Se punti alla luna

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Al mio piccolo Dart, ad Arthur, a Guillaume, a Olivier, e, ovviamente, a mio padre


Marie Vareille SE PUNTI ALLA LUNA

Traduzione di

Luigi Cojazzi



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Tiro fuori dall’armadio l’unico vestito che possiedo. È grigio scuro, me l’aveva comprato mia madre due anni fa per la cena di compleanno di mio nonno. È un abito invernale di lana, troppo pesante per il sole di metà aprile che splende dalla finestra, ed è un po’ troppo corto, mi sono alzata di qualche centimetro negli ultimi mesi. Mia madre mi ha prestato dei collant, li indosso e tiro fuori l’orrendo paio di ballerine nere comprate per la stessa occasione. Me le infilo con una smorfia, sono decisamente troppo piccole, ma non ho grandi alternative. Mi do un’occhiata allo specchio e alzo gli occhi al cielo. Sembro la classica oca senza cervello all’open day di un collegio per ragazze di buona famiglia. Dopo un attimo di esitazione, estraggo da un cassetto la sciarpa dei Chicago Bulls che papà mi aveva portato dagli Stati Uniti e me la metto al collo. Sulla carta da parati a fiori sono ricomparsi alcuni dei miei poster. Contrariamente a quanto le avevo chiesto di fare, mamma non aveva buttato via nulla. Tutto era stato riposto con cura in uno scatolone, in attesa del momento giusto per tornare di nuovo alla luce. Lo psicologo dice che elaborare il lutto per la perdita di qualcosa non significa necessariamente cancellare le prove del fatto che sia esistita. Il basket farà sempre parte della mia storia perso257


nale e non devo rinnegarlo. Sarebbe come voler eliminare tutto ciò che è legato a papà solo perché lui non c’è più. Ho riappeso il poster di Stephen Curry, alcune medaglie e qualche foto, in particolare tutte quelle in cui sono con mio padre. Le altre le ho messe in un album. Ogni tanto lo guardo e mi ritrovo a sorridere di fronte a certi ricordi. La vera differenza è che adesso sulle pareti di camera mia non c’è più solo il basket: ci sono le foto che ci siamo fatte io e Amel nella cabina impazzita, due biglietti di un concerto a cui sono andata con Anaïs lo scorso febbraio, dei ricordi delle vacanze in famiglia quando papà era ancora qui e di una vacanza studio in Inghilterra, delle foto di una festa di compleanno di Nico, un’altra incorniciata in cui Nico, Amel, Anaïs e io urliamo terrorizzati sulle montagne russe di Disneyland. Ho anche rimesso in vista la frase incorniciata che mi aveva regalato mio padre. Dopo varie discussioni e conversazioni con lo psicologo, la cardiologa e mamma, ho deciso di continuare a giocare ogni tanto. Non troppo a lungo e non troppo spesso. Zio Ben non mi lascia ancora entrare in palestra, ma abbiamo trovato un altro campo, all’aperto. Mamma ha negoziato a lungo con la cardiologa che alla fine ha concluso: “Siete state informate dei rischi, ci sono persone che scelgono di correrli, si tratta di una vostra scelta”. Devo sottopormi a esami più frequenti e ho giurato di non dimenticarmi mai più le medicine. Finché i risultati degli esami sono buoni, il pericolo è limitato. Se la situazione peggiora, vedremo... La prima volta che ho chiesto a Nico di venire a giocare con me, ho pensato che si sarebbe presentato da solo e che avremmo fatto qualche tiro a canestro insieme per un’oretta. Mi sembrava perfetto. Ma quando sono arrivata al campo, ho trovato cinque persone. Nico e quattro ragazze della mia squadra storica, quelle che avevo lasciato per andare a giocare con i ragazzi. C’era anche Salomé, 258


che mi ha accolto con un abbraccio amichevole: “Allora, Martin, cos’è questa mancanza di disciplina? Da quando ci si presenta in ritardo alle partite?” Ero così commossa che avrei voluto spupazzarle tutte. L’unica condizione è che quando gioco devo avvertire sempre mia madre, che nella maggior parte dei casi riesce a liberarsi dal lavoro e viene a sedersi su una panchina con il portatile. A volte guarda un po’ di partita; l’altro giorno ha persino gridato “Fallo!”, rossa di rabbia, perché un’avversaria mi aveva fatto lo sgambetto. Quando non può venire, Nico ha l’ordine di chiamarla al primo segnale sospetto. Sono partitelle in totale rilassatezza, senza pressioni e senza nulla in palio, come quando ero piccola. A volte mi diverto, altre preferirei sentire di nuovo l’adrenalina, il brivido della sfida. In un paio di occasioni Nico e le ragazze hanno parlato del “nuovo arrivato”, un talento del basket che zio Ben avrebbe scovato in qualche remota periferia. Non ho mai fatto domande a riguardo. Credo che Nico non insista per paura di ferire i miei sentimenti, non vuole che pensi che sono stata rimpiazzata. Non vedo Anthony da quella volta che abbiamo litigato sul terrazzo dell’edificio. Mi è venuta spesso voglia di chiamarlo, lo psicologo pensa che nella mia testa la nostra storia non sia davvero finita. Ma più passa il tempo, più mi sembra impossibile sistemare le cose. E sebbene mi capiti ancora di rileggere i nostri messaggi a tarda notte, quando non riesco a dormire, sono quasi sicura che si sia dimenticato di me, soprattutto perché zio Ben deve tenerlo costantemente sotto pressione. Studio molto con Amel, quattro sere a settimana per due ore, e questo mi mantiene occupata. Sto cercando a poco a poco di rimettermi al passo. Nel secondo trimestre sono riuscita a superare la sufficienza in tutte le materie, e e in alcune comincio ad avere buoni risultati, per esempio 259


in inglese e matematica. Uno dei libri che abbiamo studiato in classe mi è piaciuto così tanto che l’ho letto due volte: Il giovane Holden, di J.D. Salinger. Scendo le scale con le mie ballerine troppo strette ai piedi, sempre con la stessa smorfia in volto, passando davanti a una mia foto al reparto maternità con la maglia dei Chicago Bulls, dove papà sorride accanto a me. Mamma è stata categorica: questa è casa sua e quella foto non si muoverà mai da lì. Eccola che mi aspetta all’ingresso. Si sta infilando una giacca grigio chiaro sopra l’abito nero. Come sempre è truccata e pettinata in modo impeccabile. Mi chiedo come faccia a camminare con dei tacchi così alti. Mi scruta velocemente dalla testa ai piedi, aggrotta le sopracciglia e mi aspetto che faccia un commento sulla sciarpa rossa e nera. “Hai messo le ballerine? Sono troppo piccole, no?” “Tutte le scarpe che ho mi vanno strette.” “Sì, lo so, te ne ho comprato un paio nuovo. Volevo dartele domani, ma visto che non hai più niente da metterti...” Prende una scatola bianca dal ripiano della scarpiera e me la porge. “Le abbiamo scelte io e Anaïs per congratularci con te della tua ultima pagella.” “Grazie.” Afferro la scatola con un gesto meccanico. Le probabilità che, anche con l’aiuto di Anaïs, sia riuscita a trovare un paio di scarpe più orrende di quelle che ho addosso in questo momento sono pressoché nulle. Apro il pacco e resto senza parole per qualche secondo. “Ti piacciono?” Tiro fuori lentamente le scarpe da basket dalla carta velina. Sono alte, nere, con un velcro arancione intor260


no alla caviglia. Sul lato esterno campeggia un enorme swoosh della Nike arancio fluo. “Sono...” Cerco le parole, accarezzo le suole, mi viene voglia di infilare il naso dentro le scarpe e respirare l’odore della pelle nuova. Sono semplicemente... “Si possono rimandare indietro, se non ti piacciono, ma in quel caso è meglio se non te le metti.” “No, no... sono... perfette.” Mia madre sorride sollevata e afferra la borsetta con entusiasmo. “Ottimo!” Mi siedo sull’ultimo gradino e indosso le mie scarpe nuove con un sorriso inebetito. Quando mi alzo, la abbraccio in preda a uno slancio improvviso. “Grazie, mamma.” “Sono un’edizione limitata...” precisa lei, non senza un certo orgoglio, mentre ricambia il mio abbraccio, “abbiamo dovuto ordinarle negli Stati Uniti.” “Se mi arrivassero un paio di scarpe nuove ogni volta che supero la sufficienza, vi ritrovereste entrambe sepolte in un mare di tacchi”, brontola Anaïs mentre scende le scale. Le do una leggera pacca sulla spalla. “Ottima scelta, grazie.” “Lo so”, risponde con aria compiaciuta, “forse queste te le metterai più spesso dell’ultimo paio che ti ho regalato.” Mi fa l’occhiolino e io trattengo un sorriso al pensiero delle scarpe rosa ancora accuratamente riposte nel mio armadio. Arriviamo in palestra in anticipo. Devo fare un respiro profondo prima di entrare nella sala principale, quella in cui ho giocato in così tante occasioni. L’ultima volta che sono venuta qui mi hanno cacciata via come se avessi 261


la lebbra. Gli spalti sono ancora mezzi vuoti, zio Ben sta provando il microfono su un palco allestito per l’occasione. Appena ci vede, scende ad accoglierci sorridendo e ci stringe in un caloroso abbraccio. “Accomodatevi pure sulle sedie riservate agli oratori!” Mi siedo accanto ad Anaïs che sta smanettando sul cellulare. Da un mesetto ha un ragazzo e passano il tempo a mandarsi cuoricini e a raccontarsi ogni dettaglio delle loro giornate, comprese quelle che hanno trascorso insieme. Le persone iniziano ad arrivare e sugli alti soffitti della sala riecheggia un brusio sempre più chiassoso. Dalle finestre penetra un sole primaverile, i cui raggi pallidi accarezzano il pavimento consumato negli anni da migliaia di scarpe da basket. Inspiro con dolcezza la familiare fragranza di legno e gomma. L’odore del passato. Zio Ben chiede silenzio e inizia a parlare al microfono. Non mi sono ancora girata, non ho idea di chi sia venuto né di quanti siamo, ma so che c’è gente. Oggi si inaugura l’ampliamento della palestra: tutte le strutture sono state adattate ai giocatori disabili. Il nuovo edificio è stato intitolato a mio padre, perché è stato lui a promuovere il progetto, anche se non è riuscito a vederne la conclusione. Zio Ben ha chiesto a vari giocatori, tra cui me, di dire qualche parola. Sono stata indecisa fino all’ultimo: non mi piace parlare in pubblico, tantomeno di argomenti così intimi e personali, ma alla fine ho accettato. Ascolto con attenzione le parole degli adolescenti che si succedono sul palco, ognuno racconta un aneddoto su papà, una ragazza gli ha persino scritto una poesia. Nico è l’ultimo a intervenire. Parla dell’importanza della disciplina e di essere esigenti con sé stessi, due cose che solo mio padre ha saputo insegnargli, e conclude guardandomi negli occhi, con il suo vero sorriso – non quello che usa per flirtare con le ragazze o addolcire gli insegnanti. 262


“Per finire, lascio la parola alla migliore giocatrice che questa palestra abbia mai avuto l’onore di ospitare, l’unica che sia mai stata presa all’INSEP. Siete fortunati a vederla qui invece che in tv, perché in un universo parallelo, un po’ meno insensato di questo, sarebbe di certo negli Stati Uniti a prepararsi per l’inizio dei playoff nella migliore squadra della WNBA... Léa, è il tuo turno.” Mi alzo in piedi tra qualche timido applauso. Le gambe mi tremano un po’. Il foglio con il discorso piegato in quattro che ho stampato il giorno prima è ormai umido e sgualcito tra le mie mani sudaticce. Salgo sul palco e regolo il microfono, più per darmi un contegno che per reale necessità. Dispiego con cura il mio A4, lo appoggio sul leggio e lo liscio con il palmo della mano. In un film americano con uno stupido happy ending, come direbbe Anthony, questo sarebbe probabilmente il momento in cui decido d’impulso di improvvisare un discorso che non ha niente a che vedere con quello che ho preparato. Ma se c’è una cosa che ho imparato quest’anno, è che non viviamo in un film americano. Incrocio lo sguardo di Anaïs che con un sorriso solleva discretamente la mano destra, piega il pollice sul palmo, richiude le altre dita e agita la falange sporgente. Il primo esame che ci avevano fatto fare in ospedale e, per quanto mi riguarda, uno dei pochi segni esteriori della mia sindrome di Marfan. È diventato una specie di scherzo tra noi, un segno di riconoscimento che nessuno può capire tranne me e lei. Sotto il leggio, chiudo anch’io le mie dita sul pollice per darmi coraggio, faccio un bel respiro e comincio. “Salve a tutti, mi chiamo Léa Martin. Sono la figlia di Alain Martin, che per un bel po’ di tempo ha insegnato ai ragazzi di Tarny a giocare a basket ed è stato tra i promotori di questo progetto di ampliamento della palestra, grazie al quale tutti gli impianti sportivi sono ora accessi263


bili anche alle persone disabili. Avete parlato dell’allenatore che vi ha seguito in questi anni e le vostre testimonianze sono state molto toccanti per noi familiari. Ma io non sono venuta qui a parlarvi dell’allenatore. Sono venuta a parlarvi di mio padre.” Continuo con voce incerta, accenno alla foto sulle scale, racconto di tutte quelle ore della sua vita che ha dedicato a realizzare il mio sogno di bambina. E poi racconto dei pancake della domenica mattina, delle visite dal ginecologo, delle notti passate a guardare i playoff ingozzandoci di patatine e Nutella. Parlo di Marfan, perché se la sindrome fosse un po’ più conosciuta forse non sarebbe morto. Non mi dilungo troppo su questo punto, non è quello che ricorderò di lui, così come mi rifiuto di pensare che sia quello che la gente ricorderà di me. È in quel momento che alzo per la prima volta la testa per dare un’occhiata al pubblico. E all’improvviso mi blocco. Naturalmente sapevo che Anthony poteva essere lì. Ma è sabato, e il sabato lui lavora in municipio. E in fin dei conti l’inaugurazione di una palestra intitolata a un tizio che non ha mai conosciuto non dev’essere un evento molto interessante per lui. Mi manca l’aria. Il silenzio è così pesante che è come se la platea si fosse congelata, come se tutti si fossero resi conto del nostro scambio muto. I suoi capelli sono più corti di quanto ricordassi, il suo sguardo è intenso e indagatore come sempre, anche in una palestra affollata. Dal pubblico si alzano dei mormorii e mi rendo conto di essermi fermata a metà di una frase. Chino lo sguardo sul foglio, non riesco più a leggere, tutto è confuso. Chiudo gli occhi, li riapro e riprendo: “Dicono che fossi molto dotata per il basket, purtroppo non posso dire lo stesso per la scrittura, quindi ho scelto una citazione che illustra la personalità di mio padre meglio di quanto non sia in grado di fare io. Dice: ‘Punta 264


alla luna: mal che vada finirai tra le stelle’. Questo è esattamente il succo di ciò che ha cercato di trasmettermi mio padre. Fin da bambina mi ha insegnato a spazzare via i dubbi, a non rimuginare troppo, ad avere fiducia in me stessa, a coltivare sogni impossibili e a provare a realizzarli, a dare sempre il massimo senza pensare agli ostacoli, ai giudizi degli altri... Quando mi è stato vietato di giocare per motivi di salute e ho capito che non avrei mai realizzato il mio sogno d’infanzia, mi è crollato il mondo addosso. Mi ci è voluto molto tempo per capire che tutti quegli anni passati ad allenarmi, a giocare e a coltivare le mie speranze, tutti quegli sforzi non erano stati vani. Oggi so di essere stata incredibilmente fortunata ad avere avuto un’infanzia straordinaria, a essermi svegliata quasi tutte le mattine sapendo che avrei fatto la cosa che più mi piaceva al mondo, con quella persona eccezionale che era mio padre. E anche se, come diceva una persona a me molto cara, “la vita non è un film americano con uno stupido happy ending”, e purtroppo non arriverò mai sulla luna, oggi so che grazie a mio padre, e grazie a tutti quegli anni in cui ho inseguito questo sogno folle, io, Léa Martin, ho avuto l’immensa opportunità di sfiorare le stelle”.

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