Le tragedie della vita
Naqui il Maggio 1883 in Udine, quando era piccolo era amato teneramente dai miei genitori, da uno zio fratello di mio padre e dai nonni; questi sono i membri che componevano la mia amata famiglia.
Quando era, all’età di sei anni, fui ammesso alla Scuola Comunale della città.
Con gran piacere dei miei genitori io imparavo a meraviglia, e alla sera dopo la cena stava riunita la mia famiglia a sentirmi a leggere le prime parole del Sillabario; grazie a Dio la nostra famiglia godevamo tutti salute e alla sera il padre, lo zio e tutti, dimenticavano le fatiche della giornata e si raccontavano i casi della vita, lo zio che faceva il tipografo portava il giornale e lo leggeva la sera spiegandoci, perché la nonna non capiva poi il nonno e il padre fumavano la loro pipa facendo qualche domanda.
Pur troppo la mia famiglia viveva contenta ma le contentezze in questa vita sono di assai pocha durata. Lo zio s’ammalò e per quanto lo avessero pregato a curarsi non volle saperne, esendo giovine credette superare il male, ma pur troppo, avendo lui avuti dispiaceri sul lavoro e nella Società si conobbe che aveva una tisi acuta
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e in pocho tempo non giovando tutti i mezzi adoperati dalla famiglia, dai parenti e amici spirò fra i pianti di tutti all’età di ventiotto anni.
Quanto piansi anchio il mio caro zio, quando in letto di morte ci abraciò e diceva dove sono i suoi nipotini (avendo io anche una sorellina) fummo messi sul suo letto, ma haimè! egli ci abracciava ma non ci vedeva, perché il velo della morte gli aveva già coperto gli occhi, furono ore di angoscia ma pure si dovette rassegnarsi.
Di là un mese in pochi giorni moriva anche il caro nonno, fra il dispiacere a perdere un sì caro figlio, e l’età, morì in seno alla famiglia d’anni settantatre. Il padre mio, avilito alla perdita di quei due cari, che erano l’all’egria e l’aito della famiglia, andava al lavoro aflitto, e alla sera quando ritornava stanco e pensoso, spesso si lo vedeva asciugarsi qualche lacrima, però io cercavo consolarli colla mia obbedienza e il mio amore per la scuola.
Durante quell’anno fui anche io qualche po’ di tempo ammalato ma poi guarito mediante la cura dei miei genitori ripilai la scuola, feci gli esami e con gran piacere fui ammesso alla seconda classe. Poveri genitori come mi volevano bene e comerano contenti al vedermi crescere con buoni fini. Il povero padre si affaticava a lavorare, e a stento poteva mantenere la famiglia perché spesso si aveva qualche male. La madre era spesso assalita dai dolori articolari, che da donna forte qual era, l’avevano indebolita, però il padre non perdendosi di corraggio, procurava sempre tutti i mezzi, venni io all’età di nove anni, e avevo due sorelle minori, frequentavo la scuola nella classe terza.
La mia famiglia era nella miseria avendo il padre una pagha piccola per potere pagare l’afitto e sostenere la
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famiglia, anche mia madre aitava la famiglia con le sue fatiche ma spesso si aveva sempre qualche mallattia e perciò si era nella miseria; a me doleva il cuore a non potere aiutare il mio babbo, ma lui mi diceva: continua pure la scuola, che diventerai un uomo.
Si era giunti che i padroni di casa avevano cresciuto l’affitto, e così noi pensammo cambiarsi di casa. La madre esendo nativa di un paese lì vicino, e avendo pure suo padre là pensò di rivolgersi a lui perché ci potesse allogiare avendo lui una cucina e una camera libera.
Suo padre aveva sempre tratato male con essa e fin da piccina quando morì la sua povera mamma aveva dovuto andar a guadagnarsi il pane con propri sudori per le case dove adoperavano servitù, però mia madre non portava odio al padre suo per questo, sebbene questi se l’avesse potuto farla morire da piccina l’avrebbe fatto allo scopo di mangiare una piccola eredità lasciatali la madre sua ad essa, alla morte del padre. Così la madre aveva pensato di domandargli in affitto questa casa, fu accettata dal padre la sua proposta e così la nostra famiglia si trasportò tre chilometri fuori della città di Udine nel Comune e paese di Pasian di Prato.
Abitando in questo paese per il padre era un bel pezzo di strada per andare al lavoro, eppure lui non si lagnava mai quand’era interesse per la famiglia, la festa andava in città perché nel paese non aveva conoscenza con alcuno, e non era abituato a frequentare le osterie e passava le ore con noi piccoli raccontandoci la sua vita da fanciullo e poi da militare, io mi godevo a sentire la sua storia e mi ratristavo quando ramentava le sue fatiche nelle grosse manovre, la disciplina tremenda di qui era stato soggetto, io gli spiegavo le lezioni che avevo, perché anchio sebbene
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in paese continuavo la scuola a Udine, così la sera si passava io e lui spiegandosi vicendevolmente le nostre cose, certe volte e spesse volte ramentavamo i nostri poveri defunti ed allora a tutti ci cadevano lacrime di dolore, ramentando le loro buone opere ed il loro amore per la famiglia.
Pocho tempo dacchè si era ivi naque una sorella, così io avevo tre sorelle.
La povera nonna ci aveva già tutti cullati, essa piangeva di sovente, perché pensava che quando moriva non sarebbe sepolta vicino ai suoi cari.
Di fatti un giorno di marzo essendo di festa il padre mi disse che andassi a chiamare la zia, in un paese distante due ore di cammino, perché la nonna da tre quatro giorni era ammalata io non capiva il perché, ma pur troppo quando è un età avanzata cè pocha speranza su un ammalato; così io obbedii il padre; e più presto che era possibile arrivai dalla zia (sorella di mio padre) io entrai salutai tutti e poi gli dissi che la nonna è ammalata e che desiderava vederla; la povera donna lasciò cadere tutto di mano e mi seguì, quando fummo apresso il paese, una campana sonava l’agonia, certo della povera nonna. La zia si mise a singhiozzare e piangere e io li feci corraggio dicendo che non era quella la campana della sua morte, ma tosto si vide il mio padre seduto sul’orlo della strada colle mani alle tempia e grosse lacrime li cadevano dagli occhi; povero uomo era pallido spossato dalle fatiche e dai dolori della vita, eppure si rassegnava a tutto, e con fare doloroso egli disse alla zia; è morta nostra povera madre, non poté pronunciar altro perché tutti tre piangevamo ma tosto incoraggiati uno con l’altro, arrivammo in casa dove la zia pianse molto per non averla potuta vedere da viva, nel dimane seguì il funerale e così restammo privi anche di questa buona nonna.
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Il padre al vedere sempre disgrazie o mallatie della mamma e spesso anche delle mie sorelle, e solo lui a pensare alla già numerosa famiglia, era avvilito.
Io aveva allora dieci anni e frequentavo la quarta classe elementare, procuravo io di incorraggiare il padre dicendogli che presto io li sarò d’aiuto, egli al sentire quelle parole d’incoragiamento mi baciava con tenerezza dicendomi; tu sei ancora giovine, mio padre era di un cuore sensibile, ed era di un carattere timido non era avezzo nelli affari solo gli piaceva mantenere la famiglia coi suoi propi sudori e coll’onestà, così quando vedeva che non poteva arrivare a sorreggere la famiglia era pensoso e avillito; la mamma aveva un temperamento tutto diverso del suo e spesse volte essa lo corregeva e gli diceva che se non si può pagare oggi si pagherà dimani che tutti anno qualche debito.
Come si amavano i miei genitori e si corregono a vicenda, non era mai una lite, una questione nella nostra famiglia, sebbene dove sta la miseria, ce sempre qualche questione, eppure noi si acontentavamo a sofrire rassegnati, senza far ridere il mondo, perché pur troppo la gente ignorante, invece di aiutare il povero lo deride, così sono i benestanti dei nostri paesi, il povero deve essere schiavo.
Così nella nostra famiglia si pativa mali disgrazie miseria e di tutto, senza che nessuno potesse sapere, molte volte la mamma veniva presa da forti dolori di testa svanimenti convulsioni, il padre dopo stanco del lavoro vegliava l’intiera notte, la mamma era indebolita, ma essa voleva lo stesso lavorare per la campagna, e nutrire qualche bestia per tirare inanzi e dare aiuto, essa si affaticava per i campi le intere giornate, con pocho mangiare e così credeva di sostenerci noi mentre essa pativa e la sua
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salute andava diminuendo; poveri genitori! Essi si struggevano per noi.
Venne un tempo che il padre mio si ammalò; era proprio la nostra una famiglia disgraziata? Si credeva che in breve lui guarisse, ma nel suo mestiere di conciappelli aveva preso una umidità nelle gambe che a stento camminava era sano di fisicho ma le gambe pocho li servivano, e lui che di giovine aveva sempre superato grandi camminate li pareva impossibile esser ridotto così, fin che la Società Mutuo Socorso gli passava la pagha di cui lui aveva diritto ricevere (esendo egli arruolato a questa Società) tanto si faceva corraggio; ma visto che la sua guarigione era incerta e il tempo del dato sussidio era scaduto, era aflitto e pensava come la povera famiglia pur troppo doveva languire nella più scuallida miseria.
Io frequentavo la classe quinta elementare ed aveva compiti i dieci anni veniva a casa di scuola e lo trovavo pensoso e dolente, non aveva il corraggio domandare da mangiare perché non c’era e con un paio di uova si faceva la cena in tutti, grazie a Dio qualche buon ragazzo che era a scuola con mè di famiglie signorili mi davano sempre qualche quatrino e qualche pane, avendo io narrato a loro le mie sciagure.
Così si tirava inanzi il mondo fra la miseria ed il dolore.
Venne il tempo che io feci gli esami e con sommo piacere del maestro che mi voleva bene e dei poveri genitori fui promosso con distinzione; il maestro mi domandò se io potessi continuare la scuola mi sarebbe passato un piccolo sussidio dalla Comune di Udine essendo io di famiglia povera. Ma hoimè potevo io continuare la scuola mentre i genitori non fidavano lora che io potessi aiu -
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tarli; il sussidio che mi sarebbe stato passato era appena bastante per comperarmi i libri, e i miei poveri genitori come potevano mantenermi e vestirmi un po’ pulito?
Era impossibile; così con tutto l’amore che io avevo per la scuola vedendo davanti a me tutti questi ostacoli insuperabili e considerando che io ero di somma necessità di guadagnare qualche soldo per la famiglia, pensando al mio crudele destino contro il mio volere dovetti rispondere al maestro che ciò era impossibile, non posso gli risposi perché sono troppo povero, a me molto rincresce ma devo rifiutare esendo da quasi un anno mio padre impotente al lavoro; piansi dalla rabbia, ma Iddio solo sapeva i miei buoni fini ma il mondo l’ignorava e quando al mondo si è poveri non si è protetti di alcuno benché si sia onesti.
Così dovetti rassegnarmi alla volontà del destino.
Correva dunque l’anno 1894, giornate di freddo rigidissimo, il mese di Febraio, quando un giorno un uomo del mio paese venne in casa mia a domandare i genitori se fossero contenti di lasciarmi andare con lui all’Estero a lavorare in una fabrica o fornaci di mattoni, lavori pesanti ma che potevo guadagnarmi qualche cosa, prometendogli alla madre di costodirmi e di non lasciarmi pericolare oppure non sforzarmi troppo nel lavoro.
Nei nostri paesi pur troppo a molti tocca emigrare per guadagnarsi il pane, e come in questi lavori i ragazzi erano molto trascurati per il troppo lavoro e la mala spesa e cattivo alloggio, io questo ignoravo perché non aveva provato nulla fuorché l’amore per la scuola e per i genitori, ma un povero per vivere deve soffocare l’amore e viene condannato a vivere come la bestia, lavorare, mangiare, se un povero avesse i sentimenti di divenire un uomo, per mancanza di mezzi deve rimanere ignorante,
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così va il mondo, questi pensieri per me non valevano niente, a me non dispiaceva il lavorare ma mi adolorava quello che se volevo guadagnare qualcosa dovevo abandonare la famiglia e recarmi lontano della patria in mezzo a genti che certo non conoscevo, malgrado questi pensieri da una parte mi consolava pensando che un giorno sarei ritornato in seno alla mia famiglia con qualche piccolo avanzo, e così pensando guardando i genitori con fare allegro dissi chio andrei purché mi sia dato il consenso dai miei genitori.
I genitori mi guardavano attoniti e dolenti, ma questo uomo propose loro una piccola caparra, e gli confortò dicendogli che non era io il primo ad emigrare che pur tanti altri fanciulli venivano con mè, si accettò la caparra, e questo uomo destinò la partenza un giorno dei primi d’Aprile e se ne andò.
Io rimasto lì coi genitori gli feci loro corraggio facendogli sperare che io aveva corraggio e che non dovevano pensare per mè; passavano così i giorni rapidi e la madre quando mi vedeva spesso si asciugava una lacrima pensando che fra breve si dovevamo separare, io pure quando era solo piangevo e dicevo tra mè; Patria. Patria. come posso io amarti, quando tu mi costringi ad abandonare i genitori e la famiglia ed andare in lontani paesi per vivere, quando era invece vicino ai genitori gli dicevo loro che io sono capace di lavorare e che un giorno ritornerò con qualche avanzo e così procuravo di confortargli.
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