1979 - La misura della distanza

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Juan Romulo 1979Rebaylamisuradelladistanza

2 Juan Romulo Rebay 1979 - la misura della distanza cura editoriale di Spiritella Deluxe © 2022 L’Imbuto tutti i diritti riservati foto di copertina: Maksim Goncharenok

Juan Romulo 1979Rebaylamisuradelladistanza

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“Se così è stato, così ha potuto essere; se così sarà, così potrebbe essere; ma siccome non è, non è. Questa è logica.”

“Dove andrei, se potessi andare, cosa sarei, se potessi essere, cosa direi, se avessi una voce, chi parla così, dicendosi me?”

“Samuel diceva che Tom vibrava davanti alla grandezza cercando di decidere se potesse assumersi o meno una fredda responsabilità”.

John Steinbeck, East of Eden (1952)

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Lewis Carroll, Through the Looking-Glass, and What Alice Found There (1871)

Samuel Beckett, Textes pour rien (1955)

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Probabilmente non c’era una vera consapevolezza di quanto ogni giorno sia importante e in un certo senso decisivo, ma una certa percezione di questa dimensione si manifestava come inquietudine. Ritengo che questo avesse a che fare con la distanza da tenere nei confronti di questa o di quella cosa. Questa preoccupazione aveva - tra le sue varie manifestazioni - anche un carattere letterario. Nonostante stessi ultimando gli studi di architettura, ero quasi ossessionato dall’idea di voler scrivere un testo per così dire “definitivo”, capace di esprimere attraverso il linguaggio la mia posizione nei confronti del mondo. Oggi ne sono persuaso, allora era solo una confusa intuizione, ma la rappresentazione della mia vita che annotavo nel diari che ho tenuto dal 1976 al 1992 aveva la capacità di determinarla. Capivo che il linguaggio era molto più di uno strumento di comunicazione, e affascinato com’ero e come sono tuttora dagli scrittori che sanno portarti in un qualunque altrove

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Questa è la storia del Testo Zero, che poi non fu mai scritto.

Il 1979 è stato per me un anno significativo, di quelli in cui succedono diverse cose e cominci a credere di deciderne qualcuna. E’ stato scelto come data emblematica di alcuni anni in cui le scelte che si fanno e le persone che si frequentano cominciano a svelare il copione della nostra esistenza.

Ma il fatto che io non ne fossi consapevole non significa comunque che quelle urgenze e quelle paure negate o misconosciute non abbiano lasciato la loro traccia, magari un po’ nascosta, nelle cose che scrivevo.

Il testo è quindi una trascrizione di questi impulsi, annotati negli appunti che scrivevo tra la fine degli anni ‘70 e i primi ‘80, con qualche tentativo di interpretare la faccenda da un’altra prospettiva, e cioè da quella impossibile distanza che mi proponevo allora: senza troppa partecipazione, come un cronista, cercando di evitare sia l’antipatia che provavo per ciò che ero, sia l’indulgenza con cui ero tentato di valutare la faccenda conoscendo le debolezze del soggetto. Una cronaca, una descrizione, una prospettiva in sintesi, capace di isolare quei pochi particolari rilevanti (situazioni più che vicende), quelli che sono rimasti vicini nella distanza e che sono comunque il racconto di una persona troppo preoccupata per poter dedicare agli altri la giusta arrivare gli anni della fatica, dei necessari fallimenti e delle disillusioni; gli anni in cui qualcun altro è più importante di te e il centro del mondo si è spostato fuori dalla tua pancia.

Dovevanoattenzione.ancora

Per poter misurare quanto ampia fosse quella distanza sono dovuti passare più di quarant’anni; gli effetti della distanza o della vicinanza che decidiamo di tenere nei confronti degli accadimenti, delle persone e degli oggetti si possono apprezzare quando il tempo è stato sufficiente a confrontare le cause con i loro effetti, a mostrare non solo le conseguenze di una decisione, ma anche il suo significato, la sua capacità di rendere manifesto ciò che siamo.

Erano ancora gli anni in cui il lavoro era la realizzazione di un sogno e l’autocritica era quasi solo un esercizio letterario.

Tra l’altro il 1979 può essere considerato l’epicentro di quegli anni decisivi perché coincide nel mio caso con quel periodo di limbo in cui non si è quasi più studenti e non si è ancora del tutto lavoratori.

Ma più che dei contenuti (la vita non è solo un susseguirsi di eventi) mi preoccupavo di trovare un registro linguistico che bastasse da solo a definire la mia distanza dalle cose. Trovato quello, qualunque argomento sarebbe andato bene.

Anche se, a voler guardare bene, quelle che spesso riteniamo libere decisioni si rivelano poi agite da oscuri impulsi di cui non siamo consapevoli.

A tutto ciò, si deve aggiungere che l’arrivo degli anni ‘80 ha caratterizzato anche la fine di un certo modo di vivere e di percepire la realtà e, per molti della mia generazione il passaggio al mondo nuovo è stato accompagnato

8 senza descriverlo, ero estremamente incuriosito dalle potenzialità nascoste in ogni enunciato e intenzionato ad esplorarle.

9 da un certo smarrimento: nati in un periodo in cui tutto era da fare, siamo passati ad un’epoca in cui non c’è più niente da fare; molte delle cose per noi importanti ci venivano lentamente sottratte per riproporcene poi delle simulazioni (1) ed eravamo gli ultimi in grado di vedere questo inganno e questo sfacelo. Questo breve testo è infatti alle persone che in gioventù sono state protagoniste e testimoni di questo passaggio e delle cose raccontate. Mi occorre però deludere coloro che andranno alla ricerca di qualche passo in cui riconoscersi. Non vi è modo di ritrovarsi nello scritto perché tutti i riferimenti sono stati tolti, le storie e le situazioni si sono mescolate tra loro, i dialoghi sono stati traslati e ciò che è successo in cinque o sei anni è stato condensato in uno solo. In ogni caso, nella pagina successiva c’è l’elenco delle persone citate sottotraccia affinché chi tra loro leggerà il testo, saprà di essere presente anche se nascosto in questo assemblaggio di ritagli.

Il tutto è molto semplice: un anno raccontato in quattro stagioni, una serie di descrizioni, che poi non fanno altro che descrivere il mio modo di descrivere e vorrebbero mostrare come questa descrizione sia legata mutualmente con l’essenza di ciò che ho vissuto.JuanRomulo Rebay (MV) Cavi di Lavagna, 2022

Pietro

AdrianaStefanoFabrizioClaudioStefanoDanielaMauroCristinaRitaCarloMariaDonatellaLuciaMauroCorradoGiuseppeAffricanoAmadeoAnnibaliAnnigoniAngellaBassoGraziaBianchiBignamiBuzzoniCassinaCavalleroDeGolDeLorenziDerocchiFanzioFinauriFracchia

PaolaEttoreMarcoRobertoPierfrancoGloriaSimonaPaoloGiulioRobertoLilianaMarinaRosellaLuigiFilippoScaccheriSartiSartiSturaSparpaglioneTartoniTavernaAndreaTozziTrentoVaccariVimercatiVimercatiVincenziVincaZanichelliZannoni

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Brunella Sandonà

dedicato a:

Carlo

AlessandraRobertoElisabettaPatriziaCaterinaAnnaBeatriceEnricoPaolaAlbaMarinaLilianaRossanaLucianaMarioRenataGhezziInverardiJaninLambertiLuzzani-RebayLuzzani-RebayMarsichMartinelliMassaSaluzzoMiccoliMilanesiMariaMilaniMondoMorraOdonePromuticoRagazzoni

197911la misura della distanza

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meno freddo. Ai giardini pubblici spostavo con la punta dell’ombrello lo strato umido e bruno di foglie secche, sotto era pieno di germogli verde chiaro, quasi bianchi. C’era una nota di resa nell’aria; probabilmente l’inverno era finito. C’era sempre, ogni anno, un giorno particolare in cui tiravo un sospiro, come se avessi superato una prova: anche quest’anno ce l’ho fatta. Ma non era sollievo, e la primavera non aveva ancora (o aveva già perduto) il suo ruolo vivificante. Non mi veniva in mente di aprire le finestre, forse non volevo che entrasse. Non volevo ammettere di averne voglia, forse non lo sapevo. Nel pomeriggio il sole scavalcava il tetto del palazzo e lo studio era rigenerato da una bella luce. C’era una magnolia nel cortile, l’ombra delle foglie si muoveva sul muro. Arrivavo prima, per avere quei minuti di silenzio nelle camere vuote. Non era silenzio, c’erano tutti i rumori che venivano da fuori, ma lo scorrere della vita per brevi attimi riusciva a presentarsi prima che io riuscissi a farne una descrizione. Il mio interesse riguardava quasi esclusivamente quelle pause, quelle sospensioni delle voci umane, compresa la mia, che mi permettevano di percepire appena il rumore di fondo, qualcosa di poco appariscente che stava sotto la nostra esistenza e sotto l’esistenza di tutti.

13 IFinalmenteI-1PRIMAVERAfaceva

Facevamo un caffè, fumavamo, forse per compiacermi lei accendeva lo stereo e metteva Four Way Street, nei casi estremi leggeva una poesia, a bassa voce, naturalmente. Ero infastidito, quando mi metteva davanti qualche illumination, come quella che le piaceva tanto: J’ai tendu des cordes de clocher à clocher; des guirlandes de fenêtre à fenêtre... (3) Non era la descrizione delle mie aspirazioni, certe cose non me le potevo permettere. Non sapevo neanche se prima o poi le avrei avute.

Dicevano che era il momento di danzare, non sapevo cosa rispondere. Mi veniva soltanto in mente quella frase di Pessoa: miei poveri compagni dai sogni sublimi, come vi invidio e vi disprezzo! ma non aveva alcun senso, perché la cornice era quella di una rabbia trattenuta. Per anni ho continuato a sentire una specie di distanza da quel genere di situazioni, poi ho cominciato a pensare che la distanza fosse in realtà dalla descrizione, e che tutto dipendesse dal linguaggio. EravamoI-3 su una spiaggia del levante. La giornata era come la calce, il cielo aveva la luce opaca delle perle e il vento muoveva con insistenza dei tessuti marini bianchi e arancione: vele, tende, tovaglie. Il confine tra luci e ombre era mobile e tormentato. Il mare era nervoso, mentre dei bambini lontani gridavano c’era in evidenza la trama di tutte le sostanze intorno. Tutte le superfici erano piene di caratteristiche, le sensazioni erano abbondanti, ma questo non era l’aspetto più rilevante perché lì intorno si spargeva chiaramente anche un’idea della vita. Quante altre volte avevo avuto un’idea della vita? Alcune volte, più spesso da giovane, ma mai così nitidamente. Ogni volta l’idea era diversa.

Sulla porta dello studio avevo attaccato questo passo di Prufrock (2).

Dopo cena qualche volta tornavo nello studio con lei. Aprivamo le finestre e l’odore marino del libeccio spingeva la notte nelle stanze.

Lo intendevo una come una descrizione di quello che mi sarebbe successo di lì a poco, e anche un pro-memoria per gli altri. Prima o poi avremmo smesso di galleggiare.

14 I-2 “We have lingered in the chambers of the sea By sea-girls wreathed with seaweed red and brown Till human voices wake us... and we drown.”

Misura l’epilogo tra predatore e preda, l’istante in cui il predatore decide l’aggressione e la preda si rassegna, diventa una vittima. Poi c’è la distanza di fuga. I contendenti sono lontani tra loro: la preda può tentare di scappare. Il predatore potrebbe iniziare un inseguimento, ma potrebbe anche rinunciare. Poi c’è un tipo di distanza che è quello stato di attesa, quello stato di ferma che conosce bene chi ha avuto un cane da caccia, in cui il predatore e la preda sono immobili e nessuno dei due sembra decidersi a fare il primo passo. Il predatore sente la preda, ma aspetta che tenti la fuga per scoprire esattamente dove è nascosta. La preda sta immobile, e sta ancora sperando di non essere trovata. Si chiama distanza critica (4) e avrebbe potuto essere il titolo del Testo Zero.

sapevo quale fosse il mio ruolo, se predatore o preda, carnefice o vittima. Certe cose si capiscono solo dopo decenni. La distanza critica, quella zona di confine tra la fuga e l’attacco, mi permetteva di rimandare quella scelta che comunque nella vita si ripropone continuamente. La tenda della tettoia era sbattuta dal vento, sotto c’era un’ombra azzurra, luminosa. Il mosaico del tavolino era protetto da una pellicola di plastica

Ogni tanto ci guardavamo, l'uno sperando che l'altra non stesse guardando. Mentre stavo provando la sensazione che lei mi tenesse a distanza, lei disse “mi stai tenendo a distanza”.

Non ne ero del tutto consapevole, ma era una situazione pressante. Sentivo come una specie di fatica a respirare, c’era in evidenza un fatto, dovevo decidere di prendere una posizione. Una mia precisa distanza nei confronti di tutto. Non troppo vicino, forse addirittura lontano. Volevo scrivere di quello. Se comprendere è qualcosa di diverso e di più radicale di capire, scrivere significava quasi sempre comprendere. Nel Testo Zero cercavo qualcosa di significativo e importante che potesse riguardare la misura della distanza.

Per la prossemica, le distanze non sono tutte uguali. C’è la distanza d’attacco: una distanza ravvicinata, il contatto diventa inevitabile.

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AncheI-4 lei era a una certa distanza, ormai probabilmente eccessiva.

IoI-5non

Tra noi c’era un tavolino di metallo con cocci di piastrella che formavano una specie di mosaico; poi c’era un certo numero di cose vissute insieme.

EraI-6 tutto lì, in quella sospensione. Camminando, è quel breve periodo di tempo in cui hai sollevato un piede e stai per appoggiarlo nuovamente a terra, in un posto diverso da prima. Più avanti. All’inizio non sembrava così pesante. Lo stesso peso, la stessa gravità di altre sospensioni. Invece era un bivio decisivo, la via maestra si biforcava. Era una fase di difficoltà acciecata da una domanda inespressa, che diventava inquietudine costante. Non mi impediva di fare quasi niente, solo che facevo tutto in modo inquieto. Era un momento incombente, una causa finale mi spingeva verso quel bivio. A volte molto di più; il malessere cresceva fin quasi a diventare sofferenza, ma non sembrava aver a che fare con la paura di quello che sarebbe successo dopo. Mi sentivo costretto a scegliere. Una condizione che ricorreAlcunicontinuamente.cominciavano a prenderla dal verso giusto, come un esercizio di libertà, mentre per me era fonte di angoscia. Ma dedicavo alle decisioni uno sguardo distratto, scavalcandole o semplicemente rispondendo sì. Scrivevo, anzi continuavo a scrivere a oltranza, ma rimandavo il Testo Zero, l’oggetto della mia ricerca: la scrittura più definitiva possibile, capace di tradurre in parole, forse addirittura di determinare la mia posizione. Qualsiasi pretesto andava bene per spostare in avanti ancora per un po’ l’inizio della scrittura; conoscevo la difficoltà, collegata in maniera dolente agli obiettivi che mi proponevo.

Per essermi visto stoico o eroico, senza rendermi conto che la posizione da cui mi vedevo era quella di una persona dal profilo così anonimo da poter essere chiunque. In questo c’era anche una certa voluttà, nel poter guardare le cose dalla parte di uno sconfitto. Essere ancora per una volta quello da non tradire, perché disperato. Poi provavo anche rabbia perché non riuscivo a essere felice in quella bella giornata ventosa, mentre le nuvole andavano e i bambini brillavano nella luce, felici di togliersi il cappotto. Di colpo mi ero girato verso di lei, con la paura che mi avesse sorpreso in quel pensiero. Lei aveva un sorriso stanco.

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trasparente e io mi trovavo in un’alternanza continua di ombra e sole. Il riflesso mi infastidiva e avevo nausea. Vedevo nella mutevolezza della luce una metafora della mia condizione, e immediatamente dopo mi disprezzavo per la banalità del paragone, per l’enfasi che avevo messo nella descrizione.

LeggereI-7

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C’erano alcune notti, verso mattina, in cui mi aggiravo smarrito con il mal di denti nei vicoli della città vecchia, con un senso di oblìo ancestrale.

Leggendo cose scritte da altri (anche da me stesso) mi irrigidivo alzando il mento, perché quasi in ogni scritto trovavo affettazione, oppure compiacimento, o ricerca di complicità. Artifici che diventavano difetti e alla fine forme di falsità. Li vedevo chiaramente, e avrei voluto scrivere meglio. Chi scriveva era sempre troppo vicino o troppo lontano dal suo scritto. Volevo scrivere quel che veramente deve essere scritto, nel modo in cui deve essere scritto.

Fino a qualche mese prima avevo sempre scritto senza intoppi, di getto, la sintassi scaturiva automatica nel corso della scrittura. Adesso erano continue esitazioni, cancellazioni e spostamenti. Ero alla ricerca di un modo di essere (cioè di raccontare a me stesso cosa fosse la mia vita), e stavo scoprendo che la risposta arriva un po’ alla volta, un pezzo al giorno. Molti sembravano aver superato quel problema semplicemente senza esserselo mai trovato davanti.

La domanda era se continuare ad essere quel che ero oppure diventare qualcos’altro, ma non era affatto chiara. Scrivevo di continuo cose che potevano sembrare poesie con l’unica speranza di scoprirmi capace di farlo, ma sapendo che volevo uscire fuori da quella gabbia, quella pretenziosa forma di componimento in cui ogni tanto vai a capo. Il Testo Zero doveva essere lo scritto ridotto alla sua essenza, ma non doveva sembrare (non poteva essere) una poesia, né un saggio e neanche un racconto (avrei odiato addirittura l’ipotesi di dover dire: sto scrivendo un romanzo) .

senza troppo discernimento e concentrarmi sulla letteratura era una consolazione e una scuola, ma c’era tanto materiale che mi era indigesto, specie tra i contemporanei. A volte invece mi nasceva come una devozione nei confronti di certi autori. Cose appena lette facevano scattare la voglia di scrivere.Leggevo cercando un padre ma non lo volevo, avevo appena finito di emanciparmi dal ruolo di figlio. Cercavo di avere dignità nelle situazioni, ma era la dignità con cui il colpevole ascolta la pena che gli viene comminata.

18 ConI-8

Una vecchia Remington in prestito mi aiutava a rendere i testi più staccati dalle mie mani. Era bello e mostruoso nello stesso tempo. I tasti erano morbidi, scendevano ubbidienti e per la vecchiaia dell’apparecchio quasi un po’ lascivi sotto le dita, ma bisognava ugualmente premere forte per avere caratteri ben marcati, così avevo promesso ai vicini di smettere verso le undici. Peccato, perché il meglio di solito arrivava dopo mezzanotte, ed erano sempre cose scritte a penna su dei fogli volanti. Poi estrapolavo alcuneNellafrasi.quantità ogni tanto mi sembrava di trovare qualche pezzo utile. Cose semplici, poco rilevanti e precise. Le sistemavo e le chiamavo poesie. Rileggerne alcune era confortante, più di quando le avevo scritte. Non stavo scrivendo come avrei voluto, ma mi accontentavo, perché ero sicuro di non poter essere definito un poeta. Perfino tra coloro che si definiscono poeti, i poeti sono rarissimi. Perdevo pezzi. Ero immerso nelle cose, ma era come se fossi anestetizzato. Ero vicino quando avrei dovuto essere lontano e viceversa. Trovare la distanza giusta da cui scrivere era come trovare un modo di stare nel mondo. OgniI-9 tanto un pensiero mi scuoteva all’improvviso: avevo una relazione; e stava per finire, perché era parte di ciò che stavo per lasciar andare. Come antidoto alla preoccupazione usavo la rilevanza dei ricordi, ma per scriverli usavo una tecnica: dilatavo il ricordo fino al punto di non essere creduto, oppure di non essere compreso. Trasfiguravo le situazioni e le rendevo impersonali, toglievo riferimenti, volevo che il senso rimanesse plasmato a immagine e somiglianza di ogni singolo lettore. Qualche volta riuscivo a far capire di che natura fosse il mio disagio innestandolo nella vita degli altri. Ma quando venivano fuori discussioni, le ultime prima del distacco, lei sembrava non capire.

mezzi mediocri e per strade basse andavo alla ricerca di una scrittura alta, libera da tutte le scelte formali o narrative, da ogni chiave comunicativa. Lei mostrava un interesse compiaciuto, ma era evidente che non aveva nessuna curiosità per i risultati. Incidevo anche dei monologhi con un registratore a cassette oppure, cavalcando una specie di fluire spontaneo di libere associazioni, scrivevo periodi lunghissimi in cui andavo spesso a capo.

Passavano giornate incerte, nella città tombale, tra gente carica di pioggia imminente. Con addosso la pressione per le incombenze non desiderate (tutto il resto), guardavo le strade familiari e le vedevo forestiere, diverse. Mi ero svegliato presto, lo scirocco assecondava il disorientamento connaturato con la città, velata dall’ombra del tempo, da luci vaporose, con i palazzi assorti nell’aurora. Una forra ancestrale di salite e rive. Dalla finestra sentivo echi di torri in lotta nel passato, sentivo gente singhiozzare nelle camere e sentivo silenziosi adii ancora più dolorosi. Guardavo la città, la mutevolezza improvvisa, le ali di pioggia, la sua odissea di campane. Scendendo in strada vedevo forestieri vagare nello

QualcosaI-10risorto...risorgeva,

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Io cercavo di dirle che in fondo mi aveva redento, dopo tutti quegli anni. Ma era solo un modo di non essere con lei, dopo non esserci mai effettivamente stato. Non riuscivo a riconoscere il bene che mi aveva fatto, sarebbe stata un’occasione per un allargamento di cuore. Era un peccato, perché le giornate si erano allungate e l’odore del pitosforo era dappertutto, e faceva pensare alla primavera dell’anno prima, quando eravamo innamorati a Fiesole. Adesso tutto il panorama era occupato dalle porcellane pronte per il cerimoniale del caffè, dietro ai nostri sforzi per scandire col sorriso ciò che era imperfetto.Eppure,mai come da quando avevamo deciso di lasciarci cercavamo a letto il contatto con la mano, quasi come se dovessimo confortarci a vicenda per la presenza di un nemico fuori dalla porta di casa. Avevamo riempito la nostra vita di oggetti, ma anche di appuntamenti disertati, di microscopiche pietre tombali disseminate qua e là, aveva detto lei. Quindi sarebbe stata necessaria almeno una visita al sepolcro, per sentirsi dire che lui non era più là, era

ma non avevo parole per raccontarlo. Provavo lo stesso fastidio per l’animosità, l’accaloramento e per ogni tipo di scrittura poetica, con tutta la scala che dallo spazio viscerale sale fino a quello romantico, con le sue tempeste che scuotono l’anima. Non riuscivo neanche a vedere chiaramente una distinzione tra emozioni e sentimenti, forse perché non avevo sentimenti.

Così rifuggivo (o schernivo) i portatori d’anima. Volevo evitare quel dedalo di esclamazioni e domande, quell’accuratezza perversa che dice: Peuton le rappeler avec des cris plaintifs, et l’animer encore d’une voix argentine, l’innocent paradis plein de plaisirs furtifs? (5)

avevo incontrato una donna giovane. Lei si era trattenuta, conosceva il mio nome. Ero imbarazzato dalla sua grazia attraente, non mi sembrava di conoscerla. Aveva un nome sentito molte volte, che portato da lei aveva un suono nuovo. Sembrava essere al corrente di diverse cose della mia vita, ne parlava con un sorriso ambiguo, che io interpretavo come leggermente sarcastico. Diceva di essere capace di leggere nel pensiero, vedeva la mia C’eravamoincertezza.poiincontrati, ma più che altro rivisti. Eravamo interessati. Non ci davamo appuntamenti ma speravamo di vederci. A me interessava soprattutto la sua bellezza un po’ ambigua, lei diceva di essere interessata al mio carattere, sembrava volermi studiare come un caso. Io comunque dovevo partire, stare via per diversi giorni. Le avevo detto che la aspettavo a casa per salutarla, ma non era venuta. Avevo rimandato il momento di partire sperando che fosse in ritardo, pensavo che prima o poi sarebbe arrivata. Poi avevo preso la decisione, presa la borsa, chiusa la porta, ero andato a prendere la macchina, con un’ora di ritardo rispetto al previsto con un senso di delusione forte che si consolava con uno scampato pericolo.

Era lì, appoggiata all’automobile, anche lei con la borsa pronta. Mi aveva detto semplicemente: è più di un’ora che ti sto aspettando, vengo anch’io.

C’eraI-12

20 sconfinato chiuso, nel rovescio di sole che metteva una luce antica sui clamori nascosti. Il tempo cambiava gli ostacoli ignoti, l’austera sciatteria delle sponde, il brillare degli ori lontani del mattino. Spiccavo il salto tra l’indugio e la convinzione, ma era talmente breve da confondere i confini tra quello che avevo lasciato e quello che avevo raggiunto. Pensavo: che strana città. La conosci ma è diversa. Ti sorprende il vento non sai da dove, ti basta un niente e sei altrove.

una scala quadrata per salire. Ad un certo punto la rampa si stringeva, si aveva proprio la sensazione di salire in una torre.

Ero in soggezione, e il mio essere in soggezione, invece di mostrarmi indifeso si manifestava evidentemente come una minaccia, infatti metteva soggezione anche in lei. La scena era illuminata da una luce chiara. Stando in piedi, dalle finestre

UnI-11pomeriggio

Piacevano anche a lei le sintesi di pensiero poetante quando riuscivano a non apparire “poetiche”. Era poi anche la ricerca di un modo di parlare con lei. Un modo nuovo, che non rifacesse gli errori del passato. La comunicazione funzionava bene quando rimanevamo su queste frequenze; per le faccende quotidiane e le manifestazioni di istanze personali, invece, rimaneva sempre un retrogusto un po’ anestetico, c’era sempre la sensazione di qualcosa di non espresso, o non perfettamente compreso. Insieme a lei mi avventuravo nel linguaggio delle scritture antiche: L’arco ha dunque per nome vita e per opera morte.(6) Tutto è pieno insieme di luce e di tenebra invisibile (7). Lei trovava perfetto per me il ruolo di Aiace: quello

21 si vedeva il mare. Io ero steso sul divano, c’era un mèzzero blu e turchino, la radio trasmetteva in lingue sconosciute. La cosa più presente: il suo andirivieni inconcludente, i suoi passi provocavano lamenti nel legno del pavimento. Avevo la sensazione di navigare in acque poco profonde, dove centinaia di fatti passati si associavano a quelli presenti (ma anche tra loro) per analogia o per risonanza. Era simpatica, esplicita, mi diceva: tu mi piaci, mi piaci tanto, era capace di farmi uscire fuori da quel dormiveglia intersecato.

Si diceva sorpresa, sosteneva che il mio spirito fosse vivo, anche se lo si era dato per spacciato proprio all’inizio dell’inverno. Correvano sguardi veloci nella camera aperta, sembrava aprile, lo sguardo non si fissava mai su niente, i contorni erano labili. Aleggiavano tante cose: tutte le proiezioni mie e sue su quello che stava accadendo lì nel presente. Poi c’era il presente, nel dinamismo dell’immobile. I-13 Tempi di Quaresime lente, goccianti. La gronda, il vivido specchio nell’ombra. Consuma desolata l’età del sogno, i desideri. Tutto smuore in un fiume che è già domani, senza passato. Una frase venuta fuori da una seduta di telescrittura in cui avevamo interpellato Eliot. Lui non era un medium, era un assistente universitario.

Presumevo, anzi deducevo senza troppa difficoltà che avevano avuto una relazione. Finita bene, evidentemente, dato il loro rapporto cameratesco e il fatto che lui non mostrasse nessuna gelosia. Il testo emerso dalla telescrittura era abbastanza corrispondente allo status quo e mi piaceva il linguaggio, anche se non era troppo eliotiano. Come una simulazione, ma non intenzionale; come se una mente non troppo attenta avesse inconsciamente tentato di produrre qualcosa che avesse a che fare con Eliot.

Allora anche loro avevano cominciato a fare lo stesso gioco con lui.

Non capivo perché, ero affascinato dalla solidità criptica di quegli enunciati, ma andando a ben guardare quello che provavo leggendoli era una specie di nostalgia per una lingua perduta.

22 che punisce se stesso e che non accetta di perdere qualcosa che pensava gli spettasse.Rileggevo con insistenza per lei e per me quel testo che amavo tantissimo: Frena la bocca tua dal discorso e il tuo cuore dal pensiero, se si fiaccherà la bocca nel discorso e il cuore nel pensiero, ritornerai al luogo, giacché per questo è stato detto: e i viventi correvano e ritornavano; e per questa parola è stata patteggiata un’alleanza(8).

Lui era un ungherese che dopo aver dormito in macchina per mesi si era temporaneamente stabilito a casa loro, diceva di essere un artista di Fluxus. Rispondeva sempre in modo elusivo alle domande: fingeva di non capire, oppure replicava in modo incongruente. Al pricipio si pensava a problemi con l’italiano, poi si era ipotizzata una lieve idiozia, alla fine era divenuto chiaro che Dinant stava facendo il furbo.

dopo avevo incontrato l’assistente in piazza San Lorenzo. Mi era parso diverso dalla prima volta. Era comunque una persona interessante, un comportamento attento e misurato, non diceva molto di sé. Sapeva che ero alle prese con il Testo Zero. Dei suoi scritti non rivelava niente, salvo il fatto che aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai pubblicato nulla.

Mi aveva parlato a lungo di lei con un po’ di compassione e di ironia: avevano abitato insieme. Diceva che per contrastare le elusioni di un altro abitante della casa avevano inventato una specie di gioco letterario. Lo chiamavano il gioco di Dinant.

A una domanda concreta rispondevano con concetti astratti. Una domanda in termini generali veniva puntualmente fraintesa con situazioni concrete e specifiche. Mi diceva che il gioco di Dinant aveva poi un po’ preso la mano, e che lei non era più stata capace di uscirne. Avrai notato - mi insinuava - che è impossibile avere un dialogo lineare con lei. Era destabilizzante, diceva, prima o poi mi avrebbe tirato dentro le sue storie ingarbugliate. Se avevo un certo equilibrio lei l’avrebbe sconvolto. Sembrava sincero, ma non mi piaceva quella delazione e pensavo all’acredine di un amante abbandonato. Inoltre non avevo alcun equilibrio da difendere.

GiorniI-14

Lei (solo yoghurt e miele), recitava a memoria: E’ vero, senza menzogna, certissimo. Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per i miracoli dell’Unica Cosa. E così come tutte le cose discendono dall’Unico che le creò, nella contemplazione, così tutte le cose nascono, per adattamento... (9) Io per una strana reazione proponevo qualcosa di molto mondano. In realtà non ne avevo voglia, ma le offrivo di passare la serata in un bar elegante della riviera, sorseggiando due daiquiri.

SeI-16mi vedeva scrivere sembrava soddisfatta. Le piaceva il linguaggio lapidario delle profezie, e anch’io trovavo che quel ritmo che segna le cose apodittiche avesse a che fare con la giusta distanza della scrittura da colui che scrive: un testimone non coinvolto che è però un indispensabile referente.

Ma io non volevo compiacere né lei né gli altri eventuali lettori, per non dire di me stesso. Non volevo persuadere, divertire, informare, raccontare, né rendere partecipe qualcuno di qualcosa. Non volevo toccare e men che meno emozionare ed ero disgustato dall’idea che ciò che scrivevo potesse essere in qualche modo didascalico. Volevo un linguaggio convincente che non volesse però convincere nessuno. Il mio desiderio era unicamente che le parole scelte fossero (apparissero a me stesso) come finali e inderogabili, le uniche possibili nell’economia di una comunicazione finalmente liberata dal peso, un sottile filo teso che unisce chi parla e chi ascolta. Era strano, per mettere in atto questo tentativo avevo una compagna che mandava messaggi contorti e complicati, spesso

Al risveglio, dopo una serata di incomprensioni, mi sentivo già pronto a decretare il fallimento, mentre preparavo la colazione scuotendo la testa.

Lei non ascoltava e proseguiva ...Sale dalla terra al cielo e ritorna poi alla terra, raccoglie la forza dei supremi e degli infimi. Così tu avrai la gloria del mondo, le tenebre fuggiranno da te (9) e mi imponeva le mani sul capo con un’ironia solenne.

23 SembravaI-15

che l’incontro potesse funzionare alla perfezione, ma solo quando c’era il silenzio dei corpi che parlavano al posto della voce. Oppure la voce, ma usata per eludere le istanze contingenti, per portare l’attenzione verso delle cose lontane, probabilmente altissime, che però erano il sale della vita, diceva lei.

Pronunciando per un’ ennesima volta quelle parole, tornava quello smarrimento tra le mura domestiche, una crescente sensazione di ritardo di fronte a quella meraviglia solenne. Giorni dopo, alla finestra, un senso di irraggiungibilità di coetanei già lontani (il giovane scrittore portoghese di successo aveva la mia stessa età). Volevo essere anch’io una voce autorevole ma senza essere un autore. Riuscire a scrivere qualcosa senza stile e senza tono di voce, buttare via gli assi cartesiani dei pubblicisti e dei copywriters.

24 fatti di metalinguaggio. E tutto accadeva mentre ero alla ricerca della via più breve e nel contempo più assoluta (la più semplice) per arrivare in un altrove che non immaginavo neanche lontanamente quale avrebbe potuto essere.Mi rendevo conto che si trattava di una operazione impossibile e in ogni caso per me praticamente irrealizzabile. Nello stesso tempo, avevo una tale fiducia nel linguaggio che quasi pretendevo questo risultato, dopo anni di esercizio nei quali ero scivolato in quasi tutti i trabocchetti che il linguaggio mi aveva posto sulla strada. Avevo scritto sul muro: L’alba di un nuovo giorno si leva sulla terra. Quest’ora non è una corrente, ma un vortice. Ogni mondo personale riflette il cielo in fiamme, per il fuoco che divora le vecchie forme. (10)

CiI-17scoprivamo diretti verso una specie di larghezza che addormentava gli arti. Dispersi tra trascorso e possibile, ci lasciavamo prendere la mano da strade scoscese, dove rotolare catapultati negli incroci di una città straniera, svuotati dallo scampanio e dal sole, sballottati dagli eventi. La strada in ombra era traversata da gente che arrivava dalle piazze sbiancate dal sole, noi ci sentivamo estranei. Dopo aver inutilmente giocato con la fede e dopo aver invocato i morti senza convinzione, dopo aver consumato il consumabile, non restava altro che il parlare o il tacere, con i modi che per noi non erano ancora diventati una consuetudine. Questo é lo spirito vivente. forma il pieno dal vuoto, rende esistente il non esistente, scolpisce i grandi pilastri con la luce inafferrabile”. (9)

Non avevo nessun impegno letterario, nessun obiettivo di consenso. Tentavo di approdare ad una scrittura in cui le scelte fossero (apparissero a me stesso) come le uniche possibili, le uniche capaci di escludere ogni tipo di esercizio o di ricerca letteraria. Non cercavo strade per ottenere un risultato, oppure cercavo un risultato che fosse possibilmente senza riscontri. Ma tutto restava insoluto e sopraggiungeva la stanchezza per la ricerca di una fiducia inventata, parziale.

25 EravamoI-18

Poi Handke, Borges e tutti quelli che mettevano lì la distanza critica tra l’autore e ciò che viene detto. Cercavo di farle sentire quel tono costante, quel ritmo che ti trascina in avanti nella lettura. Non hai nessuna curiosità, c’è solo il linguaggio che ti porta dentro di sé come un taxi. Se iniziavo a leggere uno qualunque dei Textes pour rien (12) ero costretto ad arrivare alla fine, e senza che lui mi avesse fatto niente (non ero commosso, indignato, entusiasmato) ero diverso, trasportato in un altro punto di vista, che non diventava mio: era già mio, la lettura l’aveva pescato nella mia anima e me l’aveva messo davanti con la migliore proprietà possibile. Facevo fatica a scorgere quella linea sottile oltre la quale c’era la poesia, ma leggevo Rilke, Montale, Trakl, e The Ballad of Reading Gaol (13) e rileggevo continuamente Eliot, specialmente Prufrock e The Waste Land come attivatori della voglia di scrivere; e di lì a poco mi sarei aggrappato anche ai Quartetti (14) . Ma la speranza di approdare a una scrittura decente non mi arrivava certo dai classici. Eravamo andati a sentire Maurizio Cucchi a un reading. Aveva l’accessibilità dei contemporanei e anch’io ero un disperso, (16) le sue istantanee domestiche avevano per me il calibro profondo della grande poesia. Cucchi aveva pochi anni più di me e l’avevo incontrato in carne e ossa al Teatro del Falcone. PuòI-19 darsi che ci fosse incertezza nella mia voce. Lei mi diceva: è normale, dal momento non stai dicendo niente. Era però quel niente che conta per tutto il resto che non viene detto. Come la ciocca di capelli di una bambina di tanti anni prima, di un bel rosso scuro, trovata in un cassetto e subito riposta lì per rispetto. Non so se mi aiutasse avere con lei quei dialoghi pieni di fraintendimenti. Sembrava condividere i miei progetti, ma avevo spesso la sensazione che non li comprendesse esattamente. Era più colta di me, anche più intelligente, ma aveva quel tanto di improvvisazione incongruente nel

alla ricerca di forme formanti; questo ci univa, almeno per brevi periodi, anche al di sopra dei nostri corpi che erano spesso confusi l’uno nel’altro. Finalmente anche lei mi aveva fatto leggere i suoi diari, che naturalmente mi erano parsi geniali, quasi come i famosi taccuini (11) .

Anche lei aveva una scrittura non velleitaria, la cosa che mi interessava di più. Criticavamo tutto. Le eccezioni erano Beckett e Eliot, naturalmente.

Tutta quella vecchia letteratura toccante non era più al mio fianco a sostenermi, ma non avevo messo ancora il piede su una nuova pietra. Ero sospeso, e lei se ne rendeva conto, anche se faceva finta di esserne ignara. Forse era sospesa anche lei, ma non lo viveva come un problema. Invece io volevo approdare alla sicurezza di uno scrivere inossidabile e senza fondamenti. Cosa si poteva togliere e cosa doveva essere lasciato per non far diventare il testo (la scrittura della mia vita corrente e dei suoi lavori in corso) una lapide? Rileggendo, scoprivo che la metà di quello che avevo scritto era da buttare e quello che restava poteva essere detto con la metà delle parole. Così tante cose dovevo togliere dalla mia vita?

LaI-20tecnica che usavo era sempre la stessa: prendere una situazione e toglierle la connotazione fino a renderla irriconoscibile. Da combattere assolutamente: l’abitudine ai sottintesi feroci, molestanti ma silenziosi, fatti di veloci e conosciuti colpi di mano, pensieri distrattamente tralasciati, o lasciati mai detti. Alcune volte eravamo in un accordo perfetto, ma la cosa anziché aiutarmi mi distoglieva. Rispetto a tutto quel vivere interlocutorio che avevo vissuto prima, mi sembrava miracoloso quell’abitare silenzioso.

26 parlare e nello scrivere che la rendeva sfuggente. Un po’ la invidiavo e un po’ la detestavo. Sembrava non capire che l’impresa era difficile. Le dissi che non le avrei mai affidato la scrittura del mio epitaffio. Nonostante non mi sentissi all’altezza ero l’unico in grado di scriverla, ed era evidente che ero in procinto di morire. Qualcosa di me, intendo, stava morendo. Avrei dovuto esserne contento, invece affrontavo quella morte con un po’ di rassegnazione. Ma ero deciso ad utilizzarla.

Facevo l’ipotesi di vivere senza dover mai più chiarire niente, sarebbe stato sufficiente uno sguardo chiaro sulle cose, uno sguardo anche reciproco. Mi diceva che era vero, e che sarebbe stato vero anche dopo. Di quel giorno tutto è incancellabile, la corrente che passava tra le due finestre e i riflessi luminosi. La facciata della casa con i balconi di legno e i rampicanti, che la luce rendeva ricca e amichevolmente sontuosa.

Mi sembrava impossibile avere sprecato anni per vivere come avevo vissuto prima, con lo sguardo che girava distrattamente sui mobili, ben compreso nella penombra. Ricordavo le delusioni, l’incredulità degli anni precedenti, quando lo sguardo cadeva sulle crepe del muro, sulle stoffe, sui

Niente più divano-letto, manifesti, niente più marmo pieno di cianfrusaglie, niente più definizioni. Tutti gli oggetti dietro a lei, la stanza vuota. Nei ricordi, tutto era ammassato, sovrapposto senza discernimento: dormire, scappare, morire, inabissarsi o mescolarsi tra la gente senza presunzione di futuro né di passato.

Sul giornale si fantasticava di nomi possibili, di situazioni possibili. Tappeti volanti ci sorpassavano, mentre noi in un parcheggio guardavamo cartine stradali.

27 suoi cosmetici ostentati con un po’ di arroganza sul piano di marmo nero.

LaII-1ESTATEstanzaera

molto grande, la stagione era all’inizio, c’erano persone giovani, gli amici a cui volevo bene. Uno di loro camminava avanti e indietro sull’impalcato, cercava qualcosa, forse i biscotti; poi si era messo a preparare un tè che profumava l’aria. Qualcuno leggeva, nell’altra stanza qualcun altro al piano suonava Waltz for Debbie (15), ma molto lentamente. Forse la stava imparando, ma così lenta ci stava benissimo. Le finestre erano aperte. Tutti sapevano cosa fare o cosa non fare, alcuni stavano provando a fare ciò che andava fatto. Era arrivato il momento, tutto era facile e difficile. Il tempo sembrava fermo ma stava scorrendo veloce, a testimoniarlo si sentivano in lontananza i clacson e i motori delle macchine nei viali alberati. Il Testo Zero si avvitava su se stesso. Avevo sempre scritto di getto, abbastanza spedito. Qua invece era tutto un cancellare e riscrivere, rileggere e spostare. Lo scritto che doveva farmi trionfare sull’antipatia che provavo per quello che avevo scritto prima, alla fine era il più antipatico di tutti.

Mi metteva davanti una richiesta inversa: non ero io che chiedevo qualcosa al linguaggio, era il linguaggio che chiedeva qualcosa a me.

28 II -

Mi chiedeva di non divagare, di maneggiare con cura, se avevo qualcosa da dire avrei dovuto dirlo senza aggettivi e senza avverbi. Anche nei rapporti umani mi forzavo alla distanza: nessuna identificazione, né aspettative. E nessun giudizio. Ma era impossibile... qualche settimana prima l’avevo vista per la prima volta a casa di persone semisconosciute, l’avevo poi incontrata, vivendo ogni volta il turbamento del desiderio e della curiosità. Era incline allo sguardo, al sorriso, anche se breve. Mentre coltivavo il sospetto di interessarle, ero frenato dalla bellezza, che mi sembrava dovesse essere riservata ad altri. Quando parlavo di lei gli aggettivi e gli avverbi si sovrapponevano esagerati. MentreII-2 mi facevo la barba in un ammezzato della città vecchia era come se mi inchinassi di fronte a me stesso. C’era uno specchio incrinato (in questo modo ci rimanda la nostra vera realtà, quella di un io frammentato, aveva detto lei) appeso troppo in basso. La finestra era aperta su un vicolo.

Rileggevo e mi sembrava evidente: cambiava il modo di scrivere perché a scrivere era stato qualcun altro, qualcuno padrone delle sue scelte, apparentemente libero, come aveva dichiarato più volte di desiderare.

Così, in una bella mattinata di giugno, fingendo di non avere rimorsi, mi sedevo in un bar del centro con i tavolini all’aperto, bevevo un caffè e leggevo il giornale con calma, solo per fare tutto quello che prima non era proibito, ma semplicemente non avevo mai fatto.

Il Testo Zero mi seguiva come un’ombra, indulgente giudice ma implacabile testimone.

29

Non guardavo fuori, mi vedevo da fuori: un piccolo pezzo di una scena urbana di una luminosa mattinata italiana all’inizio dell’estate. Il sole e le campane splendevano lì dietro, in piazza San Lorenzo, e si sentivano le risposte in altre piazze più lontane; da qualche finestra usciva musica e rumori domestici: neonati, stoviglie, cani.

Sentivo di aver ridotto al minimo i bisogni, addirittura di averli resi praticamente inesistenti, ad esclusione di quel sottofondo, come se fosse una volontà di distanza. Ma senza azione, andare via da tutte quelle cose che avevo raggiunto e che fino al giorno prima erano state traguardi.

Ero rassicurato, deciso ad immergermi nella fenomenologia dell’essere, avevo la pretesa di scrivere da cronista neutrale, descrivere quello che era per come si Affrontavorivelava.lavita (quindi lo studio dell’essere) limitando le relazioni a ciò che sembrava esistere in concreto momento dopo momento. Avrei voluto lei come compagna anche per un viaggio più impegnativo, ma fortunatamente non era pronta per un’indagine sull’essere al di là delle apparenze e dei fenomeni. Così grazie a lei non riuscivo a pensare a cose grosse, solo piccolissime realtà inconsistenti. Ero contento che ci fosse, anche se spesso la sua allegria mi sembrava incomprensibile, mi disturbava, e rimpiangevo la solitudine e i momenti di autocommiserazione. A volte lamentava il fatto che le dedicassi poco tempo, che ogni sera avessi degli impegni che mi portavano altrove. Provavo ad essere un artista e molte altre cose, pcompreso un esploratore solitario della città. Tutte queste attività occupavano delle serate che avremmo dovuto trascorrere insieme. PoiII-4 tornavo a vivere da solo, mi sottraevo ai confronti ed era come cominciare qualcosa di nuovo. Come per esempio rincasare alle sei del mattino di un primo giorno d’estate e scoprire alla finestra una città straniera, un’atmosfera da arrivo in aeroporto. Baffi nervosi e immobili di nembi brillanti erano accesi su un cielo di un vermiglio pallidissimo, quasi grigio, e anticipando il sorgere del sole cominciavo a scrivere.

Era una consolazione trovare la condizione giusta, il silenzio maestoso, il momento corrispondente, quello che collega quello che accadeva là fuori con quello che accadeva dentro. Scrivevo dopo aver aspettato a lungo quel particolare stato d’animo che è sicuramente la fase terminale di un processo di elaborazione, quando

30 ScrivendoI-3

cercavo di soffermarmi sulle cose per le quali valesse la pena di vivere, le uniche che fossero degne di essere scritte. Era giusto un soffermarsi, perché quelle cose erano molteplici e inafferrabili, anche se mi sembrava che avessero più o meno tutte la stessa natura. Il rumore di sottofondo era basso e incessante. Sui davanzali e nei balconi c’erano gerani e basilico, dal vicolo arrivava odore di soffritto, nell’altra stanza una donna cantava, ed era lei. Sentirla era consolante.

31 diventa una urgenza. Era semplice lasciarsi sospingere, e se non c’era quello stato d’animo la scrittura diventava noiosa, faticosa da stendere e poi anche da leggere, e alla fine risultava vuota, anche se ci avevo messo tutto l’impegno necessario per riempirla.

Così giudicavo un risultato positivo una semplice descrizione nella quale ero riuscito a togliere le antipatiche tinteggiature che venivano fuori quasi automaticamente, come luoghi comuni pronti a impossessarsi del sentimento che c’era nascosto sotto. In questo senso posso dire che prendevo una certa distanza dalle emozioni, sapendo benissimo che evocarle nel lettore era abbastanza facile, roba da mestieranti.

stanza.II-5Andavamo

Coltivavo una vaga idea di scrittura orfica, una guida messa lì per una specie di possessione divina, come un’esperienza dionisiaca alla quale però dovevo riuscire a togliere tutta l’enfasi, tutto il calore, per scoprire alla fine che attraverso semplici enunciati il vuoto che prima si squarciava come una voragine sotto i miei piedi adesso si apriva davanti alla mia coscienza e palpitava di senso come una madre. Naturalmente sapevo di illudermi, ma mi sentivo guidato da un occhio freddo che sapeva riportare uno spazio immenso alle dimensioni di una a vedere degli spettacoli, il centro storico era pieno di piccoli teatri. Si incontravano tante persone, c’era ancora un gran desiderio di parlare con gli altri. Leggevo i libri che mi consigliavano, gli autori nuovi, ma ogni loro rappresentazione mi infastidiva, e ritornava quell’antipatia verso gli scriventi, la loro azione mi sembrava sempre velleitaria, ogni volta cadevano in qualche trappola. Invidiavo il suo entusiasmo e la sua condiscendenza nei confronti di tante forme letterarie verso le quali ero sprezzante. Io ero presuntuoso, ma con la presunzione del dilettante. La mia ricerca letteraria non sarebbe mai stata un lavoro. Non avevo un committente né un termine di consegna. Alla fine avrei tentato di scrivere il Testo Zero liberando il linguaggio da tutte le implicazioni linguistiche. Lei diceva che era geniale, ma lo avrebbe detto probabilmente a qualunque ipotesi letteraria.

Mostrava di condividere l’ipotesi, paragonandola al lapis degli alchimisti o al Monte Analogo (17) e questo rendeva evidente che la sua condivisione era solo teorica, intellettuale, mentre io volevo che la strada fosse davvero praticabile.

queste istanze venivano fuori in quel momento, come se le contingenze le avessero rese finalmente distinte. Ero in viaggio, e c'era un puntino nero in tutto quel bianco e azzurro e blu. Bianche le ringhiere, le scialuppe, le scale di metallo. Blu il mare, bianche le onde divise dalla prua. Il cielo azzurro e bianche le nuvole e le spiagge, all'orizzonte lontano che vedevo dal ponte. Stavo osservando il puntino nero, una mosca posata sulla ringhiera del ponte. Ad un certo momento la mosca aveva spiccato il volo e si era avventurata verso il mare aperto con una decisone che mi era parsa assoluta. Sgomento, intravedevo un destino di cui la protagonista non era - forse - consapevole. Se avessi potuto, avrei tentato in ogni modo di dissuaderla da una decisione folle. Eravamo ad una distanza tale dalla terraferma che la mosca non avrebbe più potuto raggiungerla. Poi cominciai a considerare che il volo avesse un senso di per sé, e non come mezzo per raggiungere un luogo. Volevo che la mia scrittura assomigliasse a quel volo che di colpo mi appariva privo di implicazioni. Ma non possedevo la chiave per entrare in quella dimensione. Il luogo mi riportava in una oscillazione continua tra la dimensione carnale della vacanza e quella criptica e misterica di Eleusi, alla ricerca continua di qualcosa che, ne ero certo, potesse contenerle entrambe. Forse non aveva a che fare con il linguaggio.

TutteII-6

32

A occhi meno esperti dei miei questo sembrava un nonsenso (oggi si ama dire ossimoro) ma sapevo che la strada esisteva, pensavo che valesse la pena di tentare. Non sapevo bene perché tentare, e forse questo era un bene, perché se avessi individuato un motivo, avrebbe già potuto delineare un obiettivo, ed era proprio ciò che non desideravo.

QuasiII-7 istantaneamente, forse pensando a un volo privo di implicazioni, mi venivano in mente le notti d’estate nella pianura. Da questa estraneità così piena di contrasti pensavo alla familiarità rassicurante dei rettilinei tra i campi di méliga e all'odore dello Scrivia in estate, con i salici impolverati sugli argini. Bere vino bianco ghiacciato e tornare a casa tardi per quella strada dritta e familiare con l’amico più caro, il mio compagno di banco, quello con cui avrei voluto chiacchierare tutta la vita, e con sua moglie che cantava una filastrocca abruzzese. Non conoscevo più quell’incuranza spontanea, fare

33 le cose senza guardarsi, ma soprattutto senza guardare. Senza guardare il pallone mentre lo calci, senza guardare le corde della chitarra mentre suoni Bisognava ripartire da zero, non guardare le cose, ma saperle debitamente toccare. Oppure contemplarle, ma non ero capace. Per come la pensavo io in quel momento, andava bene qualunque cosa che potesse risultare anche solo pensabile, purché fosse attestata dai sensi (o dalla psiche, forse perfino dallaScriveremente).

Forse avrei dovuto osservare l’architettura nel suo insieme, capire gli sbagli di una struttura generale, e invece mi concentravo sempre su cose piccolissime, ognuna di loro era fastidiosa. L’unico modo per rendere tollerabile il tutto era inseguire qualche forma di oblio, di stordimento, qualcosa che rendesse plausibile quell’insieme caotico di problemi senza parte cominciava a farsi strada l’idea che deporre le armi fosse conveniente. Che nessun cambiamento sarebbe stato realmente possibile, e anche se fosse stato possibile non avrebbe migliorato la mia tolleranza.

mi rendeva capace di questo: la ricerca del fondamento attraverso il suo modo di esistere. Avevo vergogna a dire che mi interrogavo sul senso profondo delle cose, ma si trattava di quello. Solo che lo studio si fermava alle apparenze. La domanda circa il senso dell’esistenza dell’uomo che pensa e che si pensa per me si risolveva in un acquerello dove un ometto minuscolo guardava un infinito nebbioso.

Dicevamo che era una questione di adattamento. Una sera un mio amico disse: quando cominci ad arrenderti cominci a vincere. Divenne un motto e una specie di pensiero guida. Per andare avanti bisognava rinunciare a qualcosa, inghiottire calici dal sapore inaccettabile.

All’inizio non mi sembrava dignitoso, vedevo alcuni di noi che passavano dall’altra parte, che eleggevano il rifiuto a regola generale. Ma io non avevo l’energia sufficiente, inoltre avevo paura. Quando cominci ad arrenderti, cominci a vincere. Non sapevo in cosa sarebbe consistita quella vittoria, ma comunque giorno dopo giorno cominciavo a capitolare, che non significava però, come speravo, allontanarmi dalle sfide, ma accettare sfide alle quali non ero interessato.

AgliII-8 altri sembravo contento, a volte persino euforico. Eppure mi sentivo estenuato da quella ricerca permanente, quel cercare di mettere a fuoco quello che non andava, perché effettivamente molte cose non andavano.

soluzione.Daqualche

C’era un’altra donna che mi parlava dalla doccia, non capivo quello che diceva, ma il tono era dolce. Faceva molto caldo e avevo spalancato la finestra. All’orizzonte c’erano i rumori della statale, i camion che passavano tutta la notte nella pianura. Si sentivano le rane, le chiacchiere della gente nel piazzale e le scariche incessanti della lampada anti-zanzare che mandava sul muro una luce di un blu pallido, irreale . Era notte, ma l’idea della distanza si poteva avere per le luci dei fari che si rimpicciolivano e si indebolivano fino all’orizzonte. Entrava un odore di campi, padano, familiare. Per molti giorni tutto era sembrato finalmente semplice, ma la mia distanza era eccessiva. Avrei dovuto amarla in modo semplice, poi scrivere

l'avevo rivista per la prima volta dopo la fine del nostro rapporto. Diceva dello sforzo per vivere con me: quello che credeva di me, molte cose le sfuggivano. Lei voleva, lei credeva che io volessi.

34 DiII-9

nuovo rifugiato in qualche posto lontano, così da sentirmi effettivamente distante. La situazione non era spiacevole, la distanza ha un potere. Mi trascinavo con l'inerzia rassegnata degli abitanti. Nel villaggio si era creata una specie di famiglia, i bambini mi saltavano in braccio. Il tempo si scandiva diverso. La notte, tutto si richiudeva: la terra, l’acqua, il cielo. Il cielo era più grande del normale e tutti abitavano strane generalizzazioni, come la vita, la morte o la malattia. Provavo affetto per i bambini che al mattino ci venivano a svegliare. Sapevano di fumo e di pesce secco, avevano negli occhi la rassegnazione per una tragedia imminente. Mi mettevo a ridosso del vento e ripensavo alla casa, agli anni precedenti, a tante altre cose distanti ottomila chilometri: allora ascoltavamo musica, c’era aria d’inizio e tutto era da stabilire, poi lentamente la situazione aveva preso la sua direzione, una direzione inaspettata, e vista da lì non c'erano più colpe, neppure le mie, c'era solo la vita vista da lontano che viaggiava nella sua DiII-10direzione.ritorno,

Ero contento di non essere più là, ero contento di passare altrove, in un furgone a Caricamento, o in un motel con le persiane semichiuse, seduto sul letto con la sensazione di essere ritratto a mia insaputa.

Vivevo tranquillamente il sogno di una città dismessa per secoli, al cui interno si manifestavano - ad uno ad uno - tutti i miei desideri. Quello di trascinarmi dalla mattina presto senza avere incombenze, ma soprattutto senza avvertire quella forma di inquietudine (un senso di urgenza accompagnato da rabbia e rassegnazione). Le avevo fatto leggere delle cose che avevo scritto, non era esplicito che si parlasse di lei. Rideva, leggendo. E diceva che dovevo smetterla di farle da padre, ma era così coinvolta nella lettura che mi chiese tutto il quaderno del Testo Zero. Lo portava nella borsa e ogni tanto lo estraeva come un prete col breviario. Mentre leggeva aveva spesso un sorriso evidente, mi diceva: scrivi proprio come fai l’amore. Non avevo chiesto di più, mi aveva tolto l’antipatia nei confronti del mio scritto, quel senso di nausea che veniva fuori quando trovavo la scrittura epica, struggente, incalzante, commovente... o anche allusiva, ammiccante.

35 di lei in modo semplice, invece fuggivo dalla scrittura. Dicevo che dovevo vivere e in quel momento non avevo nessuna voglia di arrivare alla semplificazione che cercavo. Mi bastava ritornare ad alcune cose scritte giorni prima per vedere tutto come completamente irrilevante.

Lei mi rileggeva ad alta voce. Sul principio la cosa mi aveva imbarazzato, non avevo mai pensato che le mie cose potessero essere recitate, solo lette in silenzio. Ma le aveva lette di notte, a mezza voce, sul terrazzino con la candela accesa e quella specie di litania mi restituiva il testo in una forma asciutta, sembrava riuscire a liberare il contenuto dalla sua forma inevitabile.

PoiII-11era

arrivata quella gran parte di agosto da passare in città. Una specie di rinuncia generale, nella canicola estiva. Le zanzare, le chiacchiere con i pochi rimasti. I giardini deserti, le strade vuote e abbaglianti, le case con le persiane chiuse. In quella specie di traspirazione mediterranea che avevo già respirato in altre città (Barcellona, Argostoli, Napoli, Tangeri, Algesiras) cominciavo a capire che niente era veramente proibito. Certi tabù si stavano dissolvendo e quello che era stato un limite era adesso oltrepassabile. E allora, perché non oltrepassarlo?

corrispondeva

trepidazione.Forsenon

36 CerteII-12

sere salivo in macchina fino alla vecchia cava di pietra, quell’enorme distesa di sassi silenziosi, e intorno soltanto rocce. A quell’epoca la gente non aveva ancora preso l’abitudine di fare passeggiate, la cava era dismessa. Restavano ancora alcuni fabbricati di cemento diroccati con le finestre divelte e una scavatrice arrugginita. Mi sedevo su qualche roccia un po’ più in alto e aspettavo quel momento in cui il sole sparisce ma c’è ancora luce. Mi aiutava a immaginare la meraviglia di un mondo fermo e silenzioso, e anche il frastuono interno cominciava a scemare. Mi piaceva tutto quel grigio, quell’uniformità dello spazio largo, quasi senza colori. Assomigliava a quello che volevo scrivere. Mi facevo un obbligo di escludere la colorazione, di riuscire a parlare di ricordi senza nostalgia, di attese senza paura, di fatti compiuti senza rimpianti, del presente senza aspettative, senza speranza o era la soluzione, ma almeno avrebbe potuto essere un antidoto a quell’incessante riproduzione di pezzi di discorso già detti che trovavo ormai riprodotti ovunque: sui giornali, nelle radio, nei discorsi della gente. Ne parlavo con quelli che leggevano le mie carte. Mi chiedevano perché avessi questa intenzione di togliere al mio scrivere proprio quelle cose che lo rendevano piacevole. Il motivo era proprio quella parola: piacevole. Non sapevo spiegarmi meglio. Ma se volevo scrivere il testo che ai miei desideri (che voleva dire letterariamente inesistente, privo di mediazioni linguistiche, neutrale, convinto com’ero del fatto che la descrizione riguardasse la vita, e che la vita tendesse a confermare la descrizione che ne facevo), come doveva essere interpretato quel desiderio nei confronti della mia vita? Volevo vivere rimuovendo il colore?

ForseII-13 anche la decisione sull’oggetto del racconto aveva o avrebbe potuto aver a che fare con quella forma di antipatia. Quindi immaginavo che andassero escluse alcune cose di cui parlare, ma ignoravo quali avrebbero potuto essere. Pensavo per esempio a raccontare un amore senza mai parlare dell’amore. Amore era una parola proibita, suicida, come Narciso che muore appena si guarda. Se provavo a fare un elenco di argomenti, escludendo quelli che mi sembravano i più seducenti, quindi i più pericolosi (ricordi infantili, sentimenti, legàmi, dolori, speranze eccetera) ecco che ritornava nitida la convinzione che quello che conta veramente sia la posizione in cui si pone

Passavo in rassegna i misteri di una ambivalenza, con i suoi silenzi che si toccavano e le mani delicate che invece parlavano. Al mattino scavalcavamo i reperti di una notte, il portacenere pieno, l’autan, i bicchieri e gli indumenti abbandonati, i segni della sua personalità, che non era il carattere e ancora meno la sua indole sconosciuta. Erano solo piccoli vessilli insignificanti da guardare, che poi significava rivisitare come fantasmi nella luce un po’ cruda del mattino, con un filo di paura. Lei che fino a poco prima aveva senza dubbio uno sguardo infantile, di colpo era diventata Mata Hari.

MiII-15scoprivo a fabbricare tautologie sulla sua teoria degli incontri, un turbine che mi trascinava in sequenze infinite di collegamenti. Portavano tutti a una verità, che in genere leggevo sul retro delle cose, come se fosse il contrario del loro apparire. Era così trascinante che a volte mi sentivo come attirato sul fondo della gravità, come su un veicolo abbandonato a forze

37 la persona che descrive, la sua giusta distanza o vicinanza al racconto. Ma poi veniva fuori chiaramente che non si tratta alla fine di distanza. Neanche di tempo o di velocità, di scelta del momento. Se si fosse comunque trattato di scelta del momento, avrei desiderato scrivere nel momento sbagliato.

Stavo difendendo la mia insensibilità. Non ne avevo fatto un abuso, come certi miei coetanei, ma ero affezionato a quel tanto di insensibilità che avevo messo da parte a fatica.

NellaII-14 prospettiva dei pomeriggi cittadini la rivedevo. Era bella, ma il bello c'entrava poco: mi piaceva. Mi blandiva continuamente, diceva che ero l’unico, diceva che non le era mai successo ed era straordinario. Crederle era bellissimo, perché tutto diventava vero. C’era una trama, negli incontri, tra alcool e vento, rifugi ed esposizioni; c’era un pensiero superiore all’estate, un quando e un come legati al presente, che era perpetuo. Così per la prima volta capivo che non era il caso di fare programmi. Può darsi anche che mi muovessi tra varie guerre perdute, tra attenzioni sprecate. Da quella parte, a grandi linee. Sul carro che portava in quel luogo che una volta avevo chiamato perdizione, ma che liberato dai sensi di colpa diventava automaticamente un pezzo di vita come tutto il resto e spesso perfino migliore.

Eppure mi vedevo anche da fuori, fermo a osservare la mia scivolata nel gorgo, come se fosse stato possibile afferrare l’uomo che ero, che stava annegando, afferrarlo per i capelli, arrestare la scena, dargli ancora un attimo di vita in cui chiedergli quello che per tanto tempo era stato taciuto.

LeII-16persiane semichiuse, le tende tirate, in penombra un groviglio di lenzuola. Scrivevo il Testo Zero, ero lì per quello. Ma lo sguardo cadeva sulle appliques, sulle ceramiche posate sul comò. Una specie di stasi eccitata dalle macchine che passavano giù in strada e che facevano muovere la luce con strani riflessi sul soffitto. Stavamo stesi sul divano e ogni trapezio di quella luce era una finestra semiaperta sull’infinito. Da quell’infinito emergevano brezze calde, scarpe da tennis, odore di Krapfen, di hashish, e quell’odore sulfureo che rimane addosso quando ci si immerge nell’acqua termale.

38 esterne, cercavo il freno, ma non sapevo dove cercare.

Ma non arrivava nessuna risposta, forse non ce n’erano, neanche in punto di morte. Non ce n’erano, perché effettivamente mancavano le domande, oppure non erano vere domande. Come quando si vorrebbe sapere senza chiedere.Muri imbiancati separavano dalla stradina che scendeva verso il paese. Ero protetto dentro un bel giardinetto mediterraneo, all’ombra. C’era odore di luce nelle camere aperte al mattino, poi c’era il mare che chiamava continuamente, dentro un’estate anticipata, rubata ai giorni di lavoro.

Mi stupivo che non fosse così anche per lei, per poi rendermi conto che tutto era diverso. Forse riuscivamo ancora a trascinarci reciprocamente, uno nelle proiezioni dell’altra, ma la verità era fuori dalla finestra: vedere ed essere visti erano la stessa cosa, in un quadro un po’ più grande delle nostre vite, che ormai ci sovrastava. Sembrava così ruvido il contatto con la vita, così pungente quel turbinìo pulviscolare che è, che veniva da chiedersi alla fine se siamo forme fatte per penetrare in quel pulviscolo o per esserne penetrate. Non c’era modo di saperlo, non era passato un tempo sufficiente, o magari ne era passato troppo, e in certi momenti guardando il soffitto non riuscivo a fare nessuna distinzione tra ciò che era successo prima e ciò che era successo dopo. Non era una sensazione piacevole.

39 ManII-17

mano che salivo le scale, la temperatura aumentava. Succede così, d’estate, ai piani alti, mentre d’inverno è l’esatto contrario. Guardavo le ardesie antiche, consumate, dei gradini. Il lambrino di calce segnato da decine di traslochi, dallo sfregamento di passaggi secolari. Le finestrelle delle scale avevano grate, ma si potevano aprire e chiudere dall’interno, sui davanzali c’erano fiori. Non era una prigione. Oltre le foglie, un dedalo di finestre nel cielo della sera. Per le scale c’era un odore di magazzino, lo sentivo come familiare, anche se non ero mai stato lì. Mi domandavo se quella situazione non fosse per caso un sogno. Era complicato da descrivere, anche perché ero convinto che non fosse il momento di pensare o di descrivere, pur sapendo di non poterne fare a meno. Per consolarmi da quell'io soliloquiante pensavo di ridurre quelle cose - il pensare e il descrivere - a semplici strumenti per arrivare dove ero arrivato. Eppure volevo consegnare quelle pagine al Testo Zero, vedere se sarei stato capace di mantenere la giusta distanza, e soprattutto se sarei stato in grado di evitare di accontentarmi della rapida fotografia di una contingenza: che l’amarsi sia un passo che la vita ti fa fare nella dimensione del sogno. Qualcosa di capace di alleggerire ciò che è pesante e di addensare e rendere concreto tutto ciò che c’è di leggero e di impalpabile. Nel tragitto dalla realtà vissuta a quella sognata, c’era poi un risveglio improvviso, con lo stupore poi nel ritrovarmi a far da bilanciere tra la vita quotidiana e l’assurda mappa dei morti, dei sopravvissuti e dei resuscitati.II-18Laterra, di un ocra chiaro disseccato, era bollente e rimandava nel biancore calcinato del paese un conciliabolo di umori antichi. C'era il frastuono rassicurante delle cicale, la fuga all'ombra, tra gli ulivi, per ripararsi dal sole di mezzogiorno. Rari turisti stranieri e più rumorose le ghiandaie un po' sopra la strada. Cominciavano i pini e il sottobosco era arancione macchiato di bianco, dove filtrava il sole. Tacevamo spesso, ogni tanto incontravamo qualcuno e scambiavamo due parole. Gli altri erano un pretesto per parlare di noi, anche se non volevo. A volte il ritorno dal mare era faticoso, salivamo, e lei taceva ed era in attesa, ero certo che avrebbe desiderato che io parlassi. A volte guardavo noi due con gli occhi degli altri ed ero contento di come apparivamo. E in fondo non ci dicevamo niente, non serviva aggiungere

Che fosse un processo incauto avevo avuto una verifica immediata, una notte che mi era successo di ritrattare tutto solo per una persona incontrata per caso sul treno. E non mi sentivo falso, quello che dicevo mi apparteneva.

La sera si allungava e in lontananza si sentivano dei tuoni. Guardavamo indietro, all’estate, dicevamo di essere stati così, a strappare la terra al mare, a convincerci che niente era stato vissuto per davvero. Ma era solo cattiveria, una specie di salto mortale per far soffrire l’altro. L’immagine è quella del saltimbanco che cade. Incauto, il processo, forse troppo azzardato.

Il vento da mezzogiorno portava quel senso di fine stagione, quando al mare i costumi rimangono umidi e le tamerici cominciano a imbiondire.

La grande luce bianca di quell'estate si ingialliva nell'anticipo dei tramonti. Più che la grande luce erano attraenti i piccoli punti luminosi nell'oscurità. I suoi lati belli. La sua gioia nella sua ambiguità: la ricordavo così, con dei momenti di sincerità gioiosa che sfuggivano anche a lei stessa.

Mi sembravano dettagli da conservare, come quando, rincasando nel pomeriggio attraverso il giardino, nell’ombra immobile dei fogliami verde scuro, cinque piccole corolle di un indaco prodigioso, quasi soprannaturale, sembravano brillare di luce propria e poi, entrando in casa, il suo sorriso mi aveva fatto lo stesso effetto.

40 niente. L’isola ci assecondava: nessun rumore dal continente. C’era silenzio (un bel silenzio, dicevamo) sembrava quasi che fossimo i soli abitanti. E al mattino l’aria era ferma, la prima luce aleggiava su una gran quiete. Da quel giardinetto con le agavi e un fico, attraverso un passaggio a fianco della casa, si usciva nel viottolo; in alto, le case e le muraglie erano già illuminate dalle luci basse, in basso il selciato era azzurro. Camminavo con un bastone. Vicino al semitiepido muro di calce, vedevo la mia immagine riprodotta sulla sua superficie, ma senza la fedeltà dello specchio, con la discrezione dell’ombra, per sommi capi... Nell’ombra, io il bastone e tutte le altre cose, eravamo fatti della stessa materia, l’unica.

il declino dell’estate che si vedeva da quanto le luci si allungavano nel corridoi, mi tornavano in mente le voci, le partenze dell’infanzia: il bagagliaio carico di provviste, gli eventi familiari, come oggetti di casa, riposti negli armadi e poi riscoperti di ritorno dalle vacanze.

VersoII-19

41 C’eraII-20

stato un breve periodo di brutto tempo ma il cuore era stravolto dall’estate, e quel piccolo inverno rosa e grigio spingeva le mie domande verso l’abisso indefinito dell’autunno. Poi era tornato il sole, ma l’aria era più trasparente. La stagione voleva perdurare: nel mio orologio settembre arrivava fino al trentuno. Segmenti si nuvole si incrociavano andando in direzioni opposte. L'ultimo sole, e un incontro inatteso. Le agavi erano esauste, il mare sembrava rifluire portandosi via ad ogni onda atomi di coscienza. In realtà si stava sgretolando per intero quella che credevo la mia coscienza, uno strato che mi ero messo addosso e al quale stavo attaccato come se fosse un nutrimento.Leiaveva preso muscoli alla marinara, li divorava. Aveva una collana di perle, era elegante e austera, ma li divorava. E beveva, prendendo il bicchiere con le mani unte. Il desiderio che avevo di lei mi faceva ridere e trasformava la sua volgarità infantile in libertà e spregio delle convenienze. Poi all'improvviso aveva cominciato a piovere, avevamo sentito le gocce sulla vetrata, avevamo sperato in uno scroscio passeggero invece poi la notte era trascorsa con la finestra aperta. L’abbiamo fatto come in tempo di guerra, aveva detto. Come sapendo che era l’ultima volta. Per un po' c'era stata musica, poi avevamo spento la radio e ci eravamo messi all' ascolto di quell'incessante picchiettare vellutato.

42 IlIII-1AUTUNNOcieloerabianco

scuro, e il mare lungo, color fango. I cancelli delle ville risvegliavano il muschio, nei giardini arrugginiti i cipressi in controluce erano neri. I primi freddi erano come agguati, ero impreparato. C’era una pioggia sottile, camminavo rintanato nel bavero lungo il viale in salita, rischiando di scivolare sulle foglie lucide dei platani. Non stavo bene, avevo improvvisi cambiamenti di stato, fin dalle prime ore del pomeriggio. Quello che stavamo vivendo era necessario. Ci eravamo messi senza difficoltà davanti alla distanza tra le cose che succedevano, così reali e stancanti, e quelle che erano successe solo qualche mese prima. Che tipo di rabbia aveva simulato, di cosa avrei dovuto pentirmi… Non tutto mi era chiaro. Lei mi chiedeva di essere in un certo modo, lo chiedeva, mentre io non le avrei mai chiesto di cambiare, mi limitavo a pretenderlo tacitamente. A pensarlo insistentemente, mentre col mozzicone della sigaretta cercavo di lucidare il fondo di un portacenere di vetro.Alla mattina si usciva presto, c'era tutto il freddo della notte e i prati che passavano dall'ombra al sole cominciavano a evaporare. L’autunno era una fioritura tardiva, eravamo come in terra di frontiera, sapevamo che prima o poi ci sarebbe stato un giorno da giocare, da buttare sul piatto all’ultimo momento per decidere di passare oltre il confine.

RitornavoIII-4 a scrivere, riprendevo gli appunti, li rileggevo. Non misuravano la mia distanza, non era così che volevo descrivere quello che stavo vivendo e soprattutto quello che non stavo vivendo. Questo tentativo era faticoso, così tanto che mi disorientava. La cosa non avrebbe dovuto preoccuparmi: volendo liberare il testo da ogni tracciato non dovevo orientare la scrittura in nessuna direzione, né approdare a nessun risultato che fosse letterario. Ma non smettevo di interrogarmi sulla

mi mancava il mio compagno di banco del liceo, forse era solo il rimpianto di anni più leggeri. Lui era l’intelocutore perfetto. Da ragazzi, andando in biblioteca, attraversavamo affiancati i giardini pubblici facendo frusciare le foglie con dei polacchini identici e parlando di Landolfi, di Bianciardi e di Buzzati con la stessa intensità con cui parlavamo di Provenzali, Ameri e Ciotti.

43 SpessoIII-2

Così dopo anni ritornavo nei giardini dove eravamo stati bambini, ed anche qui dovevo vigilare, evitare accuratamente che quel pulviscolo mi facesse tossire. Ma i ricordi fanno capire che quello che è successo era vero, e sarà vero, anche se nel momento in cui li rispolveri quella verità non è così luminosa. E tutto era lì: gli angoli, gli episodi, i platani, il mulino abbandonato e l'odore dei ricci aperti degli ippocastani.

Immaginavo qualcuno dei sessanta racconti (20) ambientato nella sua casa. Sulle scale c’era una luce strana, antica. Era una casa d’angolo. La nostra era una bella cittadina, l’autunno arrugginiva tranquillamente nei viali e sulle colline, la campagna dettava i ritmi della vita e i cambi di stagione erano importanti.Nonostante la nebbia, i colori delle foglie facevano un intero campionario; tra quelle dei diosperi ce n’erano di perfettamente rosse, di arancioni, gialle e almeno due tonalità ben distinte di verde, poi c’erano i bruni di quelle che cominciavano a seccare Nel sottotetto c’erano le mele appassite, le sbucciavamo col temperino e dicevamo che avevano il sapore di settembre. Un mese simpatico, ma lo temevamo, per via della malinconia che suscitava. C’era il rischio di diventare sentimentali, c’era il rischio di indulgere in confidenze; era lui, il mio compagno, che mi aveva messo in guardia per primo dai compiacimenti letterari.

Lo sfacelo era sotto i miei occhi, man mano che il testo si dipanava; alla fine sarebbe ricaduto in una definizione. In un sogno, dibattevo fin quasi al litigio questo argomento con un illustre cattedratico. Impegnato animatamente nel sostenere la possibilità di un testo indefinibile, mi vedevo come un vecchio pugnace, arrogante, senza alcuna soggezione. Un particolare abbastanza imbarazzante: dopo aver ricevuto un ceffone dal cattedratico senza batter ciglio, gli occhiali mi si sono spostati di traverso sul naso.

44 sua forma, perché gli strumenti di rappresentazione che adoperavo avevano a che fare col risultato. La mia attenzione non si concentrava tanto sulla forma, era proprio il tentativo di eludere ogni aspetto formale. Si trattava di una ricerca impossibile, l’utopia di un testo senza forma.

evidentemente

Ma se c’erano milioni di modi di raccontare una cosa, c’erano milioni di realtà, milioni di replice-varianti della stessa cosa, e questo risuonava quasi come una provocazione o una farsa. Descrivere, definire; quel de suonava come un allontanamento dalle cose: bisognava estrarle dal crogiuolo dove bollivano, isolarle dalle loro relazioni con tutto il resto e in definitiva farle diventare qualcos’altro. E questo non era neanche l’aspetto più preoccupante, dal momento che tutto cambia di continuo. Quello che mi provocava insonnia, a volte addirittura angoscia, era che il linguaggio, oltre ad estrarle e snaturarle, le congelava in una definizione, che poi rimaneva appesa al muro come un ritratto permanente di quella cosa.

GiàIII-5mentre scrivevo, di volta in volta la grafia cambiava, assumeva diversi caratteri, e nessuno mi pareva opportuno, perché la scelta della grafia mi restituiva già una chiave di lettura. La macchina da scrivere rendeva il testo uguale a tutti i testi precedenti e non riuscivo quasi più a sentire il suo rumore. Ma questo era niente, era solo una metafora di un fatto più grande: vedevo situazioni, che non erano assolutamente problemi, ma che diventavano problemi quando qualcun altro doveva esserne informato. Quando dovevano essere raccontate. Questo avvalorava dentro di me l’idea che fosse proprio il linguaggio a infilare qualcosa di problematico nella realtà. A renderla completamente, sostanzialmente diversa da come avrebbe potuto essere. Dare definizione alle cose; anzi, di più: tirarle fuori dal niente, evocarle battezzandole e chiamandole per nome.

Cominciavo a considerare il fatto che ogni idea, ogni posizione che avevo assunto non fosse altro che un frammento colto al volo in un turbinìo di coriandoli: pezzi di discorso copiati nella mia coscienza, cosa della cui esistenza non ero assolutamente certo.

Con un estremo paradosso chiamavo queste cose “prese di coscienza” e subito il paradosso mi si mostrava come uno schema in cui le parole si rincorrevano, così come i lapsus si palesavano come incroci tra il pensiero e la MaIII-7scrittura.proprio mentre cercavo di esercitare la coscienza (ciò che io ritenevo la mia coscienza) era come se la coscienza stessa si sottraesse per spingermi verso gli errori tipici dell’oblìo. Dopo un interminabile spettacolo teatrale ero andato a cena con alcune persone, c’era anche lei, e mi guardava come una sconosciuta. Era alla fine interessata perché era un rapporto intellettuale, avevaAvevamodetto.

Dopo avere fatto mentalmente un compendio di ciò che io sapevo sulla coscienza (quella dei Greci, in cui l’anima interroga se stessa sulle cose del mondo, poi la vigilanza e la guida della coscienza cristiana, la consapevolezza di Gurdijeff, un pasticcio di concetti dell’ Oriente, e anche il crollo della mente bicamerale) e anche dei tanti significati riferiti all’enunciato “coscienza”, mi esplodeva davanti una domanda: che cos’è per te la coscienza? Era evidente che non mi ero mai posto la domanda. La mia idea di coscienza si era formata leggendo e trattenendo qualcosa. Forse la coscienza non esisteva affatto e qualcuno mi aveva addirittura convinto a darla per scontata. In sostanza non ne sapevo niente. La stessa cosa si sarebbe potuta dire per centinaia di altre cose che pensavo di conoscere.

poi passato la notte insieme, neanche troppo incuriositi, senza capire niente l'una dell’altro, né della nuova situazione, se non che si trattava di un confronto. Io non volevo nessun confronto, nessuna sfida, ma ero caduto in un ring. Sembrava voler sbrigare rapidamente le faccende del letto

45 L’assiduitàIII-6

delle parole che si proferivano nelle interminabili serate di peregrinazione da una casa all’altra erano spesso sequenze di argomenti sui quali nessuno sapeva tacere. La realtà, la libertà, la psiche, la coscienza. Proprio discutendo sulla coscienza mi era capitato di parlare e poi di chiedermi quanto mi appartenesse quello che avevo detto.

Era già buio, piovigginava e le persone camminavano in fretta. Nel viale, un ondeggiare di tergicristalli e di fari accesi in attesa dei semafori aumentava la concitazione. Lei sorrideva, la pioggia le piaceva; aveva un bel soprabito color ruggine e le scarpe col tacco, il marciapiede era lucido di pioggia; ad un certo punto si era fermata a guardare qualcosa di scuro sotto i suoi piedi, avrei giurato che stesse calpestando un serpente, come la Vergine nei dipinti sacri. Uscivamo dal cinema a settembre e tornando a casa, proprio grazie a lei, sentivo che era ora di uscire dal sembrare, da quell'eterno darsi senza dare. IlIII-8silenzio intorno a me aumentava. Questo aumentava la mia dimestichezza con l'evasione interna (l’avevamo chiamata entronautica), con i viaggi in treno, con i lapsus, che da atti mancati si erano trasformati in propulsori di fuga. Una specie di evasione dal discorrere, una condizione permanente capace di portarti via dagli scenari conosciuti e spingerti lontano dalle abitudini.

Rimanevo sempre un po’ calamitato. Era seducente, mi ritornava evidente il motivo della mia attrazione: quella vocazione che certe persone hanno per essere amate. A grandi linee apparteneva a quella schiera, la volevano in tanti. E a proposito di vocazioni, una sera mi disse, in tutta sincerità: ecco, vedi, io devo rimanere con te, non avrei giustificazioni, non potrò mai avvicinare altre persone, né calcare altre strade, tutto qui è così familiare, anche se siamo intossicati l’una dell’altro.

Si beveva qualcosa prima di far tornare i conti, ma perché far tornare un conto alla rovescia? Perché fare il bis di un funerale? Dov’ero io non

46 per poter intavolare un altro dibattito e vincere. Io invece ero interessato ad un affettuoso silenzio, oppure un dialogo di complete assonanze, come per ricostruire quello che era successo le altre volte. Restammo delusi. Ti immaginavo diverso, diceva. Io invece speravo in qualcuno che non amasse fabbricare problemi. Mi accusava di essere vittima di un ruolo. Lei era molto preoccupata del suo. Mi sembrava che andasse tutto per il verso sbagliato, ma lei insisteva perché ci rivedessimo, c’era di mezzo il Testo Zero, che lei teneva in ostaggio.

La chiave per uscire da quelle vecchie camere era lì, a portata di mano: il ritorno alle vecchie aspettative, sommesse indiscrezioni antidiluviane che saltavano fuori malamente. “Vuoi qualcosa da mangiare?”

47 c’erano urgenze, non c’era partenza, né ritardo, né attesa. Invece, lei mi sollecitava, mi faceva continuamente presente che anche domani si sarebbe dovuto ricordare, conteggiare, prevedere, forse anche prenotare qualcosa e questo mi provocava un vero fastidio, come quando nella vita vedi un difetto intrinseco e non puoi farci niente. IlIII-9giardino

AvevoIII-10 in parte scoperto la solitudine, quella condizione che ti costringe a confrontarti con le regole naturali, a vivere l'atmosfera fabbricata dal mondo senza che nessuno possa trascinarti nelle sue rappresentazioni.

L’inquietudine leggera, il senso di inutilità, quella strana sensazione di dover fare qualcosa e non sapere cosa, si sgretolavano rapidamente appena cercavo nuove parole per descriverle. Mi sentivo, con un certo compiacimento, come uno in fuga, un rifugiato, quindi sempre abbastanza attento. Non avevo paura, anche se percepivo qualcosa di insidioso fuori dalle mura domestiche (Nel sogno, i cani saltavano dai ballatoi, dopo avere abbaiato a lungo in direzione del buio). La radio trasmetteva in una lingua sconosciuta, ma era confortante.

davanti alla casa era coperto di foglie, si sentiva qualcuno rastrellare e forse in fondo alla cancellata si intravvedeva una figura nella nebbia che si muoveva ritmicamente. Il mosto aveva finito di fermentare, dalle cantine usciva odore di vino; si mescolava all’umido della terra che trapelava da un tappeto di foglie di robinia. Ormai veniva buio presto, alle cinque le ombre della sera si mangiavano le strade e le macchine accendevano i fari. Sulla strada alta si sentiva una strombazzata di clacson e la figura nella nebbia smetteva di rastrellare e si avviava ad aprire il cancello. Io puntualmente pensavo che per nessun motivo al mondo mi sarei fatto aprire il cancello da qualcuno. Certe volte mi accadeva di pensare che tutte le mie limitazioni derivassero da lui, dall'uomo del clacson. Ormai non proibiva più, non minacciava più. Si limitava a togliere il piacere da ogni cosa. Era come se non potessi mai prendermi tutta la libertà che avrei voluto, e non riuscissi ad andare fino in fondo nelle cose. Ma ormai mi era anche evidente che lui non c'entrava più. Si trattava di qualche figura arcaica dentro di me, una specie di uomo del clacson trasfigurato e privo di sfumature che avrebbe continuato a farmi sobbalzare con il clacson.

Non riuscivo a dormire. Stavo male, e il vento tormentava incessantemente le persiane. Era un tempo vecchio che tornava, mi assaliva, che veniva su dal porto, come quella volta che c’era stata nebbia dal mare e la città era trasfigurata. Non era vero che gli altri non c'erano: i ricordi mi inseguivano continuamente, e avevano quasi sempre forma di facce, di persone, qualche volta anche luoghi. Ma sotto ognuno di loro c’era come un clamore lontano ma potente: le cose vissute, ormai inafferrabili eppure sempre lì, visibili appena con la coda dell’occhio.

48 Mi sentivo tollerante verso le mie incapacità, sorridevo indulgente mentre mi preparavo il caffè in cucina, come si sorride ad un bambino che non riesce ad arrampicarsi. Lo stupore poi quando mi ritrovavo improvvisamente, di notte, con l’insonnia che era l’impossibilità di nascondermi a me stesso.

AIII-11unseminario

sul colore avevano parlato della luce visibile ma non del buio, non di quel nero, prima che la lunghezza d’onda raggiunga i trecento novanta nanometri circa. Quanto era profondo quel buio? Quante erano le frequenze che sfuggivano agli occhi? Nella lezione avevano mostrato un occhio ingrandito con l’iride e la pupilla al centro, che sembrava senza alcun dubbio la bocca di un vulcano aperto su un abisso. La città mi ruotava intorno, ero come un perno. Seduto al tavolino di un bar, sotto una tettoia, notavo con sollievo che la penombra mi circondava ancora. Il perno era invisibile al mondo circostante, grazie a dio. Mangiavo una brioche, bevevo il caffè, fabbricavo tutto quanto, tirandolo fuori da quel nero. Per un attimo i sospetti sembravano aver forzato la realtà; si erano insinuati in modo così pervicace nelle mie idee da essersi trasformati in convinzioni.Mapoi, tornando nella stanza d’albergo, la porta ai piedi del letto, la volontà forse rimasta chiusa fuori, mi rendevo conto d’aver perso l’allegria, senza drammi né disperazione, con l’impassibilità della morte.

PrendevoIII-12 atto, senza dolore né sofferenza perché tutto era solo pensiero; mi veniva voglia di credere che la redenzione e la pace fossero il premio a quella insinuante sofferenza presente nei miei pensieri, ma ero costretto a constatare che il pensiero registra, non soffre. Dunque facevo continuamente i conti con qualcosa che non era pensiero, e con quella cosa guardavo

EraIII-13passato

già un tempo enorme da quando avevamo abitato la vecchia casa. Io ci avevo dormito soltanto qualche settimana, ma mi sentivo più a casa lì che in qualunque altro posto. E mi piaceva quell’immane senso domestico e antico che mi pervadeva ogni volta che entravo. Era accogliente ma anche terrificante, piena di anfratti, di stanze passanti, di angoli nascosti in cui quand’ero stato un bambino avevo intravvisto presagi e presenze spaventose, ma più di tutto momenti di silenzio sospeso, con tutti quei rumori delle case antiche: acqua che scorre nelle vecchie tubazioni, scricchiolii ingiustificati e qualche volta tonfi nella rampa delle scale. Ricordavo quella sospensione, precisamente quella sera in cui si guardava quell’angolo del muro non del tutto illuminato, e lei diceva qualcosa di ambiguo e continuava a fissarlo, facendo serpeggiare qualcosa nella stanza che si allargava e lievitava a dismisura. Era come essere in attesa di qualcuno o di qualcosa oppure come quando si sta per partire. Avrei potuto riempire quel vuoto di parole, come al solito, ma in fondo preferivo ascoltare.

49 le persone all’uscita della stazione. Sembravano uscire con esitazione: arrivavano per scelta, per obbligo, per caso, in quel pomeriggio feriale di fine settembre, con i platani già ampiamente ingialliti e la città senza ombre. Andavano senza fretta, ognuna di loro aveva diritto al dialogo, ognuno di loro portava il mondo sulle spalle. Nel viale c’era il bar, un'oasi nella nebbia, le luci, la segatura bagnata sul pavimento e quel calore umido che si sentiva entrando. I fraseggi sentiti dal bancone erano solo un enorme brusio anonimo e incessante. Ma lei aveva un bagaglio teatrale di movimenti strani, di frasi troncate sul nascere, da offrire nei caffè e in ogni angolo frequentato della città, in modo da essere sempre in qualche modo notata. Su questi presupposti passavamo periodi di analogie, contratte solitariamente, e con scarsità di particolari. Al riparo dal mondo che le piaceva tanto, con le luci accese e una moltitudine di verifiche per ogni ruolo passato, lei diventava un’altra. La guardavo diventare lucida tra i marmi bluastri del bagno di un Grand Hotel e pensavo che mi piacevano davvero le cose che sceglieva per me. Tra tutte quelle che non avrei mai voluto fare, erano le più belle.

50

AlcuneIII-15 volte il ritmo si faceva più lento e saliva senza bisogno di pretesti, diretto da chissà dove. Non sapevo niente di quella sensazione: qualcosa che stava aumentando, come una scossa abissale che portava in superficie detriti incagliati sul fondo. Certe cose venivano a galla, ce n’erano di piacevoli e di sgradite, ma quell’emergere improvviso era comunque molesto. Pensavo che quando si nasce ci si sarebbe dovuti sentire come me, un fastidio per tutto, anche per cose belle come la luce, per esempio.

SiIII-14passava

da serate piene di incontri, di persone (nessuna di loro mi era indifferente), ad attese interminabili e tentativi interminabili, nelle vie apocalittiche dove la gente assediava la gente. Sempre in bilico tra agire e sottrarsi, disperdendo la mania di distinguere tra cose e opposti delle cose, facendo morire e rinascere tutto nell’identità. Questa almeno era la scusa, la giustificazione. Nell’unico attimo di faccende domenicali, inciso da un sole novembrino tagliente alla finestra, tra i rami macchiati e le ultime foglie dei platani, folate di vento identiche al passato: stavamo vivendo un’ennesima domenica di sole dentro la città silenziosa, coi bei palazzi illuminati e un miliardo di facce, di consultazioni, di vittime contemporanee. E tra le altre, la mia faccia, contratta, riflessa nel televisore; pensavo: finalmente una faccia contratta nel televisore invece dei soliti idioti ammiccanti. Le notti passavano inermi sul cambio di stagione, l’acqua calda sibilava nei caloriferi e in genere non avevo sonno. Al risveglio la casa era fredda; scendevo al bar, e dopo un breve dialogo con un Signor Chiunque, piccoli segmenti di voce, una morte nel mattino.

C’erano domeniche pomeriggio piovose, passate in macchina a girare per le colline, era terribile. Ero completamente cieco, vedevo solo la sua vacuità e non mi rendevo minimamente conto che era semplicemente attesa. Ma io ero un nulla, solo molto chiassoso. Lei non lo sapeva, e di preciso non lo sapevo neanch’io, anche se qualche sospetto aveva cominciato a serpeggiare. Ma più di tutto: non riuscivo a vedere la sua immensa bellezza, che aspettava solo qualcosa da me per essere evocata. Volevo la mia redenzione, e fingevo di lottare per la sua. Così già il pensiero andava al dopo, alle altre case che l'avrebbero vista sdraiata sul divano oppure camminare allegra e nervosa come succedeva lì, in quel momento, che sapevo già che sarebbe diventato un ricordo. Rapporti interrotti, come per smettere un vizio. E dopo pochi

Allora mi concentravo sulle premesse. Pensavo che avrebbe potuto essere utile non farmi delle domande, così le premesse (una dichiarazione di intenti che poteva giustificare una introduzione) si intrecciavano già con il testo stesso, e la premessa che formulavo nella mia mente era già veramente il centro della mia scrittura.

51 giorni tutto era già ricordo e tornavo lì a cercare i suoi oggetti dimenticati, a ricostruire, pur volendo dimenticare. C'era una vera nebbia luminescente intorno a lei, così diversa da un colpevole e in tutto somigliante alle verità fastidiose.III-16Conquel

AIII-17volte mi sentivo a un passo da quella dimensione in cui finalmente le parole che scegli per pensare decidono la qualità dei pensieri. Come quando c’è una banconota sul marciapiede e il vento te la sta portando via, mi sembrava quasi di essere riuscito a mettere un piede su quel pensiero poetante di cui diceva Heidegger. Quel pensiero però non amava essere bloccato e men che meno schiacciato sotto un piede.

cumulo di discordia con me stesso che mi rendeva incapace, periodicamente mettevo mano al Testo Zero. C’erano i fatti, ma diventavano irrilevanti, era una continua lotta con il linguaggio. In verità più che una lotta a volte era una copula. Passavano domeniche interminabili, trascorrevano nell’ozio senza colpe, dopo le investiture. Mi concedevo di scrivere senza giudizio e di nuovo tornava fuori la mia presunta creatività (era uno specchietto per le allodole, e tra le allodole ero compreso anch’io); e io mi detestavo perché non riuscivo a superare quella porta, che era soltanto un gioco di Qualcunoprestigio.era dell’opinione che non ci fosse porta, e non c’era modo di saperlo se non attraversandola. In dubbio, poi, su come individuarla; il dubbio permaneva, ed era ormai tardi per aprire a chi bussava. Così uscivo nella strada al pomeriggio, in cerca di una definizione che fosse in qualche modo un nemico vero, qualcosa contro cui schierarsi. Mi guardavo le mani come un pilota a cui avevano tolto il volante. Scrivere per me era facilissimo, ma cambiare punto di vista e andare oltre la mia banalità era difficile. Addirittura impossibile, perché ero io, ad essere banale; ne avevo le prove.

Camminavamo sulle murate della città avvolta in quella luce opaca, eravamo silenziosi e in quel silenzio c’era qualcosa di eroico. Andavamo compatti verso la fine, consapevoli del fatto che ogni fine è l’inizio di un’altra cosa.III-19Tornavo

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dell’inverno si aprivano su giornate caliginose, c’era un vento tiepido che spargeva la sabbia del deserto. Camminavamo insieme nel pomeriggio, per andare a cena a casa di qualcuno. C’era qualche amico, qualche conoscente e c’era anche lei. La città era avvolta na una foschia luminosa color zolfo. Le nuvole erano ocra con sfumature grigie e arancioni. I palazzi lontani, sbiaditi in quella vaporigine opalescente, erano rettangoli giallo canarino. Le montagne sembravano di corniola, e le loro ombre erano del colore dell’aria. Il mare era grigioverde come nelle incisioni seicentesche.

a casa, una scrostatura nell’intonaco delle scale aveva la forma dell’Africa. Il cane del piano di sopra abbaiava ogni volta che partiva l’ascensore. Alla radio dicevano che a New York l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva firmato una convenzione per eliminare la discriminazione verso le donne. Le grandi conquiste dell’umanità e alcuni miliardi di storie specifiche che sarebbero rimaste identiche. Nonostante la vita fosse piena di accadimenti e la mia interiorità fosse una centrale atomica, non riuscivo ad agguantare un pensiero vero, qualcosa che fosse degno d’essere scritto.

LeIII-18porte

Periodicamente tornavo alla casa, quella che per me ormai era la casa, e tentavo una lettura superiore del mio territorio, che non difendevo più perché era anche suo, c’era stata anche lei, che adesso era poco più di cenere, nel dilagare del buio che la avvolgeva. Pensavo a lei facendomi del male in un modo che, tra l'altro, non poteva essere rivelato agli altri, ai quali al contrario dovevo trasmettere un entusiasmo un po' ironico. Chi mi avesse scoperto, avrebbe avuto la chiave per riscattare le mie malefatte tutte insieme, farne un bel mazzo e gettarle via, nel passato dove erano state commesse, liberandole da quella forza attiva che nella mia esistenza diventava senso di colpa.

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Volevo governare lo scritto, essere veramente il guidatore. Non vedevo altro che questo: tutto ciò che avevo scritto (quindi a ragion di logica anche vissuto) risultava falso, scritto in stato alterato, quando si soggiace a quei particolari stati d’animo che fanno da traino alla scrittura. Non vale solo per la letteratura, anche per gli articoli tecnici e i saggi. Adesso invece tentavo di scrivere senza passione, e questo era un peso. Ma confidavo nella mancanza di idee: il non avere niente di bello né niente di brutto da dire, il non aver niente da dire era forse un modo per ripartire da zero.III-20Lacittà in alto diventava diversa, le funicolari mi portavano altrove. Appoggiato alla ringhiera guardavo le luci delle macchine in movimento verso il punto in cui il sole era tramontato. Il fermento di quella katopolis di tetti blu e di luci che si rincorrevano; e dietro, le pallonate degli ultimi bambini rimasti a giocare sulla spianata alla luce di un lampione. Anch’io stavo sulla piattaforma del mondo, mi muovevo con lui. Stavo in fondo rassegnandomi a vivere, con le luci delle insegne intermittenti, le decine e decine di balconi e terrazzi incastrati tra le ardesie dei tetti e le finestre delle cucine tutte accese, con il vapore dentro e i vetri appannati. Anch’io stavo abbandonando le grandi domande e mi stavo concentrando sul linguaggio con cui formularle. Era come se avessi da qualche parte un vago sentore del senso e dall’altra parte la sua condanna, che è quella di venire espresso. Mentre scendevo, poi, verso la città vecchia, avevo quasi paura di incontrare qualcuno per il rischio che mi distogliesse da quel crinale sul quale, anche se infelicemente, stavo in equilibrio. In sottofondo, un pensiero quasi costante, una domanda sempre presente che riaffiorava come un urlo quando succedeva qualcosa: se da qualche parte, a qualche livello sovramondano o di superpensiero esistesse una risposta capace di rendere ragione dei fatti. La comprensione, la conoscenza certa e incontrovertibile delle cause e degli effetti del divenire, un sapere sapere che si potesse stabilire su fondamenta certe riguardo alle ragioni degli accadimenti.

UnaIV-1 sera, da solo in una trattoria, ci avevo messo un bel po’ prima di riconoscere la mia immagine riflessa nella vetrinetta delle portate. Per un po’ avevo continuato a guardare di sottecchi un altro, seduto a un atro tavolo. Ed avevo provato il solito senso di soggezione misto ad una sospettosa antipatia che provavo per quasi tutti gli estranei. Non c'era ormai dubbio: ero un altro. Ero diventato qualcos'altro, qualcosa che per essere interpretata, con tutto il suo pregresso, avrebbe avuto bisogno di tutti gli anni a venire, e senza alcuna certezza del risultato. Era un momento in cui gli altri vengono usati senza pietà per capire se stessi. Avrei dovuto vergognarmene, e invece la sentivo piangere nell'altra stanza e pensavo ancora ad un concorso di colpa. Io nel frattempo avevo radunato e rivisitato tutto, le diversità, i motivi apparenti, ovverosia i motivi. Avevo riascoltato i suoi passi nel susseguirsi delle piazze a Padova, alla fine dell’estate. Ma non ricordavo se mi seguiva o se mi precedeva. Non riuscivo a capacitarmi di come la passione avida e supplichevole che avevo avuto per lei avesse potuto trasformarsi in quel rifiuto color fuliggine. Guardandola il mio sguardo non riusciva a trovare più niente su cui soffermarsi (a parte la gonna di tela color sacco).

54 IV - INVERNO

55 AncheIV-2

L’immagine sulla copertina mi aveva trasportato per la prima volta nella intensità delle evocazioni di qualcosa che non si conosce ma che ci appartiene. una figura femminile con un cappello verde che camminava in una strada deserta. La donna portava in mano un cofanetto o una borsa fatta a bauletto. Ma erano i colori, la luce dell’immagine, a provocare dentro di me qualcosa che era un rinvenimento più che un ricordo. Nella via, i palazzi proiettavano la loro ombra sulla strada e sulle facciate dei palazzi antistanti. Il cielo era verde scuro. La strada illuminata dal sole prima di un temporale era la via in cui abitavo e l’echeggiare dei tacchi della donna sul selciato era prodotto dai passi di mia madre, glorificati dalle luci schiette del ricordo, la sensazione più antica.

i ricordi potevano finalmente essere affrontati, forse, uscendo fuori da quegli amplessi nostalgici, come quello che mi riportava di frequente alla cucina della mia infanzia, agli odori domestici, alla casa di vacanza dove mia madre era stata felice. Ero in una società. In una famiglia. Vivevo un intreccio di rapporti e di relazioni. La casa era un abitare perpetuo, un andare perpetuo per la casa. Stavo a letto, sentivo le loro voci. I rumori dalla cucina, di gente che sbatteva stoviglie. Potevo sentire quasi tutto quello che dicevano come se io non ci fossi stato. Poi, ad un tratto, abbassavano la voce come se sapessero che le stavo ascoltando. La casa era moderna, costruita da poco. Persone sedute sui divani nella luce di pomeriggi festivi, che entrava dalle tapparelle un po’ abbassate. La luce fuori, che si intrecciava con il ricordo: non un fatto, piuttosto una memoria che si confondeva anche con la copertina di un libro (18) che avevo trovato da bambino in un baule, tra le cose di mia madre ragazza.

Rappresentava

FinoIV-3 a pochi anni, forse pochi mesi prima, ero rimasto interessato a quel perché che è all'origine del nostro argomentare, scaturito chissà dove. Eravamo ragazzi qualunque, ma dopo aver fatto uno scherzo a un compagno o una rissa durante una partita di pallone, ci si chiedeva: perchè?. Non sapendolo, ci si occupava dell'ente nella sua totalità. E in quest'ente (in quest'ente, non su quest'ente) qualcuno si era preso la briga di andare alla ricerca di ciò che più conta. O forse, andando alla ricerca di ciò che più conta, si era imbattuto nella necessità di occuparsi dell'ente nella sua totalità. Ciò da cui nulla può essere

56 fuori, che ovviamente non significa che il nulla sia fuori da quest'ente, ma che tutto ciò che è, è compreso dentro l'ente. Il tutto è tutto e il nulla è nulla. E allora, che cos’era quel silenzio nella casa vuota con l’acquaio pieno di piatti da lavare, il rubinetto che gocciolava e le voci di gente che litigava giù per strada, come se tutto, ma veramente tutto appartenesse al mondo là fuori e dentro non fosse rimasto niente? Qel vuoto poteva essere detto, in qualche modo. Il nulla spariva, privato del suo statuto ontologico. Mai come in quel momento mi sembrava che il linguaggio venisse in soccorso dell’umanità. Ma nel percorrere tutti i magnifici enunciati che comparivano come cartelli stradali lungo queste strade, e soprattutto ai capi estremi di queste strade, ad un certo punto, i messaggi sono risuonati come voci nell'aria. Erano enunciati provenienti... da dove? Chi parlava? Quale bocca descrivesse tutto ciò, con quale occhio guardasse: tutto diventava insormontabile. ConIV-4 una rapidità imprevista i gesti domestici (le chiavi nella zuppiera sul mobile dell’entrata) diventavano un’abitudine; mentre vedevo aumentare la mia dimestichezza sperimentavo un piccolo trionfo.

Erano passati pochi anni, ma era il clamore dei trascorsi a rimettere insieme la mia identità, compresa quella di quel lungo periodo glorioso in cui la mia identità non aveva neppure una vaga idea di sè. Erano folate bizzarre di anni senza destino, ricordi confusi, briciole di annate scalze, di luci intermittenti e lontane, oltre i campi di granturco dopo il tramonto.

La stanza era vuota e avrei voluto provare il fastidio per le loro voci. Ricordavo senza un sentimento preciso la casa, le serate con la famiglia riunita. Tutte le preoccupazioni, le infinite istruzioni, la moltitudine di opzioni, di dettagli, di possibilità, di conseguenze, di percorsi, di controlli, di collegamenti, di conflitti del gioco.

L’enorme fotografia e il suo colossale rumore di fondo ci sommergeva tutti. Luoghi, situazioni e persone: un segnale continuo nel ventre della casa.

Nell’unico attimo di faccende domenicali inciso da un sole novembrino affilato alla finestra, passavano folate di vento identiche al passato: un’ennesima domenica di sole dentro la città che si animava di un miliardo di facce, di consultazioni, di vittime contemporanee. Ma direttamente dal tempo, con mosse irrevocabili, arrivava ai bordi della casa tormentata dal vento una memoria che non riconoscevo.

Un’annunciazioneIV-5

Forse si generava lì la mia antipatia per chi cercava una gratificazione nello scrivere. Era venuto il momento di faticare, di imparare come se fosse nuovo un linguaggio più antico, rimuovendo strati e strati di corteccia. Ma

57

Ero di nuovo contro questa ipotesi e di nuovo pensavo alla fatica come unica strada possibile per arrivare in un posto difficile.

Una solitudine senza situazioni, la casa dimenticata, la paura di dimenticarla, di dimenticare quella fotografia della mia famiglia. Noi asserragliati in casa. Fuori, un sorriso notturno.

continua, con cedimenti e riprese, tanto da non incoraggiare e non deludere. Il ricordo, o comunque un’idea presunta del passato.Aquell’ora

la casa veniva avvolta nell’ocra della sera, dai finestroni entrava la luce diretta del sole e passava da una camera all’altra, le porte si accendevano di bagliori triangolari. La immaginavo a piangere nella stanza in penombra, magari pensando al gesto che ci aveva divisi. Non c’era rivalsa e non avevo un’opinione. Quando la pensavo, la immaginavo con uno sguardo torbido, che poi nella realtà non trovavo mai. Non faceva molto freddo e verso sera in campagna c'era un po' di foschia che rendeva il sole opaco. In lontananza si sentivano dei cani abbaiare e fuori dalla finestra la sera scendeva dappertutto. Per un po’ tutto diventava color ruggine, prima del buio. Se si apriva, l’odore della notte entrava in casa in anticipo, sapeva di muschio e di ferrovia. Seduto dentro, con le luci spente, dietro le braccia nere dei pioppi vedevo la luce cremisi diventare viola, poi nera. Mentre la pensavo, mi sorprendevo aggrappato ai braccioli del divano, come se il suo pensiero potesse letteralmente portarmi via.

QuandoIV-6 scrivevo libero da doveri e obiettivi era un avventurarsi liberatorio. Riuscivo a farmi portare dalla materia che stavo usando per essere condotto dove dovevo andare, (dove presumevo di dover andare) quasi indipendentemente dalla mia volontà. Non andava più bene, cominciavo a detestare quel compiacimento, che allora chiamavo lasciarsi trascinare dalla corrente. Era molto difficile abbandonare l’idea che la conquista non fosse più (già da tempo) quella di raggiungere una vetta ma piuttosto di lasciarsi scivolare giù dalla vetta dove ognuno crede di essere collocato.

un desiderio di lasciar da parte delle coordinate, come una voglia di non saper tornare. Chi diceva: perdersi vuol dire trovarsi. Oppure: se sei con te stesso, non puoi perderti. Ognuno di questi enunciati perdeva la sua verità appena si fissava in una frase e veniva proferito. Succedeva con qualsiasi enunciato. Quel participio passato rendeva irrevocabile la cristallizzazione. Il linguaggio diventava la fine del significato. Era un epilogo nel tragitto del senso.Nell'insieme, in quel turbinare di sensi inespressi che non volevano prendere forma, suonava il telefono. Rispondevo in modo distratto. Dopo tanto sproloquiare le frasi mi davano inquietudine, le vedevo scomporsi e ricomporsi con un diverso ordine (un ordine diverso), vedevo lo stesso enunciato cambiare significato a seconda dell’accento che si poteva porre su ogni singola parola. Le avevo detto: io penso che tu sia la più desiderabile del mondo in tanti modi diversi e lei aveva sorriso, ma il contenuto era distante.

C’era invece ben presente la struttura del linguaggio, i miliardi di connessioni, di registri, di inflessioni. Spesso con la febbre facevo dei sogni in cui mi confrontavo con strutture mostruosamente complicate, e in genere il mio ruolo era quello impossibile di mettere ordine.

Così scoprivo una specie di fascino dell'arrendevolezza all'ingovernabile. Avevo paura che diventasse troppa, ma mi confortava l'idea di potersi perdere, la possibilità di oltrepassare un limite dal ritorno incerto. Di fare ogni tanto un gesto definitivo.

58 guardando i platani freddi, le saracinesche che scendevano e il traffico della sera che aumentava, le decine di automobili in cerca di parcheggio, il freddo e il lungo elenco di cose da fare, la tentazione era quella della rinuncia.

C’eraIV-7

Con un pretesto qualunque uscivo nella città buia con i vecchi muraglioni color blu di Prussia per la luce della luna invernale e gli ultimi clienti nelle rosticcerie.Guidavo,

più che altro vagavo per le strade del centro, un venerdì sera. Enorme da attraversare, la città di notte; una processione di finestre sconosciute e una moltitudine di pensieri, il nostro incontro, lo stesso luogo traslato nel tempo, diversissimo. La luce giallo-arancio di un lampione, una macchina mi lampeggiava nel retrovisore. Ero quasi fermo, con gli occhi spalancati per vederci meglio, mentre viaggiavo di notte su quella in un tempo era stata la strada di casa sua, con la partenza che sembrava enorme, e l’arrivo minimo, quasi insignificante.

caso era difficile da comprendere. La scrittura sembrava ancora solo un esercizio letterario. Anche totalizzante, ma lontano dalla consapevolezza di essere un determinatore della mia esistenza. Ero convinto che si trattasse di un semplice resoconto. Allora dicevo semplicemente: così adesso sono qui. (il motivo, talmente banale, da rendere evidente l’altro, quello vero, non dichiarato). Ero lì in un modo diverso da come c’ero prima. Così, più tardi, in altre condizioni e con animo rigenerato, tornavo da solo a ripercorrere le scale dove avevamo abitato. Il lambrino di bucciato grigio, la graniglia dei pianerottoli. Non c'era nessuno, ma mostravo noncuranza, svogliatezza o qualche altra forma di distacco per convincere me stesso che niente mi fosse indispensabile. Scendendo le scale avevo incontrato una persona. Al suo occhio poco esperto, da visitatore importuno del condominio, tutto rimaneva impenetrabile. Invisibili anni e anni di impossibili azioni comuni, mescolate e associate nell’assurdità del presente, di quel pomeriggio coi tuoni, la pioggia in arrivo e il cielo con la luce del neon.IV-9Efinalmente

notavo quella vaga stanchezza nel parlare di me, e in una serata tesa, mente il grecale sbatteva le persiane e fischiava negli infissi, forse un po’ ubriaco, le dicevo chi ero, con tutti i dettagli possibili, soltanto per convincerla a dirmi chi fosse lei. Ma mentre parlavo sentivo la falsità delle parole con cui avevo conservato dentro di me i racconti, e sapevo che alla fine avrei dovuto consegnare la mia sincerità al silenzio. Ero gioviale, loquace, qualcuno diceva addirittura brillante, ma io vedevo la tavolozza di quei bagliori come un catalogo commerciale di toni di voce, un menu di registri come ruoli a seconda dei contesti; finzioni.

59

Dunque il sistema c’era. E mentre gli antinebbia tentavano inutilmente di perforare quella coltre bianca e viaggiavo nel nulla, senza sapere più dove eravamo, sentivo come una specie di sicurezza confortante. Mi perdevo, con la mia stessa forza, nella nebbia. Mi perdevo, e a fianco qualcuno cercava disperatamente cartelli che apparivano all’improvviso da quel silenzio bianco e imprecava per l’incertezza della strada.

InIV-8ogni

60

LoIV-10stesso

LavorareIV-11

problema (a volte un semplice inconveniente, altre volte un handicap) che avevo scrivendo. Quindi andavo alla ricerca di qualche via umida, possibilmente in discesa, dove scivolare verso un punto di vista più largo. E scoprendo le strade dell’entropia, per cui ero forse predisposto, arrivavo alla percezione netta di scrivere su uno specchio, vedevo riflessa la mia immagine al negativo: una specie di scimmione nero, che scriveva con la mano sinistra, parole capovolte, antiparole. A quell’epoca non pensavo certo che potesse essere qualcosa di atavico o di primordiale. Mi venne immediatamente l’idea che fosse il pensiero. Che il pensiero fosse qualcosa di feroce che tratteneva il linguaggio. Il linguaggio non conteneva in sè solo gli strumenti per fabbricare il pensiero, ma anche per emanciparsi dal pensiero e superarlo, senza correre il rischio di finire nella pazzia. Emersa dal groviglio dei secoli, una voce mi guardava tacendo. Era testimone di una saggezza ancestrale, mi faceva sentire insignificante e vacuo; mi vergognavo di essere mortale. Aveva una specie di magnitudine che mi riscaldava mentre mi terrorizzava. Avrebbe potuto divorarmi; non lo faceva soprattutto per disinteresse. Eppure c’era qualcosa di amichevole nel timbro, che sembrava femminile, ma molto antico. Non capivo cosa dicesse, ma il tono aveva la tristezza di un amore millenario. Poneva quesiti senza formularli ed elargiva risposte silenziose a domande mai poste.

al Testo Zero era talmente difficile che contemporaneamente dovevo inventarmi qualcosa che mi lasciasse scrivere. Sospendevo, e mi mettevo a scrivere un racconto giallo, una storia buffa per la radio, un testo parasemantico giocato su assonanze e allitterazioni, oppure il solito sproloquio che inseguiva il flusso di coscienza e alla fine qualcosa di interessante restava. Le parole uscivano senza ritegno; e quando avevo vuotato il sacco da tutto quell’inutile mormorio che deliziava di volta in volta le vecchie signore o i giovani intellettuali, tornavo a rimettermi davanti al Testo Zero, liberato dalle parole su cui si appoggiava il senso e alla ricerca

Adesso avevo davanti lei, la persona più cara. Volevo essere sincero ma mi rendevo conto di non saperlo fare; per risponderle, ero alla disperata ricerca di una parte, di un ruolo da sostenere, e sapevo che comunque sarebbe stata una falsità. Così rimanevo zitto e questo la faceva infuriare.

Si occupava forzatamente di tutti i bisogni materiali, raccoglieva dagli spaventi un oggetto qualunque, sfuggito agli occhi dei più, e gli associava senza discernimento tutto quanto aveva preceduto la nostra resa, piccole capitolazioni su percorsi disseminati di facilitazioni, irreprensibili. Mentre la guardavo allontanarsi distratta e risoluta in un vortice di voci era stato come se la vedessi per la prima volta. EraIV-13anche lei consegnata al ricordo, congelata nella memoria di diversi attimi (quelli che ricordavo erano quasi tutti belli) che da allora me la avrebbero riproposta sempre nello stesso modo. Ero smarrito e anche sorretto in un ginepraio di ricordi ma era evidente che quel dedalo di memoria non serviva per scrivere ciò che volevo scrivere, era pieno di sangue. E meno ancora tutto il ciarpame che avrei potuto attaccare ad ogni singolo ricordo per rendere il sangue più vivido.

difficile ammettere di averne paura. Come una dichiarazione di debolezza. Allora andavo a cercare un po’ di forza nelle sue cose che erano rimaste in casa: la matita per gli occhi, una collana rotta e riannodata, diversi fermagli per i capelli. Alla mattina presto giravo per la casa, contratto per dei niente , forse addirittura per le fasi antecedenti ai niente, come il giorno in cui avrei giurato di vederla sparire e invece si era solo nascosta.

La sua assenza la rendeva sempre presente, con la speranza di essere oggetto dei suoi pensieri. Ricordavo il suo sguardo che mi osservava un po’ apprensivo, come se cercasse di capire qualcosa di me che le sfuggiva, qualcosa che invece non c’era.

EraIV-12però

61 di un senso da esprimere con altre parole, non più quelle di prima. Ma le parole non c’erano, e mi rendevo conto che mi mancava il talento, che quella era la cosa che mi separava dai grandi scrittori. è meglio avere la cecità sufficiente per appagarsi che una vista precisa dei nostri limiti.

A volte era la mancanza di un’altra capacità: quella dell’acrobata, del cameriere di Laing (19) o del grande calciatore, che non pensa mentre agisce, ma è tutt’uno con l’azione. Quindi facevo di tutto per non pensare. per non frapporre il pensiero tra le idee e le parole, ma il pensiero, quel primitivo scimmione, mi stava sulle spalle, e il suo peso era insopportabile.

bello rivedersi dopo tanto tempo e tutto sommato riconoscersi, tra colori complementari al paesaggio: quelli del seme, della morte e della resurrezione. Rivedersi era come la consolazione di una folata d'aria per il viandante sulla salita. Eravamo pronti ad anni e anni di serena sventura fino a stroncare ogni falsa vocazione. Perché ormai avevamo sapevamo che tutto sarebbe successo. Lei diceva che ero distratto, che non sapevo aspettare, che non sapevo assecondare, che non sentivo il dovere né il piacere e neanche il dolore. Era convinta che i miei sogni venissero tutti da ovest, come il vento che dalle sue parti porta cattivo tempo. Ma capiva (forse condivideva) il mio sforzo per appropriarmi di quel suo bagliore e trasformarlo in linguaggio, volevo unirla alla vita nel mio sguardo. Mi ero preso nota del fatto che c’erano alcune prove da superare. Una era quella di vegliare su di lei, di proteggerla. Preoccupato, la guardavo camminare sulla battigia. Mi piaceva moltissimo, e aveva scelto me. Poi la visione si intorbidiva e diventava sogno: a volte si allontanava, come se fossimo nel mare e lei stesse nuotando al largo. La chiamavo agitando la mano.Ma dalla terra, dove tutti avremmo potuto rimanere, altre voci dal timbro forte e acuto la chiamavano addirittura per nome. La conoscevano meglio di me, era più loro che mia.

62

IlIV-15ricordo (o aspettativa) di quelle mattine di sole nella casa nuova e la nostra volontà di allestire chiacchierando e vedendoci a vicenda più chiari o più scuri a seconda della luce che proveniva dal cortile. Le nostre voci rimbombavano nelle camere ancora vuote, la pittura sulle pareti era ancora

Nel frigorifero disabitato, due polpette grigio chiaro mi osservavano da alcuni giorni; era una bella sera nitida d’inverno, con la tramontana che sbucava improvvisa agli angoli dei vicoli e spazzava le alture. Nella città antica le vecchie vetrine si accendevano sulla strada con il loro giallo ottocentesco, le friggitorie avevano i vetri appannati, molti tavoli erano occupati da uomini soli...

EraIV-14stato

DaIV-16laggiù, da quel ricordo interminabile, guardo la persona che sono diventato. Anche allora facevo ipotesi su come sarei diventato, e quelle ipotesi adesso hanno il loro occhio puntato su di me. A osservarmi è uno di venticinque anni con una camicia azzurra. Ha l’aria preoccupata perché per lui qualcosa sta finendo, qualcosa sta cominciando, non può avere la certezza che io sia reale. Sono un sogno o una ipotesi. Il passato e il futuro erano presenti, ma solo come luoghi turistici adatti per ricordi e fantasie; non facevo analisi né progetti. Nonostante fossi concentrato quasi esclusivamente sul presente raramente riuscivo a starci dentro. Ero però praticamente certo di aver abbandonato una strada. Una sera lungo una statale della padana inferiore, era già quasi buio, una lepre si era messa a correre impazzita davanti alla mia macchina, come se la stessi inseguendo. Avevo rallentato, spento i fari e la lepre aveva trovato la via dei campi.Qualcosa doveva essersi spento alle mie spalle, una luce che fino a qualche mese prima aveva illuminato la strada e che avevo seguito quasi per paura. Sul nuovo percorso non sapevo dire niente; forse, come la lepre avrei riguadagnato la libertà, avrei scoperto un nuovo territorio, ma gradualmente mi sorgeva il sospetto che il territorio non esistesse e che io lo stessi letteralmente fabbricando.

63 umida e mandava un buon odore di nuovo. E dicevamo che cambiare era bellissimo. Cambiare insieme, almeno. Poi restavamo a chiederci diverse cose sui cambiamenti individuali, su quanto noi stessi stessimo cambiando. Le azioni che compivamo ci stavano cambiando. Così ci chiedevamo anche se il figlio della voglia di cambiare sarebbe stato un grande cambiamento, oppure il perpetuarsi della voglia di cambiare. Se provavo a scrivere qualcosa, come in un setaccio, restavano poche cose. Ma a me interessava proprio quella polvere sottile che dal setaccio sfuggiva via attraverso la griglia. Non scenari, ma oggetti e particolari; non persone, ma dialoghi. Non ambienti ma atmosfere .

LungoIV-18

Doveva esserci un modo, alla fine per essere liberi. Un modo in cui non fosse necessario stravolgere tutte le difese e arrendersi ai vortici. Un senso di libertà e di serenità quotidiana, senza bisogno di relegare la libertà a quelle ore insulse di taccuini e di macchina da scrivere.

C’era un muro perimetrale alto, nel giardino della casa di Voghera. Da bambino lo vedevo insormontabile e lo credevo una difesa inespugnabile della casa. Ora era il sogno frequente del mio limite: per scrivere liberamente avrei dovuto vivere liberamente, invece c’era quell’enorme muro.

C’era anche una polvere sottile che aleggiava e ricopriva tutto: i macchinari, i banchi, i vetri delle finestre che erano opachi. La luce entrava da grandi rettangoli bianco giallastri e sembrava che l’inverno là fuori fosse una distesa di bianco senza fine.

Poco prima di Natale, a notte fonda, camminando da solo sotto i portici di una città familiare sentivo chiaramente un mormorio uscire dalle grate delle cantine, dai lucernai nei vicoli deserti, dalle colombaie della vecchia cattedrale. Più che di ricordi si trattava di reperti, le voci parlavano a me (e a tutti i viventi): tornate qua, dove noi vi aspettiamo da tempo infinito, dove l’acqua galleggia sull’acqua, dove potrete finalmente riposare.

la strada, al finestrino della macchina le periferie della città erano come immagini di una mostra di fotografie in bianco e nero. Coclee e tralicci arrugginiti potevano diventare architetture fiabesche anche se io ci vedevo quasi solo l’inizio della fine del mondo. Poi la strada saliva e la metastasi diventava più rada, finché alla fine erano solo alberi.

La terra era fredda; salendo a piedi il bosco finiva e cominciavano dei pianori disseccati di erba grigia e bruna. Un paese abbandonato, ci sfuggiva un sorriso triste. Nelle case qualche mobile, le credenze nelle cucine, tazze e pentole arrugginite. La bottega del falegname aveva gli attrezzi lasciati lì come per una fuga o una morte improvvisa. La natura penetrava inesorabile, l’edera spaccava i muri e la parietaria spuntava tra le piastrelle dei balconi.

giorni di sintesi, che quasi sempre voleva dire tristezza. Aspettare periodi successivi, migliori, fino a quando il tempo non è più periodo ma fluire continuo e indistinto.

La chiesa minuscola con la piazzetta e un platano solitario. Lei si era

64 ArrivavanoIV-17

LeiIV-19aveva

L’avevo. Anzi, era tutto ciò che avevo: ogni mattina costruiva il mondo e poi incessantemente lo fabbricava, senza naturalmente trascurare di distruggerne alcune parti, faceva addirittura da tramite tra me e i miei pensieri. Come un servizievole maggiordomo che solerte porta ma non la sentivo.IV-20Allafine

quel senso di vuoto era la vita che appariva in tutta la sua inconsistenza. Si riveleava proprio nella sua inconsistenza. Galleggiavamo nell’inconsistenza, o almeno questa era la sensazione, dimenticando di pensare che eravamo anche noi inconsistenti. Essere arrivati a quello lasciava solo lo spazio per un sarcasmo senza limiti oppure per una nostalgia infinita per uno spazio amniotico, senza distinzione tra buio e luce.

detto: quello che hai scritto è magnifico. Io vedevo con chiarezza l’imbroglio: tutti i magnifici enunciati erano detti da una voce, visti da un occhio. Ciò che si è detto è un nuovo tutto che non ha niente a che vedere con ciò che si vorrebbe rappresentare. Quell’occhio che guardava, quella voce che parlava non solo non erano al di fuori di ciò che dicevo, ne erano proprio l’elemento costitutivo. Tra me e il mondo c’era lei, la voce. La potevo osservare, dire delle altre cose su di essa, e magari anche tentare di comprenderla. Non avevo alcun diritto di collocare questa voce parlante in qualche luogo che non fosse un qualunque luogo di tutto ciò che avevo guardato. La mia voce non intendeva occuparsi dell'ente nella sua totalità e nello stesso tempo non poteva farne a meno. Ma per farlo, alla fine, poteva solo interrogarsi su se stessa, su tutte le sue molteplici rappresentazioni, su quell’ipotetico migrare tra tanti registri. A me veniva voglia di tacitarli tutti per capire se avevo una voce vera.

65 avvicinata sorridendo, era tornata. Pensare di essere stati lì, in un’altra epoca. La sera era arrivata presto, faceva freddo; rientrando, in macchina, eravamo tutti silenziosi. Stavamo vivendo la vita degli altri, di quelli che non avevamo conosciuto, che non avremmo mai conosciuto, ai quali avevamo profanato la casa.

Qualcuno lo scambiava per una specie di cupio dissolvi, ma era invece un amore estremo e struggente per una vita ideale, liberata da scadenze, urgenze e incombenze.

66 A volte, di fronte al sovrapporsi continuo di voci (la mia era tra le più fastidiose), mi prendeva una specie di nostalgia per una quiete ancestrale, come un primate della preistoria che non si è ancora assunto la responsabilità dell’evoluzione.Icampierano

Poi nella distanza tutto diventava grigio: i costoni che separavano i campi, poi il campanile di un grigio più chiaro e i colli lontani chiarissimi, quasi come il cielo. Dentro c’era odore di fumo, aprendo la finestra si respirava un freddo pulito che proveniva da quella quiete.

C’era, forse c’è sempre stata, una specie di devozione per quel silenzio pieno e immortale che si manifesta in certi momenti.

Non ero obbligato ad andare; un invito si può anche declinare, ma era la prima volta. Così, invece di scendere per una passeggiata nella neve, restavo a guardarli mentre si allontanavano lungo il sentiero, desiderando qualcosa che mi consegnasse alla meraviglia del mondo immobile.

bianchi, punteggiati di nero dalle zolle che riaffioravano.

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(1)note:Jean

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68 Baudrillard, Simulacres et simulation - Galilée, 1981 Thomas Stearns Eliot, The Love Song of J. Alfred Prufrock - The Egoist, 1915 Artur Rimbaud, Illuminations - La Vogue, 1886 Edward T. Hall, The Hidden Dimension - Doubleday & Co, 1966 Charles Baudelaire, Moesta et errabunda - Auguste Poulet-Malassis, 1857 Eraclito, Frammenti - Augeri, 1966 Parmenide, Testimonianze e Frammenti - La Nuova Italia, 1962 Sepher Yetzirah, a cura di Savino Savini - Carabba, 1959 Ermete Trismegisto (att.), Tabula Smaragdina - Athanor, 1957 Morya, Agni Yoga - Helena Roerich, 1925 (11) Albert Camus, Cahiers 1935-1942 - Gallimard, 1950 Samuel Beckett, Textes pou rien - Minuit, 1955 Oscar Wilde The Ballad of Reading Gaol - Leonard Smithers, 1898 Thomas Stearns Eliot, Four Quartets - Harcourt, Brace and Company, 1943 Bill Evans, Waltz For Debbie - Riverside Records, 1961 Maurizio Cucchi, Il disperso - Arnoldo Mondadori, 1976 René Daumal, Il Monte Analogo - Gallimard, 1952 Margherita Bourcet, L’erede di Ferlac - Salani, 1936 Ronald.D. Laing, L’io diviso - Einaudi, 1969 Dino Buzzati, Sessanta racconti - Mondadori, 1958

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