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U20 DA RECORD Buone prospettive per il futuro del movimento AZZURRI MEGLIO MA NIENTE VITTORIE GRANDE SLAM IRLANDA SEI NAZIONI DONNE L’Italia combatte ma non basta con la Francia RUGBY200 1823-2023 179 Aprile 2023 ALLRUGBY RIVISTA MENSILE Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale –70% AUT. N° 070028 del 28/02/2007 DCB Modena Prima immissione 01/02/2007 www.allrugby.it

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Di nuovo l’Olimpico quasi pieno e un gap fra l’Italia e le altre squadre che stavolta si riduce al minimo. Con la Francia (la Francia!) e la Scozia, gli Azzurri hanno avuto fra le mani il pallone per vincere con l’ultima azione. Sarebbe stato un magnifico replay di quanto successe un anno fa a Cardiff. Con una bella differenza: in Galles l’azione del sorpasso uscì dal cappello a cilindro di Capuozzo come il coniglio del più abile prestigiatore.

Sia con i Bleus che a Murrayfield, invece, la piattaforma da cui lanciare l’assalto decisivo era stata costruita con pazienza e metodo: il traguardo era a un passo e non sarebbe stato un impromptu dell’anima. Eppure resta qualcosa che continua a separarci nel profondo dai nostri rivali. È il radicamento del rugby in Italia, la sua incapacità quotidiana di farsi “passione e cultura”.

I quattrocentomila che su Sky (a pagamento) e su Tv8 (in chiaro) sabato 18 marzo hanno assistito all’ultima partita degli Azzurri nel Sei Nazioni, vanno confrontati ahimè con i quattro milioni e ottocentomila che nel Regno Unito si sono sintonizzati su ITV per Irlanda-Inghilterra e con i 5,7 milioni di Francia-Galles su France 2 nella medesima giornata. Qui, le stesse due partite, su Sky, hanno raccolto rispettivamente 27mila e 21mila audaci.

Sono dati che fotografano un rapporto di 12/1, 15/1 tra gli altri Paesi e l’Italia. Distanze che il campo riesce miracolosamente a ridurre quasi a zero, ma che pesano sotto il profilo organizzativo, tecnico e soprattutto commerciale. Fattori che non si possono ignorare nella sfida a lungo andare.

L’annunciato addio al Top10 del Calvisano, il club più vincente, dopo il Benetton, in Italia dal 2000, i malumori che serpeggiano qua e là sulle tribune deserte del campionato (meno quelle del Battaglini, per onore di cronaca), dicono dell’impossibilità del rugby non solo di stare al passo dei rivali sul piano internazionale, ma anche di offrire a chiunque si voglia avvicinare allo sport con animo imprenditoriale un percorso credibile, fatto di bilanci trasparenti, ritorni economici, visibilità commerciale. In Inghilterra Wasps e Worcester sono stati messi fuori gara al primo errore. A Leicester, invece, il mese scorso, due imprenditori locali, ex giocatori dei Tigers, hanno versato nelle casse del club rispettivamente 10 e 3 milioni di sterline per sostenerne l’attività.

Non si tratta solo di pazzia frutto di passione: la squadra riempie regolarmente lo stadio con 25/26 mila spettatori. Una cornice che, insieme a quella delle altre squadre, BT ha lucidato con 110 milioni di sterline per i diritti televisivi (tre anni) della Premiership. In Francia Canal+ ha pagato 454 milioni di euro per trasmettere per quattro anni il Top14. Ecco spiegate in sintesi le ragioni per le quali i due campionati, soprattutto quello francese, accolgono nei loro club i migliori giocatori del mondo. Su questa base, appare evidente il miracolo sportivo di un movimento ovale in Italia che osa competere alla pari con giganti tanto superiori. La domanda è: fino a quando - con i limitatissimi mezzi a loro disposizione, di marketing, di strutture, di seguito, di radicamento sociale -i nostri club riusciranno a crescere giocatori che la selezione prodotta negli anni passati dalle accademie mette oggi a livello delle altre nazioni, come l’U20 dimostra da qualche stagione?

La “passione italiana” ha bisogno di essere innaffiata di sostegno, di seguito, di cultura. Senza sarà solo un pallone pieno di vento, come diceva Willie John Mc Bride. Per informazioni sul personaggio consultare la storia dei British & Irish Lions, Allrugby numeri 160, 117 e altri ancora.

Gianluca Barca

direttore responsabile

Gianluca Barca gianluca.barca@allrugby.it

photo editor

Daniele Resini danieleresini64@gmail.com

redazione

Giacomo Bagnasco, Federico Meda, Stefano Semeraro. Collaboratori

Danny Arati, Felice Alborghetti, Alessio Argentieri, Sergio Bianco, Simone Battaggia, Enrico Capello, Alessandro

Cecioni, Giorgio Cimbrico, Andrea Di Giandomenico, Mario Diani, Diego Forti, Andrea Fusco, Gianluca Galzerano, Christian Marchetti, Norberto “Cacho” Mastrocola, Paolo Mulazzi, Iain R. Morrison, Andrea Passerini, Luciano Ravagnani, Roberto “Willy” Roversi Marco Terrestri, Maurizio Vancini, Valerio Vecchiarelli, Giancarlo Volpato, Francesco Volpe.

fotografie

In copertina, François Mey durante Italia v Irlanda del Sei Nazioni U20 2023 (foto Daniele Resini/Fotosportit). Nei riquadri, Michele Lamaro lascia Murrayfield (David Gibson/Fotosportit), La festa dell’Irlanda a Dublino (Dan Mullan/Getty Images), una carica di Giada Franco contro la Francia a parma ( Daniele Resini/ Fotosportit).

Fotosportit

John Dickson pagg. 8, 13, 26; David Gibson, pagg. 14, 15, 18; Daniele Resini, pagg. 3, 4, 10, 24, 29, 31, 32, 34, 35, 40/61.

Getty Images Franck Fife, pag. 16; Hagen Hopkins, pag. 39; Hulton-Deutsch Collection, pag. 66; Brian Lawless, pag. 22; Dan Mullan, pag. 73; PA Images, pag. 68; David Rogers, pagg. 17, 25, 72; Sandra Ruhaut, pag. 70; Topical Press, pagg. 64, 67; Universal History Archive, pag. 65; Visionhaus pag. 12, Phil Walter pag. 36.

L’editore è a disposizione degli aventi diritto, con i quali non gli sia stato possibile comunicare, per eventuali involontarie omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti dei brani e delle fotografie.

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Matteo Alemanno

FLASH 100 di questi Cap

Federico Ruzza, 28 anni, splendido protagonista della stagione sia in azzurro che con il Treviso, ha festeggiato contro i Lions le sue 100 presenza in maglia Benetton. Premiato in occasione del match di Challenge Cup vinto contro il Connacht, 41-19, Ruzza ha messo a segno la meta numero sei della partita che ha permesso alla formazione di Marco Bortolami di conquistare i quarti di finale della competizione

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FLASH Francesina... francese

Aura Muzzo vola dopo la “francesina” dell’ala delle Bleus Caroline Boujard. La Boujard è stata protagonista del match non solo per questo placcaggio decisivo: al 28’ è stata punita con un cartellino giallo per un placcaggio alto sulla D’Incà e al 75’ ha messo a segno la meta che ha sigillato il risultato per le francesi.

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numero centosettantanove

SEI NAZIONI 2023

Pag.8 Un Sei Nazioni da record

Quarto Grand Slam per l’Irlanda, in un torneo da 91 mete. Sexton supera O’Gara fra i marcatori. Agli Azzurri il cucchiaio numero 18.

Pag.10 Quarta giornata

Il Galles passa a Roma, la Francia sbanca Twickenham e l’Irlanda si avvicina alla corona.

Pag.14 Quinta giornata

Festa irlandese a Dublino, l’Italia a un soffio dal colpaccio a Murrayfield, festival di mete tra Francia e Galles a Parigi.

Pag.18 Bilanci

L’Irlanda la più solida e la più continua, la Francia la più letale. L’Italia punita da errori di esecuzione, indisciplina e dalla modestia del gioco al piede. Di Gianluca Barca

Pag.20 Più e meno

Cosa promuovere e cosa salvare del torneo dell’Italia. Cimbrico, Ravagnani, Meda, Cecioni, Vecchiarelli, Bagnasco.

Pag.22 L’importanza di chiamarsi Ringrose

Walter

Ah, i valori del rugby...

Se ne parla spesso, probabilmente troppo, soprattutto se si tratta di una narrazione all’interno del mondo ovale. Però, insomma, siamo abituati a sentirne parlare, a sentirli “vantare”. Non si è sottratto all’esaltazione di questi valori lo speaker presente all’Olimpico per le partite del Sei Nazioni. Però la sua conduzione della partita non è stata esattamente all’insegna del fair play. Nessuna critica alla persona (questa rivista non ne ha mai fatte), ma l’esercizio del tifo al microfono non sembra appropriato ad alcun tipo di evento sportivo che coinvolge due Nazionali.

Una cosa è annunciare con maggiore enfasi la formazione di casa, e sottolinearne con tonalità più alte le marcature, un’altra è trasformarsi nel capo di una delle due fazioni sportive, addirittura dando il la a cori di incitamento durante il gioco, chiedendo a tutti gli spettatori (anche ai sostenitori dell’altra squadra, dunque?) di mettersi a sostenere “l’Italiaaaaaa!!!”.

Non è mai successo negli altri stadi dove si gioca il torneo, non succede - a quanto risulta - neppure quando si affrontano le Nazionali del vituperato calcio. Ed è una semplice questione di rispetto per gli ospiti, che siano i 15 in campo o le migliaia sugli spalti. (G. Bag.)

all’indice

179 SOMMARIO
Pozzebon analizza il gioco dei trequarti irlandesi e il ruolo di Garry Ringrose negli equilibri della squadra.

SEI NAZIONI U23

Pag.30 You are my Destiny

Valerio Vecchiarelli racconta la bella storia di Destiny Aminu, pilone della Nazionale U20 sospeso tra l’Irlanda e la Nigeria.

SEI NAZIONI DONNE

Pag.34 “La casa del pallone”

Mario Diani fa il punto sulla prima giornata del Sei Nazioni femminile: senza mischie efficaci (Irlanda, Scozia e Italia), vincere non è possibile.

Pag.36 Non è mai troppo tardi

Silvia Turani racconta a Giacomo Bagnasco i passi salienti della sua carriera, dalla Spagna a Exeter, passando per Colorno e Grenoble.

UNITED RUGBY CHAMPIONSHIP

Pag.42 Treviso-Milano

Partnership strategica tra Benetton e Asr: Treviso prova a crearsi una filiera, Milano cerca un ponte con il grande rugby internazionale. Di Federico Meda.

Pag.48 La dolce vita

Alla vigilia della trasferta in Sudafrica Dewaldt Duvenage racconta a Federico Meda l’emozione di tornare a giocare in patria.

Pag.54 Non voglio una vita spericolata

A ventun anni Manfredi Albanese-Ginammi ha deciso di dire basta con il rugby di alto livello. Di Gianluca Barca.

Pag.60 Scripta manent

Luciano Ravagnani ripercorre 40 anni di stampa dedicata al rugby in Italia. Fra contenuti e numeri.

1823/2023 RUGBY 200

Pag.64 Buon compleanno rugby

Giorgio Cimbrico ripercorre i 200 anni del rugby da William Webb Ellis ai giorni nostri.

Pag.68 Money fot nothing

Il denaro muta il dna del rugby, scrive Stefano Semeraro che analizza la crescita a dismisura dei protagonisti e degli interessi in gioco.

RUBRICHE

Pag.70 Lo spazio tecnico di Andrea Di Giandomenico

Pag.71 Mani in ruck di Maurizio Vancini

Pag.72 West end di Giorgio Cimbrico

SEI NAZIONI

Un Sei Nazioni da record

Quarto Grand Slam per l’Irlanda, il terzo negli ultimi quindici anni.Torneo deciso, come un anno fa, dalla sfida tra le due squadre che oggi sono al vertice del ranking internazionale: l’Irlanda e la Francia.

Nel 2022, a Parigi, a imporsi furono i transalpini, 30-24, stavolta all’Aviva Stadium di Dublino la vittoria è andata all’Irlanda, 32-19.

Le 91 mete messe a segno nelle 15 partite sono il nuovo record per la competizione, nel 2021 erano state 86. Chi pensa che il gioco cambi poco deve ogni tanto dare un’occhiata ai numeri: nel 2013 le mete totali furono 37.

Tre squadre hanno chiuso la classifica con la differenza tra i punti fatti e quelli subiti in attivo: l’Irlanda, la Francia e la Scozia. Le tre ultime tre, invece, Inghilterra, Galles e Italia si presentano tutte con il bilancio in passivo.Nel 2013 addirittura quattro squadre avevano chiuso con il segno meno (Scozia, Italia, Irlanda e Francia).

Per gli Azzurri è stato il Sei Nazioni dei paradossi: così vicini, praticamente in ogni partita, a un successo di prestigio; così lontani, come sempre, alla fine, sconfitti in tutte e cinque le sfide del torneo.

Nell’accezione “whitewash”, quella che vuole l’odiato mestolo recapitato alla squadra che perde tutte le partite del torneo, l’Italia ha conquistato quest’anno il dodicesimo cucchiaio di legno della sua storia.

Esiste anche un’altra interpretazione del famigerato Wooden Spoon in base alla quale se lo merita chi arriva ultimo, indipendentemente dal fatto che abbia vinto una partita o meno. In questo caso, per gli Azzurri, sarebbe il cucchiaio numero 18, in 24 edizioni del Sei Nazioni.

La prossima stazione per il rugby internazionale sarà la Coppa del Mondo in Francia, prima partita l’8 settembre a Parigi: Francia-Nuova Zelanda, ma prima di allora ci sarà tanto rugby ancora.

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NAZIONI 2023

Classifica Squadra Vinte Pari Perse Punti Fatti Subiti Diff Mete fatte Subite Punteggio Irlanda 5 0 0 151 72 79 20 6 27 Francia 4 0 1 174 115 59 21 14 20 Scozia 3 0 2 118 98 20 17 12 15 Inghilterra 2 0 3 100 135 -35 13 18 10 Galles 1 0 4 84 147 -63 11 19 6 Italia 0 0 5 89 149 -60 9 22 1
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La festa irlandese, con la coppa del Sei Nazioni (al centro sul prato) e il piatto della Triple Crown esibito da Andrew Porter (a destra).

ROUND 4

Italia v Galles

Sabato 11 marzo, Roma, Stadio Olimpico

Italia v Galles 17-29

Italia 2 mete (Negri, Brex)), 2 tr, 1 cp (Allan)

Galles 4 mete (Flament, Ramos, Dumortier, Jalibert), 3 tr. e 1 cp (Ramos).

Cartellini L. Canone, Bruno (gialli)

Arbitro Murphy (Aus)

Non basta all’Italia vincere il secondo tempo. Ancora una volta la partenza a handicap pregiudica la partita degli Azzurri, che per la quarta volta nel torneo subiscono almeno venti punti nella prima mezzora. Troppi per rendere possibile la rimonta. Italia punita inizialmente dai propri errori: la meta di Dyer è arrivata da un rimbalzo non controllato tra Padovani e Bruno e, poco dopo, Liam Willams ha sfruttato una palla di recupero, rompendo cinque placcaggi prima di schiacciare oltre le linea. Sul 3-15 per il Galles, il più bell’attacco azzurro del match non si è concretizzata dopo una lunga analisi del Tmo: Brex non aveva toccato regolarmente a terra, ma c’era più di un fallo a favore dell’Italia, non rilevato dall’arbitro, nella costruzione dell’azione. Due volte in inferiorità numerica (giallo a Lorenzo Cannone in occasione della meta di punizione, e giallo a Bruno per aver colpito il volto di un avversario), gli Azzurri sono stati in partita fino alla fine grazie alle mete di Negri e Brex. Un’intuizione di Webb (assist per Faletau) ha chiuso di fatto il match a mezzora dalla fine.

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I passaggi effettuati dall’Italia, contro i soli 84 del Galles che, in compenso, ha calciato il 20% del proprio possesso rispetto al 6,5% degli Azzurri. L’Italia ha avuto più possesso, più territorio, è stata più tempo nei 22 avversari e…ha perso. La causa? I 18 errori nei passaggi, contro i 5 del Galles.

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I tentativi di placcaggio gallesi, con 38 errori: un’efficacia, modesta a livello internazionale, del 77%. Ma il Galles ha raccolto 2,4 punti per ciascuna visita ai 22 dell’Italia. Gli Azzurri solo 1,6.

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L’Italia ha bucato la difesa gallese 11 volte. Vuol dire che ha avuto bisogno di media di 17 passaggi, ogni volta, per trovare un varco fra gli avversari. Nell’arco del torneo, la Francia ha rotto un placcaggio ogni 4 passaggi.

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Tommaso Menoncello rompe un placcaggio di Faletau. Nel riquadro, la meta di Sebastian Negri.
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Inghilterra v Francia

Sabato11 marzo, Londra, Twickenham

Inghilterra v Francia 10-53

Inghilterra 1 meta (Steward), 1 tr., 1cp (Smith). Francia 7 mete (Ramos, Flament 2, Ollivon 2, Penaud 2), 6 tr., 2 cp (Ramos).

Arbitro O’Keeffe (NZ)

La sintesi più severa della partita l’ha fatta Nick Mallett: “l’Inghilterra non ha ball carrier, non ha una prima linea in grado di imporsi sulla quella avversaria. Le sue seconde linee hanno le misure dei nostri flanker (sudafricani, ndr) e i flanker sono tutti numeri 7, ovvero nemmeno quelli non sono ball carrier. Nella sostanza non hanno nessuno che possa portare avanti il pallone”.

La Francia viceversa ha martellato per ottanta minuti con Flament, due mete, con Aldritt, Cross e Ollivon: i quali, palla in mano, hanno percorso quasi il doppio della distanza coperta dai diretti avversari. Sotto la pioggia, in un match in cui la squadra di Steve Borthwick è stata surclassata fisicamente dai Coqs, la scelta di Marcus Smith come numero 10 ha ulteriormente complicato il gioco inglese: l’apertura degli Harlequins non è mai riuscita a mettere i suoi in avanzamento. E quando Farrell ha preso il suo posto, la partita era ampiamente sfuggita dalle mani dei padroni di casa, per i quali il risultato è il più pesante di tutta la loro storia a Twickenham. Una catastrofe sportiva.

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Damian Penaud, lanciato verso una delle sue due mete. Inutile il disperato tentativo di Dombrandt.

Scozia v Irlanda

Domenica 12 marzo, Edimburgo, Murrayfield

Scozia v Irlanda 7-22

Scozia 1 meta (Jones), 1 tr. (Russell).

Irlanda 3 mete (Hansen, Lowe, Conan), 2 tr., 1 cp (Sexton) Arbitro Pearce (Ing)

Quattro infortuni del calibro di quelli di Dan Sheehan, Iain Henderson, Caelan Doris e Ronan Kelleher, quest’ultimo il tallonatore di riserva, più quello di Ringrose a 10’ dalla fine, avrebbero messo ko qualunque squadra. Non l’Irlanda di questi tempi però che, rimasta a mezz’ora dalla fine senza un numero

2 di ruolo e con il risultato ancora in bilico (7-8), ha dovuto spostare un pilone, Cian Healy, al centro della prima linea e affidare a Josh van der Flyer, un flanker, il lancio delle touche.

Match giocato ad altissimo ritmo, con oltre 350 (trecentocinquanta!) placcaggi in totale (172 la Scozia, 181 l’Irlanda). Scozia capace di andare in vantaggio per prima con uno dei giocatori più in forma del torneo, Huw Jones, dopo una bella combinazione con Tuipulotu.

L’Irlanda tuttavia ha mantenuto la sua tradizionale capacità di esercitare pressione sugli avversari, ha avuto maggior possesso e maggior territorio, e soprattutto nel secondo tempo, fase dopo fase, ha soffocato la Scozia segnando con Conan e Lowe (terza meta per lui nel torneo) i punti della vittoria. Sexton come sempre determinante: con gli 86 pallone passati per le sue mani ha guadagnato oltre 200 metri al piede, effettuato 27 passaggi, 5 giocate individuali.

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Jack Conan, autore della terza meta dell’Irlanda.

ROUND 5

Scozia v Italia

Sabato 18 marzo, Edimburgo, Murrayfield.

Scozia v Italia 26-14

Scozia 4 mete (Kinghorn 3, van der Merwe), 3 tr (Kinghorn).

Italia 1 meta (Allan), 3 cp (Allan 2, P. Garbisi)

Cartellini Riccioni (giallo).

Arbitro Gardner (Aus)

Quella sporca, ultima spinta, con il pallone perso in avanti all’80’, a un paio di metri dalla linea di meta, condanna l’Italia, nonostante i progressi messi in mostra nel torneo, alla quinta sconfitta su cinque in questo Sei Nazioni.

Troppi gli errori di esecuzione degli Azzurri, penalizzati anche dalla difficoltà di rispondere in modo adeguato all’interpretazione della mischia dell’arbitro australiano Gardner.

Due mete della Scozia nel primo tempo, la seconda, con Kinghorn, in superiorità numerica durante i dieci minuti di espulsione temporanea di Riccioni, avevano mandato le squadre al riposo con i padroni di casa in vantaggio 12-6.

Nella ripresa, lo stesso Kinghorn, titolare al posto dell’infortunato Russell, ha concretizzato dopo pochi minuti di gioco una lunga fase di pressione sotto i pali dell’Italia: 19-6.

Azzurri capaci di tornare a soli cinque punti di distanza, a un quarto d’ora dalla fine, grazie a una meta di Allan, innescato da un calcetto rasoterra di Paolo Garbisi, e a una punizione dello stesso Garbisi. Sembrava la premessa per il sorpasso sul filo di lana, come in Galles, un anno prima. E invece è stato l’outsider Kinghorn (tre mete!) ad avere l’ultima parola.

4 I calci di punizione concessi in mischia dall’Italia, con l’arbitro che, nel primo tempo, ha punito anche Riccioni con un giallo.

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Dopo Irlanda v Francia, Scozia v Italia è stata la partita del torneo con il maggior numero di passaggi (rispettivamente 195 e 208) e il maggior numero di placcaggi (174 e 230). Squadre stremate nell’ultimo quarto del match, con tanti errori da entrambe le parti.

5 I cartellini gialli dell’Italia nell’arco di tutto il torneo. Nessuna squadra ne ha subiti di più. Eppure il numero totale di falli commessi dagli Azzurri è stato in linea con le altre squadre, 54, come la Scozia (Inghilterra 53, Galles 63, Inghilterra 47, Irlanda 44).

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Una presa al volo di Federico Ruzza, presente dal primo all’ultimo minuto in tutte le partite dell’Italia. Insieme a Nacho Brex è stato uno dei 14 giocatori che hanno disputato tutti e 400 i minuti del torneo. Nel riquadro, la seconda meta di Blair Kinghorn alla fine del mattch.

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Francia v Galles

Sabato 18 marzo, Parigi, Stade de France

Scozia v Galles 41-28

Francia 5 mete (Penaud 2, Danty, Atonio, Fickou), 5 tr., 2 cp (Ramos).

Galles 4 mete (North, Roberts, T. Williams, Dyer), 4 tr (Biggar 3, Halfpenny).

Arbitro Berry (Aus)

Festival di mete allo Stade de France. L’obiettivo della Francia era assicurarsi i cinque punti, in attesa di vedere se l’Irlanda fosse per caso inciampata sull’Inghilterra nel match finale a Dublino. Per il Galles, il traguardo era consolidare quel po’ di orgoglio ritrovato con la vittoria sull’Italia. Ne è scaturita una partita spettacolare che, a parte qualche dettaglio, ha probabilmente soddisfatto entrambi gli staff. Galles subito all’assalto e in meta con North per un vantaggio che si sapeva non sarebbe potuto durare. Francia spettacolare a tutto campo, con l’estro di Penaud, la forza irresistibile di Atonio e Danty, l’esuberanza della coppia Ntamack-Dupont (splendido lo slalom dell’apertura in occasione della prima meta di Penaud, con eccezionale assist del numero 9). Francia costretta a subire quattro mete per la seconda volta nel torneo (la prima era stata contro l’Irlanda). Con Shaun Edwards alla difesa, quattro mete i Coqs non le avevano mai concesse nelle precedenti stagioni. Galles vivacizzato da ben 16 off load e dalla capacità di far uscire dalle ruck il 57% dei palloni in meno di 3”. Due dati che hanno spinto Sam Warburton ad affermare che alla Coppa del Mondo i Dragoni arriveranno in semifinale. Vedremo.

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La falcata poderosa di Gael Fickou, inutilmente placcato da Josh Adams.

Irlanda v Inghilterra

Sabato 18 marzo, Dublino, Aviva Stadium

Irlanda v Inghilterra 29-16

Irlanda 4 mete (Sheehan 2, Henshaw, Herring), 3 tr., un cp (Sexton).

Inghilterra 1 meta (George), 1 tr., 3 cp (Farrell). Cartellini Stewad (rosso), Willis (guallo). Arbitro Peyper (Saf)

Travolta dalla Francia a Twickenham, l’Inghilterra era chiamata a una prova d’orgoglio, in trasferta, al cospetto dell’Irlanda lanciata verso il Grande Slam. Match teso e in equilibrio fino al 40’, quando un malaugurato contatto tra Freddy Steward e Hugo Keenan ha portato all’espulsione (cartellino rosso) dell’estremo inglese e all’abbandono per trauma cranico di quello irlandese. Pur con l’Inghilterra in inferiorità numerica, il risultato è rimasto in bilico fino allo scoccare dell’ora di gioco (10-9), quando Henshaw ha sfondato da distanza ravvicinata dopo una mischia a cinque metri dalla linea di meta della formazione di Steve Borthwick.

Da lì in poi, la vittoria dell’Irlanda non è più stata in discussione: la seconda meta di Sheehan e quella di Herring hanno celebrato la potenza dei tallonatori (anche la meta inglese è stata messa a segno dal numero 2, Jamie George). Per Jonny Sexton il nuovo record di punti nel torneo, 566: il precedente era di un altro irlandese, Ronan O’Gara cpn 557. L’Irlanda ha conquistato il quarto Grande Slam della sua storia, il terzo dal 2009, il primo celebrato davanti ai propri tifosi.

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Jonny Sexton era titolare con la maglia dell’Irlanda anche in occasione del Grand Slam del 2018.

Il

torneo ai raggi x

BILANCI

Il quarto Grand Slam dell’Irlanda, il terzo negli ultimi quindici anni, poggia su numeri solidi.

Quella di Andy Farrell è stata la squadra che ha fatto più metri palla in mano (Keenan e Lowe, ai primi posti della graduatoria), ha portato più cariche, ha conquistato più turnover e concesso meno calci di punizione.

In poche parole: disciplina, potenza fisica, continuità e organizzazione.

Gli irlandesi sono quelli che hanno trascorso più tempo nei 22 avversari, oltre 31 minuti, raccogliendo 2,7 punti a visita.

A tutto ciò va aggiunto un uomo come Jonny Sexton, decisivo nella gestione del gioco, e detentore del nuovo record di punti del torneo.

Francia e Scozia oltre la linea del vantaggio Francia e Scozia invece sono state le formazioni che in media hanno guadagnato più metri da ciascuna percussione, 6.40, segno di ottima capacità di andare spesso, se non sempre, oltre la linea del vantaggio con le loro azioni.

Huw Jones è stato il giocatore che ha conquistato in media più terreno per ogni attacco palla in mano, oltre undici metri.

La Francia è la squadra che ha raccolto più punti dalle visite ai 22 avversari: 3 in media per ogni incursione, la Scozia la segue da presso con 2,82. L’aspetto interessante però è che i francesi sono la formazione che ha trascorso meno minuti sotto i pali avversari, meno di 17 in totale. Il che significa che i suoi attacchi sono stati quasi sempre efficaci e micidiali: rapide sortite e immediata concretizzazione del risultato.

Finn Russell, con sole quattro partite, è il giocatore che ha guadagnato più metri al piede

Inghilterra e Galles rimandate al Mondiale Si presentavano entrambe con un nuovo allenatore (rispettivamente Borthwick e Gatland), ma sia l’Inghilterra che il Galles sono uscite dal torneo con più ombre che luci.

Tutte e due le squadre hanno denunciato una pericolosa tendenza ad avanzare poco (entrambe sotto i 6 metri per ogni carica) e soprattutto il

L’Irlanda la più solida e la più continua, la Francia la più letale. L’Italia punita da errori di esecuzione, indisciplina e dalla modestia del gioco al piede.
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Lo sguardo deluso di Michele Lamaro all’uscita dal campo a Murrayfield, l’ultima giornata contro la Scozia.

Galles è la squadra che ha segnato meno in rapporto al tempo trascorso nei 22 metri avversari: 1,68 punti a visita. L’Inghilterra, più o meno con lo stesso tempo totale dei vicini del Principato (20 minuti) ha raccolto 1,86 punti per ogni volta che è entrata nei 22 opposti.

Le statistiche dell’Italia

L’Italia è la squadra che mosso meno il pallone con il piede, ottenendo con i calci di spostamento solo tremila metri in totale. L’Inghilterra quella che ha risalito di più il campo con il gioco aereo, oltre mille metri a partita, 5.286 in totale, appena sopra la Francia (5.129), in cui Dupont (1.588), Ntamack (1.507) e Ramos (1.354) sono tutti ai primi posti tra i frombolieri.

Gli Azzurri sono quelli che hanno giocato più palloni alla mano (1.587) ed effettuato più passaggi (974, la Francia è quella che ne ha fatti meno, 628). Questo ha permesso agli uomini di Crowley di conservare più a lungo il possesso del pallone e, di conseguenza, di dover effettuare meno placcaggi, 690, contro gli 831 della Scozia e gli 820 della Francia.

Per l’Italia, l’altra faccia della medaglia, è rappresentata però dal numero di errori commessi nel gioco alla mano, 78, contro i 44 dei gallesi e i 47 dei francesi.

Azzurri penalizzati anche dai falli in mischia, nonostante l’ottimo inizio di torneo (una sola punizione contro la Francia, la prima giornata): 14 in totale quelle fischiate contro le nostre prime linee, nessun’altra squadra è in doppia cifra.

In tre incontri su cinque (Francia, Irlanda e Scozia) l’Italia a un quarto d’ora dalla fine aveva ancora un distacco contenuto entro i sette punti e sia con la Francia, che con la Scozia, un assalto finale gestito con maggior attenzione avrebbe potuto regalare addirittura la vittoria.

Delle 22 mete subite dagli Azzurri nel torneo, 16 sono state realizzate nei primi 36’ minuti, creando un handicap iniziale che poi è stato impossibile recuperare.

Meno di 20 i minuti trascorsi nei 22 avversari, con una raccolta media di 1,82 punti a visita.

SEI NAZIONI 2023
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Più o meno?

Federico Meda

Più

• Siamo la squadra che ha segnato più punti ai vincitori del Grande Slam (20) e, Francia a parte, l’unica che nel secondo tempo ha realmente avuto chance di poter vincere la sfida con l’Irlanda.

• È tornato l’entusiasmo fra gli appassionati di lungo corso, finalmente orgogliosi del gioco sviluppato, e anche nella generazione Six Nations che dopo anni di sconfitte si era disinnamorata: è un momento cruciale per ricominciare a guadagnare tesserati e pubblico (a casa e allo stadio).

• Ruck velocissime, una seconda/terza linea di attacco fluida ed efficace (si crea il sovrannumero con facilità); una difesa a tratti eroica in cui l’elemento che emerge è il fitness degli interpreti. Gli Azzurri hanno un’identità di gioco, dei pilastri cui appigliarsi che funzionano. Ed era tanto che non succedeva.

• La leadership di Michele Lamaro: conosce bene il regolamento, sa dialogare con gli arbitri e l’armonia del gruppo è anche merito suo. E non ha ancora compiuto 24 anni.

• Reggiamo gli 80 minuti dal punto di vista fisico e mentale.

Meno

• Siamo una squadra che calcia molto ma fa meno metri di tutti

• La poca confidenza nella battaglia aerea: non è un metodo efficace per recuperare palloni in attacco ed è un riconosciuto punto debole in difesa.

• La profondità: ci manca una panchina all’altezza degli avversari, solo in determinati ruoli abbiamo i ricambi all’altezza dei titolari.

• La mancanza di un piano B. Se il nostro gioco viene contrastato efficacemente e i ball carrier non sfondano non abbiamo altre armi a disposizione. Gli altri sì.

• L’approccio alla partita: non siamo mai passati in vantaggio per primi se non in Scozia. Questi i nostri start prima di segnare punti: Francia 0-7; Inghilterra 0-19; Irlanda 0-5; Galles 0-10.

Luciano Ravagnani

Più

• Raggiunta una certa solidità in mischia; bene la touche con Ruzza vero pack-leader; competitivo il maul da penal-touche. Cresciuto il numero di giocatori eccellenti, ma non ancora sufficiente; trequarti in genere più rapidi.

• La media tecnica è ancora inferiore a quella degli avversari, anche se alcune mete (esempio: il grubber di Paolo Garbisi per Allan, in Scozia) sono da applauso.

• Kieran Crowley è razionale e non fa proclami; si fida del lavoro preparatorio.

• La squadra fatica a cambiare cadenza di gioco e subisce troppo nei primi tempi; ottiene di più quando l’avversario ha già il bonus-mete. Non è male, ma non basta.

• Quando si “adatta” agli arbitraggi ottiene buoni risultati (ma il problema è l’arbitraggio, si sa...).

• La mediana molto criticata dipende da quel che accade davanti, Varney in avanzamento sa giocare bene e ha un gran gioco al piede (tre 50-22 nel torneo).

Meno

• La meta subita da Williams (Galles) imbarazzante per una difesa che spesso “raddoppia” senza necessità e determina buchi (si impone una riflessione).

• Gli attacchi, peraltro sempre spettacolari, sembrano spesso frutto di disperazione; il topo chiuso all’angolo che salta negli occhi del gatto.

• Mediana non efficace (ma vedi “più”)

• Segnate 1,8 mete a partita; subite 4,5. Differenza 2,7 mete, troppo pesante.

• Difficoltà a comprendere il metro e le decisioni dell’arbitro (pardon: del direttore di gioco), una tassa eliminabile solo vincendo.

• Le competenze tecniche subiscono ancora il “gap” di un movimento entrato nel Sei Nazioni dopo più di un secolo. Nel rugby non basta: il ranking mondiale lo testimonia.

Valerio Vecchiarelli

Più

• Gli stranieri credono a un’Italia in crescita, ma tornare alle pacche sulle spalle di incoraggiamento è un attimo…

• Il pienone dell’Olimpico contro il Galles. La dimostrazione che in Italia basta offrire al pubblico la possibilità di vincere e si viene ripagati.

• Kieran Crowley ha dimostrato di essere uomo di lavoro silenzioso, pochi proclami e tanta sostanza, forse il commissario tecnico che più ha inciso nel cambiare gioco e mentalità alla squadra. Merita fiducia.

• I numeri non ci danno ragione, ma il gioco e la presenza in campo sì. Adesso bisogna supportare questo cambio di passo con la sostanza, ovvero i risultati.

• Capuozzo, Lorenzo Cannone, Negri, Fischetti. Le novità Iachizzi, Zuliani, Menoncello. Intorno a loro si può costruire.

Meno

• Zero vittorie, ottavo cucchiaio di legno consecutivo, la retromarcia nel ranking mondiale. I numeri parlano da soli, isolati dal contesto dichiarerebbero il fallimento.

• Il gioco tattico, ma può essere che dopo tanti anni ancora non si è riusciti a migliorare in quello che è uno dei momenti chiave del rugby moderno?

• L’assenza di Ioane. Con lui e Capuozzo in campo forse oggi racconteremmo un’altra storia. Possibile che a livello politico non ci fosse la strada per avere l’australiano disponibile?

• L’Under 20. Troppe promesse di un recente passato stentano a essere mantenute e la storia si può ripetere anche con questo gruppo delle meraviglie se non si struttura un percorso definito per traghettarlo verso l’alto livello.

20

Giacomo Bagnasco

Più

• Gli Azzurri hanno espresso un gioco offensivo decisamente migliore, con trame efficaci e capacità di bucare lo schieramento avversario. Un passo aventi per essere considerati all’altezza del torneo.

• In difesa il confronto fisico è stato spesso soddisfacente, i placcaggi di qualità non sono certo mancati.

• La tenuta nel corso dell’intero incontro, come testimoniano i finali di partita con Francia e Scozia, non ha costituito un problema.

• La giovane età di numerosi giocatori, distribuiti in tutti i reparti, è senz’altro motivo di speranza: grazie anche all’ulteriore esperienza che molti faranno ai Mondiali, il Sei Nazioni 2024 potrebbe finalmente portare i risultati che mancano.

Meno

• Le partenze a handicap hanno spesso compromesso le partite, e sono state il più delle volte la causa del bonus mete concesso agli avversari

• La concentrazione viene a mancare in momenti fondamentali sia in attacco (azioni da meta svanite per errori anche banali) sia in difesa (un esempio per tutti, la marcatura di Liam Williams contro il Galles all’Olimpico)

• Le azioni alla mano portate dai propri 22 possono costituire una sorpresa, e dare anche esiti favorevoli, ma non si può ricorrervi (quasi) sempre, pena una lettura più facile del nostro gioco

• La gestione da parte della mediana non è stata costantemente di buon livello, e questo non può che incidere sul rendimento della squadra.

Giorgio Cimbrico

Più

• Nel bilancio dei punti fatti-subiti, l’Italia ha finito a -60: rispetto a certe stagioni catastrofiche, un dato positivo, incoraggiante.

• Attacca con disinvoltura, spesso a vasto raggio.

• È una squadra giovane, con un nuovo spirito.

• Ha giocatori che lasciano il segnoNegri, il più giovane dei Cannone – e altri, Zuliani, che potranno lasciarlo.

• Kieran Crowley non ha mai fatto promesse fantasmagoriche, irreali.

• Rispetto a un tempo recente, ha ricevuto complimenti da media e da ambienti che spesso la ignoravano.

Meno

• In passato, 2007 e 2013 in particolare, questi livelli erano stati raggiunti e superati.

• È stato collezionato il 18° cucchiaio di legno, l’ottavo consecutivo. È di legno più pregiato di alcuni che l’hanno preceduto, ma la sostanza non cambia.

• Ha concesso il bonus offensivo a tutte e cinque le avversarie.

• Ha segnato poco (9 mete) e ha subito tanto: 22 mete equivalgono a 4,5 a match. Difficile vincere se non se ne segnano cinque.

• La mediana è stata mediocre, idem il gioco al piede.

• Se Ange Capuozzo non fosse stato colpito da improvvisa luce inventando la grande fuga di Cardiff, oggi l’Italia sarebbe a 42 sconfitte consecutive. Raggiunto e superato, invece, il traguardo dei dieci anni senza vittorie interne.

Alessandro Cecioni Più

• La difesa sul drive è stata efficace in quasi tutte le partite, meno che con l’Inghilterra.

• La crescita di Lamaro come capitano

• La rabbia di Crowley dopo l’arbitraggio con il Galles, a volte bisogna avere anche il coraggio di farsi fare rispettare

• Nicotera la sorpresa: un anno fa era il quarto tallonatore. In questo Sei Nazioni sempre titolare.

• L’organizzazione e la velocità dell’attacco hanno messo speso in difficoltà anche le difese meglio organizzate.

Meno

• Troppi errori in touche in momenti decisivi

• scarsa freddezza nei momenti chiave del match, in certe situazioni ci volevano più pazienza e una maggiore lucidità nella gestione.

• l’incapacità di reagire in tempo reale ai problemi (necessità di un piano B).

• la formazione scelta da Crowley nella partita con la Scozia: nel Sei Nazioni si gioca sempre per vincere, non per far esperimenti in vista del futuro.

• Pierre Bruno spesso non all’altezza di questo livello.

SEI NAZIONI 2023
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22

L’importanza di chiamarsi RINGROSE

Il

C’è una lezione che si può trarre da questo 6 Nazioni. O meglio, una conferma: due primi centri in formazione non sono una garanzia di buona partnership. Quasi a corollario, emerge sempre più chiara l’importanza tattica del secondo centro, soprattutto in difesa.

Questo appare evidente guardando proprio la squadra che ha dominato il torneo e che svetta nel ranking mondiale.

Nella partita contro l’Italia il ct irlandese Andy Farrell, orfano di Ringrose, ha scelto di schierare insieme Bundee Aki e Stuart McCloskey. Come sappiamo, entrambi vengono impiegati solitamente nel ruolo di primo centro nelle loro franchigie. Una

scelta che ha fatto storcere il naso a più di qualcuno. Se McCloskey sta giocando bene a Ulster e ha dimostrato affidabilità nei test autunnali, Aki sembra invece ancora in rodaggio quest’anno, visto che comunque il suo utilizzo è stato effettuato con il contagocce (complice anche una pesante squalifica per gioco violento). Proprio Aki è stato posto sul banco degli imputati e la sua prestazione messa sotto la lente d’ingrandimento dalla stampa irlandese. “Mixed bags”, ha definito la propria prestazione il giocatore alla stampa. E ha ragione, perché se è vero che contro gli Azzurri ha segnato una meta e “mezza” e ha ispirato pregevoli manovre in attacco (vedi il servizio a Van Der Flier a ini -

centro dell’Irlanda spesso sfugge all’occhio dell’osservatore meno attento, ma la sua importanza nella squadra numero uno al Mondo è fondamentale.
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Garry Ringrose, 28 anni, 50 cap e 13 mete con la maglia dell’Irlanda.

zio gara, il buco e l’assist per Keenan nella seconda meta irlandese), è proprio l’aspetto difensivo che i media hanno vivisezionato e portato come capo d’imputazione.

Aki non sembra difendere con la velocità richiesta dal sistema messo in piedi da Simon Easterby. Sembra inoltre che le squalifiche per misbehaviour e gioco pericoloso abbiano in qualche modo bagnato le polveri al suo marchio di fabbrica: l’assalto fisico volto a demolire l’avversario. Molte delle falle nella difesa irlandese si creano proprio attorno a lui ed evidenziano chiaramente una scarsa intesa con

il resto del reparto. La nostra prima marcatura nasce proprio dallo scollamento tra Aki e Lowe, dove si infila Lorenzo Cannone che arriva in prossimità della meta, finalizzata poi da Varney. Sempre Cannone (prestazione super la sua) poco dopo buca ancora da prima fase tra i due centri.

Aki ha spesso costituito un vero e proprio “broken link” fra il suo partner McCloskey e James Lowe all’esterno, il quale si è trovato in un paio di occasioni in situazioni di dubbio amletico: salgo o non salgo? Era evidente che qualcosa non stava funzionando.

Aki lo sa ma non riesce a porvi rimedio. A un certo punto è talmente frustrato che, dopo aver rimediato una penalità, si lascia sfuggire un sonoro “fucking stupid!”, raccolto in mondovisione dal microfono dell’arbitro, che ha costretto il commentatore di Itv Nick Mullins a scusarsi in diretta per conto del giocatore.

È onestamente difficile capire quali dinamiche si possono generare in campo e come queste influiscano sull’alchimia dei giocatori. Disquisire ulteriormente sull’intesa tra Aki e McCloskey può risultare un esercizio puramente speculativo. Di fatto, però, ci può far riflettere su quanto precisi e puntuali siano i meccanismi di una squadra, su quanto una lieve esitazione regali matematicamente metri all’avversario e su quanto, in un simile contesto, sia importante la figura di Ringrose.

Non è un caso che in Irlanda il secondo centro di Leinster sia considerato alla pari di Sexton per l’economia del gioco. Ormai assurto a ruolo di leader della diga difensiva dei verdi, Ringrose è un vero e proprio world-class player, nonostante spesso il livello stratosferico delle sue prestazioni passi in sordina. Sexton stesso, in una recente intervista, si chiedeva come fosse possibile che Ringrose, ventottenne, non abbia ancora giocato con i Lions britannici. Il loro tour del 2025 in Australia potrebbe dargli quindi la definitiva e meritata consacrazione. Le sue abilità sono talmente sottili e raffinate che sarebbe necessario riguardarsi le partite più volte per cogliere appieno le qualità del suo enorme work-rate. I suoi interventi sono spesso così fulminei che sfuggono alla frenesia della cronaca. Eppure Ringrose è un gigante. E lo ha dimostrato in modo assoluto nel match contro la Francia. Questa è la classica partita da far vedere a un ragazzo che vuol giocare centro ad alto livello, un vero e proprio Bignami del secondo centro. Se si prova ad analizzarla si troveranno una quantità di episodi e spunti tecnici da far impressione.

Play/pause/rewind/play: era da un bel po’ di tempo che non mi cimentavo, ma ne vale davvero la pena per capire quanto cruciale sia il suo lavoro. Innanzitutto senza palla.

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Lorenzo Cannone buca tra Aki (a destra) e Keenan. Sotto: il numero otto azzurro accelera inseguito da Stuart Mc Closkey e Caelan Doris.

Al minuto 12.50 la Francia muove palla con Ramos da destra a sinistra usando molti giocatori nei pod. Ringrose, là in alto, legge subito l’attacco e temporeggia quel tanto da garantirsi l’interno, quindi punta il mirino e sale sparato su Fickou, che può solo servire corto per Moefana. Ma l’assertività di Ringrose innesca subito al suo esterno Mack Hansen in modo talmente rapido e automatico che la manovra francese viene letteralmente soffocata e Moefana si trova braccato da tanti quadrifogli.

Oltre alla lettura fulminea dell’attacco, l’abilità di Ringrose sta anche nel modo di guadagnare tempo (parliamo di millesimi di secondo) per prendere la

decisione migliore quando l’attacco ha più opzioni.

Provo a rivedere allora l’ultima azione della Francia, minuto 81’.

Ancora una volta: play/pause/rewind/play. Fickou, sul piede avanzante, porta palla sui 22 avversari e ha l’opzione sullo stretto (con un pod di 3 compagni) e sul largo, dove i galletti sono in superiorità. Ringrose allora fa una cosa inusuale in un campo da rugby: danza. Quasi a passo di tip-tap infatti avanza sparato poi indietreggia giusto per instillare il dubbio all’attacco e ridurne le opzioni. Riesce nel frattempo anche a dare ad Aki indicazioni su chi marcare al suo interno (è ben visibile il

Ringrose in una presa al volo acrobatica, sorretto da Josh van der Flier. François Cros non sa se ripararsi o intervenire.

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Al di là della vetta nel ranking, l’impressione è che le basi su cui poggia il gioco irlandese, che oggi si chiamano Sexton, Ringrose, O’Mahoney, Murray e Van Der Flier, siano più solide e in forma che mai. E che attorno a loro sia stato creato un gruppo di giocatori che sono individualmente migliorati in modo notevole.

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braccio di Ringrose che indica l’avversario da marcare). È a quel punto che scatta la trappola: la parità numerica è ristabilita, perché nel frattempo l’interno è stato garantito, e Ringrose accende la miccia del rush. Lowe al suo esterno coglie il segnale e sale sparato, chiudendo di fatto tutte le porte. Dumortier viene braccato e portato indietro di diversi metri, dopodiché perde addirittura palla nel tripudio dell’Aviva Stadium. Gran parte del lavoro difensivo di Ringrose non sta nel placcaggio. In questa azione non tocca nemmeno gli avversari, ma la sua corsa e il suo body language hanno dettato le note di una suite sublime. Ma oltre alla qualità degli interventi di Ringrose, quello che colpisce è anche la quantità. Il centro di Leinster è un lavoratore infaticabile e il suo apporto emerge soprattutto nei momenti cruciali della par-

tita. È lì che si vede il fuoriclasse. I francesi stanno infatti premendo sull’acceleratore e vedono l’Irlanda a un passo. È da poco iniziato il secondo tempo e il risultato è sul 22 a 17 per i verdi.

Inizialmente Ringrose placca Moefana vicino ai 15 metri e resta invischiato nella ruck che si forma. Ma la Francia muove subito palla al largo sulla sinistra dove, tanto per cambiare, si trova in superiorità. Dumortier riceve sul lungo linea, sprinta e scavalca l’ultimo difensore Keenan con un calcetto. Sembra fatta, e invece no, perché Keenan NON è l’ultimo difensore. Compare infatti da chissà dove Ringrose che, con la serenità del monaco, riceve al volo e chiama il mark, salvando la meta del pareggio. Riguardo l’azione e capisco che Ringrose, dopo il placcaggio, fa un ampio swing dietro alla linea difensiva irlandese, legge l’attacco e prevede tutto. Il suo sforzo è quindi farsi trovare al posto giusto nel momento giusto. Istinto e commitment: una miscela micidiale.

La sua meta finale, che di fatto sigilla la partita, non è altro che la coronazione di una prestazione maiuscola.

Sarà interessante nei prossimi mesi vedere come il management irlandese gestirà i propri giocatori cardine in vista del mondiale. Il rischio è che, come nella passata edizione, gli irlandesi arrivino alla Coppa del Mondo con il fiato corto. Mai però come in questi due ultimi anni l’intesa fra i giocatori in maglia verde si è percepita in campo. Al di là della vetta nel ranking, l’impressione è che le basi su cui poggia il gioco irlandese, che oggi si chiamano Sexton, Ringrose, O’Mahoney, Murray e Van Der Flier, siano più solide e in forma che mai. E che attorno a loro sia stato creato un gruppo di giocatori che sono individualmente migliorati in modo notevole. Come titolava il Guardian all’indomani della vittoria sulla Francia, con l’imminente Grande Slam e la World Cup alle porte, “fun for Ireland may only just be beginning”.

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La meta contro la Francia sotto gli occhi di Macalou.

Un torneo da record

L’Irlanda conquista il Grande Slam anche con l’U20. Decisiva come fra i seniores la vittoria sulla Francia, 33-31, grazie alla punizione decisiva di Sam Prendergast a tre minuti dalla fine.

Per l’Italia il terzo posto significa il miglior risultato di tutta la sua storia, benchè sia arrivato con sole due vittorie contro le tre della scorsa stagione. Decisivi i ben sette punti di bonus conquistati dagli Azzurri nel corso del torneo: bonus per le quattro mete in tutte e cinque le partite, bonus per aver contenuto la sconfitta entro sette punti con la Francia e l’Inghilterra.

Con la Francia, peraltro, la vittoria è sfumata all’ultimo minuto per l’errore di Bruniera dalla piazzola: se in occasione della meta di Douglas, a tempo ormai scaduto, il mediano di apertura del Mogliano avesse centrato i pali (in precedenza, Sante 1/5 nei piazzati), l’Italia avrebbe battuto i Bleus per la prima volta nel torneo.

Fra i giovani Azzurri in grande evidenza la prima linea con Aminu, Gallorini, Qattrini, Gasperini e Artuso tutti a referto come marcatori nell’arco delle cinque partite. Con 5 mete Gallorini è stato il metaman del torneo alla pari dell’ala francese Leo Drouet.

Eccellente anche il torneo di David Odiase e di Carlo Mey, con il numero 8 Jacopo Botturi (classe 2004) pure sugli scudi nella partita contro gli scozzesi.

“Dopo le tre vittorie dell’anno scorso, l’obiettivo era confermarci competitivi in tutte le partite di questo nuovo torneo – dice Massimo Brunello, alla guida della squadra per il terzo anno consecutivo -. E da questo punto di vista credo non

La classifica

ci sia niente da dire. C’erano ragazzi attesi da un’ulteriore verifica (Odiase, Mey e tutti quelli del 2003, ndr) e altri che avevamo già visto nella U18 (Gallorini, Botturi…) o che provenivano da percorsi diversi, come Aminu. È stato un torneo importante anche sotto questo profilo”.

Peccato aver gettato al vento l’occasione con la Francia… “È un peccato - analizza Brunello - perché il successo ci è sfuggito per un soffio e avrebbe potuto replicare, sul piamo del prestigio, quello con l’Inghilterra un anno fa. Contro l’Irlanda invece abbiamo approcciato male la sfida, gli abbiamo lasciato prendere un vantaggio troppo grande che poi non è stato possibile rimontare. Ma siamo stati bravi a reagire e a conquistare il bonus che alla fine ci ha permesso di arrivare terzi”.

Azzurri bravi a voltare pagina dopo le prime tre giornate. “È indiscutibile – osserva ancora Brunello - che dopo le prime tre partite ci fosse un po’ di frustrazione, anche se sapevamo che le ultime due sulla carta erano alla nostra portata. Forse in alcuni ragazzi, in certi momenti, è mancata un po’ di esperienza e di capacità di gestire le situazioni. Comunque con il Galles, poi, abbiamo vinto anche se non è stata la nostra partita migliore, anzi siamo stati bravi a rimetterla nel verso giusto quando sembrava che potesse finire male. E con la Scozia abbiamo messo in mostra tutta la nostra potenza, che a tratti è stata perfino superiore a quella degli anni scorsi quando avevamo i vari Neculai, Rizzoli, Genovese... Insomma penso che il bilancio sia più che positivo e se fosse entrato quel calcio con la Francia non ci sarebbe stato proprio niente da dire”.

SEI NAZIONI
Squadra Vinte Pari Perse Punti fatti Subiti Diff. Mete fatte Subite Bonus Bonus sconfitta Punteggio  Irlanda 5 0 0 239 116 123 32 17 4 0 27  Francia 4 0 1 222 96 126 32 13 4 1 21  Italia 2 0 3 148 146 2 24 18 5 2 15  Inghilterra 3 0 2 141 160 -19 21 21 3 0 15  Scozia 1 0 4 90 234 -144 10 34 0 1 5  Galles 0 0 5 107 195 -88 14 30 1 2 3
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NAZIONI U20 2023

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Giovanni Quattrini guida l’U20 in campo, seguito da David Odiase e Matteo Rubinato.

You are my Destiny

La bella storia di Destiny “Dede”Aminu, da Benin City a Udine con la maglia azzurra nel cuore.

di Valerio Vecchiarelli

L’altra metà della prima linea che ha devastato ogni pacchetto di mischia incontrato sulla sua strada nel Sei Nazioni Under 20, ha il faccione simpatico e l’accento friulano di Destiny, «Dede» per tutti, Aminu, pilone sinistro nato a Benin City, Nigeria, e arrivato in Italia, a Udine, insieme con mamma Grace e l’ultima delle tre sorelle che lo coccolano come fosse il loro orsacchiotto di pelouche.

Il viaggio che ti cambia la vita per sempre gli Aminu lo fecero per raggiungere papà Henry, che in Italia era arrivato da tempo, operaio in Friuli con il sogno di diventare italiano. Sogno avverato nel 2018, richiesta di cittadinanza accolta e possibilità di vestire l’azzurro per il piccolo (? 188 cm x 122 kg) Dede: «Io sono italiano dentro - racconta sorridendo Destiny appena tornato dal trionfale viaggio in Scozia - vado a scuola qui, canto con orgoglio l’inno, gioco per questo Paese che mi ha dato la possibilità di scoprire un modo bello di vivere». Eppure le radici non si dimenticano: «Le radici sono importanti, io da allora non sono più tornato in Nigeria, ma quando sono arrivato qui papà conosceva tante persone, aveva tanti amici che ci facevano sentire comunità, si respirava aria d’Africa. E poi là ho le due mie sorelle maggiori, ci sentiamo spesso, ci raccontiamo, ci scambiamo sensazioni sui nostri modi di vivere. Diciamo che sono cresciuto con le radici africane e il modo di vivere italiano, sono un ragazzo fifty-fifty, ma oggi il mio Paese è questo».

Rugbista, il Destiny nel nome: «Ho iniziato a giocare a 13 anni, come tanti perché un giorno a scuola arrivano due giocatori del Leonorso Udine, spiegano cosa è il rugby e invitano gli studenti ad andare al campo a fare una prova. Io all’epoca giocavo a

pallavolo, ma la curiosità mi ha spinto ad andare a vedere cosa fosse quel gioco di cui non conoscevo l’esistenza. Dopo due mesi, dal nulla, ero in campo con il Leonorso. Poi il mio club si è unito con l’Fvg Rugby Udine e tutta la mia esperienza giovanile è targata Rugby Udine. Fino al provino per l’Accademia di Treviso, il trasferimento in Ghirada, la fantastica esperienza della Nazionale e l’impegno in Top 10 con il Mogliano. Sono consapevole di come il mio percorso sia solo all’inizio, quale direzione prenderà dipende solo da me».

Questo Sei Nazioni, le due vittorie, le mete (3) personali, la mischia che trita gli avversari. Sensazioni dalla prima linea: «All’inizio ci abbiamo messo un po’ per trovare le giuste connessioni, poi tutto è diventato molto divertente. Con Marcos (Gallorini, ndr) è uno spasso, lui fuori dal campo è un cucciolone, davvero un bravo ragazzo, ha una bella parola o uno scherzo per tutti. Poi si mette la fascia in testa e si trasforma, quando lo sento intimidire gli avversari in mischia resto sorpreso e penso: “Ma davvero è la stessa persona che stava là fuori?”. Insieme abbiamo trovato un bel modo di divertirci». Divertimento, è una parola che torna spesso nei discorsi di Dede: «Perché, come altro si chiama in italiano? In fondo io spero di guadagnarmi da vivere giocando, mica lo posso definire lavoro. Lo faccio anche per rendere orgogliosi i miei, loro sì che sanno davvero cosa sia il lavoro. Papà adesso è in Irlanda, fa l’aiuto cuoco e vuole sempre foto e video di me in maglia azzurra. Credo che per lui sia davvero un motivo di orgoglio poter far vedere là, non in un posto qualsiasi, cosa sta facendo suo figlio per il suo, il nostro, Paese».

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La prima linea della U20, con Aminu in primo piano, contro la Francia.
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Sei Nazioni U20, con Aminu protagonista: con la fascia in testa, con David Odiase, alle sue spalle, parzialmente coperto, Alex Mattioli.

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La vittoria in Scozia e poi la festa a Glasgow… «Una festa un po’ amara, perché Massimo Brunello, oltre a essere un grande allenatore, è un po’ il papà di tutti noi. Ha creato un gruppo che si vuole bene e allora pensare che per molti di noi era l’ultima partita nel Sei Nazioni, che i “francesi” sarebbero tornati a casa, che scesi dall’aereo ognuno di noi avrebbe preso la sua strada mi ha messo addosso molta malinconia».

Bene con i sentimenti, ma a giugno c’è un Mondiale da giocare insieme: «Sarà bellissimo, ma alla fine anche bruttissimo, perché lì dopo l’ultima partita saremo consapevoli che la favola della nostra Under 20 sarà davvero finita».

E allora parliamo di questo gruppo e guardiamo avanti: «Un’esperienza fantastica, se per me Brunello è un padre, David Odiase è un fratello. Abbiamo un vissuto simile alle spalle, conosciamo le nostre origini e l’importanza di essere italiani e poi lui ha la capacità di proteggerti sempre, in campo e fuori. Un riferimento per tutti. Quando dice che qui in Italia per lui il colore della pelle non è un suo problema, ma il suo punto di forza, per me è motivo di grande ispirazione. Il mio futuro? Sto qui a Treviso, qualche volta mi chiedono di allenarmi con il Benetton, respiro questa aria. Non so come andrà, ma certo spero di iniziare il mio percorso da professionista del rugby qui e che qualcuno dei miei compagni in azzurro

possa raggiungermi. Dicono che Marcos potrebbe essere nel mirino del Benetton, sarebbe fantastico continuare a crescere insieme».

Punti di forza e di debolezza di Dede pilone: «Mi diverto da matti a portare avanti il pallone, credo di avere l’occhio per farmi trovare al posto giusto nel momento giusto. Anche se il vero piacere in campo lo trovo in difesa, il placcaggio mi esalta. Devo, invece, lavorare molto in mischia chiusa, capire posizioni di spinta e impatto con l’avversario e su quello mi sto concentrando».

Le tre mete personali nel Sei Nazioni sono il momento più bello di una carriera appena iniziata? «No, quelle sono il frutto di un lavoro collettivo. Il momento più bello resta quando da capitano dell’Under 16 del Rugby Udine, al primo anno in élite, riceviamo il Benetton e segno 4 mete. Indimenticabile».

Cosa fa Dede Aminu quando non pensa al rugby? «Pensa al rugby… Scherzo, perché adesso devo prendere il diploma di maturità, frequento l’Istituto Alberghiero a Villorba e voglio crearmi un’alternativa per il futuro. Ho imparato a cucinare, mi piace e, soprattutto, è importante perché in Ghirada vivo da solo e riesco a badare a me stesso anche per quel che riguarda la dieta. Non sono uno che passa tempo sui social, ma il telefono lo uso molto per fare videochiamate con i miei, con le mie sorelle in Nigeria, con mamma a Udine o con papà in Irlanda. La mia famiglia è importante e capisco che quello che sto facendo in questo momento è soprattutto importante per loro. Poi ascolto musica, Calm Down di Rema (cantautore nigeriano, ndr) è il brano che più mi rappresenta e se ho tempo guardo qualche video con le gesta di “Beast” Tendai Mtawarira, il giocatore di rugby che è la mia fonte di ispirazione». Le radici di un ventenne che ha già tanta vita sulle spalle, quelle profonde, quelle belle. Colorate di azzurro.

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A destra, una delle due mete del pilone azzurro contro l’Inghilterra a Gloucester. Sotto, in azione contro la Francia a Monigo.

La “casa del pallone”

La prima giornata del Sei Nazioni femminile ha detto che senza una mischia efficace (Irlanda, Scozia e Italia) non si può vincere. L’analisi delle prime tre partite del torneo

Il Sei Nazioni 2023 si è aperto all’Arms Park di Cardiff all’insegna del rinnovamento. Un terzo delle gallesi e metà delle irlandesi in campo non erano state coinvolte nelle rispettive squadre nel 2022. Numerose assenze erano dovute a impegni con il Seven (Joyce e Powell tra le gallesi, Parsons, Murphy -Crowe, Flood e Higgins tra le irlandesi). Questo fatto rende difficile trarre indicazioni per il futuro del torneo da questa prima giornata in quanto daIla terza giornata le star del Seven dovrebbero essere nuovamente disponibili. Tornando a Cardiff, il Galles ha imposto sin dai primi minuti la propria supremazia in mischia e in rimessa laterale. Un’alternanza di rolling maul da penal touche e carretti da mischia chiusa ha creato fortissimi problemi all’Irlanda, che alla mezz’ora di gioco aveva già concesso il punto di bonus offensivo alle avversarie. Nella ripresa le verdi hanno ritrovato un po’ di equilibrio nelle fasi statiche concedendo soltanto una

segnatura e segnando a loro volta a poco più di dieci minuti dal termine, per il 31-5 finale. L’Irlanda ha comunque colpito negativamente non soltanto per le difficoltà ad assicurarsi possessi di qualità, ma per la povertà di idee nel gestirli. Nel complesso invece si è assistito ad una prova di rilievo da parte del Galles, non solo per il controllo nelle fasi di conquista ma anche per il dinamismo delle linee arretrate. Molte facce nuove anche nell’incontro tra Inghilterra e Scozia, alla fine del quale le inglesi hanno salutato la loro leggendaria capitana Sarah Hunter (141 caps, una vittoria e due finali di coppa del mondo). In questo caso le novità erano in buona misura dovute alle numerose indisponibilità emerse nell’ultimo mese, in parte per infortunio (Botterman, Keates, Galligan e Fleetwood tra le avanti, Harrison, Rowland, Scarratt e Hunt nelle linee arretrate), in parte per ragioni personali (Cornoborough e Ward). Molte assenze anche nel-

Una percussione di Giada Franco, con Sillari (coperta), Rigoni e Sgorbini (a destra) in sostegno.

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la Scozia, che tra infortuni e impegni con la selezione a 7 ha dovuto rinunciare alle avanti Konkel-Roberts, Bonar, Wassell, Wright, e alle trequarti Thomson, Lloyd e Cockburn. Ne è risulta un team che, come del resto anche quello irlandese, presentava numerose giocatrici emerse nella nuova competizione celtica, ma prive di esperienza ai livelli più alti. La Scozia si è comunque conferma intraprendente in attacco ed aggressiva in difesa. Non è riuscita però ad arginare la potenza delle inglesi, che seppure con qualche discontinuità hanno segnato dieci mete - metà delle quali dalla solita incontenibile rolling maul. E’ finita 58-7 grazie alla meta della bandiera scozzese, arrivata con Chloe Rollie nel finale quando l’Inghilterra era ridotta in 14 per esaurimento delle sostituzioni. Molto diverso invece il profilo delle due squadre in campo a Parma. L’Italia schierava una formazione di grande esperienza, la migliore attualmente disponibile al netto delle infortunate Arrighetti, Veronese e Granzotto. Da notare l’inattesa ma graditissima disponibilità di Sara Barattin, che ha confermato anche in azzurro l’ottimo stato di forma attuale con il suo club. Per contro la Francia presentava una squadra ampiamente rinnovata a partire dalla capitana (la seconda linea Forlani, in precedenza esclusa da RWC 2021 ma richiamata in pompa magna in servizio dalla nuova head coach Gaelle Mignot). Il punto interrogativo riguardava soprattutto seconda e terza linea. AI ritiri già annunciati si erano infatti aggiunti gli infortuni delle due star Romane Menager e Ma-

doussou Fall. E in effetti è stato nella battaglia al breakdown e nelle penetrazioni che coinvolgevano le terze linee che l’Italia si è resa più pericolosa. La partita è stata sostanzialmente in bilico sino agli ultimi dieci minuti, quando la meta della Boujard trasformata della Tremoulliere ha tolto all’Italia anche il punto di bonus difensivo fissando il punteggio sul 22-12 (in precedenza avevano marcato Franco e d’Incà per le azzurre, Vernier e l’esordiente apertura Arbez per le transalpine). Tra gli elementi positivi e che fanno ben sperare per il resto del torneo stanno la monumentale prestazione difensiva (notevole aver concesso una sola meta alle francesi nell’ultima mezz’ora in cui hanno praticamente sempre avuto il pallone) e la capacità di creare situazioni pericolose in attacco (da segnalare, oltre a due mete di ottima fattura, anche alcuni break della Muzzo). Preoccupano invece la disastrosa prestazione in rimessa laterale, e le forti difficoltà in mischia chiusa. È per certi versi miracoloso ch, grazie a una prestazione difensiva eroica, le ragazze siano riuscite a contenere il punteggio negando alla Francia anche il bonus offensivo. Rimane però l’amarezza per un incontro che con un possesso di decente qualità avrebbe potuto avere un esito molto diverso. Migliorare drasticamente nella gestione delle fasi statiche appare essenziale per evitare delusioni contro avversarie che dal punto di vista della qualità espressa in questa prima giornata sono apparse inferiori (a volte anche nettamente) alle Azzurre.

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Alyssa D’Incà, protagonista della seconda meta dell’Italia.
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NON È MAI TROPPO TARDI

Si può iniziare a giocare molto tardi e, tuttavia, arrivare all’età di 27 anni con un’esperienza che comprende già tre campionati nazionali diversi, uno scudetto vinto in Italia, una partita con le Barbarians, 24 caps azzurri e una Coppa del Mondo, nonostante uno stop molto lungo a causa di un infortunio con tanto di ginocchio sfasciato? L’evidenza che tutto questo è possibile, almeno a livello femminile, è data da Silvia Turani, bergamasca di Grumello del Monte, giocatrice con le giuste dimensioni (169 centimetri, 85 chili) per ricoprire il ruolo di pilone sinistro e, all’occorrenza, per essere impiegata anche nelle altre caselle della prima linea.

“Sì - racconta lei - ho cominciato a 21 anni. Il primo contatto con il rugby (un allenamento e un torneo a sette) è venuto mentre facevo l’Erasmus in Spagna, a Cordoba. L’estate dopo sono tornata a Parma, dove studiavo, e ho cercato un contatto con

il Colorno. Mi hanno chiamata, ho provato e mi è piaciuto. Prima stagione nel 2016/2017, poi il campionato 2017/2018 da titolare e alla fine è arrivato lo scudetto. Per l’inizio della mia carriera sono stata proprio fortunata, chiedevo di fare tanti allenamenti extra per tutte le abilità richieste e ho trovato una grande disponibilità dei tecnici, a partire da Cristian Prestera e Nicola Liguori, che mi ha seguito anche nei lanci in touche. Infatti ho giocato pure tallonatore e, in più, mi è capitato di lanciare anche come pilone: è una parte del gioco che mi appassiona molto”.

Parallelamente al rugby, procedono gli studi universitari, legati tra l’altro a una passione per la cucina a 360 gradi. “Ho preso la laurea triennale in Scienze gastronomiche a Parma, poi ho ottenuto una borsa di ricerca in Trade & Consumer Marketing, facendo il primo anno ancora a Parma e il secondo a Grenoble, dove ho giocato il campionato

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In poco tempo Silvia Turani ha raggiunto grandi traguardi, è stata ferma per un infortunio e per il covid, e ora si è trasferita a Exeter alla scoperta del rugby inglese.
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Silvia Turani, 27 anni, alla vigilia del Sei Nazioni aveva collezionato 24 presenze con la maglia azzurra.

2020/2021. Mi interessano tutti gli aspetti legati a quella che si può definire la scienza del consumatore. Però da questa stagione sono in Inghilterra, all’Exeter, e oltre a giocare mi sono iscritta a Psicologia: frequento l’Università telematica Marconi, con cui la Fir ha una convenzione. Trovo anche degli agganci con quello che ho studiato finora, e alla fine dovrò decidere quale strada prendere”. L’annus horribilis è stato il 2021. “Ho dovuto saltare il Sei Nazioni per colpa del Covid. Poi, a maggio, stavo per tornare in campo con il Grenoble ma nel riscaldamento pre-partita mi sono infortunata al ginocchio sinistro: collaterale, crociato, due menischi, è saltato tutto. Naturalmente è stato subito chiaro che non avrei potuto fare il torneo di qualificazione ai Mondiali in settembre. E nei primi due-tre mesi dopo l’operazione il ginocchio non recuperava, andavo avanti tra lavoro e dolore fisico, un po’ c’era sconforto però mi fidavo di chi mi stava seguendo. Sei ore al giorno tra palestra, fisioterapia e, poi, tecnica di corsa. Tirando le somme, posso dire che a livello mentale e fisico la ripresa mi è piaciuta molto. Mi hanno seguito Cristiano Durante e Silvano Garbin (preparatori rispettivamente negli staff di Calvisano e Reggio, ndr) e ho ritrovato il campo con i ragazzi del Calvisano. Primo placcaggio, molto soft però, con Samu Vunisa... Tra i vari giocatori Piermaria Leso mi ha aiutato nella tecnica specifica di mi -

schia e, quando sono tornata a giocare, guardava le mie partite al video per darmi consigli. Mi commuove vedere le persone che si occupano di me”. Ecco, il rientro.

“Prima partita il 23 aprile 2022 a Parma contro la Scozia (con tanto di meta nei 18 minuti giocati come subentrata, ndr), poi da titolare in Galles”. Come dire, presente in occasione delle due vittorie nella scorsa edizione del Sei Nazioni. “Però aggiungo anche il barrage per le semifinali di campionato: e qui noi del Colorno, favorite, abbiamo perso in casa dalla Capitolina”.

Poi la preparazione per i Mondiali e una Rugby World Cup giocata tutta da titolare. “Mi ci sono veramente immersa solo quando sono arrivata in Nuova Zelanda. Si entra in un’altra dimensione, si pensa davvero soltanto al rugby. E poi i neozelandesi: ti fermavano per strada, ti dicevano che erano venuti a vedere la partita. Insomma, un’atmosfera a parte. Alla fine del torneo ho fatto anche un giro dell’Isola del Sud con mio fratello e poi ho trascor-

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“... Si entra in un’altra dimensione, si pensa davvero soltanto al rugby. E poi i neozelandesi: ti fermavano per strada, ti dicevano che erano venuti a vedere la partita.”
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Silvia Turani in percussione contro il Giappone all’ultima Coppa del Mondo in Nuova Zelanda.

so tre giorni alle Isole Figi. Ci tenevo tantissimo, sono stata ospitata da una famiglia, un’esperienza completamente diversa da qualunque cosa a cui potevo essere abituata”.

Neanche il tempo di riposarsi e...

“... mi sono trovata a Exeter. In realtà, sono rimasta una settimana a casa e poi sono partita per l’Inghilterra. Il contatto era avvenuto ad aprilemaggio tramite la mia agente, Ilaria Rossi. Mi interessava tornare all’estero, ed eccomi qui. Peccato solo per il tempo: normalmente è nuvoloso o piove, e fa freddo.

Ma il resto va bene. Conta molto il fatto di essere ‘appoggiate’ al club maschile (che nel palmares ha due titoli nazionali e uno europeo, ndr). Tra l’altro, come loro, ci alleniamo e giochiamo a Sandy Park, proprio un bell’impianto”.

“L’impatto con la nuova realtà - prosegue Silvia - è stato forte. Per quanto io sia sempre stata molto allenata, l’intensità e la fisicità degli allenamenti era molto lontana dalle mie esperienze precedenti. A dire il vero, durante il campionato le sedute “obbligatorie” non sono molte: dopo la partita del sabato (una gran bella novità per me, con la domenica per recuperare e liberare la mente), ci si trova il lunedì mattina e il martedì e il giovedì pomeriggio-sera. Poi si fa la preparazione individuale, ma il mercoledì bisogna rispettare una giornata di riposo. Prendiamo le sessioni del martedì e del giovedì: riunione in aula, allenamento di reparto per un’ora e mezza, palestra, altra riunione e poi un’ora e mezza di lavoro collettivo. Le riunioni sono frequenti: si parte il lunedì dalla visione della partita giocata il sabato, il martedì comincia la preview sulle caratteristiche delle prossime avversarie, il giovedì c’è la preview sul nostro piano di gioco e la review sul lavoro fatto martedì. Ah, siamo tutte monitorate con il Gps: ti fermano se corri troppo, e viceversa. A livello di staff tecnico la differenza con le squadre dov’ero stata prima c’è ma non è così evidente: anche a Colorno, per dire, avevamo allenatori full time. Mentre lo staff medico e quello dedicato alla preparazione fisica sono tutta un’altra cosa, e questo è fondamentale.

Prima di ogni allenamento dobbiamo compilare un questionario segnalando ogni minimo problema fisico, dopo il lavoro sul campo ci sono sauna, ghiaccio, trattamenti, agopuntura. Inoltre, abbiamo a disposizione gli allenatori della squadra maschile ogni martedì per le skills, ci sono un video-analyst e il suo aiuto, e c’è anche una ragazza addetta ai Gps e ai paradenti, che hanno un microchip in grado di rilevare gli impatti...”.

Il gruppo squadra?

“È composto da una cinquantina di atlete. Oltre alle inglesi ci sono statunitensi, canadesi, neoze -

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landesi, australiane, più le scozzesi, gallesi, irlandesi. Sul piano rugbistico e su quello umano questa cosa mi sta dando tanto. Mi devo confrontare con una filosofia di gioco diverso, più strutturato e più fisico, anche se capita che a volte, grazie alle tante nazionalità presenti, si esca un po’ dagli schemi. La concorrenza è tanta e c’è da lottare, altra cosa che mi piace un sacco. Titolare nel mio ruolo è Hope Rogers, nazionale Usa, però normalmente almeno 20-30 minuti li faccio. Spero di averne di più con l’andare del tempo, ma la competizione era quello che cercavo, ci sono delle internazionali che non finiscono neanche nel foglio gara. A Exeter la squadra femminile c’è da tre anni e la stagione scorsa ha vinto la Coppa d’Inghilter-

ra. Ora siamo in testa al campionato e, battendo di recente Sale (dove esordiva Sara Tounesi dopo la squalifica mondiale), siamo già sicure di fare le semifinali play-off a giugno”. Adesso, però, c’è da pensare al Sei Nazioni. “Con diverse giocatrici giovani, un ambiente in parte nuovo, un commissario tecnico, Nanni Ranieri, nuovo del tutto. Io sono molto fiduciosa: uno zoccolo duro è rimasto, mentre le ragazze inserite nel gruppo sono super-energetiche, super-entusiaste e credono davvero nei loro mezzi. L’allenatore? Andrea Di Giandomenico ha lasciato la Nazionale in una posizione già molto buona, e questo era il momento giusto per cambiare” (Giacomo Bagnasco)

Qui, all’ingresso in campo contro la Francia nel match di esordio nel torneo di quest’anno. A sinistra, a Colorno, nella prima fase della sua carriera, Silvia Turani si è allenata anche nel lancio in touche.

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Lunedì 27 febbraio As Rugby Milano e Benetton hanno ufficializzato una partnership strategica, un progetto privato tra club: in controtendenza o in parallelo alle strategie federali?

Dopo il Florentia, l’Asr Milano, poi chissà, un club campano e uno romano. Il Benetton Treviso sigla così la seconda partnership in pochi mesi con una realtà forte sul territorio e che funge da polo di attrazione dopo il minirugby o la giovanile per il suo bacino d’utenza. Lo fa con il club da cui sono passati Luca Morisi, Simone Ferrari (presente quel giorno), Simone Ragusi, e che sempre più spesso forma giovani nel giro della nazionale giovanile: gli ultimi sono Muhamed Hasa, debuttante con le Zebre a settembre, e il capitano dell’Under 20 di questo Sei Nazioni, il tallonatore Giovanni Quattrini.

Il discorso è chiaro: in Veneto ci si pestano i piedi, in Toscana hanno pescato i fratelli Cannone, quindi Amerino Zatta è in cerca di “seri progetti con squadre di altre regioni [...] perché è importante trovare coesione tra società che si interessano alla disciplina del rugby. Noi abbiamo la fortuna di avere alle spalle la famiglia Benetton, è giusto trovare alleanze con altre società per portare la nostra esperienza”. Nel comunicato viene menzionata la parola “esclusiva per la Lombardia” ma dal club milanese - già bersaglio di qualche malumore regionale - filtra grande apertura perché “condivideremo tutto con gli altri club se vorranno”.

L’intento dei biancoverdi, faro del professionismo all’italiana, è di cercare partner tra le migliori espressioni dell’amatorialità e scommettiamo

che le prossime scelte saranno altri club storici o comunque molto strutturati, perché se al momento si parla genericamente di “collaborazione sportiva, allenamenti congiunti, scambio di vedute tra allenatori” (Pavanello dixit), l’obiettivo potrebbe essere più ampio, magari anche commerciale, come la possibilità di portare la prima squadra a giocare in casa dei club partner. E qui si apre un capitolo doloroso perché Milano, se escludiamo il Giuriati che però può contenere al massimo mille persone, non ha un impianto omologato per il rugby con capienza adeguata, a parte San Siro ovviamente: “Abbiamo provato a portare Italia-Sudafrica al Meazza”, ha chiarito l’assessora allo Sport, Turismo e Politiche giovanili, Martina Riva, “ma il niet delle due squadre, adducendo la natura mista del terreno di gioco (sintetica e naturale), ha di fatto regalato a Genova l’opportunità di ospitare i campioni del mondo”. La questione impianti tiene banco e neanche il denaro a pioggia del Pnrr è riuscito a smuovere qualcosa. Apparentemente ogni federazione sportiva poteva segnalare una città e una struttura da valorizzare, ricondizionare, rivitalizzare. Purtroppo nessuno sport ha indicato Milano. Nessuno. Tanto che a Cernusco - mettendo insieme diversi soggetti, compresa la federazione frisbee - faranno una cittadella dello sport degna di un campus universitario americano.

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Amerino Zatta, presidente del Benetton Rugby.

Non sveliamo alcun segreto dicendo che la Fir ha parlato con Giuseppe Sala dell’opportunità di usufruire di San Siro ma il canone annuo pagato da Milan e Inter è fuori budget per il nostro rugby: 8 milioni la richiesta, 1-1,5 il plafond di Marzio Innocenti. Ma il paventato addio dei due club allo storico impianto pare abbia riaperto il dialogo con Palazzo Marino.

L’As Rugby Milano da quest’anno propone ai suoi tesserati, dall’U15 alla U19, un percorso di eccellenza (facoltativo). Il costo per le famiglie è quasi doppio rispetto alla quota normale (da 500 a 900 €) ma dà diritto ad allenamenti supplementari, programmi specifici, lavoro extra. Seppur accolto con un certo scetticismo - in epoca pre-Covid qualcosa di analogo non aveva dato gli esiti sperati - questo percorso, strutturato da Francesco Fantoni, sta dando grandi soddisfazioni sia a chi è coinvolto in prima persona, i giocatori, sia ai genitori, felici di questo cammino verso l’alto livello: in un recente questionario alla domanda se l’anno successivo avessero intenzione di confermare l’iscrizione, hanno risposto tutti affermativamente, ragazzi e genitori.

Una strategia, quella di un percorso interno, forse dettata dalla chiusura di molte accademie, che ha di fatto tolto posti ai lombardi nella sede di Milano, essendo diventata il punto di riferimento di un bacino molto più grande, ma soprattutto per risolvere un problema interno: tornare con la giovanile a essere un serbatoio per la prima squadra. Ormai da anni in Serie A, e mai davvero coinvolto nella lotta per non retrocedere, il Rugby Milano ha attirato a sé tutti quei ragazzi che volevano sposare un progetto di alto livello (fino a quest’anno, quando è salito il Cus Milano, era l’unica realtà in A del territorio) con le opportunità che offre la City meneghina. Infatti capitano dei biancorossi è quel Simone Rossi scudettato al Petrarca, e di qui sono passati anche Nicola Iannone (fratello di Tommaso) e Giuseppe Bianchini (già capitano della U19) del vivaio biancoverde. Anche Treviso da quest’anno ha una sua Accademia interna (denominata della Marca), frutto della dismissione di quelle federali e della costituzione di due realtà di sviluppo legate a Benetton e Zebre. Una soluzione reclamata a gran voce da anni, sia da chi voleva aumentare le accademie sia da chi voleva cancellarle. Una prebenda elettorale di Innocenti che adesso appare perfino a rischio. Si vocifera infatti che potrebbe tornare lo schema di gavazziana memoria perché i risultati, dopo anni di magra, grazie a quel progetto sono arrivati. In quel caso magari il Rugby Milano potrebbe continuare a proporre un percorso di Academy interno, perché utile alla sua comunità, mentre i biancoverdi avreb -

bero buttato un anno di lavoro. “E anche un po’ di soldi”, aggiunge Zatta. Le sinergie tra i due club, come abbiamo visto, sono già presenti. Serviva questa partnership? Simone Ferrari, ex biancorosso, che proprio a Milano ha ritrovato la volontà di continuare un percorso di alto livello dopo l’esperienza infelice in Francia (a Tolone), non ha dubbi: “Se noi seniores stiamo riuscendo a competere con le prime potenze del rugby lo dobbiamo anche a una crescita della base. E se io fossi rimasto a casa, potendo studiare e parimenti prepararmi all’alto livello, probabilmente avrei completato il mio sviluppo prima. Quando ho giocato qui avevamo una club house in uno scantinato, c’era meno organizzazione e anche i risultati erano diversi. Solo con lo scambio crescono tutti”. Tra parentesi, Simone a suo tempo aveva rifiutato Tirrenia per motivi scolastici, preferendo fare due anni di zonali a Parma. Enzo Dornetti, consigliere regionale e anima di una certa Rugby Milano, nonché ex pilone nei gloriosi anni in Serie A negli anni Ottanta, è quello che ha avviato i primi contatti con il Benetton

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Simone Ferrari, milanese del Benetton. La sua carriera è passata dall’ASR Milano. Nell’ultimo Sei Nazioni molti lo hanno inserito nel XV ideale del torneo.

e la sua considerazione fa riflettere: “Noi giocavamo contro Treviso e li abbiamo anche battuti al tempo, ora è impossibile che ciò accada”. Gli fa eco il presidente del club, Stefano Baia Curioni, già consigliere federale durante la presidenza Gavazzi: “Per fare il salto di qualità è ora di dotarsi dell’aiuto di realtà che permettono ai giocatori di non spostarsi e pensare a una carriera professionistica sul territorio”.

È anche una battaglia verso un certo modo di fare rugby in Italia, dove i migliori prospetti spesso non hanno un pathway adeguato e vengono contattati dai procuratori in tenera età, con il risultato di farli girare in vari club alla ricerca di un ingaggio, quando invece servirebbero una struttura in grado di generare qualità e un ambiente adeguato per fare il salto verso il professionismo, ora garantito solo da Treviso e, con evidenti limiti, dalle Zebre.

“Nel trevigiano l’8 per mille dei giocatori arriva

“Per fare il salto di qualità è ora di dotarsi dell’aiuto di realtà che permettono ai giocatori di non spostarsi e pensare a una carriera professionistica sul territorio”.
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Luca Morisi, altro milanese approdato a Treviso e, poi, in Nazionale.

all’alto livello. A Milano l’1 per mille. Ma in regione sono 20mila i tesserati, il materiale c’è, basta valorizzarlo”.

E se la Toscana può dare un Lorenzo Cannone, giocatore di caratura mondiale, chissà che cosa si può veder germogliare seminando in altre regioni del sud, “o in Abruzzo”, come sottolinea Zatta, “da cui sono usciti grandi campioni e ora è un bacino completamente dimenticato”.

A inizio mese abbiamo intervistato Neil Barnes, consulente di Kieran Crowley in Nazionale, che, pur non avendo ricette portentose, sottolineava quanto bisogno di stabilità abbia il nostro movimento. Questo della stabilità è un problema annoso, che il presidente del Benetton sottolinea a più riprese.

“Sono da 26 anni a capo del Benetton. Ho fatto 16 anni con Dondi, otto con Gavazzi e ora Innocenti. Di tutte le governance posso dire di aver visto cose positive e altre che non hanno funzionato.

Ma anche che tutti hanno voluto ripartire da zero,

cancellando quanto fatto dall’amministrazione precedente. È un problema. Anche perché certe decisioni erano dogmatiche e non frutto di analisi. Io da presidente non ho mai avuto la determinazione e il desiderio di decidere la strategia, perché va lasciata agli esperti, di ciascun campo”. Nei posti apicali ci vorrebbero visione e capacità di contornarsi dei migliori prospetti, che a loro volta strutturano la squadra di lavoro. Un po’ quello che Antonio Pavanello sta facendo nella Marca.

“Perché il rischio - è qui l’ammonimento di Zatta - è che si continuino a perdere tempo e denari”. Invece “dovremmo remare tutti nella stessa direzione”, la chiosa è proprio di Pavanello, “perché l’obiettivo è un giorno di vincere il Sei Nazioni e potremmo farlo solo con uno scambio proficuo tra realtà d’eccellenza su tutto il territorio”. E non cercando di mettere i bastoni tra le ruote a queste iniziative.

(Federico Meda)

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Giovanni Quattrini, capitano della U20, si allena con l’Accademia delle Zebre, ma gioca tuttora nell’ASR in Serie A. Qui, verso la prima meta dell’Italia contro l’Irlanda.
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La dolce vita

Adora i nostri formaggi e i nostri vini, a volte noleggia una Vespa per farsi

un giro con gli amici; la moglie ama Milano, lui è più appassionato di Toscana - “vino e colline mi ricordano casa” -, intanto nessuno toglie a Dewaldt Duvenage la prelazione sulla maglia numero 9 - in attesa di capire se il futuro sarà sempre biancoverde di Federico Meda

Speravamo di scoprire, con questa chiacchierata, se il 34enne mediano di mischia del Benetton potesse sciogliere i dubbi sulla sua permanenza a Treviso. Ahinoi no. La proposta è stata inoltrata e sembra contempli - successivamente - un ruolo fuori dal campo. Lui ha preso tempo perché probabilmente ha anche altre richieste e ha ancora nelle gambe “alcuni anni di rugby di alto livello” e soprattutto “17-18 di esperienza professionale” che vuole valorizzare.

In attesa di conoscere il suo destino, prendiamoci cura di quello della formazione biancoverde che contro Lions, Sharks e Stormers si giocherà le residue chance di playoff, raggiunti solo una volta, l’anno in cui il numero 9 di Bellville, Western Cape, ex Stormers e Perpignan, è arrivato nella Marca. Era la stagione 2018/19 e finalmente si vedeva il prototipo di straniero utile alla causa di una franchigia italiana: bravissimo nei passaggi, affidabile al piede ma soprattutto capace di gestire il ritmo dell’attacco in base al momento della partita.

All’epoca lo intervistammo e lui dava per scontato di essere arrivato a Treviso per alzare un trofeo. Non fu il Pro14 ma il torneo post Covid, antipasto dell’United Rugby Championship, la Rainbow Cup. “Quello è il mio personale highlight con questo club. Venivamo da una stagione piena di sconfitte, poi il Covid e poi questo rollercoaster magnifico”.

La vittoria - facile - in finale con i Bulls aveva illuso tutti che le sudafricane, ammesse all’inizio della stagione 2021/22, potessero fare più fatica del previsto con il nuovo format. Niente di più sbagliato: “All’inizio hanno fatto fatica, perché gli Springboks non erano a disposizione e poi hanno beneficiato delle assenze delle europee per finire in crescendo la stagione. Ora il calendario è più organizzato e forse l’URC più livellato. Rimane il fatto che il Sudafrica è una delle potenze più importanti del nostro sport, siamo campioni in carica e la profondità del bacino dei giocatori è pressoché infinita. Il livello della Currie Cup lo testimonia”.

Con la maglia Benetton Duvenage, alla data del 28 marzo, ha giocato 86 partite in totale. In carriera ne aveva disputate anche 93 negli Stormers e 72 nel Perpignan, tra ProD2, Top14 e Heineken Cup. Qui, come capitano di giornata, guida i compagni in campo contro i Lions.

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Un calcio nel box da una ruck, “marchio di fabbrica” di Duvenage.

Dewaldt, per tutti Dedè, ha un Law degree, una laurea in Legge, che spera di far fruttare nei prossimi anni, ma le avventure imprenditoriali in essere quando è arrivato in Italia (un’agenzia di recruiting per lavori domestici) sono state liquidate, mentre quelle in divenire (l’import export di vini…) non si sono concretizzate. È rimasto il rugby, cinque stagioni molto intense, sul lato sportivo ma anche umano: “Io vivo a Silea, una piccola realtà. Ottimo stile di vita, in cui finisci per conoscere tutti e battezzi qual è la tua pasticceria o il tuo pastaio preferito. È bello fare parte di una comunità. E quella del rugby è uguale: si gioca e ci si allena con Treviso ma poi si va nei campi delle squadre del territorio, si fanno allenamenti mirati. Ecco, penso che l’entusiasmo e la voglia di imparare degli allenatori e dei ragazzi in queste sedute siano la miglior cartina di tornasole del vostro movimento. Il tutto in un paese in cui promuovere il rugby è difficile: football is number 1”.

Viene quindi da chiedersi cosa manca a noi italiani, non solo al cospetto dei sudafricani, per fare quel tanto atteso salto di livello, magari già dimostrato in campo ma non nei risultati: “I bambini italiani sono elettrizzati dal rugby ma per continuare ad avere gente che si avvicina al nostro sport abbiamo bisogno di risultati, di squadre vincenti. Ma anche di completare il processo di crescita. Gli italiani hanno una grande dote: sapersi emozionare o giocare sulle emozioni. Se usi questa caratteristica positivamente puoi andare oltre le tue possibilità. Senza porti limiti. Ma al contrario, in negativo, troppa emotività crea problemi nel recepire il percorso che porta a essere

una winning side. Ad esempio troppa pressione su una singola partita crea poi, in caso di sconfitta, una reazione esagerata da parte del pubblico, dei media e, di conseguenza, degli stessi giocatori. Il rugby è fatto di insegnamento, esperienza, winning habits, sconfitte… tutto è importante. Venendo da una nazione di fanatici per il rugby, in cui hai una rugby community a scuola e anche fuori da scuola, mi è abbastanza chiaro cosa marchi le differenze tra i due modelli”.

Dewaldt è come un professore, è difficile mettere in dubbio le sue parole, sembrano sempre frutto di una riflessione o di un ragionamento già vagliato dal metodo scientifico: quindi, visto che condividono lo stesso ruolo, ci siamo chiesti che cosa pensi della recente decisione del suo compagno di squadra, Manfredi Albanese, di dire addio all’alto livello a fine stagione. “Gran giocatore, e con l’addio di Callum Braley all’attività internazionale si era creato spazio anche per lui. Che però vuole perseguire qualcosa di diverso e non solo dedicarsi allo sport. Lo capisco, perché mi sono laureato mentre ero già professionista e so quanto è difficile. Sembra di essere di fronte a un bivio perché fare entrambe le cose al massimo è davvero complicato. Io forse sono stato fortunato perché sono rapidamente entrato nel sistema di sviluppo professionale sudafricano. Il cui obiettivo è di aiutarti a trovare un equilibrio tra studio e carriera. Magari facendo dialogare club e ateneo, perché tutti si è “allo stesso tavolo”. Aiuta anche allenarsi nella stessa struttura in cui si studia, lasciando poi spazio al tempo libero. In questo, la scuola italiana non con -

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“È bello fare parte di una comunità. E quella del rugby è uguale: si gioca e ci si allena con Treviso ma poi si va nei campi delle squadre del territorio, si fanno allenamenti mirati. Ecco, penso che l’entusiasmo e la voglia di imparare degli allenatori e dei ragazzi in queste sedute siano la miglior cartina di tornasole del vostro movimento.”

templa, nelle ore curriculari, lo sport ad alto livello e costringe tutti a praticarlo in altre sedi e altri orari… Tornando alla scelta di Manfredi, tutti pensano che giocare a questo livello sia allenamento e partita. Dimenticando il lavoro di preparazione e revisione delle partite, il lavoro in palestra e quello extra”. Da quando è arrivato Dedè i concorrenti non sono durati più di due stagioni, è sempre riuscito a ritagliarsi molto spazio - anche in virtù dell’assenza

di impegni internazionali - passando dal regno di Kieran a quello di Bortolami senza scomporsi più di tanto. “Due personalità molto differenti ma brave a far crescere i giovani. È molto migliorato tutto in biancoverde, anche con Andrea Masi e Calum McRae, basta vedere le statistiche in difesa, i margini con le altre si sono molto assottigliati. Per quanto mi riguarda, a me piace mettere la mia esperienza a disposizione di gente come Ale Garbisi, che ha un

Un’apertura da ruck durante un derby con le Zebre. A destra, una tradizionale apertura in tuffo da mischia chiusa durante un incontro di Challenge Cup.

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ottimo potenziale, o confrontarmi con uno come Sam (Hidalgo Clyne, che ha firmato fino al 2025, ndr) e l’arrivo l’anno prossimo di Andy (Uren, da Bristol, contratto fino al 2026, ndr) creerà una buona competizione nel ruolo”.

Però ora concentriamoci sulla trasferta sudafricana, dopo i Lions a Monigo: il Benetton deve provare a vincere contro Sharks e Stormers. Impresa mai riuscita in trasferta: “È vero, l’anno scorso abbiamo perso contro Bulls e Lions ma con i primi a metà tempo eravamo messi bene (poi si è perso 46-29) e a Ellis Park è stata tirata fino alla fine (37-29). Siamo sfavoriti ma abbiamo delle carte da giocare, in primis con gli Sharks: loro hanno tanti Springboks in rosa ma noi dovremo sfruttare il fatto di giocare a Durban. Il clima è simile alla nostra estate, con un campo abbastanza veloce e scivoloso. Con gli Stormers per me sarà un derby, non sto nella pelle anche perché si giocherà al Danie Craven Stadium di Stellenbosch, un posto speciale che mi riporta alle mie sfide universitarie. Sarà una partita molto dispendiosa dal punto di vista delle energie, giochiamo contro i campioni in carica, ci sarà una folla urlante ad accoglierci. E poi i loro trequarti sappiamo bene cosa sanno fare, sono famosi per far correre la palla. Una bella sfida per noi riuscire a metterli in difficoltà”.

I numeri di Duvenage a Treviso

2018/2019

1.627 minuti (26 partite, 85% titolare) media 63’

Gli altri, nel ruolo: Gori, Tebaldi, Bronzini, 1.170 minuti in totale

2019/2020

706 minuti (12 partita, 92% titolare), media 59’

Gli altri, nel ruolo: Petrozzi, Trussardi, Tebaldi 1.086 minuti in totale

2020/2021

1.194 minuti (18 partite, tutte da titolare), media 66’ (18 partite)

Gli altri, nel ruolo: Braley, Petrozzi, Trussardi, 847’ in totale

2021/2022

895 minuti (18 partite, 78% titolare), media 50’

Gli altri, nel ruolo: Braley, Petrozzi, A. Garbisi 1.653’ in totale

2022/2023 (al 20 di marzo)

699 minuti, (12 partite, 83% titolare), media 59’

Gli altri, nel ruolo: Hidalgo Clyne, Albanese-Ginammi, Alessandro Garbisi 904’ in totale

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Non voglio una

A ventun anni Manfredi Albanese-Ginammi ha deciso di lasciare il rugby di alto livello. Ecco perché.

“Sono cresciuto con il sogno di fare il giocatore di rugby - racconta Manfredi Albanese-Ginammi, mediano di mischia del Benetton, tre presenze in Nazionale, otto con la U20 -. Fin da bambino volevo fare quello, quando mi chiedevano cosa avrei fatto da grande, rispondevo: il rugbista. Il che spaventava i miei genitori, nonostante mio padre fosse un appassionato, sia stato consigliere della Lazio per parecchi anni, insomma a casa il rugby era benvenuto, eccome. Tuttavia, anche per una famiglia di rugbisti, i miei traguardi sembravano un po’ esagerati. Io per il rugby ho fatto sacrifici e rinunciato a tante cose. Volevo fare il professionista, vedere da vicino come era stare in una squadra che ti permette di vivere il rugby ai massimi livelli di organizzazione, di competenza tecnica, di ambizione. L’ho fatto. Poi un giorno nella mia testa si è insinuato un tarlo: ho cominciato a pensare che la vita vera era altrove. E ho deciso che dovevo fare un passo in quella direzione”.

Esordiente in Top10 con la maglia della Lazio a diciassette anni, all’inizio “Manfro”, come lo hanno sempre chiamato i compagni, piccolo di statura, dimostrava anche meno della sua età.

“Mi chiamavano microbo - scherza - ma la stazza non è mai stata un problema per me, ho sempre dimostrato di sapermela cavare anche con il mio metro e 70 di altezza. Anzi, per me affrontare avversari più grandi è una molla, un motivo di orgoglio, una spinta a fare di più”.

Di Albanese-Ginammi si è cominciato presto a parlare come del mediano di mischia dell’Italia del futuro. E lui non ha mai lesinato gli sforzi né l’impegno per raggiungere gli obiettivi.

A sedici anni, il centro di formazione, nella caserma della Polizia a Ponte Galeria, le sveglie alle 5 di mattina, un’ora e mezza di treno all’alba per tornare a casa, poi la scuola al liceo scientifico Righi. fino alle 14, il rientro in accademia verso le 15.30, il pranzo, lo studio, gli allenamenti dalle 17 in poi. “A Natale – ricorda – ebbi una pagella a dir poco disastrosa. I miei genitori sono sempre stati severi con lo studio. Andarono da Cesare Marrucci, che era il tecnico responsabile di quel progetto sportivo e gli dissero che non sarei tornato ad allenarmi finché non avessi recuperato nella maggior parte delle materie. L’anno dopo, l’accademia si spostò

Manfredi Albanese-Ginammi, in maglia della Nazionale A contro la Romania nell’autunno del 2021 a Treviso.

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vita spericolata

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all’Acquacetosa, che era un po’ più vicina a casa, e quindi le cose diventarono più facili. Avevo anche cambiato scuola, dal Righi all’Azzarita, poi al Pio IX, alla fine sono arrivato al diploma. Ma pensavo solo al rugby. I miei erano preoccupati e, di fatto, mi hanno obbligato a iscrivermi all’università. Che io non avrei voluto frequentare. Oggi li ringrazio, per fortuna”.

L’estate del 2020, a 19 anni, la prima svolta importante: il trasferimento a Calvisano.

“Una scelta di cui sono tuttora molto orgoglioso: mi ha permesso di uscire di casa, cominciare ad affrontare problemi veri – racconta -. Fino a quel momento il mio mondo era stato una specie di “bolla”, il rugby, la famiglia, una vita distante dalle cose reali. Mi sono trovato di colpo in un piccolo paese della Bassa bresciana, prima esperienza di vita indipendente, da solo. Lì ho cominciato a conoscere gente più grande, per la quale il rugby oltre che divertimento era anche lavoro, opportunità per mantenere la famiglia, una dimensione diversa da quella in cui ero stato immerso fino ad allora. Giocavo, studiavo, ma per me è stato anche un periodo di formazione decisivo. Una presa di coscienza con una vita diversa da quella che facevo prima”.

L’esordio in maglia giallonera, a novembre 2020 contro le FFOO, ma il ricordo più importante di quel periodo è datato un paio di settimane più tardi, e fa riferimento alla classica sfida tra i gialloneri e il Rovigo.

“Aveva piovuto a dirotto per giorni, il campo era un pantano. Gianluca Guidi disse che quelle non erano condizioni per me e, all’inizio, mi mise in panchina. Entrai a 25 minuti dalla fine e commisi due errori abbastanza gravi: il primo facendomi sfuggire il pallone su un calcetto degli avversari. Un giocatore del Rovigo si avventò sull’ovale, lo portò avanti con i piedi e andò a schiacciare sotto i pali. Il secondo, alla fine quando, sotto di quattro

punti, decisi di aprire il pallone al largo, dopo una serie di percussioni dei nostri avanti a un metro dalla loro area di meta. Gianluca Guidi dopo la partita mi fece una lavata di capo”.

“Manfro tirò fuori un pallone della ruck che se fosse stato lasciato agli avanti avrebbe sicuramente procurato, alla fine, la meta della vittoria – racconta Guidi – Negli spogliatoi gli dissi: non mi serve uno che fa il fenomeno quando stiamo sopra di 50 punti, mi serve uno che ci faccia vincere le partite quando sono testa a testa”.

“Fu una sfuriata dura, me la porto ancora con me - ricorda Albanese -. Ma era stato Guidi a volermi a Calvisano e ha fatto molto per la mia crescita e la mia formazione. Quei rimproveri mi sono serviti”. Arriviamo a questa stagione, non è che nella tua scelta di fare un passo indietro c’è anche il fatto di aver giocato poco sia al Benetton che in Nazionale?

“Assolutamente no. Sapevo che questo sarebbe stato, diciamo così, un anno interlocutorio. Quando ho detto a Marco Bortolami e a Antonio Pavanello della mia decisione, sono rimasti molto dispiaciuti. Mi hanno confermato che avevano un progetto su di me e che ci credevano. Questo era il mio primo anno in franchigia, sapevo che i minuti non sarebbero stati tanti”.

Quindi qual è stata la molla che ti ha spinto a fare un passo indietro?

“Avevo cominciato a pensarci già quando ero a Calvisano. Però giocare in una squadra professionistica, ai livelli massimi, era un’esperienza che volevo fare. Per questo ho deciso di andare a Treviso. Ma l’idea che quella del giocatore di rugby non fosse la mia vita, non fosse il mio futuro, aveva già cominciato a ronzarmi in testa da un po’. Capivo che le mie motivazioni erano diverse da tanti con cui giocavo. Ho amore e passione per il rugby, una passione smisurata, ma non sarà mai tutta la mia vita. Il rugby per me resta un divertimento.

Al calcio piazzato nel test match della Nazionale Emergenti contro l’Olanda, lo scorso giugno a Rovigo.

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Capivo che le mie motivazioni erano diverse da tanti con cui giocavo. Ho amore e passione per il rugby, una passione smisurata. Ma non sarà mai tutta la mia vita. Il rugby per me resta un divertimento.

Manfredi Albanese-Ginammi è nato a Roma il 25 luglio del 2001.In Eccellenza (ora Top10) ha debuttato a 17 anni con la maglia della Lazio, a settembre del 2018. Al Calvisano dall’estate 2020 con la formazione giallonera ha disputato due stagioni collezionando 31 presenze, 29 da titolare. Con la Nazionale U20 ha disputato le tre partite del Sei Nazioni 2020, poi interrotto per covid, e tutte e cinque quelle del 2021. Ha esordito con l’Italia in Portogallo la scorsa estate, 3 cap in totale.

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Quest’estate mi laureo in Economia e Management, poi voglio iscrivermi a una laurea Magistrale e farla bene, in presenza con il giusto impegno e senza troppe distrazioni. A un certo punto ho cominciato a vedere i miei amici, i miei coetanei, che si avvicinavano al mondo del lavoro e ho cominciato a farmi delle domande. Sul fatto che io vivevo in un mondo parallelo, bellissimo, quello dello sport, ma adesso è ora che anch’io cominci a occuparmi della vita reale. E se tu la mattina vai ad allenarti al campo con quel pensiero, pure in una realtà privilegiata come quella di Treviso, un gruppo bellissimo, con ragazzi con i quali mi sono trovato benissimo, tutto quello che fai diventa difficile. Mi sono portato dietro cinque/sei mesi di pensieri negativi che non mi facevano stare bene. Alla fine mi sono convinto che questa non era la vita che volevo per il mio futuro. Adesso il mio sogno è un altro: lavorare e vivere a Roma”. Un peccato, dopo tanti sacrifici…

“Ho sacrificato la mia vita di ragazzino e gli studi per il rugby, adesso è arrivato il momento di sacrificare il rugby per un altro tipo di vita. Ma rifarei tutto quello che ho fatto finora, non ho alcun rimpianto. Anche se gli amici, quando ho confidato loro quello che avevo in mente, mi hanno chiesto se ero matto. E anche i miei genitori mi hanno capito: l’importante è che tu sia felice, mi hanno detto”.

Cosa ti resta di questi anni di rugby di alto livello?

“Intanto continuerò a giocare alla Lazio, ovviamente in una categoria inferiore. Mi allenerò la sera, come fanno tanti, studierò, vedrò gli amici, il rugby tornerà a essere fondamentalmente un divertimento. I ricordi? Sembra scontato, ma l’esordio in Nazionale resta il momento che non posso dimenticare. La scorsa estate in Portogallo. Lo sguardo di mio padre dopo la partita. Lui non è quel tipo di genitore che ti esterna troppo i suoi sentimenti, che ti mostra il suo orgoglio per quello che hai fatto. Ma quel giorno ho visto tutta la sua emozione per il mio esordio. È stato un momento che non posso dimenticare. Così come la prima partita con la maglia Benetton, a Dublino, contro il Leinster, Caelan Doris, Ringrose, Henshaw…e ho fatto meta appena entrato. Abbiamo perso, ma è stata una sensazione bellissima”.

Chi è il compagno di squadra con cui hai legato di più?

“Non so se posso dire di aver legato, ma Federico Ruzza, che non conoscevo tanto, in questi mesi è stato un riferimento importante. Uno da cui prendi esempio e del quale in campo ti basta uno squadro per capire che c’è, che è pronto a darti una mano. Anche questo è un bel ricordo”.

Albanese ha esordito in maglia Benetton a settembre a Dublino contro il Leinster.

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SCRIPTA MANENT

Mezzo secolo di stampa ovale, nell’analisi di Luciano

ALLRUGBY, la rivista che state sfogliando, ormai solitario strumento cartaceo (più esattamente:anche cartaceo!) che tratta della nostra passione (certo più ovale che italiana), cerca con questo intervento di spiegare la sua solitudine ormai conclamata, e con il rischio permanente di definitivo addio. Sarebbe la prima volta in 46 anni, quasi mezzo secolo, che il nostro rugby resta senza una voce editoriale, anche se non sono mancati - in questo frattempo - “vuoti” periodici e fortunatamente passeggeri. “Vuoti” superati anche perché il rugby italiano, in fiduciosa crescita, si allargava al mondo e puntava a un riconoscimento definitivo di livello. Un livello che fatica a reggere pur tra innegabili sprazzi di

La copertina del numero 1 di Allrugby, febbraio 2007. A destra, una touche del 1983 fra Italia e Francia, con Stefano Annibal che contende palla e Mauro Gardin che ostacola il saltatore avversario.

Ravagnani. Ma oggi, più dei dati e dell’approfodimento, contano i “numeri”.
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luce e contraddizioni.

Cominciamo da 46 anni fa, dal 1977, perchè con grande atto di coraggio un gruppo di giornalisti appassionati (Erasto Borsatto, Luciano Ravagnani, Bepi Rigamo, Gianni Basso e l’editore Tassotti di Bassano del Grappa) - a fronte del momento d’oro del rugby Triveneto, sei club su 14 in serie A, tre dei quali (Rovigo, Petrarca e Treviso) dominanti con L’Aquila ai vertici del torneo - decisero di confezionare ALL RUGBY (sì, la stessa testata attuale). La rivista, con cadenza quindicinale, nei progetti si rivolgeva al Triveneto, ma ben presto uscì dai confini previsti, e in abbonamento o tramite le edicole delle stazioni, raggiunse tutta l’Italia, da Milazzo a Torino, con buona diffusione all’Aquila. Tra i collaboratori Vittorio Munari e Andrea Fusco, ma anche Carwyn James e il contributo fotografico del grande Paolo Gioli. Il primo numero di ALL RUGBY è del 6 aprile 1977. In copertina una touche “old style” con Paolo Mariani e Andrea Rinaldo, azzurri del match Italia v Polonia (29-3) giocato a Catania.

ALL RUGBY testimonierà i primi All Blacks in Italia e anni di intensa attività di campionato. L’ultimo numero, dopo 147 uscite in edicola, è del 30 giugno 1984. In copertina un trionfante Marzio Innocenti, ora presidente Fir, nominato giocatore

dell’anno. Il Petrarca aveva appena vinto il famoso derby dei 18mila dell’Appiani e si apprestava a vincere lo spareggio-scudetto di Udine quando ALL RUGBY pubblicava i primi numeri. Ora, 1984, il Petrarca rifesteggia il tricolore e ALL RUGBY passa - per decisione Fir - a IL MONDO DEL RUGBY del giornalista-editore Camillo Cametti di Verona, già attivo nel mondo del nuoto.

Nasce (direttore Ravagnani, responsabile Cametti) un mensile a colori, moderno di tecniche editoriali, con tante fotografie dall’Italia (Daniele Resini e Piero Rinaldi) e dall’estero. Il primo numero è di fine estate 1984, l’ultimo dell’editore Cametti del novembre 1993; nove anni caratterizzati da grandi servizi sui mondiali 1987 e 1991. Tra i collaboratori Paolo Rosi e Giuseppe Tognetti, ma anche Francesco Volpe, Paolo Pacitti, Carlo Gobbi, Giacomo e

L’ultima copertina di All Rugby prima edizione, giugno 1984, con Marzio Innocenti. Ironia della sorte: come presidente, ha interrotto la storica collaborazione della Fir con Allrugby.

Sotto, una copertina de Il Mondo del Rugby, pubblicato negli anni Ottanta da Cametti a Verona. A destra, una copertina de “La Meta”.

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Marco Mazzocchi. Cessato Cametti, subentra in proprio la Fir, che si è dotata nel frattempo di un proprio ufficio stampa. In tempi andati era il segretario federale, con collaboratori, a provvedere alle incombenze della comunicazione e alla redazione del periodico federale, RUGBY. Le uscite del MONDO DEL RUGBY diventano saltuarie. Una delle ultime, il numero dedicato alla trasferta avventurosa in Siberia, a Krasnoyarsk (marzo 1998), della Nazionale guidata da Coste. Qualche iniziativa sporadica a Napoli e Parma tenta di colmare il vuoto lasciato dal “MONDO”, ma ormai tutto si rivolge all’attesa del Sei Nazioni, al quale l’Italia viene ammessa dal 2000 con decisione a Parigi del gennaio 1998. L’Italia del rugby è riassunta in un corposo dossier che il presidente Giancarlo Dondi presenta, convincendoli, ai “colleghi” del Cinque Nazioni.

Il Sei Nazioni incomincia senza iniziative particolari, ma al secondo anno (aprile 2001) nasce “LA META MAGAZINE”, da un’iniziativa di Gianni Zanasi di Bologna. Sarà una presenza costante (direttori Campisi e poi Ravagnani) fino al febbraio 2007. Fra i collaboratori Moreno Molla, Valerio Vecchiarelli, Alfio Caruso e tante giovani promettenti firme, molte poi allontanatesi dal rugby scritto. LA META MAGAZINE cessa quando Enrico Borra di Brescia, che ha dato vita nel 2005 a “RUGBY!”, ne acquisisce la testata. Nel frattempo a Roma, con Ferruccio Venturoli, si pubblica il mensile IL GRANDE RUGBY (febbraio 2006) che apparirà regolarmente fino al 2010, e nel luglio 2007 dal Friuli arriva la novità del trimestrale RUGBY CLUB, affidato tra gli altri a Antonio Liviero e Ivan Malfatto. Con i suoi 26 numeri durerà fino a ottobre 2013.

Mentre La META chiude, nel febbraio 2007 riappare ALLRUGBY sulla spinta soprattutto di Gianluca Barca e Daniele Resini, già “anime” della META Magazine, e di altri amici appassionati.

Sedici anni più tardi, ossia oggi, sulla piazza c’è

solo l’ALLRUGBY (nuova serie) che state leggendo e che detiene il record di longevità (da febbraio 2007 a oggi). ALLRUBGY nel corso dei suoi anni ha recuperato molte delle firme storiche del rugby italiano affiancandone di nuove (Valerio Vecchiarelli, Piergiorgio Callegari, Federico Meda, Giorgio Cimbrico, Stefano Semeraro, Giorgio Sbrocco, Giacomo Bagnasco, Simone Battaggia, Andrea Fusco, Andrea Passerini e altri ancora).

Il Boom

Il boom dell’editoria rugbistica s’inizia in pratica, come accennato, con “RUGBY!” di Borra, che a febbraio 2007 acquisisce “La Meta Magazine” per una serie di uscite in doppia testata. Il 2007 è l’anno della World Cup in Francia, l’Italia di Berbizier coltiva ambizioni. E il mondiale francese è alla base della decisione di Borra (RUGBY!) di dare alle stampe anche un settimanale che si chiamerà “La META”. Sembra un azzardo. Un settimanale. Tanto più che ha l’aspetto di un normale quotidiano in bianco e nero. “La META” settimanale suscita invece interesse e dura fino al settembre 2014, anche se negli ultimi anni la pubblicazione non è regolare. Tratta ogni tema, dalle Nazionali (grazie a Francesco Costantino) ai campionati minori.

Insomma durante il mondiale francese 2007 sono su piazza in Italia cinque pubblicazioni di solo rugby. Non c’è eguale, che si sappia, in Europa e nel Mondo ovale.

Poi il movimento italiano tradisce molte attese e l’entusiasmo si spegne su modelli di informazione altamente tecnologici. La televisione invita ormai più a informare che approfondire, ma è anche vero che è la discriminazione fra essere o non essere.

L’editoria e i mancati risultati non hanno fatto in tempo a incidere e il substrato culturale rugbistico non si è consolidato. La “storia” è diventata un peso, tutto si brucia sul momento.

Alla fine, e siamo ai nostri giorni, resta il solo ALLRUGBY, che ha compiuto 16 anni nel turbinio di un mondo tecnologico che ossessiona con blog vari, facebook, twitter, instagram, tiktok e ogni altra diavoleria che comunque resta legata (gli appassionati dello smartphone faticano ad ammetterlo) in gran parte a ciò che pubblicano i giornali di provincia, a proposito delle loro squadre, e i quotidiani di tutto il mondo, facilmente raggiungibili nelle versioni online. Insomma, informazione pensata che alimenta informazione vampiro. L’orientamento delle nuove tecnologie (anche gli annuari sono pretesi in digitale!!!) è fare “numeri”. Quel che resta dei numeri, spesso gonfiati dai grandi eventi, sembra non interessare. Quanti sanno, a esempio, che fra i “numeri” leader del digitale nel mondo c’è lo “skating urbano”?

(ha collaborato Walter Pigatto)

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BUON COMPLEANNO RUGBY

di Giorgio Cimbrico

Il rugby compie 200 anni. Un gioco curioso, a volte strambo, a cominciare dal nome. Potrebbe chiamarsi Montpellier o Coimbra o Heidelberg o Padova, per rimanere nell’ambito di luoghi dove da secoli si pratica l’insegnamento. Invece, Rugby, Warwickshire, Midlands Occidentali, una ventina di chilometri a est di Coventry che venne coventrizzata dai bombardieri tedeschi e che ispirò a Benjamin Britten il War Requiem. Nozioni preliminari: nel Nord dell’Inghilterra rugby si dice rugby, nel sud ragby o regby (a seconda dell’accento più o meno raffinato), in Francia rugby, se possibile con l’accento sulla “y”, in Veneto rebi, in altre regioni rubbi, in Italia, durante il fascismo, pallovale. Erano i tempi i cui il cognac era il cordiale o l’arzente e le sale da ballo da Eden, ministro inglese, divennero Paradiso.

Di solito chi si avvicina al rugby si imbatte in una stampa – la prima tiratura è al museo di Twickenham, la Fortezza del rugby inglese - in cui dei giovani in camicia a pantaloni al ginocchio si inseguono, impegnati in un’allegra zuffa. Oggi i giocatori sono diventati molto grossi e molto definiti, portano maglie aderentissime con un taschino sul dorso dove viene inserito il gps. Le diavolerie non finiscono mai.

Un tempo rugby voleva dire grandi bevute (ora comanda l’acqua non gasata), grandi mangiate (la nascita dei Barbarians avvenne davanti a ostriche, montone e birra scura; ora, cibi che potrebbe assumere anche una mannequin), grandi fumate (non fuma quasi più nessuno, figurarsi i giocatori), grandi e interminabili avventure: uno dei giocatori della prima squadra britannica che viaggiò sino

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Un’incisione della seconda metà dell’Ottocento sul gioco del rugby. Qui, la Calcutta Cup, tra Scozia e Inghilterra, nel 1924 a Edimburgo.

in Australia annegò durante una gita in canoa, due che appartenevano ad un’altra spedizione si fermarono in Sudafrica per la corsa all’oro e per la guerra angloboera. L’elenco potrebbe continuare e diventare un cimitero di guerra. Il rugby non è mai stato un ambiente da imboscati.

Il rugby possiede un areale singolare: nasce in Inghilterra, si diffonde nel resto della Gran Bretagna e in Irlanda, allora colonia al pari di quelle africane e asiatiche; per via dei fitti rapporti enologici approda a Bordeaux e si allarga a macchia (di vino, non d’olio) lungo la fascia pirenaica, e più o meno lo stesso succede in Argentina dove il porto e le nascenti ferrovie sono in mano agli inglesi. È uno sport imperiale: Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda e gli arcipelaghi del Pacifico (Fiji, Tonga, Samoa) dove spesso è portato dai missionari. In India e in quello che sarà il Pakistan non attecchisce mai, al contrario del cricket. Al tempo del Raj gli inglesi se ne stanno per i fatti loro e al massimo accettano di incontrare gli indigeni in quello che viene chiamato lo sport dei re, il polo. Esiste un’interessante testimonianza di Winston Churchill.

È un gioco che si adatta ai giorni in cui l’atlante era colorato per

L’Haka degli All Blacks prima del match con l’Inghilterra a ottobre del 1926 a Weston Super Mare nel Somerset.Nel riquadro, I membri della Tonbridge School nella seconda metà del 1800.

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larghe chiazze di rosa carico: coraggio, lealtà, intraprendenza ma anche voglia di menare le mani. I sudafricani di radici olandese, tedesca, francese se lo cuciono addosso: perfetto per quando c’è da scontrarsi con i britannici. Lo stesso atteggiamento dei gallesi, degli scozzesi, degli irlandesi. È anche un gioco per tutti i ceti. Se in Inghilterra lo giocavano quelli delle scuole preparatorie (Eton, Repton, Harrow) per i grandi college, in Galles assume una dimensione proletaria, in Scozia contadina e pastorale, il certificato di qualità anche di quello neozelandese; in Francia è momento di acceso campanilismo tra le città e le cittadine sparse tra la mediterranea Beziers e l’atlantica Biarritz, in Irlanda non è gradito per la sua origine ma una certa tentazione di trasformarlo in occasione per sistemare antiche faccende si fa presto strada. In Australia, dopo l’importazione, si staccheranno le costole della rugby league e del football australiano, uno scisma che già era avvenuto in Inghilterra, alla fine del XIX secolo, tra Union, a 15 giocatori, e League, a 13 e con lo status di professionismo, aborrito dai padri fondatori, fautori di uno sport praticato per puro piacere. Visione perfetta per chi è nato e vive nel privilegio della casta.

In meno di trent’anni, gli ultimi, le cose sono cambiate. L’Union è diventato professionistica e può capitare che giocatori della League saltino il fosso, mossa un tempo inimmaginabile per chi era visto come un sacrilego, un eretico, uno che, orrore, scendeva in campo per denaro.

È un mondo affascinante, popolato di personaggi memorabili - a partire da William Webb Ellis che passa per esserne l’inventore -, eroici, balzani, principi e plebei, proponendosi per ricchezza di caratteri come una delle incisioni di William Hogarth.

Due secoli sono un lungo tempo. Per riviverli è sufficiente mettersi di fronte a questa palla (ovale) in cristallo e provare a guardarci dentro, in un gioco di rifrazioni che, quando la concentrazione è alta, può offrire immagini fuggevoli, forse spettri. Perché il rugby è un balletto e un dramma, diceva Richard Burton; perché è una “chanson de geste”, diceva Paolo Rosi; perché è un Grand Tour che offre paesaggi memorabili; perché è stato capace di riempire la vita a chi l’ha capito sino in fondo.

Buon compleanno, giovane vegliardo. E non brindare con la nuova Guinness senz’alcol. Meglio quella di un tempo, amara e forte.

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Money for

Vecchio Rugby, come sei diventato grande. Meglio: come sei diventato grosso. Ricco, opulento e corpulento. Bulimico. Lo sport dei signori e dei minatori, che si giocava sui prati e accanto alle fabbriche, lembi di campo strappati alla gloria delle campagne o ai grigi tormenti urbani, è diventato un affare per televisioni e procuratori. Proiettato sugli schermi giganti e sui display degli smartphone. Insieme all’ovale girano i miliardi, ed è un percorso che ricorda i frattali. Nasce dai corpi: sempre più performanti, veloci, potenti, contundenti. Negli ultimi venticinque/trent’anni è stato calcolato, il peso dei pacchetti di mischia è aumentato di cen -

tocinquanta chili. Si estende al calendario: sempre più partite sempre più violente, sempre più contatti, sempre meno pause e tempi di recupero. E alle leggi: sempre più regole, sempre più lontane dallo spirito del gioco, per contrastare una tendenza che pure si è voluto incoraggiare. Il risultato è un binario schizofrenico, che da una parte spinge a costruire superatleti, e dall’altro li vuole depotenziare, neutralizzare, esorcizzandone la carica aggressiva. Perché nel frattempo si sono moltiplicati anche i danni collaterali, gli infortuni, le malattie a scoppio ritardato che comportano deficit neurologici. E che ti accorciano la vita.

Per produrre utili è necessario crescere, una cosa che il rugby ha fatto molto lentamente per 175 dei suoi 200 anni, mentre ora va molto più velocemente. E muta il dna del gioco.
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Di Stefano Semeraro

Nothing

È lo sport business, dolcezze, verrebbe da dire. Una mutazione innescata negli ultimi decenni, che attraversa tutte le discipline, posseduta da un afflato darwiniano che ha come scopo la conquista dei mercati. Anzi, dei nuovi mercati: quelli dove lo sport ha tradizionalmente attecchito di meno, o quelli frammentati per classe di età. Perché i giovani sono i consumatori del domani, e a loro vanno vendute le piattaforme che dovranno veicolare interessi, contatti, dati, opportunità pubblicitarie. Sopravvive il più appetibile.

Per questo, anche nel rugby, che pure fatica storicamente ad esportarsi bene al di fuori dei suoi

tradizionali recinti, sono arrivati i fondi di investimento, le private equity. La prima scossa ai valori antichi del rugby, ai suoi formati incantevoli ma fossili arrivò a fine anni ‘80, con la nascita dei Mondiali e soprattutto con l’impegno del gruppo di Rupert Murdoch e l’avvio di un vero professionismo, a partire dal 1995. L’arrivo dei fondi “equity” negli ultimi anni ha significato unaccelerazione, anzi un vero e proprio cambio di livello e di orizzonti. Acquistare, trasformare, rivendere. Ottenendo un profitto. Questo è il mestiere dei fondi privati, mentre quelli sovrani - di proprietà di Stati danarosi - sono lo strumento perfetto per

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Twickenham nel 1925, in occasione di un match tra Inghilterra e Nuova Zelanda.

trasformare lo sport in propaganda: il famoso sportwashing.

CVC Capital Partners è un private equity con base a Lussemburgo che conta su oltre 130 miliardidicasi: miliardi - di dollari in risorse amministrate e più di 150 in fondi di varia natura. Fra il 2005 e il 2006 ha acquistato il 63.5 per cento delle azioni della Formula 1. Quando nel 2012 ha ridotto il suo impegno al 35,5, Bob Fernley, il team principal della Force India, dichiarò che CVC aveva ‘stuprato lo sport’ durante quel periodo. Di sicuro ha riempito le casse. Quando ha deciso di vendere le proprie quote a Liberty Media, CVC ha incassato oltre un miliardo di dollari ‘cash’ e circa 7,7 miliardi in partecipazioni azionarie.

Il più famoso dei fondi europei ha poi investito nel cricket, nel calcio - 3, 2 miliardi di dollari solo ne La Liga, il massimo campionato di calcio spagnolo - nel tennis: è di pochi giorni fa l’annuncio di un investimento di 150 milioni di dollari nella

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Twickenham come è oggi, dopo le ultime ristrutturazioni eseguite in occasione dei Mondiali del 2015.

Wta, l’associazione che gestisce il circuito mondiale femminile. Obiettivo: rifare il trucco a un gioco diventato poco spettacolare e a campionesse che non brillano in personalità. Ovviamente Cvc ha investito, e pesantemente, anche nel rugby. Nel 2020 ha versato 132 milioni di sterline per acquistare il 27 per cento dell’allora Pro Rugby, l’Urc di oggi. A fine 2018 aveva già investito 230 milioni di sterline per acquisire il 27 per cento della Premiership, che insieme al Top 14 è l’unico campionato nazionale veramente appetibile per sponsor e pubblico. Due anni fa, infine - ma si tratta sempre di uno scenario in progress - di milioni di sterline ne ha scuciti 365 per ottenere il 14,3 per cento del Sei Nazioni. Il bersaglio grosso, il gioiello della corona che alla Six Nations Rugby ltd, la società che lo possiede nella sua sede di Dublino, porta un valore complessivo di 2,8 miliardi di euro. Il torneo è trasmesso in 180 Paesi, con contratti

che in Francia e nel Regno Unito valgono attorno ai 50 milioni di sterline, quasi 60 di euro, e porta in Italia attorno ai 19 milioni di euro nelle casse della Fir, ossia circa il 45% del fatturato complessivo. Illudersi che tutto questo non avrà ripercussioni sul gioco, a breve, medio e lungo termine, non è un esercizio sano. Non si tratta di secernere giudizi di valore, molto più semplicemente riconoscere che sta mutando il dna del rugby, come quello di tutto lo sport mondiale. Money for nothing è il titolo di una canzone dei Dire Straits, ma non è un programma applicabile allo sport business. Per produrre utili è necessario crescere, una cosa che il rugby ha fatto molto lentamente per 175 dei suoi 200 anni - a proposito: auguri! - e ora molto più velocemente. Vendere, ipotecare o archiviare una parte della propria tradizione per acquistare stock options sui desideri di generazioni x, y o z che del passato non sanno che cosa farsene, fa parte del pacchetto.

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LO SPAZIO TECNICO LO SPAZIO TECNICO

CONTRODROP

Come in una finale di Coppa del Mondo di qualche anno fa vorrei rispondere con un drop a quello scritto da Gianluca Barca nel numero scorso, dove si riportavano alcune osservazioni di lettori che “accusavano” Allrugby di tendenza nostalgica verso un gioco, e uno “spirito”, che, per forza di cose, non c’è più. Penso che le parole del direttore siano state chiare ed esaustive sull’argomento, quindi non è mia intenzione rafforzare o difendere l’una o l’altra posizione. Mi si è però innestata una riflessione e subito ho pensato al discorso per il conferimento delle lauree tenuto al Kenyon College il 21 maggio 2005 da David Foster Wallace. L’imprescindibile storiella di apertura di tali discorsi nel caso specifico è questa: “Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: - Salve ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa -: Che cavolo è l’acqua?”. Ritengo che nessuno di questa redazione, e il sottoscritto per primo, abbia la presunzione di voler spiegare a chicchessia cosa sia l’acqua. Quello che forse si vuole affermare è che spesso le realtà più ovvie, o addirittura più importanti, sono le più difficili da vedere e da discutere, anche se sono davanti ai

nostri occhi in bella vista. Nel discorso Wallace fa riferimento all’effettivo valore umano che deriva dalla formazione umanistica dei laureandi e dalla capacità, originata da ciò, di “imparare a pensare”. E in verità neanche questo, poiché tutti siamo in grado di pensare, ma piuttosto la facoltà di scegliere a cosa pensare.

Cito testualmente: - “Imparare a pensare di fatto significa imparare ad esercitare un certo controllo su come e su cosa pensare. Significa avere quel minimo di consapevolezza che permette di scegliere a cosa prestare attenzione e di scegliere come attribuire un significato all’esperienza”.

Gianluca sottolineava come questa rivista “ambisca a diffondere la cultura del rugby. E non c’è cultura senza critica del presente e conoscenza del passato.” E immediatamente mi viene da riportare il discorso su cosa significa la formazione all’interno del nostro contesto sportivo. Quanta energia e quanto lavoro dobbiamo indirizzare verso le persone per permettere loro di avere la capacità di adattarsi. Sappiamo che il gioco, per la sua natura non lineare, lo richiede. E allora sarà necessario imparare a pensare, nell’accezione che abbiamo cercato di spiegare, sarà necessario avere la capacità di adattare criticamente la nostra modalità

predefinita (“che è per forza di cose profondamente e letteralmente egocentrica”) a ciò che la complessità della realtà ci porrà di fronte. E allora presteremo attenzione a ciò che ci succede davanti agli occhi. A ciò che ci succede dentro.

Cosa abbiamo provato vedendo l’ultima partita del Torneo, Irlanda v Inghilterra? Non è stata forse un’onda di emozioni, dove si percepiva la tensione, mentale e fisica, dei giocatori in campo? Poche marcature, a parte il lampo che ha portato alla meta di Sheehan, fino alla metà della ripresa. Credo che in pochi ricordino le varie forme di gioco, il cartellino rosso che sembrava non impattare sull’andamento della gara. Ma nessuno dimenticherà come si è sentito dentro. Certo, la posta in gioco era alta; con il numero sempre crescente di partite, di competizioni nei due emisferi, non sempre ci si trova a giocare con un contesto così saturo di vibrazioni. Ma questa è la musica. Questa è la percezione del battito di una cosa viva. E penso che Gianluca si riferisse proprio a questo.

Ed è la stessa che abbiamo provato vedendo la nostra squadra Nazionale. La nostra U20. Al di là di errori e imprecisioni, si sente il battito. Avanzare, sostenere, continuare. E come diceva Lou Reed, più di tre accordi è Jazz. Forse questa è l’acqua.

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il tuffo in meta di Dan Sheehan. Dan Cole non riesce a fermarlo.

MANI IN RUCK

MANI IN RUCK

APPRENDISTI STREGONI

Le sperimentazioni di laboratorio non sempre hanno l’effetto desiderato. Robert Louis Stevenson le ha rese celebri nello strano caso del Dottor Jekill e Mister Hide. L’autore scozzese ha scritto libri tutt’ora attuali a distanza di secoli e il nostro amatissimo gioco, che quest’anno celebra il suo bicentenario, ha trovato nel Super Rugby Pacific la competizione ideale per apportare un certo numero di nuovi dettagli regolamentari, da sperimentare in quello che è da sempre uno dei laboratori dell’avanguardia ovale.

Le modifiche riguardano in particolare: il tentativo di perdere meno tempo possibile in occasione di calci verso i pali, mischie ordinate e ricorso al TMO.

Lo shot clock lascia 90 secondi a disposizione per le trasformazioni e 60 per i calci di punizione. Per velocizzare la ripresa delle fasi statiche, le mischie ordinate e le rimesse laterali dovranno essere giocate entro trenta secondi.

Cinque – 5! – sono i secondi per giocare il pallone da un punto d’incontro. In ambito strettamente disciplinare ecco la novità che farà discutere, perché se nelle situazioni appena indicate, il referee di turno si può avvalere di un vero e proprio countdown stile Centro Nasa, o della sua

percezione al decimo o al centesimo per scandire i tempi di lancio in touche o di introduzione in mischia, per punire azioni di evidente pericolosità entra in gioco la poliedricità del TMO. Infatti, l’arbitro a video, che segue la gara seduto nel van della televisione che trasmette il match, ha la possibilità di aumentare la sanzione di un cartellino giallo trasformandolo in rosso entro otto minuti dalla prima decisione. E deve farlo mentre l’incontro prosegue. Come già lo scorso anno, nella competizione australe il cartellino rosso ha la durata di 20 minuti, dopodiché la squadra punita torna in parità numerica e il giocatore espulso è sostituito. Comunque l’arbitro ha l’opportunità di comminare un cartellino “rosso/rosso” direttamente per un fallo di antigioco chiaramente antisportivo. In questo caso la squadra sanzionata rimane in inferiorità numerica per tutto il resto della partita. È sempre più evidente la volontà che il ruolo del TMO assorba molteplici sfaccettature e, quindi, riesca a far convergere verso di sé sia le decisioni di prassi che quelle prese sul campo dall’arbitro.

Il citing commissioner, dal canto suo, avrà pochissimo spazio di manovra se la revisione dell’azione incolpata, esaminata

alla moviola negli otto minuti successivi, viene già indicata al mondo come passibile in modo definitivo di cartellino giallo o rosso.

Smentire un match official non è buona prassi. Dove finisce, quindi, il limite dell’intervento arbitrale e degli assistenti? Conta di più il loro vivere il match in mezzo al campo o ci lasciamo trasportare anche noi, figli e seguaci dell’Ovale, dai fermo immagine e dall’invadenza della tecnologia?

Lo scontro tra Freddy Steward e Hugo Keenan, che ha poi condizionato la sfida tra Irlanda e Inghilterra (espulso l’inglese, sostituito per trauma cranico l’irlandese), era da “giallo” con successiva analisi del Tmo, per tramutarlo eventualmente in rosso entro otto minuti, da rosso diretto (20 minuti, secondo le regole dell’Emisfero Sud) o da rosso/rosso, senza la possibilità di sostituire il giocatore?

Valutazioni da terzo millennio, quello che nei test di laboratorio, si dice, potrebbe aver portato nel 2020 alla pandemia. Speriamo che il virus non contagi con troppe variazioni anche il gioco del rugby e ci lasci Stevenson con i suoi “Quindici uomini …quindici uomini” alla nostra Isola del tesoro.

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Il “rosso” comminato a Freddie Steward in Irlanda v Inghilterra da Jaco Peyper dopo una lunga consultazione col TMO.

WEST END WEST END

LA DISFATTA

Nemesi e anniversari nella disfatta dell’Inghilterra a Twickenham, la più pesante della storia del rugby della Rosa dopo un 76-0 vecchio 25 anni contro l’Australia. Ma in questo 10-53 c’è di mezzo la Francia e allora le cose si complicano perché The Crunch, il faccia a faccia tra chi è attestato sulle due rive della Manica, è qualcosa più di una partita di rugby. Settant’anni fa, in un altro tempio, gli inglesi persero la verginità calcistica a Wembley, 3-6 con la grande Ungheria (e 7-1 qualche mese dopo, al Nepstadion), ma non è la stessa cosa.

Qui di mezzo c’è una storia di rivalità, di guerre eterne tra mangiarane e bevibirra. Un bel simbolo è il quadro di William Hogarth “la porta di Calais”: gli inglesi stanno per mettere i denti su un bel pezzo di roast beef, i francesi sono dei morti di fame.

Nemesi, dunque: l’Inghilterra, vent’anni fa campione del mondo, è stata scardinata da parecchi Bleus e il primo a vibrare colpi letali è stato un gigante veloce (2,03 per 116); si chiama Thiebaut Flament, è nato a Bruxelles ma i primi passi ovali li ha compiuti in un luogo che in una ventina di minuti può essere raggiunto dalla capitale belga ed europea, per un’interessante visita: Waterloo.

Per i francesi quel nome è una tragedia, per gli inglesi un trionfo: alla gloriosa giornata del Duca di Wellington e al definitivo tramonto del generale Bonaparte (mai chiamato Imperatore Napoleone, loro) hanno dedicato un ponte e una stazione da cui si raggiunge Twickenham, la Fortezza.

Twickenham non è una fortezza Bastiani. Molti tartari sono arrivati, ci sono entrati dentro e hanno vinto: scozzesi (portandosi via quel gran pezzo d’argenteria che è la Calcutta Cup), irlandesi (sempre spiacevole), gallesi (idem), sudafricani, neozelandesi, persino argentini, vecchi nemici quarant’anni fa nel livido sud di un altro emisfero.

Anche i francesi: nel caso dei Galli o Galletti non capitava dal 2005, 200° anniversario della vittoria di Trafalgar, quando Nelson spazzò via dal mare Villeneuve, rimettendoci le palle e venendo rimpatriato in un barile di rum.

Quando inglesi e francesi si trovano di fronte, la storia e il teatro sono generosi: prima Crecy, nel 1346, poi Azincourt, nel 1415. “Commissari tecnici” dell’Inghilterra Edoardo III e Enrico V: due grandi vittorie esterne, in inferiorità numerica, con apporto decisivo offerto dall’arco lungo, teso da file di inglesi e gallesi che abbat-

tevano come birilli l’aristocratica cavalleria francese.

Quando inglesi e francesi si ritrovarono dalla stessa parte - era la Guerra di Crimea - il comandante del corpo di spedizione britannico Lord Raglan non era ben cosciente dell’alleato: comprensibile per chi aveva perso un braccio a Waterloo e si era dato da fare per ritrovarlo, dal momento che a una delle dita della mano c’era un anello, dono dell’amata moglie.

Meno di un secolo dopo, i rapporti tra Winston Churchill e Charles de Gaulle, leader della Francia libera e rifugiato a Londra, possono essere riassunti in una frase del primo ministro, bravissimo nel coniare motti memorabili: “Tutti nella vita hanno una croce. Io ho quella di Lorena”. Divisi da 35 chilometri di mare, uniti dal tunnel che permette di spostarsi in poco più di due ore da St Pancras alla Gare du Nord, continuano a guardarsi come si sono sono sempre guardati.

La disfatta è stata dura – sennò non si chiamerebbe disfatta -, è stato un violento precipitare sulla terra. Il mondo è cambiato se la Francia segna 53 punti a Twickenham e il Bangladesh mette in difficoltà l’Inghilterra di cricket. “Abbiamo insegnato al mondo come si gioca ed ecco quel che capita”.

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Passione per la meta

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Sul prossimo numero

Il racconto del Sei Nazioni Donne, il Campionato Top10 ai play-off, verso la Rugby World Cup, l’ Urc all’epilogo, l’isola dei migranti del rugby, il Bicentenario, e molto altro.

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