanto meraviglioso!) Pixnocchio di Giuseppe Laganà e Guido Vanzetti appariva quale mero (si fa per dire…) assemblaggio di pixel cubici in colori primari. In quel panorama 3D primordiale, dove timidamente si muovono solo una figura umana semplificatissima, del tutto stilizzata, che si limita a scendere una scala, e degli indefiniti animaletti in essenziale struttura «a fil di ferro» che corrono su una grata di triangoli non allineati (Human Skeleton e Skeleton Motion, di David Seltzer, per il Media Lab del MIT, rispettivamente 1981 e 1984), o due specie di felini, uno che cammina lento verso una piramide metallica (Bio Sensor di Koichi Omura, 1984) e l’altro che percorre a balzi un improbabile paesaggio geometrico (Gold Power di Bob Abel, 1985); ancora, su di un palcoscenico dove agiscono solo goffamente un Mick Jagger scheletro di neon colorati (Hard Woman di Bill Kroyer, 1985), un pianista dalle movenze quanto mai rigide (Tony De Peltrie di Philippe Bergeron, 1985) e una ben impacciata automa progenitrice di Lara Croft (Sexy Robot di Bob Abel, 1985); be’, ci si può immaginare la lieta quanto sconvolgente sorpresa all’irrompere sullo schermo delle perfette creaturine partorite da John Lasseter. 9


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Per la verità, il pupazzetto protagonista di The Adventures of André and Wally B. (1984) appariva ancora un poco legato nella sua struttura fisica e nei suoi movimenti, anche se l’ape coprotagonista mostrava già una maestria nel muovere freneticamente le ali che nessuno aveva mai neppure immaginato di poter riprodurre con tanta fedeltà. Ma due anni dopo, quando la compassata platea del Forum International des Nouvelles Images organizzato dall’Institut National de l’Audiovisuel si trovò davanti le due lampade babbo e figlio di Luxo Jr., un fremito generale e irrefrenabile la percorse sensibilmente. Quello non era certo l’esercizietto di stile, per quanto sorprendente, a cui gli informatici si erano abituati fin lì. Diamine, quello era un film. Una (piccola) storia. Degli attori – per quanto in origine inanimati – che recitavano, e bene. Un’emozione vera. Una meraviglia tecnica che si presentava per la prima volta in modo rotondo anche come meraviglia espressiva. Qualcosa di mai visto prima. Ed ecco lì aleggiare l’indefinibile sensazione di essere stati testimoni della Storia, o forse del Mito. Chi più chi meno, tecnici e creativi scoprivano il matrimonio perfetto dei loro due mondi, fin lì non ancora comunicanti. L’attimo fuggente di un Eden primigenio da cui sarebbero derivati fiumi di discendenza. Via via i successivi minifilm Red’s Dream nel 1987, Tin Toy nel 1988, Knick Knack nel 1989 ne rappresentarono i figlioli, a loro volta biblici patriarchi di tanto altro a venire: dai celebrati lungometraggi degli anni Novanta e Duemila (i due Toy Story, A Bug’s Life, Monsters & Co., Alla ricerca di Nemo, Gli Incredibili e l’ultimo Cars) ai cortometraggi posteriori, a tutto quanto ancora ci riserverà la Pixar, con il genietto Lasseter in prima fila o dietro le quinte. E tutto ciò si trova ordinato nelle pagine seguenti, allineate con grande diligenza da Gianluca Aicardi alternando molte notizie nude e crude a giudizi critici controllatamente equilibrati, mai laccati di entusiasmi eccessivi (come spesso invece accade in casi consimili). 10


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In questo piccolo libro la fantastica storia della Pixar, fin qui, c’è tutta. Accuratamente sviscerata. Io ho voluto solo aggiungervi l’emozionato ricordo personale della scoperta di meraviglie del tutto nuove. Perché se ogni epoca ha le sue sorprese e ogni generazione ha i suoi eroi, non v’è dubbio che l’allegro messer John Lasseter e i suoi colleghi cavalieri della Pixar sono anch’essi piccoli grandi eroi di una delle nostre mitologie contemporanee, a cavallo tra un millennio e l’altro. Sia loro tributata la gloria che meritano. Genova, luglio 2006

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PIXAR, INC. A Joe Ranft, che adesso non potrà più smarrire il suo fischietto


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Introduzione

Il cinema è un’arte in corso d’evoluzione: è giovane, ha da poco superato il suo primo secolo di vita e sta ancora forgiando e ampliando i suoi strumenti. Non è una questione meramente anagrafica, bensì ontologica: nessuna forma espressiva umana è così strettamente legata all’elemento tecnologico quanto la settima arte, che tira in ballo la questione tecnica nella sua stessa definizione operativa. Se oggi si può ancora dipingere con gli strumenti di Raffaello, scolpire alla maniera del Canova, comporre musica usando il pianoforte di Mozart e rappresentare un’opera di Shakespeare come si faceva alla corte elisabettiana, con risultati ancora attuali, altrettanto non si potrebbe dire di un cineasta che decidesse di filmare limitandosi ai mezzi tecnici dei fratelli Lumière, o anche solo quelli di Chaplin, Kurosawa o Hitchcock. È straordinaria, in questo senso, l’opposizione che si crea fra il modo, pressoché univoco, in cui il cinema viene esposto (pur nelle sue differenziazioni tecniche, intervenute soprattutto negli ultimi vent’anni, si tratta sempre e sostanzialmente di fissare uno schermo luminoso di dimensioni variabili, una gamma molto limitata rispetto alle molteplici e divergenti forme assunte, per esempio, dalle arti plastiche) e il modo in cui esso viene invece composto, mediante sistemi che cominciano ad avere poco a che vedere con quelli che lo hanno visto nascere, tanto da aprire un dibattito sull’opportunità di conti-


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nuare a usare terminologie come film/pellicola in un imminente futuro in cui i supporti di ripresa e proiezione diverranno sempre meno tangibili. Questo discorso ne introduce un altro, che ci avvicina alla materia di questo libro: fra tutti i sistemi possibili per creare cinema, cioè per generare e riprodurre immagini percepite in movimento dall’occhio umano che le osserva, ve n’è uno che storicamente più di ogni altro ha offerto terreno alle avanguardie sperimentali, alla ricerca tecnologica e all’indagine estetica; si tratta di quel cinema che crea il suo movimento ex nihilo, anziché riprendere movimenti realmente compiuti da oggetti e persone reali: il cinema d’animazione. Come già fieramente sentenziava uno dei suoi più grandi artisti, pionieri e teorici, l’animatore russo Alexandre Alexeïeff (nella brillante introduzione a Giannalberto Bendazzi, Topolino e poi, Milano, Il Formichiere, 1978), in realtà l’animazione, più che parente del cinematografo, ne è progenitrice, essendo nata almeno tre anni prima dell’invenzione dei Lumière, che viene a costituirne soltanto «un caso particolare […], una sorta di sostituto industriale a buon mercato». Ciò che qui interessa, comunque, è notare come nel campo delle immagini in movimento è proprio dall’animazione (o da forme a essa apparentabili) che sono nati molti dei principali esperimenti tecnici che hanno segnato la stessa storia del cinema, ed è nell’ambito dell’animazione che si è formata la gran parte dei geni pionieristici. Oggi, a cent’anni di distanza dai trucchi ottici di Méliès, l’animazione si pone più che mai alla testa di quel rinnovamento che ha condotto il cinema a varcare il suo secondo secolo di vita, trasformandolo in qualcosa di concettualmente nuovo e aprendogli potenzialità inimmaginate e amplissime. Si tratta di un’animazione di per sé stessa inedita e rivoluzionaria, legata all’invenzione più radicale e caratterizzante dell’ultimo mezzo secolo di storia umana: il calcolatore elettronico. L’uso del computer ha infatti portato a una modifica estrema del modo stesso di creare e percepire l’ani16


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INTRODUZIONE

mazione, con profonde ricadute sul cinema tutto, che ha usufruito delle possibilità quasi infinite fornitegli dagli strumenti digitali, vedendo mutare il proprio scenario creativo con risultati clamorosi che non hanno risparmiato nessun settore, investendo tanto l’industria più standardizzata quanto le nicchie autoriali, il cinema d’impegno, il documentario, il film d’artista, arrivando a sovvertire completamente i concetti di postproduzione ed effetti speciali. Questo libro, tuttavia, si annuncia incentrato su di una società cinematografica in particolare, su coloro che l’hanno fondata e portata al successo commerciale, e sui film che da essa sono stati realizzati. Perché allora introdurre le vicende dello studio californiano noto come Pixar citando la nascita dell’animazione digitale tout court, quasi che le due cose fossero sinonimiche? È presto detto: perché in qualche modo è davvero così; la Pixar non è infatti una società di cinema digitale fra le tante, e nemmeno semplicemente la società che ha saputo fare del 3D al computer un business multimilionario, riuscendo sempre a sfornare i prodotti più riusciti e remunerativi. La Pixar è, in tutto e per tutto, la società che ha letteralmente dato vita all’attuale tendenza dell’animazione digitale, e con essa alla conseguente riforma del cinema dal vero. Gli uomini che ne sono stati artefici erano negli anni Ottanta i pionieri di un nuovo, inusitato metodo per creare immagini in movimento; i nuovi Cohl, McCay, Starewitch; i nuovi Fleischer, i nuovi Walt Disney e Ub Iwerks. Due scienziati con la passione per la grafica computerizzata: Edwin Catmull e Alvy Ray Smith; un giovane ma potente industriale dei computer in cerca di nuove sfide: Steve Jobs; un animatore dal talento formidabile e dall’estetica definita: John Lasseter. Insieme, questi creativi a stelle e strisce passati per la fondamentale esperienza lavorativa presso un altro visionario con lo sguardo puntato verso il futuro come George Lucas, hanno ideato e concretizzato un marchio destinato a 17


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diventare nell’arco di un ventennio l’emblema della computer animation, così come la Disney lo era stata fino a quel momento per il disegno animato tradizionale. Per capirne la portata, si provi a cercare il nome Pixar con un qualunque programma di condivisione peer to peer: si troveranno attribuiti al brand di Lasseter e soci praticamente tutti i filmati in 3D prodotti negli ultimi anni. Come a dire che aggiungere «Pixar» al nome del file è un modo rapido e semplice per spiegare di cosa si tratta: animazione tridimensionale al computer. Per estensione, tutta l’animazione 3D di successo, con buona pace di avversari del calibro di DreamWorks/PDI, 20th Century Fox/Blue Sky e Sony Animation. Ma al di là delle innovazioni tecniche di cui si dirà (senza scendere in eccessivi tecnicismi: siamo all’interno di quella sfera che trasporta l’arte e lo spettacolo sui territori del più puro hi-tech, figlio di una tecnologia informatica ed elettronica in costante sviluppo), cosa caratterizza i film della Pixar? In molti, addetti ai lavori e commentatori in primis, hanno cercato di enucleare una presunta «ricetta Pixar». Vari conferenzieri, in tutti gli eventi di settore, si sono sgolati nel sottolineare come la Pixar, a differenza di quasi tutti i suoi contendenti, ponga maggior enfasi sulle storie narrate dalle sue pellicole, e cerchi di «comunicare», non semplicemente di inanellare gag e costruire personaggi carini e solo commercializzabili (pur essendolo indubbiamente anch’essi). In linea di massima si può dire che i film targati Pixar, benché squisitamente americani e ispirati al classico modello Disney, si rivelano in grado d’incollare allo schermo e richiamare al cinema spettatori di ogni età, vuoi per l’indubbio primato tecnico, vuoi per un’accorta attenzione nei confronti di tutti gli elementi che compongono un film, non ultime la sceneggiatura, la costruzione dei personaggi, la coerenza narrativa, e perfino una forma di riconoscibile poetica, talvolta sconfinante nella parabola formativa di stampo disneyano, anche se molto meno zuccherosa e quasi sempre abile nell’evitare derive didascaliche. L’ascesa 18


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INTRODUZIONE

della Pixar si situa nel momento in cui l’ex monopolista Disney arrancava cercando disperatamente e invano di ritrovare la chiave per raggiungere un pubblico sempre più distante, divenuto nel giro di pochi anni incapace di riconoscersi in allegre bestiole parlanti, canzoncine stucchevoli e classici della letteratura semplificati per fini ora educativi ora spettacolari. Un panorama scoraggiante finanziato dalle attività collaterali (parchi, gadget, televisione) e dallo sfruttamento indiscriminato del patrimonio storico con infiniti e spregiudicati sequel a basso costo per il circuito home video (mercato formato per lo più da famiglie con prole in prima età scolare e poca attitudine al grande schermo); in questo scenario in disfacimento, che culminerà con l’apparente rinuncia al disegno animato cinematografico, anche le rare gemme in controtendenza (Le follie dell’imperatore, Lilo & Stitch) vengono ingoiate nel generale disamoramento di spettatori ed esegeti, forse un po’ ingiustamente attirati dal «giocattolo nuovo» della computergrafica. Così la Pixar ha vissuto un decennio dorato, accumulando Oscar tecnici e non, monopolizzando il plauso della critica anche intellettuale, meravigliando il pubblico con traguardi tecnici sempre più sorprendenti, cuciti attorno a storie gradevoli e mai pretestuose, frutto di un imponente spiegamento di risorse regolarmente ripagate da guadagni record. Soprattutto, e sta forse qui il suo merito maggiore, non stancandosi mai di trainare una ricerca tecnologica senza pari, contribuendo a uno dei più massicci laboratori aperti di ricerca nella storia della tecnologia applicata al cinema. Per festeggiare i vent’anni dalla sua fondazione, dal 1° aprile al 10 giugno 2006 è stata allestita al Museo delle Scienze di Londra una mostra dedicata alle creazioni e all’immaginario della Pixar, con decine di bozzetti, schizzi preparatori e prove d’animazione di giocattoli viventi, insetti da circo, mostri pelosi, creature marine, supereroi e auto parlanti. E adesso che è stata attuata la sospirata fusione fra il giovane colosso Pixar e il vecchio gigante Disney, c’è chi vocifera che la squadra di 19


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Lasseter, formata da animatori abili e raffinati che spesso hanno dimostrato di conoscere e amare l’animazione del passato, potrebbe addirittura mettere da parte il 3D e cimentarsi per una volta nel disegno bidimensionale old fashion. Lasseter stesso, grande amico e sostenitore di un maestro dell’animazione tradizionale come Hayao Miyazaki (dei cui film ha prodotto e supervisionato il doppiaggio americano), viene spesso paragonato a Walt Disney, malgrado quest’ultimo fosse anche e soprattutto un tycoon, oltre che un artista e un inventore. Il futuro della Disney-Pixar, e con esso inevitabilmente il destino dell’intera animazione cinematografica americana, è comunque ancora tutto da confermare, e c’è da chiedersi cosa potrebbe spingere ad abbandonare, foss’anche solo per una singola occasione, una produzione tanto fruttuosa in termini economici e artistici come quella del 3D digitale. Forse lo stesso motivo per cui un campione di motociclismo potrebbe voler provare a correre sulle quattro ruote: un tale desiderio di cercare nuovi stimoli da spostarsi persino in direzione contraria al proprio consolidato know-how; ma resta appunto da vedere se e quando alla Pixar sembrerà di aver raggiunto un punto di stagnazione nelle sfide tecniche ed estetiche che ancora restano da affrontare col digitale. E per adesso, sembra lecito supporre che un tale evento non sia a portata di vista.

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I. A Pixar’s Life

Sotto le ceneri

Il cinema hollywoodiano è da sempre la più importante industria cinematografica al mondo, se non come numero di pellicole prodotte annualmente (campo in cui viene è stata spesso battuta dai giganteschi mercati asiatici quali India e Hong Kong), di sicuro come impatto mediatico planetario. Negli anni Settanta, tuttavia, il cinema statunitense stava vivendo un periodo di appannamento economico e produttivo: la cosiddetta Golden Age (il periodo di massimo splendore di Hollywood, dall’avvento del sonoro alla fine degli anni Trenta fno all’esplodere della TV) era cessata già negli anni Cinquanta, il sistema dei generi era collassato sotto il peso della sua reiterazione, le grandi star erano invecchiate, la televisione aveva interamente monopolizzato l’affetto e l’attenzione della gente, e le conseguenze di questo nuovo scenario si rendevano evidenti anche a livello economico. Le grandi produzioni spettacolari e gli investimenti faraonici alla Howard Hughes erano un ricordo del passato, mentre il clima delle contestazioni giovanili e delle lotte sociali, nate sulla scorta di una rinnovata spiritualità o, d’altro canto, di un approccio sempre più politico alla cultura e all’intrattenimento, stava ponendo l’accento su problemi ormai difficili da ignorare come l’integrazione razziale, la criminalità, la violenza urbana o le conseguenze della


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guerra in Vietnam; una crisi universale del sogno americano che ha trasformato la faccia dell’America e, di conseguenza, il suo entertainment, favorendo una generazione di pellicole maggiormente improntate alle problematiche del reale e meno alla poetica dell’escapismo o della rilettura trasognata: gli stilizzati noir degli anni Quaranta cedono il posto a polizieschi crudi e politicizzati, alle commedie sofisticate si sostituiscono le parodie satiriche e il surrealismo demenziale, ai film in costume le cupe ambientazioni metropolitane, alla fantascienza il film catastrofico. E, più in generale, al grosso spiegamento di mezzi produttivi subentra la necessità quasi morale di un cinema più raccolto e d’impegno,1 la cui figura cardine non è più il produttore-tycoon, ma il regista-autore.2 Ciò nonostante, qualche nicchia di cinema ad alto budget resiste ancora, e con essa la piena e mai sopita volontà spettacolare del cinema di Hollywood una tendenza che meriterebbe peraltro di essere analizzata in modo più accurato, e non, come spesso accade, giudicata superficialmente quale mera espressione di una volontà di pacificazione collettiva, di una fuga oppiacea dai malesseri del quotidiano, quasi un tappeto mediatico sotto cui nascondere la sporcizia della realtà). È proprio a partire da questo milieu che ciò che si potrebbe sbrigativamente definire «il cinema del sogno», in contrapposizione alle nuove tematiche «realiste», torna a splendere nel corso degli anni Ottanta, fino a estendere di nuovo la sua influenza a gran parte del cinema hollywoodiano contemporaneo, che nell’ultimo decennio ha assistito al prepotente ritorno dei grandi budget e degli incassi da record, persino in un’epoca in cui il cinema non rappresenta più il re dell’intrattenimento popolare e deve fare i conti con moltissime altre forme, anche direttamente similari, di media visivi. E se dobbiamo cercare un perno centrale a tutto questo processo, una personalità di spicco che abbia guidato la rinascita del cinema spettacolare americano degli anni Settanta, il nome giusto è sicuramente quello del regista e produttore californiano 22


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A PIXAR’S LIFE

George Lucas. Nel 1969, ancora venticinquenne, Lucas aveva creato a San Francisco insieme a Francis Ford Coppola la società di produzione American Zoetrope, nata con lo scopo di affrancare i creativi dal controllo opprimente dello studio system di Los Angeles, contribuendo a mettere la macchina produttiva del cinema nelle mani dei suoi stessi artefici: i registi. Con la Zoetrope, Lucas produsse i suoi primi due film, THX 1138 (1971) e American Graffiti (1973), i cui successi lo lanciarono sulla scena mondiale e gli avrebbero spianato la strada per i passi successivi della sua personale rivoluzione. A condurci direttamente al cuore del nostro tema è infatti l’aspetto particolare e dominante della ricerca di Lucas: il suo inesauribile interesse per l’evoluzione tecnologica del mezzo cinematografico. Suoni, luci e magie

Già nel 1971 a Marin County, nella baia di San Francisco, Lucas aveva dato vita a una sua propria casa di produzione, la Lucasfilm, con la quale avrebbe prodotto tutte le sue opere successive3 a partire da Star Wars (1977), il titolo che rilanciò a livello internazionale il cinema di fantascienza e di effetti speciali, e creò un esempio destinato a cambiare le produzioni del trentennio successivo, introducendo per primo elementi come la progettazione preliminare «a episodi», il marketing strutturato e il ruolo centrale del reparto tecnico di post-produzione (ma anche, come osservano i detrattori, creando la tendenza iper-commerciale di pellicole «pop-corn» basate sugli effetti mirabolanti a uso e consumo di un pubblico di teenager, i cosiddetti high concept movie).4 E proprio in accordo con la ricerca tecnologica che caratterizza fin dagli esordi il suo approccio alla settima arte, Lucas fonda diversi studi sussidiari alla Lucasfilm, tra cui il premiatissimo laboratorio di post-produzione audio Skywalker Sound (situato, come per molto tempo la stessa Lucasfilm, nel 23


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Il logo originario della ILM di George Lucas.

favoloso Skywalker Ranch, la faraonica villa-fattoria di George Lucas che prende il nome dal celebre protagonista di Star Wars) e la storica societĂ di effetti speciali Industrial Light & Magic (oggi situata, insieme alla casamadre, nel Letterman Digital Arts Center del Presidio di San Francisco, in California). La ILM, nata nel maggio 1975, sarebbe divenuta lo studio di riferimento mondiale per la creazione di special effects in ambito cinematografico, e avrebbe raccolto nel corso della sua carriera qualcosa come 14 premi Oscar per i migliori effetti visivi e ben 22 Oscar tecnici, i cosiddetti ÂŤScientific 24


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A PIXAR’S LIFE

and Engineering Award» e «Technical Achievement Award», assegnati, parallelamente a quelli artistici della «Notte degli Oscar», per le innovazioni tecnologiche e i conseguimenti ottenuti nel proprio settore di ricerca. La genesi dello studio risale all’avvio della produzione di Star Wars: per il suo film più ambizioso Lucas desiderava realizzare effetti speciali di un livello e una complessità mai raggiunti in precedenza, qualcosa che fosse interamente nuovo e potesse rappresentare un’esperienza unica per lo spettatore. La 20th Century Fox, che aveva accettato di finanziare la pellicola, aveva appena smantellato il suo reparto di effetti speciali; a Lucas serviva dunque una struttura nuova, in grado di riunire esperti all’avanguardia, giovani tecnici capaci di portare al suo film soluzioni e idee anticonvenzionali, così da forgiare una fantascienza cinematografica molto diversa da quella della Golden Age, basata quasi interamente sullo stop motion. Il creatore di effetti speciali più in vista a quel tempo era Douglas Trumbull, che aveva fornito a Stanley Kubrick e Arthur Clarke l’abilità tecnica necessaria a portare sullo schermo 2001: Odissea nello spazio. Trumbull declinò l’offerta di Lucas di guidare il nascituro dipartimento di effetti speciali della Lucasfilm, ma gli consigliò di rivolgersi al suo assistente John Dykstra, che avrebbe messo insieme una squadra di tecnici e artisti entrata di diritto nella storia: il creatore di effetti Dennis Muren, il fotografo Richard Edlund, l’art director Joe Johnston e l’animatore Phil Tippett5 fecero tutti parte del dream team che curò l’effettistica visiva di Star Wars, meritando i premi conseguiti e segnando un memorabile punto di svolta per l’industria degli effetti e quella del cinema in generale. Dykstra si renderà fra l’altro responsabile della creazione di dispositivi tecnologici avveniristici, fra cui il Dykstraflex, la prima macchina da presa in motion control della storia, che gli frutterà due Oscar, uno tecnico e uno artistico, permettendo i funambolici duelli fra navi spaziali (ovvero fra modellini tridimensionali reali) che si possono ammirare già nell’edizione originale di Star Wars. 25


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PIXAR, INC. LA DISNEY DEL DUEMILA

Dall’analogico al digitale

Sulla scia di queste iniziative, tese a portare la scienza dell’era dei computer al servizio del cinema, Lucas fonda una divisione interna alla ILM e dedicata esclusivamente allo sviluppo delle tecnologie informatiche al servizio del cinema: alla fine degli anni Settanta, poco più di dieci anni dopo i primi esperimenti con le immagini di sintesi sugli schermi monocromatici del MIT,6 gli effetti visivi digitali sembrano essere in qualche modo l’inevitabile futuro dietro l’angolo. Il varo della Computer Division, avvenuto nel 1979, fu la diretta conseguenza del reclutamento di Edwin Catmull del New York Institute of Technology, l’uomo che sarebbe divenuto artefice e presidente della Pixar. Catmull, allora trentaquattrenne, era per sua stessa ammissione un animatore mancato: cresciuto con i lungometraggi della Disney, il suo sogno di ragazzino era stato quello di arrivare un giorno a lavorare nel mondo del cartoon cinematografico. E così sarebbe stato, anche oltre le sue più rosee aspettative, ma non nel ruolo che aveva inizialmente pensato. Messi da parte gli aneliti artistici, infatti, Catmull si era iscritto all’Università dello Utah, seguendo i corsi di fisica e informatica. Concentrando i suoi studi sull’allora emergente campo della computergrafica, ancora prima di laurearsi avrebbe realizzato alcuni fondamentali passi avanti come il concetto di z-buffering (relativo al calcolo della profondità degli oggetti tridimensionali),7 il texture mapping (la tecnica per «tappezzare» gli oggetti 3D rendendoli realistici), i bicubic patches (sistemi matematici usati per rappresentare superfici curve nella modellazione 3D), gli algoritmi per l’anti-aliasing (che riducono i problemi di «scalettatura» di un’immagine digitale) e il processo di rendering subdivision surfaces (usato per migliorare l’efficienza nel calcolo degli oggetti 3D). Conseguimenti che lo avrebbero portato, una volta laureato, a fondare il Computer Graphics Lab al New York Institute of Technology. 26


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In alto, a sinistra, il ricercatore del NYIT Edwin Catmull, futuro fondatore della Pixar. In alto, a destra, locandina di Futureworld, secondo capitolo della saga dell’androide impazzito Yul Brynner, con gli effetti digitali pionieristici di Catmull. Sopra, l’«Effetto Genesis» dal film Star Trek II: L’ira di Khan, vero esordio cinematografico della Pixar. 27


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Nel 1974 Catmull aveva anche già messo piede una prima volta in una produzione cinematografica, realizzando il primo effetto digitale 3D della storia del cinema per la Information International: la mano del robot (in realtà una renderizzazione della mano sinistra dello stesso Catmull) interpretato da Yul Brynner in Futureworld.8 Chiamato da Lucas in virtù della fama che si era creato con la sua attività all’avanguardia, Catmull si avvalse dell’aiuto di un altro precursore della grafica digitale con cui collaborava fin dal 1975 al laboratorio di computergrafica del New York Institute of Technology: Alvy Ray Smith III, di soli due anni più vecchio di lui e formatosi all’Università del New Mexico. Insieme a Smith, che si unì allo sparuto gruppo nel 1980 con il ruolo di Computer Graphics Director, Catmull sviluppò ulteriormente le proprie scoperte, giungendo a risultati decisivi nel campo del rendering (per cui Smith scrisse un sofware apposito) e del compositing digitale, la chiave per riuscire a combinare sullo schermo in modo convincente molteplici immagini, sia 3D che in ripresa dal vero. Con loro c’era fin dall’inizio un altro compagno del NYIT, David DiFrancesco, seguito a breve da Malcolm Blanchard. Il dipartimento informatico di Catmull constava a sua volta di vari sottodipartimenti, fra cui uno, denominato inizialmente Computer Graphics Group, che avrebbe finito per occuparsi di animazione digitale sotto il nuovo nome di Pixar Computer Animation Group. Su immagini nuove facciamo trucchi antichi

La sottodivisione computeristica che avrebbe dato luogo alla Pixar aveva il compito di mettere alla prova le idee elaborate da Catmull e Smith, sviluppando hardware e software dedicati. I due progetti Paramount su cui questa Pixar embrionale si trovò coinvolta furono quindi e inevitabilmente altrettanti traguardi nella storia della computergrafica applicata al cinema: nel 28


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A sinistra, il cavaliere di vetro di Piramide di paura, il primo personaggio digitale nella storia del cinema. A destra, John Lasseter nel suo tipico e insostituibile look con sgargiante camicia hawaiiana, che ama indossare anche in circostanze ufficiali.

1982, la spettacolare scena in cui viene creato il pianeta Genesis in Star Trek II: L’ira di Khan fu la prima sequenza cinematografica interamente generata al computer (battendo di 35 giorni l’uscita del pionieristico Tron della Disney);9 tre anni dopo, nel 1985, venne invece tenuto a battesimo il primo personaggio completamente digitale della storia del cinema,10 il cavaliere di vetro di Piramide di paura (Young Sherlock Holmes). E fra i realizzatori di quell’inquietante guerriero bidimensionale uscito dalla vetrata di una chiesa troviamo il nome di un certo John Lasseter, giovane animatore nato nel 1957 a Whittier, poche miglia a sud-est di Los Angeles, e diplomatosi nel 1979 al California Institute of the Arts con due brevi film a disegni animati: Lady and the Lamp, che aveva per protagonista una lampada umanizzata, e Nitemare, sui buffi mostri che invadono la stanza di un bambino. 29


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Dopo un apprendistato in Disney, dove era stato animatore per il corto natalizio del 1983 Mickey’s Christmas Carol e supervisore per il pionieristico progetto in computergrafica Where the Wild Things Are (cfr. Nota 9), Lasseter era passato alla ILM, cominciando subito a dimostrare dimestichezza con la neonata animazione digitale tridimensionale; fu lui a realizzare design e animazione per un filmato dimostrativo che la Pixar (sotto il nome di «Lucasfilm Computer Graphics Project») avrebbe inviato al SIGGRAPH, la convention annuale dedicata alle nuove tecnologie informatiche applicate al cinema:11 The Adventures of André & Wally B., cortometraggio in computergrafica completato nel 1984, un anno prima del cavaliere di Young Sherlock Holmes, tradisce però tutta la sua natura di demo. Negli ottantacinque secondi effettivi di svolgimento, giocati sulle note di alcune celebri arie rossiniane, vediamo il protagonista André, colorato omino realizzato sfruttando forme geometriche elementari, risvegliarsi in una foresta, venire minacciato da Wally, un’ipertrofica e aggressiva ape (la «B.» del titolo si può infatti leggere come bee, appunto ‘ape’), e fuggire dopo averla distratta per venire poi raggiunto e punto in un fuori campo finale, seguito dal rientro in scena di Wally con il pungiglione piegato, a suggerire una natura metallica della sua vittima.12 Canovaccio elementare e regia approssimativa sono frutto dell’informatico Alvy Ray Smith, mentre Lasseter dà il suo apporto in termini di utilizzo delle soluzioni visive dell’animazione americana classica, dallo sguardo in macchina con successiva accelerazione alla Tex Avery (implementando per la prima volta nel 3D una forma di «motion blur»),13 a un primo e fondamentale tentativo di applicare le leggi dell’animazione tradizionale disneyana alla computer animation. Questo fatto sorprese gran parte degli addetti ai lavori di quel SIGGRAPH di ventidue anni fa, per la meraviglia di Lasseter, che dieci anni dopo tenne una conferenza sull’argomento proprio a un altro SIGGRAPH: «Quando presentai la mia prima animazione realizzata al computer al SIGGRAPH del 1984, molta gente mi 30


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The Adventures of André & Wally B., la prima animazione al computer realizzata da John Lasseter.

chiese quale nuovo software d’animazione avessi utilizzato per ottenere personaggi dalle movenze così realistiche. Spiegai che si trattava semplicemente di un sistema per animazione in key frame, in teoria non molto diverso da altri sistemi simili disponibili a quel tempo. Quello che cambiava era che avevo usato i principi base dell’animazione che avevo imparato facendo l’animatore dei disegni animati tradizionali. Non era il software che dava vita ai personaggi, erano i principi dell’animazione, i trucchetti che gli animatori avevano sviluppato cinquant’anni prima. Rimasi stupito nel vedere quante poche persone nell’ambiente della computer animation conoscessero quei principi».14 Questa combinazione delle tecniche digitali messe a punto dagli scienziati della Pixar e delle conoscenze di animatore tradizionale di Lasseter sono alla base di tutta la successiva storia dello studio californiano. La quale storia stava per cominciare con l’arrivo in scena dell’ultimo tassello del mosaico: l’enfant prodige del computer Steve Jobs. 31


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L’Uomo della Mela

Lucas aveva intanto cominciato a riconsiderare il suo investimento rivolto alla ricerca tecnologica sull’hardware, preferendo concentrarsi sulla realizzazione di entertainment vero e proprio (con la ILM) anziché di strumenti informatici dedicati. Inoltre, le conseguenze finanziarie del divorzio dalla prima moglie Marcia Lou Griffin nel 1983 e un calo di rendita del merchandising di Star Wars susseguente all’uscita del terzo film della saga, Il ritorno dello Jedi, gli stavano creando la necessità di monetizzare una parte delle sue proprietà. L’offerta d’acquisto per il dipartimento di computergrafica della ILM arrivò così da uno dei giovani tycoon più noti nell’emergente settore dei computer. Nato a San Francisco nel 1955 da padre siriano e madre americana, Steven Paul Jobs era stato dato in adozione ancora in fasce, e anche da adulto non avrebbe accettato i tardivi tentativi di riconcilazione della sua famiglia biologica. Di carattere spigoloso, umorale e irruente, tutto l’opposto del suo coetaneo e futuro collega Bill Gates, Jobs condivide con questi la precocità intellettuale e imprenditoriale: ancor prima di conseguire il diploma di scuola superiore, entra a lavorare alla Hewlett-Packard, nell’ambito di uno stage estivo retribuito in cui conosce Steve Wozniak, di cinque anni più vecchio. Abbandonati dopo un solo semestre gli studi universitari al Reed College di Portland e rientrato in California, trova lavoro alla Atari, compie un viaggio iniziatico in India, quindi nel 1976, a 21 anni appena compiuti, insieme all’inseparabile Woz,15 fonda la Apple Computer, che sfruttando i progetti di Wozniak sarebbe diventata una delle maggiori potenze mondiali del ramo dei computer, arrivando a essere quotata in borsa in soli quattro anni. Nel 1985, tuttavia, Jobs, già orfano dell’amico Wozniak, appena partito per altre imprese, viene messo in minoranza dal suo stesso consiglio di amministrazione, guidato dal «tradito32


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Steve Jobs all’epoca dei primi successi con la Apple. © Tom Munnecke

re» John Sculley, e abbandona sdegnato la società vendendo ogni singola azione in suo possesso. In cerca di nuove esperienze e senza perdersi d’animo, fonda la rivoluzionaria NeXT Computer, che pur mancando di riscontri economici importanti, catalizzerà lo sviluppo tecnico ed estetico delle tecnologie informatiche negli anni successivi, dalla concezione del World Wide Web alla nuova forma dei calcolatori della rinata Apple.16 In cerca di una diversificazione di contenuti, inoltre, Jobs dimostra interesse nell’acquisto dell’intera branca informatica della ILM. Il 3 febbraio del 1986 viene dunque ufficialmente fondata una società indipendente che prende il nome di 33



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