NOVA ITINERA N° 1/2024

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Nova itinera

percorsi del diritto nel XXI secolo

L’EDITORIALE

IL DESTInO

DI un pALAzzO

ACCADE OGGI

IL DIRITTO DEL LAVORO

FRA ATTIVISMO

DEL LEGISLATORE

E ATTESE SOCIALI

LAVORO E PREVIDENZA

NEL XXI SECOLO

IL DAnnO

DA IRREGOLARITà

COnTRIbuTIVA

LAVORO E PREVIDENZA

NEL XXI SECOLO

LAVORO E VALORI

nELLE

AMMInISTRAzIOnI

pubbLIChE

Anno XV - N° 1 - 2024

Quadrimestrale di legislazione, giurisprudenza, dottrina e attualità giuridica

Anno XV - N° 1 - 2024

Autorizzazione del Tribunale di Roma nr. 445 del 23 novembre 2010

DIRETTORE RESPONSABILE:

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L’EDITORIALE

ACCADE OGGI

Alfonsina De Felice

LAVORO E PREVIDENZA NEL XXI SECOLO

DOVE PENDE LA BILANCIA

di Mario De Ioris

Sommario
IL DESTINO DI UN PALAZZO 5 di
Stefano Amore
IL DIRITTO DEL
FRA ATTIVISMO DEL LEGISLATORE E ATTESE SOCIALI 15
LAVORO
di
IL DANNO DA IRREGOLARITà CONTRIBUTIVA: LA CASSAZIONE CONFERMA IL PROPRIO ORIENTAMENTO 25 di Gabriele Fava LAVORO E VALORI NELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE 29 di Maurizio Decastri
PROSPETTIVE DELLA COMUNIONE LEGALE TRA I CONIUGI 39
LA DIGNITà DELLA PERSONA NELL’ESECUZIONE DELLA PENA 49
di Irma Conti
GIUSTIZIA LA GIUSTIZIA PREDITTIVA TRA MITO E REALTà 59 di Roberto Staro PROFILAZIONE, DECISIONI ALGORITMICHE E PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI 73 di Stefano Rinauro
OSSERVATORIO SULLA

COMITATO SCIENTIFICO

PRESIDENTE:

Giulio Prosperetti

Vice presidente della Corte costituzionale, Professore Emerito di Diritto del Lavoro

COMPONENTI:

Carla Andreani

Professore Ordinario di Fisica Applicata

Mario Ascheri

Professore Emerito di Storia del Diritto Medievale e Moderno

Paola Balducci

Avvocato, già Componente del C.S.M.

Giovanni Bianco

Professore di Istituzioni di diritto pubblico e Teoria generale dello Stato e dell'organizzazione pubblica Univ. di Sassari

Guido Calvi

Avvocato, già Componente del C.S.M.

Giorgio Cantelli Forti

Presidente dell’A.N.A., Professore Emerito di Farmacologia e Farmacoterapia

Fausto Cardella

Magistrato, già Procuratore Generale di Perugia

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Notaio

Giuseppe Celeste

Notaio

Giuseppe Chiaravalloti

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Professore Ordinario di Diritto Civile

Adolfo de Rienzi

Notaio, Presidente dell’Accademia del Notariato

Giuseppe de Rosa

Consigliere della Corte dei Conti

Angela Del Vecchio

Professore Ordinario di Diritto dell’Unione Europea

Ignazio Leotta

Notaio

Filiberto Palumbo

Avvocato, già Componente del C.S.M.

Giorgio Rizzo

Notaio

Piero Sandulli

Professore di Diritto Processuale civile

PER NON DIMENTICARE

ATTUALITà DELLA DIVINA COMMEDIA

di Grazia Marzo

I TEMPI DEL DIRITTO

di Carlo Gaudio

ITALIANI NEL MONDO

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LA DOPPIA CENSURA E LA FINE DI ALDO MORO
IL PROFILO DI UN GIURISTA 97
Antonio
di
Santeramo
Particolare della facciata del Palazzo della Consulta

IL DESTINO DI UN PALAZZO.

Identità architettonica e storica del Palazzo della Consulta a Roma.

L’art. 1 della legge 18 marzo 1958, n. 265 (Integrazioni e modificazioni alla legge 11 marzo 1953, n. 87, concernente l’organizzazione ed il funzionamento della Corte costituzionale), stabilendo che “Il palazzo della Consulta in Roma, delimitato da piazza del Quirinale, vicolo del Mazzarino e via della Consulta, compresi gli accessori, le pertinenze e gli arredi, è destinato a sede permanente della Corte costituzionale”, ha conferito nuova identità a un palazzo di antica storia, che dei profondi mutamenti politici e istituzionali di Roma prima, e dell’Italia poi, è stato indubbio e significativo protagonista.

In realt à , il palazzo della Consulta era stato designato come sede della Corte costituzionale già nel 1955 e in esso, infatti, il 23 aprile 1956, si era tenuta l’udienza inaugurale durante la quale Enrico De Nicola, suo primo Presidente, gi à capo provvisorio dello Stato repubblicano nonché, per pochi mesi, Presidente della Repubblica, nel discorso letto alla presenza delle massime autorit à dello Stato, aveva evidenziato l’indispensabilit à di una giustizia costituzionale per l’attuazione piena della Costituzione: “La Corte può finalmente funzionare con assoluta fiducia ed è destinata a inattesi sviluppi. La Costituzione è finalmente attuata in uno dei suoi settori basilari, sicché — almeno in questa parte — non potrà essere più paragonata da un grande Maestro della scienza del di-

ritto a una celebre sinfonia di Schubert: «L’Incompiuta»”1

Tra l’edificio che, un secolo prima, aveva ospitato Mazzini, Armellini e Saffi durante le drammatiche vicende della seconda Repubblica romana, e la Costituzione del 1948 sorge, subito, un legame profondo, che le pronunce della Corte continuano a rimarcare, quasi con orgoglio, con le parole che concludono sempre il loro dispositivo: “Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta”.

Per comprendere che non si tratta dell’espressione di un banale e diffuso costume giudiziario, basta consultare le decisioni di qualsiasi altro organismo giurisdizionale, che si limitano a citare, al più, la città dove hanno sede, senza aggiungere null’altro.

In questa peculiarità che caratterizza le pronunce della Corte costituzionale dobbiamo cogliere una nota di sacralità? Esiste, forse, un legame profondo che lega il palazzo della Consulta con la Costituzione repubblicana e che va aldilà delle concrete vicende storiche?

Forse sì, se consideriamo le stesse parole utilizzate dal Presidente De Nicola nel discorso pronunciato all’udienza inaugurale, quando, sottolineando, l’unità di intenti e di azioni che avrebbe dovuto realizzarsi tra la Corte e la Magistratura, aveva indicato la prima come “vestale della Costituzione” e la seconda come “vestale della Legge”2 .

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Resta il fatto, al di là di queste vibranti suggestioni, che la solidità e la razionalità del palazzo della Consulta è subito divenuta, nella percezione degli italiani, l’immagine plastica del vigore della nostra Costituzione che, proprio quale fondamento delle libertà civili, politiche e sociali dell’Italia repubblicana, ha trovato perfetto riscontro nella “tetragona volumetria trapezoidale” dell’edificio3.

Queste considerazioni non sono smentite dalla storia e dall’originaria funzione del palazzo, considerato da alcuni studiosi, molto più prosaicamente, l’esempio di un nuovo stile edilizio in cui sono combinate le tipologie dell’edificio amministrativo e della caserma4

Esemplari le riflessioni del grande architetto statunitense Louis Kahn sul rapporto tra le istituzioni e gli edifici che le ospitano: «Tutto quello che un architetto fa risponde prima di tutto ad un’istituzione dell’uomo e poi diventa un edificio. Si parla delle istituzioni dell’uomo. Non mi riferisco alle istituzioni nella loro costituzione. Voglio dire piuttosto che le istituzioni rappresentano il desiderio insopprimibile di essere riconosciute, che l’uomo non può procedere in una società di altri uomini senza condividerne certe ispirazioni, che occorre un luogo per il loro esercizio»5

D’altronde, la dimensione istituzionale di cui l’edificio costituisce l’espressione non può rimanere legata solo al passato, ben potendo avere uno sviluppo, non solo funzionale, ma anche, e soprattutto, ideale.

Il che lo porta a divenire vero “monumento”, emblema della società e degli uomini così come evolvono e progrediscono concretamente nella storia. La solidità e la bellezza dell’edificio è simbolo di un’idea che non tramonta e non va confusa con la funzione voluta inizialmente, che rappresenta solo l’occasione della costruzione, non certo la finalità profonda che l’anima.

Forse, veramente, il destino del palazzo della Consulta non sarebbe potuto essere diverso, considerata la sacralità dell’area in cui è stato realizzato, quella del Colle Quirinale, sede dell’antico santuario dedicato a Quirino, trasfigurazione divina di Romolo, mitico fondatore della città di Roma. E luogo ove erano ubicati anche altri importanti edifici di culto, tra cui, il tempio della Dea Salute e quello di Serapide, che l’imperatore Caracalla fece innalzare nel 217 d.C. e da cui, probabilmente, provengono le due grandi statue dei Dioscuri, che da secoli connotano la piazza6.

Questi imponenti gruppi scultorei, raffigurati mentre trattengono per le briglie i cavalli, vennero successivamente utilizzati per ornare le Terme di Costantino, costruite intorno al 315 d.C., e fecero assumere al colle, sin dal medioevo, il più prosaico nome di “Mons Caballus”, Montecavallo7

Così, infatti, “veduta di Montecavallo”, è intitolato il bellissimo acquerello di Gaspar Van Wittel, meglio noto con l’italianizzato cognome di Vanvitelli, conservato ai Musei Capitolini di Roma, che rappresenta la piazza del Quirinale com’era nel 1682, cinquant’anni prima dell’avvio dei lavori di costruzione del Palazzo della Consulta.

È nel 1732, infatti, che Papa Clemente XII, Lorenzo Corsini, affida all’architetto fiorentino Ferdinando Fuga8 l’incarico di realizzare un edificio che potesse ospitare la segreteria della Congregazione della Sacra Consulta, la Segnatura dei Brevi ed i reparti militari dei Cavalleggeri e delle Corazze9

Dopo la posa simbolica della prima pietra dell’edificio, contenente alcune medaglie coniate per la circostanza, effettuata il 9 ottobre 1732, i lavori dell’edificio procedono celermente, tanto che nel dicembre del 1734 risulta già completata la copertura del tetto e viene collocata, nella parte centrale della fac-

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ciata principale del nuovo palazzo, la grande lastra di marmo che ne attribuisce a papa Clemente XII la fondazione: “CLEMENS XII PONT. MAX ADMINISTRIS PONTIFICIAE

DITIONIS NEGOCIIS CONSULTANDIS

ATQUE A BREVIORIBUS EPISTOLIS LEVIS

ARMATURAE ET THORACATORUM EQUITUM TURMIS A FUNDAMENTIS EXTRUXIT ANNO SAL. MDCCXXXIV PONT. V”10 .

E pochi mesi dopo, l’8 aprile del 1735, vengono scoperti, a coronamento dell’edificio, al centro della balaustra, i gruppi scultorei delle Allegorie della Fama, opera dello scultore Paolo Benaglia, che affiancano lo stemma con le armi di Papa Corsini.

La costruzione del palazzo della Consulta non fu, naturalmente, priva di difficoltà tecniche, soprattutto per la necessità di considerare, nella sua fondazione, i resti delle Terme di Costantino presenti nell’area e di demolire il preesistente edificio esistente in loco, costruito nel cinquecento per il cardinale Ferrero, vescovo di Vercelli e, successivamente, destinato da papa Sisto V a sede della Congregazione della Sacra Consulta.

Ma i problemi maggiori che dovette affrontare il nuovo pontefice furono quelli di carattere economico.

È noto che Papa Corsini usasse dire «sono stato un ricco abate, un comodo prelato, un povero cardinale ed un Papa spiantato», ma, nonostante l’età avanzata quando nel 1730 venne eletto al soglio pontificio, il suo spirito pragmatico gli consentì di affrontare e risolvere brillantemente le notevoli difficoltà economiche dello Stato della Chiesa.

Per finanziare le nuove opere e risanare le finanze vaticane, Clemente XII decise, infatti, di ripristinare il giuoco del lotto che il suo predecessore, Benedetto XIII, aveva proibito, stabilendo, peraltro, allo scopo di assicurare i massimi introiti alle finanze del Vaticano, la scomunica per chiunque avesse giocato, ma

all’estero, ossia ai lotti di Genova, Napoli e Milano.

Così, già nel maggio del 1737, terminati anche i lavori di rifinitura, il palazzo realizzato dal Fuga era pronto ad accogliere la segreteria della Congregazione della Consulta e la Segnatura dei Brevi, a cui vennero destinati i piani intermedi dell’edificio, e i reparti dei Cavalleggeri e delle Corazze.

Il nuovo palazzo scontava, indubbiamente, le difficoltà dell’area, limitata dalle preesistenti costruzioni di Palazzo Rospigliosi11 e del Monastero della Maddalena12, per cui il Fuga fu costretto a progettare un edificio a pianta trapezoidale, con un grande cortile al centro e il lato maggiore su piazza del Quirinale, la cui posizione risultava inclinata rispetto al baricentro della piazza.

L’asimmetria della posizione, oltre a catturare l’attenzione dello spettatore, sottraeva, però, l’edificio alla competizione diretta con il palazzo del Quirinale, assumendo un significato, anche simbolico, di diversa centralità rispetto a quella della sede dei Papi, dei Re d’Italia e, oggi, del Presidente della Repubblica.

La facciata del nuovo edificio venne articolata dal Fuga su due piani, scanditi verticalmente da tredici lesene, che si ripetono ritmicamente e inquadrano una serie di alte finestre, separate da uno stretto ammezzato, con timpani triangolari al primo piano e convessi al secondo.

A coronamento dell’imponente portone centrale, inquadrato da due colonne doriche che sorreggono un timpano, vennero poi poste le due statue della Giustizia e della Religione, opera dello scultore Francesco Maini, mentre, per i due portoni laterali, oggi chiusi, Filippo della Valle scolpì i Trofei militari relativi ai corpi dei Cavalleggeri e delle Corazze.

L’aggiunta di questi gruppi scultorei non L’ editoriale

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piacque a tutti, e forse non venne neppure condivisa dal Fuga, tant’è che Francesco Milizia, nelle sue “Memorie degli architetti antichi e moderni”, definì «il palazzo veramente cospicuo della Consulta su la piazza di Montecavallo; opera grande, tutta isolata, e ripartita in quartieri per i Cavalleggeri e per le Corazze, e in appartamenti pel Segretario de’ Brevi, e per quello della Consulta, con tutte le comodità relative agli offizi di queste diverse Segreterie». Aggiungendo, però, che «il portone di mezzo è ... straccarico di sculture, le quali riescono pesanti anche ne’ portoni laterali, e su nel mezzo del soprornato»13. All’interno dell’edificio, guardando dal cortile verso il portone principale, si apre poi, come controfacciata, uno scenografico scalone d’onore, a due piani e doppie rampe, con dodici grandi finestroni obliqui che fanno da balaustra, di cui veramente si potrebbe dire, usando l’espressione di Filippo Juvarra, “non sono le scale piccolo ornamento d’un gran Palazzo”14 . Quanto poi alla distribuzione degli spazi interni, il Fuga la articolò su sette livelli (tanti sono gli ordini delle finestre, comprese quelle del seminterrato, che si affacciano sul cortile), in modo da potervi ospitare gli alloggi per i militari e i funzionari degli uffici, le

stalle per le carrozze e i cavalli utilizzati dai reparti dei Cavalleggeri e delle Corazze e gli appartamenti dei cardinali, collocati entrambi al piano nobile, e destinati, quello sul lato di Palazzo Rospigliosi, al Segretario dei Brevi, l’altro, sul lato opposto, in direzione del Palazzo del Quirinale, al Segretario della Congregazione della Sacra Consulta.

La funzione originaria del palazzo verrà, però, rapidamente e profondamente modificata nel tempo dalle vicissitudini politiche dello Stato della Chiesa, prima, e dell’Italia poi. Già nel 1798, dopo poco più di sessanta anni dalla costruzione dell’edificio, il generale francese Berthier occupava, infatti, Roma e, proclamata la Repubblica Romana, sorella di quella Francese, i corpi dei Cavalleggeri e delle Corazze venivano sciolti.

Si tratterà di una breve ed illusoria parentesi, anche se accompagnata all’atto della sua proclamazione, come narra Carlo Botta, da “canti, balli, e rallegramenti di ogni forma”15 , così che, nel 1801, il nuovo Pontefice, Pio VII, rientrato a Roma, costituirà il nuovo corpo della Guardia Nobile, che prenderà possesso degli alloggiamenti che erano già stati dei Cavalleggeri.

Il movimento di pensiero e di azione che

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Le allegorie della Fama viste dalla terrazza del Belvedere del Palazzo della Consulta

doveva segnare il destino di Italia e di Roma era però, ormai, avviato. Melchiorre Gioia, nel 1796, aveva vinto il concorso bandito dalla Società di Pubblica Istruzione di Milano sul tema “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d’Italia”16, con una dissertazione in cui sosteneva la tesi di un’Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni democratiche, indivisibile per i suoi vincoli geografici, linguistici, storici e culturali, e nella Repubblica romana del 1798-1799 venne stabilito, per la prima volta nei territori che sino ad allora erano stati sotto il dominio della Chiesa, l’ordinamento di uno Stato costituzionale di diritto, fondato sulla separazione dei poteri e sulla garanzia dei diritti dei cittadini17.

Dopo l’eclisse dell’idea repubblicana in Francia e una breve parentesi temporale in cui le relazioni tra il Pontefice e Napoleone sembravano essersi stabilizzate, le truppe francesi, nel 1808, tornarono ad occupare Roma e l’11 maggio 1809 tutti i territori dello Stato della Chiesa vennero annessi all’Impero francese.

Il palazzo della Consulta divenne così, per alcuni anni, la residenza del Prefetto francese di Roma, il Barone de Tournon, per poi tornare ad ospitare, dopo la caduta di Napoleone nel 1814, la Congregazione della Consulta, destinata però a perdere, nel 1831, a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento organico e di procedura criminale emanato da papa Gregorio XVI, la gran parte delle sue competenze amministrative e ad acquisire la nuova denominazione di Supremo Tribunale della Sacra Consulta.

Prima dell’Unità d’Italia, l’edificio voluto da Papa Corsini sarà, però, protagonista di un’altra straordinaria esperienza, quella della Repubblica Romana del 1849, guidata da Mazzini, Saffi e Armellini. Il triumvirato pone, infatti, la sua sede proprio nello storico

edificio che inizia, così, la sua progressiva metamorfosi da palazzo del Potere a palazzo della Democrazia.

I triumviri incaricano, tra l’altro, due uditori, scelti fra i rappresentanti del popolo, di ricevere proprio alla Consulta, tre giorni alla settimana, tutti coloro che abbiano petizioni o domande individuali da inoltrare18. E la presenza di Mazzini nel palazzo, per quanto breve, segna profondamente il genius loci dell’edificio.

Suggestiva e indimenticabile la descrizione contenuta nelle memorie di Ferdinand de Lesseps, il diplomatico francese, divenuto poi notissimo per la realizzazione del Canale di Suez, a cui era stato affidato il difficile compito di concordare una tregua per il corpo di spedizione francese, guidato dal generale Oudinot, che nel suo primo attacco a Roma era stato respinto, con gravi perdite, dalle truppe comandate da Garibaldi.

L’interlocutore di de Lesseps, nella tarda notte del 16 maggio 1849, gli indica il percorso e le cautele da seguire: “Ebbene, vedi il Palazzo della Consulta. Tutte queste finestre che si affacciano sulla piazza sono quelle delle stanze che dovrete attraversare, dovete passare dall’una all’altra, perché non ci sono corridoi. È come alle Tuileries, mi ha detto, dove devi sempre passare dalla parte anteriore, lungo le finestre. Salirai al primo piano. [...] Mazzini è nell’ultima stanza; ora dorme profondamente fino alle tre del mattino, perché è molto stanco dopo la giornata. [...] Salite, nel vestibolo a sinistra vedrete l’ingresso agli appartamenti. Se la porta non è aperta, come lo è presso il chiavistello, la aprirai, sentirai il muro; sarà buio; in un punto ti girerai dall’altra parte; alla quinta finestra (le conterete) dopo, c’è un ampio soggiorno con tre finestre, e poi un altro soggiorno diviso in due. Ci sono da una parte i segretari di Mazzini che dormono sul retro, in due letti, e poi il nipote che dorme di fronte alla sua porta. Una volta arrivati in quest’ultima stanza, L’ editoriale

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probabilmente non ci saranno ostacoli. Troverete Mazzini disteso, in una stanza molto semplice, su un letto di ferro; accanto al suo letto c’è un tavolino dove c’è questa luce che tiene, l’unica del palazzo; poi, ai piedi del letto, c’è una piccola sedia... puoi sederti...”19.

Dopo il 1870, con la presa di Roma, lo svolgimento del plebiscito per la sua annessione al Regno d’Italia e la successiva proclamazione a Capitale, lo stemma reale sabaudo verrà inserito, tra le due statue della Giustizia e della Religione, sul timpano del portone centrale dell’edificio, destinato, in un primo momento, a residenza del principe ereditario Umberto e della sua consorte Margherita.

In funzione delle esigenze dei giovani principi, la distribuzione degli spazi interni del piano nobile del palazzo sarà modificata sensibilmente e nella decorazione dei soffitti verrà aggiunta una lettera «U», arricchita da simboli sabaudi e motivi di margherite.

Ma il 7 aprile 1874, grazie alla perseveranza di Emilio Visconti Venosta, all’epoca Ministro degli Affari Esteri, un atto ufficiale del demanio assegnerà al suo dicastero il palazzo della Consulta, che ne sarebbe rimasta la prestigiosa sede fino al 1922.

Le nuove funzioni comportarono ulteriori, significative, modifiche dell’edificio.

Le scuderie del seminterrato e le stalle del piano terreno furono, infatti, sostituite da altrettanti vani e venne chiuso sia l’ingresso sul lato del vicolo Mazzarino, che quello della facciata posteriore, mentre sul lato di via della Consulta venne installata una tipografia. Furono, inoltre, ampliati i saloni per i pranzi ufficiali e per le altre funzioni di rappresentanza e trovata una collocazione, al pian terreno e al quarto piano, per la biblioteca e l’archivio del ministero.

I cinquant’anni in cui il palazzo della Consulta sarà sede del Ministero degli Affari Esteri vedranno, peraltro, amalgamarsi sem-

pre di più l’importante istituzione con le abitudini di vita dei romani.

Di quel periodo fornisce una nostalgica e ironica rappresentazione Daniele Varè, nel suo libro “Il diplomatico sorridente (19001940)”20, raccontando gli anni della sua permanenza presso gli uffici della divisione politica del ministero. Apprendiamo così che, durante un’estate in cui al ministero c’era ben poco lavoro in confronto alle ore d’ufficio, i distinti diplomatici, a vantaggio della propria salute, nelle ore di maggiore tranquillità, dopo aver disteso una rete in una delle maggiori sale dell’austero palazzo, vi si dedicavano al gioco del volano.

Ma la pagina in cui Varè descrive meglio il rapporto dell’istituzione con la città, è quella in cui narra dei più antichi padroni di Roma, i gatti, e della loro vita all’interno dell’edificio.

“I gatti alla Consulta”, racconta Varè, “si mostravano indifferenti alle superiori istruzioni. Si credevano padroni loro. E a dispetto del Sottosegretario di Stato, seguitavano a considerare il palazzo demaniale come un feudo, e noi come vassalli. Frequentavano il cortile, l’androne, la portineria, la terrazza in alto e quella interna al mezzanino, i corridoi e le scale. In teoria avrebbero dovuto portare una guerra di sterminio ai topi in archivio. Ma quei gatti erano così grassi e ben pasciuti che di cacciare i topi non se la sentivano. Invece passavano le giornate in istato più o meno comatoso, oppure affaccendati in complicate e indecorose operazioni di toletta”.

“Il decano di questi gatti era un grosso micione grigio a macchiatura trasversale. che portava un collare, come un cane, ed era così pomposo e pieno di sé che si sarebbe detto l’animale simbolico e sacro che gli Egiziani veneravano. E può darsi difatti che un antenato del nostro gatto sia stato venduto a un re etrusco da navigatori fenici che l’avevano portato dall’Egitto. Causa la pinguedine, aveva perso com-

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pletamente quell’andatura ondulata ch’è propria della sua specie. E lo sguardo della pupilla diaframmata non aveva nulla d’inquietante, come di solito nell’occhio d’un felino. Quel gatto aveva appartenuto a Giuseppe Zanardelli, Presidente del Consiglio dei Ministri tra il 1901 ed il 1903. Avevano dimorato entrambi alla Consulta, ma soltanto il gatto vi era rimasto. Ed anche lui, lo chiamavano «Zanardelli», come se quel nome gli spettasse per diritto d’adozione”21 .

Non sappiamo che sorte sia toccata, con la fine dello Stato liberale, al gatto «Zanardelli», ma nel 1922, Mussolini, divenuto nuovo Presidente del Consiglio, oltre che Ministro degli Esteri e degli Interni, forse per dare il preciso segnale che la politica estera non sarebbe più dipesa dalle decisioni del Re, allontanò il ministero da quella sede, portandone gli uffici a palazzo Chigi22, mentre nell’edificio della Consulta veniva trasferito il ministero delle Colonie che, dopo aver assunto nel 1937 la denominazione di ministero dell’Africa italiana, nel 1953 sarebbe stato soppresso.

Inizia, così, il periodo in cui il destino del palazzo, da sempre sede di importanti istituzioni, si legherà a quello della giovane Repubblica italiana e della sua Costituzione.

L’Assemblea costituente, nell’elaborare il testo della Costituzione della Repubblica italiana, entrato in vigore il 1° gennaio 1948, aveva fatto una precisa scelta di fondo, optando per una Costituzione “rigida”, di cui è possibile la modifica solo con lo speciale procedimento legislativo aggravato previsto dall’articolo 138 Cost., prevedendo anche l’istituzione di una Corte costituzionale, con la funzione di decidere «sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni; sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione» (art. 134 Cost.) e sulle questioni di legittimità costituzionale eventualmente promosse dal Governo della Repubblica «sugli statuti regionali dinanzi alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione» (art. 123, comma 2, Cost.)

Sempre alla Corte venne successivamente attribuito, dalla legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale), il compito di giudicare sull’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo.

In origine alla Corte era stato attribuito

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Il gruppo scultoreo dei Dioscuri a piazza del Quirinale

anche il compito di giudicare i ministri per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, competenza che venne poi soppressa dalla legge costituzionale n. 1 del 1989.

Toccò, quindi, proprio alla Corte costituzionale di celebrare, dal 1977 al 1979, il processo per corruzione sul cd. caso Lockheed, per la fornitura di quattordici aerei C130 Hercules all’Aeronautica militare. E, proprio nell’ambito di queste funzioni, il 3 marzo 1978, la Corte costituzionale dispose, con ordinanza, di non compiere ulteriori atti istruttori in ordine all’illazione, proveniente da oltreoceano, che identificava con Aldo Moro il misterioso Antelope Cobbler, principale collettore delle tangenti.

Appena tredici giorni dopo il provvedimento, le Brigate Rosse rapirono il Presidente della Democrazia Cristiana, massacrando la sua scorta a Via Fani.

Si trattò di una casualità? Se la posizione di Aldo Moro non fosse stata stralciata sarebbe stato rapito lo stesso? O, forse, gli eventi avrebbero avuto un diverso svolgimento?

Non lo sappiamo e, probabilmente, non lo sapremo mai. Ma certamente, anche in questa tragica vicenda, che scosse dalle fondamenta la nostra giovane democrazia, ebbe un ruolo fondamentale la Corte costituzionale e il palazzo della Consulta che, dal 1955, accompagnavano il nostro paese in tutte le sue vicende, cercando di propiziare il futuro migliore immaginato dai Costituenti.

Oggi, chi sale al piano attico del nobile palazzo può scorgere, vicino all’uscita dell’ascensore, tre seggiole in legno, di estrema semplicità, disposte malinconicamente, senza alcun fasto, ma che portano il glorioso stemma della famiglia Chigi.

Nei numerosi documenti che illustrano le suppellettili e il patrimonio artistico dell’edificio non sono menzionate.

Da dove provengono? Forse proprio da

Palazzo Chigi dopo lo scambio di sede, avvenuto nel 1922, tra il Ministero degli Affari Esteri e quello delle Colonie? O, forse, sono qui da molto più tempo, vestigia della Sacra Consulta o della Segreteria dei Brevi?

A me piace immaginare che su di esse abbiano seduto anche Mazzini, Armellini e Saffi, in quel breve periodo in cui Roma fu Repubblica, sognando l’Italia che ancora non era.

NOTE

1 Discorso pronunciato dal Presidente Enrico De Nicola alla presenza del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi nella udienza inaugurale del 23 aprile 1956, pag. 2. Testo disponibile sul sito internet della Corte costituzionale: www.cortecostituzionale.it

2 E. De Nicola op. ult. cit., pag. 4.

3 L’espressione è di Paolo Portoghesi in “La Costituzione Italiana e il Palazzo della Consulta”, a cura di Paolo Grossi, Presidente emerito della Corte costituzionale, Utet Grandi Opere, pubblicato in occasione del 70mo anniversario della Carta costituzionale, pag. 231. Tra le opere dedicate al Palazzo della Consulta: “Il Patrimonio Artistico del Palazzo della Consulta Dipinti, sculture. Arti decorative”, a cura di Anna Lo Bianco, ed. Silvana Editoriale, Milano 2012; “I palazzi della giustizia”, Armando Ravaglioli, Newton Compton Editori nella collana Roma tascabile,1995; “Il Palazzo della Consulta sede della Corte Costituzionale”, a cura di Maurizio Nevola, Grafica Editrice Italiana, Roma, 1983; “Il palazzo della Consulta”, testi di Borsi, Ceccuti, Del Piazzo e Morolli, con prefazione di Franco Bonifacio e introduzione di Giovanni Spadolini, editore Banca Nazionale dell’Agricoltura, 1974; “Il Palazzo della Consulta nell’arte e nella storia” di Aldo Agosteo e Aldo Pasquini, editore Fratelli Palombi, 1959.

4 Così Elisabeth Kieven in “Ferdinando Fuga e l’architettura romana del Settecento”, Roma 1987.

5 Così Louis Kahn, “Idea e immagine” a cura di Schulz C. N., Officina edizioni, Roma, 1980, citato da P. Portoghesi op. cit., pag. 231.

6 “Il Colle del Quirinale nell’Antichità. La storia e i monumenti” a cura di Maria Giuseppina Lauro in Louis Godart, Il Palazzo del Quirinale, editore Franco Maria Ricci, 2003.

7 “Roma Imago Urbis. I Colli”, Roma, editore Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1993.

8 Il cardinale Lorenzo Corsini venne eletto papa il 16 luglio del 1730 con il nome di Clemente XII. Nonostante il fatto che al momento dell’elezione avesse già 78 anni,

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diede inizio ad una intensa opera di rinnovamento edilizio, nominando il fiorentino Ferdinando Fuga architetto dei palazzi pontifici. Oltre il palazzo della Consulta, al Fuga si deve la costruzione di palazzo Corsini alla Lungara, la facciata di Santa Maria Maggiore, l’ampliamento definitivo della Manica Lunga del Palazzo del Quirinale e la costruzione della Palazzina del Segretario della Cifra e della Coffee House nei giardini del Quirinale. Papa Corsini dette impulso a numerose opere pubbliche, tra cui la Fontana di Trevi, la nuova facciata di San Giovanni in Laterano, l’ampliamento del porto di Ancona e l’apertura della Strada Clementina. È ricordato anche per l’apertura alla cittadinanza dei Musei Capitolini, primo museo pubblico del mondo.

9 L’origine della Congregazione della Sacra Consulta risale alla fine del pontificato di Paolo IV, ma fu Sisto V, nel 1587, che ne fissò la denominazione in “Congregatio decimoquarta pro consultationibus negociorum Status Ecclesiastici” e la composizione, che comprendeva quattro cardinali, il Segretario di Stato in qualità di prefetto, e un certo numero di prelati, uno dei quali fungeva da Segretario. La Consulta aveva, in origine, competenze, sia di carattere amministrativo che giudiziarie, ma lo sviluppo storico accentuò soprattutto quelle giudiziarie. La Segnatura dei Brevi, secondo il Moroni, autore del Dizionario Di Erudizione Storico Ecclesiastica da S. Pietro sino ai nostri Giorni, era l’ufficio che provvedeva alla redazione delle lettere indirizzate dai Pontefici «ai sovrani, alle popolazioni, alle città, a personalità pubbliche o a privati per accordar loro dispense e indulgenze ovvero per dimostrare la loro benevolenza». I Cavalleggeri (o Cavalieri con armatura leggera) costituivano la guardia a cavallo del pontefice adibita alla sua persona, mentre il corpo delle Corazze, caratterizzato dall’armatura in acciaio, scortava a piedi la carrozza papale.

10 Clemente XII Papa eresse dalle fondamenta, nell’anno di salvezza 1734, quinto del suo pontificato, per i preposti al Consiglio Consultivo per gli Affari Pontifici e ai Brevi, nonché per i Cavalieri con armatura leggera e le Corazze.

11 Il palazzo, che sorge sui ruderi delle Terme di Costantino, a fianco di quello della Consulta, venne fatto costruire dal cardinale Scipione Borghese, nipote del papa Paolo V, accanto alla residenza papale del Palazzo del Quirinale. Nel 1704 il palazzo fu acquistato dal principe Giovanni Battista Rospigliosi, figlio di Camillo e nipote di papa Clemente IX, e da sua moglie, la principessa Maria Camilla Pallavicini, e divenne l’abitazione della famiglia Rospigliosi Pallavicini.

12 Il Monastero venne demolito nel 1889 in occasione della visita di Guglielmo II di Germania.

13 Così Francesco Milizia in “Memorie degli architetti antichi e moderni” Parma 1781 (prima edizione Bodoni).

14 “Non sono le scale piccolo ornamento d’un gran palazzo”. Scaloni e cerimoniale nei progetti di Filippo Juvarra di Roberto Caterino in Cultura, arte e società al tempo di Juvarra, a cura di Giuseppe Dardanello, editore Leo S. Olschki, Firenze, 2018.

15 Carlo Botta in “Storia d’Italia dall’anno 1789 all’anno 1814”, libro decimoquarto, p.36.

16 L’iniziativa fu bandita nel settembre 1796 dalla “Amministrazione Generale della Lombardia”, creata da Napoleone, con l’intento di acquisire indicazioni che consentissero di individuare il futuro assetto istituzionale dell’Italia.

17 Così Paolo Alvazzi Del Frate, “Costituzione e giurisdizione nella Repubblica romana del 1798-1799” in “A Ennio Cortese”, pp. 1-14. Roma, Il Cigno.

18 Riportato da Giovanni Spadolini nella sua Introduzione a “Il palazzo della Consulta”, già citato, pag. 12.

19 “Eh bien, vous voyez le palais de la Consulta. Toutes ces fenêtres qui donnent sur la place sont celles des chambres que vous devrez traverser, il faut aller de l’un dans l’autre, parce qu’il n’y a pas de corridors. C’est comme au Tuileries, me ditil, où l’on est toujours obligé de passer par le devant, le long des fenêtres. Vous allez monter au premier étage. [...] Mazzini est dans la dernière pièce; il dort maintenant d’aplomb jusqu’à trois heures du matin, parce qu’il est très fatigué de la journée. [...] Montez, dans le vestibule à gauche vous verrez l’entrée des appartements. Si la porte n’est pas ouverte, comme elle est au pêne, vous l’ouvrirez, vous tâterez la muraille; il fera obscur; à un endroit, vous tournerez de l’autre côté; à la cinquième fenêtre (vous les compterez) après, se trouve un grand salon avec trois fenêtres, et puis un autre salon partagé en deux. Il y a, d’un côté, les secrétaires de Mazzini qui couchent au fond, dans deux lits, et puis son neveu qui couche en travers de sa porte. Une fois qui vous serez arrivé dans cette dernière chambre, il n’y aura pas d’obstacle, probablement. Vous trouverez Mazzini étendu, dans une chambre très simple, sur un lit en fer; à côté de son lit est une petite table où se trouve cette lumière qu’il garde, la seule qui soit dans le palais; puis, au pied de son lit, il y a une petite chaise... vous pourrez vous asseoir...” in F.M. de Lesseps, “Souvenirs de quarante ans”, «Nouvelle Revue», Paris 1887, vol. I, p. 225-226, riportato da Elio Providenti in “Mazzini a Roma nel 1849” in Nuove Archeologie, Polistampa, Firenze, 2009.

20 Daniele Varè, “Il diplomatico sorridente (1900-1940)”, Mondadori, aprile 1941.

21 Daniele Varè op. ult. cit., pag. 77.

22 Narra del trasferimento del Ministero degli Affari Esteri dal Palazzo della Consulta a Palazzo Chigi sempre Daniele Varè op. ult. cit., pag. 249 e ss.

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L’ editoriale
PHILIPPE DE CHAMPAIGNE, Ritratto di Jean-Baptiste Colbert

Il diritto del lavoro fra attivismo del legislatore e

attese sociali

1. La fecondità dell’attività legislativa nella materia del lavoro dà luogo a uno dei sistemi normativi “speciali” più imponenti, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, dell’intera codificazione civilistica.

Indagare i rapporti tra questa intensa – talora febbrile - attività di codificazione e il diritto generale dei contratti nell’odierna stagione non è, dunque, senza rilievo. In particolare, ci si domanda se e fino a dove la tutela degli interessi riferibili agli attori –pubblici e privati – interessati alle vicende dei rapporti di lavoro renda tuttora raccomandabile un impegno legislativo di tale portata ovvero se non sia auspicabile salvaguardare il valore dell’autosufficienza del diritto, abbandonando l’illusoria aspirazione di contenere in comandi legislativi le antinomie della realtà economica e sociale con tutti i limiti di ricomposizioni temporanee1.

In realtà, l’eterogeneità della materia, fondata sulla stretta connessione tra fonti normative di natura pubblicistica e privatistica, pur rappresentando una ricchezza, nondimeno complica alquanto la vita della disciplina, imponendo all’interprete la verifica periodica dello stato dei rapporti tra la legge e il contratto collettivo, tra il diritto vigente e il diritto vivente.

2. Nelle fasi di radicale cambiamento del mercato del lavoro qual è quella attuale il le-

gislatore è tenuto a tradurre sul piano normativo i mutati equilibri socio economici e ad assicurare la validità e la coerenza delle norme di adeguamento all’impianto complessivo del modello costituzionale, il quale, nel nostro caso, si avvale del costante apporto del cd. diritto vivente.

Si potrebbe essere indotti a ritenere che la Costituzione costituisca la garanzia formale nella materia del lavoro, il criterio di misurazione della legittimità delle regole che si avvicendano, non anche che essa rivesta il ruolo di custode della certezza dei valori condivisi dalla collettività2 .

Quand’anche si condividesse tale suggestione, va però considerato come, dal punto di vista empirico, nessun sistema normativo manifesta maggiore attenzione alla sfera costituzionale, ricavando dai principi supremi criteri interpretativi, significati, metodi di attuazione originali, fino a trasferirne la concreta realizzazione a una fonte privatistica quale il contratto collettivo.

Tanto è avvenuto fin dall’immediato dopoguerra.

L’intensa attività di produzione normativa, dunque, è stata capace di generare una legislazione speciale saldamente intrisa di valori costituzionali, la quale, innestatasi sull’impianto originario (invero assai scarno) del codice civile, ne ha via via arricchito la trama di principi e discipline che risultano

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alla norma madre certamente non familiari quando non addirittura sconosciuti o in finanche ostili.

Sicché, la produzione legislativa in tema di lavoro e sicurezza sociale che seguì all’abolizione del sistema corporativo produsse, inizialmente, un evidente effetto di spiazzamento nella classe dei giuristi “formalisti” i quali accolsero - non di rado – con una vena di sospetto una siffatta vitalità creativa, ritenendo che il bisogno di affermazione del diritto del lavoro, nato da una costola del diritto dei contratti, manifestasse in realtà l’urgenza di una fuga dalla “casa madre” del diritto civile.

L’esperienza dimostra, al contrario, come la proliferazione della legislazione del lavoro fuori dal codice civile non abbia segnato una deriva particolaristica dell’ordinamento civilistico, ma come la diffusione di specifici “statuti” sia stata piuttosto determinata dal dinamismo della realtà economica e dalla partecipazione costante e creativa delle parti sociali alla produzione di nuove regole.

Non giova sottacere in proposito quanto intere generazioni di giuristi abbiano guardato al diritto del lavoro come a una “…finestra attraverso cui poter respirare e guardare la realtà”3 .

Tuttavia, in una fase di estrema scomposizione dei fattori costitutivi del diritto del lavoro (impresa, mercato, subordinazione, orario di lavoro, luogo di lavoro, tempi di vita) viene da domandarsi quali effetti sulla disciplina producano (se ne producono) le ricadute del subentrare di una certa crisi dei valori costituzionali che arriva a lambire l’essenza stessa dello Stato.

Ogni qualvolta ciò è avvenuto (e avviene periodicamente) la dottrina civilistica ha invocato l’inevitabilità di un ritorno al codice civile, la cui maggiore stabilità costituirebbe l’unico antidoto alla pretesa evanescenza del

principio costituzionale. Il codice civile, in definitiva, incarnerebbe quella fonte alla quale “…i singoli affidano la cura dei loro interessi particolari, dove il dissenso tra i partiti tace ed i contraenti si ritrovano in un contesto di superiore neutralità”4 .

In un momento quale quello attuale ha senso chiedersi se sia possibile (oltre che opportuno) assegnare al codice civile il compito di ridisegnare i confini di una materia speciale, resa quasi irriconoscibile nei suoi tratti fisiognomici dai mutamenti in essere.

3. La prima operazione che va fatta in un contesto tanto diverso da quello delle origini, è l’individuazione di un canone distintivo e unificante che possa ispirare il legislatore del cambiamento. Tale cifra, ad avviso di chi scrive, non può che essere rappresentata dal principio costituzionale di autonomia associativa, collante atto a rinsaldare il rapporto verticale tra norma costituzionale e diritto speciale, inteso non quale fonte residuale, collocata ai margini della codificazione civilistica, bensì nella sua essenza di legislazione attuativa del disegno costituzionale.

La centralità e la forza che tale valore acquista all’interno della disciplina lavoristica le attribuisce una peculiarità ulteriore rispetto al diritto generale dei contratti. Se, infatti, il secondo si basa sulla libertà di scambio in un contesto di sostanziale neutralità dell’ordinamento, la prima si struttura come diritto dei gruppi, delle formazioni sociali ove l’individuo sviluppa la propria personalità5

Tale evidenza implica che fin dall’irrompere nell’ordinamento del diritto del lavoro il mito della neutralità ha finito per essere percepito come caduco, ciò in ragione del nuovo approccio normativo che quel modello introduceva, intrinsecamente incarnato nella politicità dei rapporti sociali e garantito

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in primis dall’art. 18 della Costituzione, che conferisce al singolo il potere di promuovere la formazione di gruppi in vista di scopi illimitati e generali.

Nondimeno, è dal dibattito sull’attuazione dell’art. 39 Cost. che il diritto del lavoro raggiunge la piena maturità6. La norma richiamata afferma, infatti, un modello marcatamente corporativo, quello del sindacato come entità dotata di personalità giuridica (a base democratica), legittimato a stipulare contratti di natura pubblicistica per la salvaguardia di diritti collettivi.

La proverbiale disaffezione del sindacato nei confronti del modello di legittimazione configurato dall’art. 39 Cost., co.2 e ss. è diffusamente riconosciuta. Se si guarda, però, alla riforma della rappresentatività sindacale

nel lavoro pubblico contrattualizzato, i rischi di una soggezione dell’autonomia sindacale al potere centrale ne escono ridimensionati; sebbene il legislatore nell’area dell’impiego con la pubblica amministrazione abbia inteso assegnare natura pubblicistica al contratto collettivo, infatti, il dialogo ideale tra diritto del lavoro e Costituzione, sul piano associativo non ha subito cesure od interruzioni, né ha perso di attualità e di credibilità7

Appare, dunque, improprio continuare a considerare l’art. 39 Cost. alla stregua di un’ipoteca sul diritto del lavoro. Da questo punto di vista, anzi, verrebbe da osservare, d’accordo con Giuseppe Pera, come il trentanovismo sia nelle cose8.

Bisogna tuttavia anche riconoscere come, il fatto che le parti sociali abbiano scelto di

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EL GRECO,“Cristo scaccia i mercanti dal Tempio”

non intraprendere il percorso indicato dai Costituenti, ha prodotto un graduale distacco tra il modello di legittimazione sindacale e l’attuale sistema di relazioni industriali fondato sull’autonomia collettiva.

Tale cesura, molto più profonda di quanto non appaia, non è rimasta senza conseguenze. Tra esse la più importante ci appare essere il sovvertimento del consolidato criterio gerarchico nel rapporto tra le fonti, attuato mediante il superamento della regola dell’inderogabilità in pejus della legge da parte del contratto collettivo cd. di diritto comune.

Al primato dell’inderogabilità in pejus è stata attribuita storicamente la funzione di garanzia di superiori valori costituzionali e, conseguentemente, il suo tramonto può essere letto come un segnale del trapasso ad una stagione di flessibilità che, almeno a giudicare da come è stata finora condotta, accentua il sostanziale arretramento del diritto del lavoro rispetto ai valori costituzionali di riferimento9

Dall’affievolimento del principio sopra richiamato scaturiscono effetti a cascata capaci di generare serie tensioni con l’ordinamento costituzionale (nel programma enunciato agli artt. 1, co.1, 2, 3, co.2, 4 Cost.). Occorre inoltre non sottovalutare che, seguitare a manifestare eccessi di ottimismo riguardo alla tenuta di un modello di rappresentanza sindacale che si svolge, nella sostanza, in contrapposizione al modello costituzionale, avrebbe conseguenze sul progressivo snaturamento della natura degli interessi collettivi i quali, nel recente modello di relazioni industriali, rischierebbero di rifluire nella sottocategoria dell’interesse diffuso10

4. Qual si voglia cambiamento resta, pertanto, affidato alla peculiare modalità di produzione delle norme di disciplina, nel senso kelseniano di insieme alla cui istituzione partecipano i soggetti obbligati. Tale valore va salvaguardato e fatto proprio da forze della

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più diversa ispirazione presenti nell’organizzazione dello Stato.

Senza che la domanda appaia retorica, viene da chiedersi quale sarebbe stato (e sarebbe) il senso di una disciplina legislativa dei rapporti di lavoro senza l’apporto delle parti sociali. La risposta è che le norme introdotte sarebbero soggette al rischio di una precoce senescenza per l’assenza in esse di una ponderazione degli interessi coinvolti da parte dei soggetti cui le stesse si rivolgono.

Nel caso di altre legislazioni speciali, un accadimento siffatto comporterebbe che il diritto – quasi come se sviluppasse un proprio anticorpo – si riporti sul binario – considerato “certo” - del codice civile e dei suoi consolidati meccanismi di adattabilità.

Tuttavia, il ritorno alla teoria generale dei contratti quale sistema ordinatore, astrattamente concepibile anche in ragione del suo effetto livellante a fronte dei rischi di parcellizzazione delle discipline, si presenta come incompatibile con il diritto del lavoro, che richiede adattamenti continui delle norme alle urgenze del momento.

Un esito siffatto è indicativo di quanto il diritto dei contratti sia estraneo alla cultura, alle convenzioni, al metodo ed anche, spesso, al linguaggio di un modello normativo affermatosi su base conflittuale, in cui termini dello scambio rendono vana la possibilità di non fondere diritto comune dei contratti e dell’impresa. Sotto tale profilo, anzi, quanto più il diritto del lavoro prende le distanze dalla sua funzione genetica di regolatore delle differenze sociali, tanto più assume le sembianze di una sofisticata technicality, orientata allo sfruttamento intensivo del lavoro.

Con il consolidarsi della dimensione sociale europea, l’esigenza di procedere a una valutazione degli interessi in gioco, lungi dall’affievolirsi finisce per essere valorizzata,

incorporando nuove visioni e diritti (i cd. diritti di seconda generazione, tra i quali i diritti di genere).

Mentre pur nel mutato contesto economico e sociale tuttora resiste la tendenza culturale al favor laboris delle origini, la definitiva “emancipazione” dal diritto dei contratti si invera nella stagione del diritto europeo, che inaugura una nuova attrattiva degli studiosi di differenti generazioni per le prospettive della disciplina11.

Il diritto europeo rappresenta per il legislatore ordinario il nuovo elemento di rango costituzionale da cui far derivare la sintesi dei valori ispiratori. Al tempo stesso, però, esso rende il diritto interno maggiormente vulnerabile, rimettendone talvolta duramente in gioco gli equilibri conseguiti.

Tradotta in positivo, però, la vulnerabilità del diritto nazionale nel processo d’integrazione, fa del diritto europeo il più potente “antidoto” alle disillusioni nazionali.

5. La disciplina giuslavoristica, si è già detto, ha assunto negli anni i connotati di un sistema giuridico il quale, al pari di ogni altra codificazione, si rappresenta come un modello unitario.

Tuttavia, a meno di non voler accreditare la tesi per cui quella crisi di valori costituzionali di cui si diceva in apertura abbia investito in pieno anche i fondamenti del diritto del lavoro e dell’autonomia collettiva, le riforme del mercato del lavoro susseguitesi negli ultimi decenni dimostrano quanto le sollecitazioni e le pressioni cui il legislatore è stato soggetto abbiano travalicato le stesse necessità sociali, e quanto la rincorsa a esigenze contingenti del mercato abbia provocato fratture divenute, esse stesse, ostacoli ai pur necessari cambiamenti, alimentando un corto circuito difficilmente contenibile.

Si espone a critiche una stagione di ri-

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forme che, al di là del contenuto delle singole norme, produce testi che vanno interpretati per mezzo di altre disposizioni o di circolari, con ciò venendo meno al principio di autosufficienza della legge, intesa nel senso che ad ogni domanda del cittadino l’ordinamento sia in grado di fornire una risposta, e che la scelta delle modalità con cui la voluntas legis viene ad integrarsi con quella di altri ordini normativi costituisca attività riservata alla legge stessa.

Occorre, allora, tornare al valore unificante della legge, nel solco del principio di libertà associativa, valorizzando il ruolo dei soggetti obbligati in quanto non meri destinatari ma essi stessi coautori della regola.

Ed è proprio la legittimazione delle parti sociali all’interno del processo costitutivo delle norme che fa della contrattazione collettiva una fonte del diritto.

Va osservato, però, che di recente il livello di attenzione nei confronti dell’attore collettivo appare essere notevolmente calato.

Ciò non ha fatto altro che alimentare la tendenza d’interpreti ed operatori ad aderire ad “assolutismi interpretativi”, col deludente risultato di riportare ad impostazioni di matrice ideologica questo o quell’intervento del legislatore, indebolendo, come mai prima d’ora, il principio extra giuridico di equità sociale a cui si ispira il programma costituzionale.

L’attitudine del diritto del lavoro a fronteggiare le sfide dettate dai mutamenti è parte del suo stesso DNA, e per tale motivo la pretesa del legislatore di aprire frequentemente grandi stagioni di produzione normativa assurge a simbolo di disorientamento ed accresce instabilità ed incertezza nelle capacità ordinatorie della disciplina.

Che una periodica riconciliazione degli interessi da tutelare al contesto sia raccomandabile è fuori discussione, a condizione che

essa si ispiri all’intento di ricercare un’unità nel sistema, anche nel mutato assetto di interessi12

In tale ottica, la partecipazione dei contraenti costituisce vieppiù garanzia di democraticità del percorso legislativo in ogni congiuntura socio economica.

6. Occorre accettare l’evidenza che la legge non può, di per sé sola, ambire a sciogliere ogni nodo e ad accogliere tutte le sfide che periodicamente si affacciano nella realtà. Il dato per cui, a ogni cambiamento politico il diritto dei rapporti di lavoro finisce per trovarsi nell’occhio del ciclone costituisce il chiaro segnale di come finora, nella cultura delle classi politiche, lo strumento della legge abbia rappresentato gradualmente nel tempo il principale veicolo per il governo del contesto socio-economico13.

Se riaffiora in dottrina qualche suggestione nel favorire l’affrancamento della materia dalla legge, affidandone il futuro alla contaminazione con altre scienze, essa è episodica, e non in grado di incidere sulla cultura giuridica del Paese. Il richiamo è, ad esempio, alla fugace attrazione da parte di una ristretta cerchia di giuristi per la teoria americana di “law and economics”, la cui evocazione è rimasta, tuttavia, confinata al valore simbolico/estetico che la stessa contiene più che alla genuina convinzione che tale metodologia potesse realisticamente innestarsi nella nostra cultura giuridica14.

Le ragioni della tiepida accoglienza dell’argomentazione economica sono rintracciabili nella diversità degli ordinamenti di common law, ove le convenienze economiche influenzano le decisioni dei giudici tramite l’applicazione del metodo quantitativo ai rapporti interindividuali, mentre la legge si limita a pochi irrinunciabili principi generali. Nei sistemi ove domina l’argomentazione

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giuridica, la certezza della legge da elemento di astrazione si traduce nella misurabilità giuridica del valore di una norma nella tendenziale autosufficienza e unità del sistema di regole.

Diversamente accade nei sistemi di civil law, ove, affinché la certezza di un comando legislativo lasci spazio ai fattori di discontinuità imposti dai cambiamenti sociali, al di là dell’ordinaria dialettica fra regola ed eccezione sempre governata dalla legge, sarebbe auspicabile che il necessario adattamento venisse affidato a sistemi di governance contenuti in linee di condotta e principi guida, ove il “comando” presenta caratteristiche di maggiore duttilità e misurabilità

Attraverso l’utilizzo diffuso di tali tecniche il diritto del lavoro, da sempre innovatore nella scelta delle tecniche applicative, anche stavolta concorrerebbe al radicale mutamento della cultura giuridica del Paese. Tale cambiamento s’impone anche al fine di ridurre il rischio che, ad ogni riforma legislativa, “saltino” quote preziose di diritti e di valori, la cui perdita non contribuirebbe minimamente alla conservazione del progetto che i Costituenti ebbero in mente.

7. Il dato per cui nel diritto del lavoro, nonostante i numerosi scossoni, è possibile ancora oggi riconoscere un tratto istituzionale unitario, non ha impedito che esso venisse considerato un parente povero del diritto civile, una sorta di periferia degradata e martoriata dai conflitti ideologici.

Il compianto Massimo D’Antona aveva, d’altronde, già lucidamente avvertito del rischio di una perdita di autorità del punto di vista del giurista del lavoro, qualora questi si fosse lasciato vivere nella contingenza15.

Ciò accade durante le fasi di emergenza, ove più forte si manifesta la natura del diritto del lavoro come strumento di politica econo-

mica, di entità aperta all’extra giuridico, ad aspettative sociali molteplici e molto spesso in conflitto16

Umberto Romagnoli affidava a una delle sue potenti metafore la migliore definizione del diritto del lavoro come “…il diritto della quotidianità…della porta accanto…17” Tale definizione, ancorata al denso retroterra culturale del suo tempo, parla tuttora al giurista del lavoro, il quale, quali che siano gli scenari che lo attendono, non potrà venir meno all’impegno di operare nel solco dei valori che la Costituzione ha inteso affidare ad uno statuto democratico.

L’osservazione diacronica del cammino fin qui percorso consiglia per un verso di intraprendere una direzione che superi definitivamente l’assimilazione del diritto del lavoro al diritto civile, rivelatasi di scarsa utilità, ammettendo se mai, a parti invertite, che è stato proprio il primo a suggerire nuove strade e nuove metodiche al secondo, in un processo di costante osmosi.

Per altro verso, però, occorre ricercare strade che impediscano che l’utilizzo dell’argomentazione extra giuridica costituisca il canale privilegiato, se non unico, di comprensione della realtà

Una possibilità potrebbe essere quella di rileggere la complessa trama del materiale normativo e contrattuale avendo come fine precipuo quello di valorizzarne la vocazione protettiva, anche rivedendo l’attuale riparto di competenze tra Stato e Regioni in tema di sicurezza e tutela del lavoro18.

A tal fine appare, tuttavia, necessario farsi guidare da alcune scelte di contenuto che si rivelano prioritarie rispetto ad altre, pur importanti.

La prima opzione postula che il legislatore faccia un passo indietro rispetto alla disciplina dei rapporti individuali di lavoro, ove la distinzione tra autonomia e subordina-

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zione va ridefinita alla luce dei mutamenti organizzativi indotti dai nuovi sistemi organizzativi dell’impresa19; il contesto è, infatti, promettente nei confronti di un rilancio dell’autonomia collettiva, per la quale si aprono ampi spazi di intervento nel compito ad essa connaturato di favorire l’adattamento dei contratti di lavoro alla nuova realtà produttiva.

Il secondo aspetto sul quale sarebbe ora di sciogliere dubbi e perplessità è quello della (mancata) attuazione del programma costituzionale di riconoscimento della natura pubblica dell’attore sindacale.

Il sistema appare finalmente maturo tanto da dissolvere i timori che agitavano gli interpreti all’indomani della Costituzione circa un eventuale asservimento del sindacato al sistema di governo in caso di acquisto della personalità giuridica; non di meno oggigiorno, l’attuazione del programma dettato dall’art. 39, co.2 e ss., potrebbe arrecare al sindacato il duplice beneficio di superare le divisioni che ne indeboliscono l’azione e rilanciarne la capacità di rappresentanza20.

D’altronde, i tentativi effettuati dal legislatore di attribuire al sindacato “funzioni pubbliche”, al di fuori dell’art. 39 cost., uno per tutti il potere di certificazione dei rapporti di lavoro previsto dalla cd. Riforma Biagi del 2003 (l. n. 276 del 2003), non convinsero.

Come fu immediatamente osservato dalla dottrina, essi rappresentano un fattore di alterazione dell’intrinseca natura del sindacato così come pensato e collocato nella democrazia liberale dalla Costituzione del 1948. Fra i tanti, Mario Rusciano evidenziò all’epoca come riforme di tal genere contengano “…il rischio che attraverso l’attribuzione al sindacato di funzioni pubbliche – oggi la certificazione, domani chissà – effettivamente si possa verificare una sorta di mutamento

morfologico della rappresentanza d’interessi e, conseguentemente, una messa in discussione della sua genuinità. Un timore, certo, mitigato dalla presenza dell’art. 39 Cost., in base al quale rimane pur sempre fermo l’assioma sociale, per il quale sono gli interessi medesimi a determinare la natura e le forme della rappresentanza.21”

In altre parole, pur favorevole allo sviluppo di una gestione consensuale del mercato del lavoro, la dottrina poneva in guardia dal rischio di una prassi estemporanea, avulsa da un sistema di regole definite (soprattutto) dalle parti sociali22.

Tale giudizio rimane incontrovertibile.

Proseguendo nel nostro tentativo di rilettura delle fonti di produzione del diritto del lavoro, va rilevato come l’occasione potrebbe essere utile a colmare talune lacune esistenti, che creano un’incomprensibile distanza tra il nostro ordinamento e i modelli della gran parte dei Paesi europei industrializzati.

Intendiamo riferirci alla necessità di introdurre una normativa che fissi il valore del salario minimo, istituto necessario al fine di proteggere le categorie dei lavoratori a più alto rischio di emarginazione e sfruttamento e non rappresentate sindacalmente (working poor).

L’adozione di una legge sul salario minimo, oltre che colmare una stridente lacuna, introdurrebbe uno strumento equitativo pienamente coerente con i valori costituzionali, senza peraltro rischiare di interferire negli statuti delle categorie dei lavoratori rappresentati, evenienza fortemente avversata dalle maggiori organizzazioni sindacali.

Le scelte fin qui richiamate troverebbero un loro naturale completamento in una maggiore diffusione delle cd. soft law policies, di derivazione europea che introducono nel processo decisionale elementi di dialogo ed interscambio utili a render concreto e traspa-

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rente il rapporto tra parti sociali ed istituzioni pubbliche al fine della produzione di regole condivise.

Tale approccio garantisce che le sedi di elaborazione delle politiche intervengano in modo penetrante e capillare nelle procedure formali, imprimendo continuità e impulso alle decisioni nella loro fase attuativa23

In Italia il tasso di europeizzazione delle politiche del lavoro è cresciuto negli anni uniformemente al resto del continente, mentre non altrettanto si è sviluppata la prassi concertativa, ivi compresa quella che vede coinvolte le parti sociali nel processo di concreta applicazione delle regole di derivazione comunitaria.

Il sistema è rimasto tuttora ancorato alle antiche regole di funzionalizzazione della legge alla contrattazione collettiva, che, tuttavia, permanendo fonte-fatto a causa della mancata istituzionalizzazione del sindacato nelle forme indicate dall’art. 39 Cost., co.2 ss., nel rapporto gerarchico tra le fonti, rischia di vedere indebolita la propria valenza democratica a vantaggio di una rivincita dell’autonomia individuale.

Tale vulnus non va ignorato dal giurista del lavoro, al quale il Costituente assegna il compito di arginare gli scostamenti dal modello costituzionale.

Quanto fin qui osservato deve condurre, ad avviso di chi scrive, ad una piena rivalutazione della pretesa autosufficienza del diritto del lavoro, la cui specialità rappresenta oggi più che mai un valore, ed è sostenuta sia dal diritto europeo sia da un disegno costituzionale tuttora insuperato, fondato sulla ricerca di una ricomposizione tra diritti collettivi contrapposti affidata al dialogo tra le parti contraenti.

Senza pretesa di completezza, questi sono alcuni spunti ritenuti utili a guidare il cammino prossimo di legislatore e interpreti, per

garantire un futuro a un ordinamento attraversato dai cambiamenti ma, fino ad oggi, niente affatto piegato dagli stessi.

“… Insomma. È indubbio che la fisionomia del diritto del lavoro sia mutata e che per larga parte la sua vocazione garantista sia stata tradita dagli eventi. Ma lunghe tradizioni e l’attitudine naturale a fornire protezione al più debole non possono essere semplicemente cancellate da alcuni tratti di penna”24.

Questa in apparenza semplice osservazione è, in ultima analisi, l’approccio che – ci auguriamo - il legislatore vorrà mantenere saldo anche per gli anni a venire.

NOTE

1 U. Romagnoli, Il diritto del lavoro tra disincanto e ragionevoli utopie, in Lav. Dir., 2002, p. 226 ss. “…L’incertezza che caratterizza la nostra età si è anch’essa accresciuta oscurando le implicazioni di queste innovazioni e riducendo la possibilità di governarle con gli strumenti di regolazione sociale, fra cui rientra il diritto del lavoro.” Così Treu, Il nuovo volto del diritto italiano del lavoro, Atti del Convegno Lincei, Roma, 2006.

2 N. Irti, Codice civile e società politica, Bari 1995

3 Come ci ricordava in un’intensa riflessione A. Proto Pisani, Le ragioni di un distacco, in Diritto del lavoro: tutela del lavoratore o del datore?, in Foro it., 2006, V, c. 146148.

4 N. Irti, Codice civile e società cit., p. 42: “…Quando l’ordinamento generale ha vigore di principi e unità di volontà, allora il codice degrada a legge tra le leggi, a capitolo del sistema complessivo… quando, invece, l’ordinamento generale e le ragioni politiche dello Stato sono deboli o controversi, allora il codice civile riprende il primato e protegge la società civile nelle ore angosciose o nelle ardue transizioni ”.

5 Per una ricostruzione dell’ascrivibilità del fenomeno sindacale nel novero delle istituzioni ove il singolo sviluppa la propria personalità (art. 2 Cost.), tuttora insuperata resta la lezione di P. Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1996, p. 915 ss.

6 Vedasi per tutti G. Giugni, sub art. 39, in Commentario alla Costituzione, cur. G. Branca, Rapporti economici, I,

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artt. 35-40 (Bologna-Roma 1979), p. 257, e dello stesso A. Giuridificazione e deregolazione nel diritto del lavoro italiano, in Giorn. dir. lav. rel.ind., 1986, p. 317. Senza dimenticare l’insostituibile lezione di G. Tarello, Teorie e ideologie nel diritto sindacale. L’esperienza italiana dopo la Costituzione, Milano, 1972.

7 Cfr. M. D’Antona, Contratto collettivo, sindacato e processo del lavoro dopo la “seconda privatizzazione” del pubblico impiego (osservazioni sui d.lgs. n. 396/1997, n. 80/1998, n.387/1998), in Foro it. 1999, I, c. 621, ora in M. D’Antona, Opere, a cura di B. Caruso e S.Sciarra, IV, Milano 2000, p. 277.

8 G. Pera, Il trentanovismo è nelle cose, Contrattazione collettiva e rappresentatività sindacale, in Pol.Dir. 1985, p. 503.

9 M. V. Ballestrero, Riflessioni in tema di inderogabilità dei contratti collettivi, in Riv. it. dir. lav., 1989, I, p. 357. Il fondamento del principio di inderogabilità in pejus viene fatto derivare da un criterio consensuale, in ragione della natura privatistica della fonte collettiva. Cfr. R. De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976. A.Proto Pisani, Le ragioni di un distacco cit., p. 147, tratta del passaggio dalla stagione dell’inderogabilità a quella della flessibilità a proposito del tramonto del principio di inderogabilità in pejus.

10 La distinzione è accolta, in tal caso, non per il suo significato ontologico, bensì per il profilo “…estrinseco del grado di aggregazione e delimitazione del gruppo cui il fenomeno fa capo”. In tal senso cfr. N. Trocker, Interessi collettivi e diffusi, in Enc Giur. Treccani XVII, Roma 1989, p.2; G. Lombardi, Premesse al corso di diritto pubblico comparato, Milano, 1986, ove si accenna alla giurisprudenza americana in tema di standing, vista in collegamento con la pratica applicazione del diritto derivante dalle situazioni giuridiche costituzionali (p. 26-27)

11 S. Sciarra, Diritti sociali. Riflessioni sulla Carta europea dei diritti fondamentali, in Arg. Dir. lav. 2001, p. 391 ss., ed ancora, della stessa A.,The making of EU labour law and the “future” of labour lawyers, paper.

12 N. Irti, Concetto giuridico di mercato e dovere di solidarietà, in Riv. it. dir. civ., 1997, p. 186.

13 L. Mengoni, Proprietà e libertà, in La Costituzione economica a quarant’anni dall’approvazione della Carta fondamentale, Milano, 1990. A.Supiot, The dogmatic foundation of the market (Comments illustrated by some examples from labour law and social security law), in Ind. L. J., 2000, p. 321 ss.

14 P. Loi, L’analisi economica del diritto e il diritto del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1999, p. 547. S .Deakin, F. Wilkinson, Il diritto del lavoro e la teoria economica: una rivisitazione, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 1999, p. 587 ss.

15 M. D’Antona, Il lavoro nelle riforme. Scritti 1996-1999, a cura di L. De Vittorio, P. Mattini e V. Talamo, Roma, 2000.

16 D. Gottardi, Legge e sindacato nelle crisi occupazionali, Padova, 1995. P. Passalacqua, Autonomia collettiva e mercato del lavoro, Torino, 2005.

17 U. Romagnoli, Elogio del “compagno professore”, in Lav. e dir., 2000, p. 91.

18 Cfr. il numero monografico di Lav e dir., 2001, dedicato a Federalismo e diritti del lavoro, ove in particolare il ben saggio di R. De Punta, Tutela e sicurezza del lavoro, p. 431 ss.

19 Si rinvia alle suggestioni di A. Perulli - T. Treu, nel recente “In tutte le sue forme e applicazioni”. Per un nuovo Statuto del lavoro, Torino, 2022.

20 Cfr. M. Carrieri, Sindacato in bilico. Ricette contro il declino, Roma, 2003.

21 M. Rusciano, La certificazione nel sistema del mercato del lavoro, in Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, a cura di R. De Luca Tamajo, M. Rusciano, L. Zoppoli, Napoli, 2004, p. 349.

22 T. Treu, Il nuovo volto del diritto italiano del lavoro, cit., p. 273.

23 Cfr., M. Barbera (a cura di), AA.VV., Nuove forme di regolazione: il metodo aperto di coordinamento delle politiche sociali, Milano, 2006, nonché, D. Valcavi, Politiche dell’occupazione dell’Unione europea: iniziative informali e attività degli organi tecnici, in Dir. rel. ind. 1999, p. 435 ss.

24 A. M. Perrino, Resiste l’anima di garanzia del diritto del lavoro?, in Foro it. 2006, V, c.159.

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A ccade oggi FRANCESCA
CENCETTI,“Eliofili e Umbratici”, olio su tela 70x50.
Il danno da irregolarità contributiva: la Cassazione conferma il proprio orientamento

Com’è noto, nell’ambito del complesso sistema di diritti e doveri connessi al rapporto di lavoro, uno degli obblighi fondamentali facenti capo al datore di lavoro consiste nel corretto e puntuale versamento dei contributi previdenziali a beneficio dei propri dipendenti. Da tale obbligo deriva la titolarità in capo al lavoratore di un vero e proprio diritto soggettivo alla regolarità della propria posizione contributiva, il quale rinviene il proprio fondamento direttamente nell’ambito della nostra Carta costituzionale. L’art. 38 della nostra Costituzione, infatti, e, nello specifico, il comma 2, prevede espressamente che “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”, determinando un vero e proprio diritto al soddisfacimento delle esigenze di vita dei lavoratori stessi in caso di avveramento di un rischio protetto dalla legge. Principio ulteriormente ribadito dall’art. 2116 c.c.1, norma cardine in materia, il quale postula la diretta responsabilità del datore di lavoro nei confronti del lavoratore per il danno da mancata o irregolare contribuzione derivato in capo a quest’ultimo a causa dell’inadempimento della stessa parte datoriale.

Ciò detto, uno dei temi su cui la giurisprudenza si è più volte trovata a pronunciarsi, anche a causa della propria complessità, spesso fonte di incertezze interpretative, riguarda la possibilità per il lavoratore di agire in giudizio per l’accertamento del proprio di-

ritto ad ottenere il corretto ed integrale versamento dei contributi da parte del datore di lavoro prima ed a prescindere dal raggiungimento dell’età pensionabile e, quindi, dalla maturazione di qualsivoglia danno previdenziale.

Per rispondere a tale quesito, giova premettere che l’omissione della contribuzione produce un duplice pregiudizio patrimoniale a carico del prestatore di lavoro, consistente, da un lato, nella perdita, totale o parziale, della prestazione previdenziale pensionistica, la quale, appunto, si verifica al raggiungimento dell’età pensionabile; dall’altro lato, nella necessità di costituire la provvista necessaria ad ottenere un beneficio economico corrispondente alla pensione, mediante la creazione di una previdenza sostitutiva, eventualmente corrispondendo quanto occorre per costituire la rendita di cui all’art. 13, legge 12 agosto 1962, n. 13382. Quindi, presupposto dell’azione risarcitoria (sia quella ex art. 2116, comma 2, c.c., sia quella in forma specifica ex art. 13 legge n. 1338/1962) è la sussistenza di un danno pensionistico, cioè della circostanza che effettivamente computando il periodo contributivo omesso, il prestatore di lavoro avrebbe avuto diritto alla pensione, ovvero avrebbe avuto diritto ad importi maggiori. Tuttavia, tale danno diviene attuale e, perciò, risarcibile, soltanto allorquando il lavoratore abbia raggiunto l’età pensionabile.

Tale conclusione deriva proprio dal disposto dell’art. 2116, comma 2, c.c. il quale fa di-

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L avoro e previdenza nel XXI secolo

scendere il diritto al risarcimento del danno in capo al lavoratore in caso di mancata o irregolare contribuzione dalla contemporanea sussistenza di due presupposti fondamentali: l’inadempienza contributiva e la perdita totale o parziale della prestazione previdenziale al raggiungimento dell’età pensionabile. In sostanza, quindi, il danno previdenziale matura una volta che la contribuzione risulti prescritta e la prestazione previdenziale non possa essere erogata a causa dell’inadempimento imputabile al datore di lavoro, una volta sopraggiunta l’età pensionabile. Ne deriva, dunque, che l’azione risarcitoria in questione potrà essere proposta solo quando si siano realizzati i requisiti per l’accesso alla prestazione previdenziale. Solo al raggiungimento dell’età pensionabile, infatti, si determina, per il lavoratore, l’attualizzarsi del danno patrimoniale risarcibile, consistente nella perdita totale del trattamento pensionistico o nella percezione di un trattamento ridotto rispetto a quello altrimenti spettante. Ne consegue che la situazione giuridica soggettiva di cui può essere titolare il lavoratore, nei confronti del datore di lavoro, consiste, una volta raggiunta l’età pensionabile, nella perdita totale o parziale della pensione che dà luogo al danno risarcibile ex art. 2116, comma 2, c.c.

Ma quindi, prima del raggiungimento dell’età pensionabile e dopo che sia intervenuta la prescrizione dei contributi, quali rimedi possono essere attivati dal lavoratore?

Sul punto, è ormai pacifico che il prestatore di lavoro subordinato possa agire legalmente anche prima della maturazione del diritto al trattamento pensionistico, seppur con differenti modalità e presupposti. Infatti, come ribadito dalla Corte di Cassazione in numerosi arresti3, prima del raggiungimento dell’età pensionabile e dopo che sia intervenuta la prescrizione dei contributi, la situazione giuridica

soggettiva di cui il lavoratore è titolare, nei confronti del datore di lavoro, consiste nel danno da irregolarità contributiva, a fronte del quale il lavoratore può esperire un’azione di condanna generica al risarcimento del danno ex art. 2116 c.c. per accertare la potenzialità dell’omissione contributiva a provocare il danno nonché, in alternativa, un’azione di mero accertamento dell’omissione contributiva quale comportamento potenzialmente dannoso, fonte di futuri danni risarcibili.

Tali principi sono stati da ultimo ribaditi dalla Suprema Corte, nell’ambito dell’ordinanza n. 11730/2024, pubblicata il 2 maggio scorso, riguardante il caso di un socio lavoratore di cooperativa il quale aveva chiamato in giudizio la propria datrice di lavoro al fine di far valere, tra l’altro, il proprio diritto alla corresponsione di differenze retributive derivanti dal maggiore orario di lavoro svolto nel periodo compreso dall’aprile 2007 al febbraio 2009, nonché delle relative differenze contributive in quanto la datrice di lavoro aveva provveduto al versamento dei contributi su un orario di lavoro part-time nonostante l’effettivo rapporto di lavoro si fosse sempre svolto a tempo pieno.

Sia il giudice di prime cure che la Corte d’Appello rigettavano le domande proposte dal ricorrente, motivando la propria decisione sulla carenza di interesse di agire in capo a quest’ultimo per l’accertamento della maggiore contribuzione ad egli dovuta in mancanza di un pregiudizio concreto e attuale. Difatti, a detta di entrambi i giudici, il ricorrente non avrebbe allegato e provato che il mancato computo del tempo pieno lo avesse di fatto privato di quella parte di contributi utile ad ottenere la costituzione della rendita vitalizia ex art. 13, legge n. 1338/1962 nonché a conseguire il trattamento pensionistico mediante “Quota 100”. La Cassazione, pertanto, adita in terzo grado, veniva chia-

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L avoro e previdenza nel XXI secolo

mata a stabilire se il lavoratore potesse agire per l’accertamento del diritto ad ottenere il corretto e puntuale versamento dei contributi, prima e a prescindere dal raggiungimento dell’età pensionabile, o se, al contrario, il lavoratore fosse tenuto a dimostrare il diritto ad una specifica prestazione previdenziale al fine di ottenere la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi mancanti.

Ed è proprio su tali premesse che la Suprema Corte ha nuovamente ribadito i ben noti principi già menzionati in materia sulla base dell’assunto che, nonostante il lavoratore non sia direttamente creditore dei contributi previdenziali, egli possiede comunque un diritto costituzionale alla “posizione contributiva”, il quale non può che tradursi nel diritto a vedersi riconosciuto dal datore di lavoro il corretto e puntuale versamento della contribuzione previdenziale e che, se violato, determina, in capo al lavoratore, l’insorgenza del danno da irregolarità contributiva, azionabile prima del raggiungimento dell’età pensionabile. Il diritto alla posizione contributiva, poi, si trasformerà, una volta raggiunta l’età pensionabile, nel diritto alla prestazione previdenziale o, qualora questa non sia conseguibile a causa dell’inadempimento del datore di lavoro, nel diritto al risarcimento del danno.

Quindi, dirimente si rivela la distinzione tra diritto alla posizione contributiva e diritto al risarcimento del danno. Il primo è azionabile una volta verificatasi l’omissione contributiva e anche dopo la maturazione del termine prescrizionale per il diritto dell’INPS ai contributi (purché entro il termine di prescrizione decennale decorrente dal giorno della prescrizione dei contributi) e, se violato, ingenera, in capo al lavoratore, un danno da irregolarità contributiva con conseguente possibilità per lo stesso di intraprendere

un’azione di condanna generica al risarcimento del danno o di mero accertamento dell’omissione contribuiva. Il secondo, al contrario, per poter essere azionato, necessita il mancato conseguimento della prestazione previdenziale per effetto della mancata contribuzione, della prescrizione dei contributi e del raggiungimento dell’età pensionabile. Resta ferma, ad ogni modo, la possibilità per il lavoratore, il quale intraprenda una delle azioni prescritte prima dell’età pensionabile, di esperire, una volta raggiunta quest’ultima, l’azione risarcitoria di cui all’art. 2116, comma 2, c.c. o quella di cui all’art. 13, legge n. 1338/1962.

NOTE

1 L’art. 2116 c.c. così dispone:

“Le prestazioni indicate nell’articolo 2114 sono dovute al prestatore di lavoro, anche quando l’imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali.

Nei casi in cui, secondo tali disposizioni, le istituzioni di previdenza e di assistenza, per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute, l’imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro”.

2 L’art. 13 della legge 12 agosto 1962 n. 1338 testualmente recita:

“Ferme restando le disposizioni penali, il datore di lavoro che abbia omesso di versare contributi per l’assicurazione obbligatoria invalidità, vecchiaia e superstiti e che non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione ai sensi dell’articolo 55 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827, può chiedere all’Istituto nazionale della previdenza sociale di costituire, nei casi previsti dal successivo quarto comma, una rendita vitalizia riversibile pari alla pensione o quota di pensione adeguata dell’assicurazione obbligatoria, che spetterebbe al lavoratore dipendente in relazione ai contributi omessi.

La corrispondente riserva matematica è devoluta, per le rispettive quote di pertinenza, all’assicurazione obbligatoria e al Fondo, di adeguamento, dando luogo alla attribuzione a

e previdenza nel XXI secolo

L

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avoro

favore dell’interessato di contributi base corrispondenti, per valore e numero, a quelli considerati ai fini del calcolo della rendita.

La rendita integra con effetto immediato la pensione già in essere; in caso contrario i contributi di cui al comma precedente sono valutati a tutti gli effetti ai fini della assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti.

Il datore di lavoro è ammesso ad esercitare la facoltà concessagli dal presente articolo su esibizione all’Istituto nazionale della previdenza sociale di documenti di data certa, dai quali possano evincersi la effettiva esistenza e la durata del rapporto di lavoro, nonché la misura della retribuzione corrisposta al lavoratore interessato.

Il lavoratore, quando non possa ottenere dal datore di lavoro la costituzione della rendita a norma del presente articolo,

può egli stesso sostituirsi al datore di lavoro, salvo il diritto al risarcimento del danno, a condizione che fornisca all’Istituto nazionale della previdenza sociale le prove del rapporto di lavoro e della retribuzione indicate nel comma precedente.

Per la costituzione della rendita il datore di lavoro, ovvero il lavoratore allorché si verifichi l’ipotesi prevista al quarto comma, deve versare all’Istituto nazionale della previdenza sociale la riserva matematica calcolata in base alle tariffe che saranno all’uopo determinate e variate, quando occorra, con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sentito il Consiglio di amministrazione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale”.

3 Tra le tante, cfr. Cass., Sez. Lav., 5 febbraio 2014; Cass., Sez. Lav., 16 novembre 2017, n. 27223.

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L avoro e previdenza nel XXI secolo
GIOVANNI BELLINI, La Madonna del prato

Lavoro e valori nelle Amministrazioni Pubbliche

1. Una premessa e la storia recente

Lavoro e valori, due parole composte dalle stesse lettere, tranne che per una “piccola” vocale. Lettere quasi anagrammabili, legate da un destino comune ancora in larga parte da scoprire. La tesi che si vorrebbe provare a offrire riguarda la stretta connessione tra loro e la potenza costruens che insieme hanno: un lavoro denso di valori produce valore. Una potenza che va oltre il lavoro “solo” ben organizzato.

I valori sono elementi complessi, annegati nello strato profondo della persona, poco visibili e leggibili. La definizione della Treccani affronta il tema proponendo le contrapposizioni tra ciò che è valore e ciò che non valore, quasi giungendo a indicare cosa è bene e cosa è male: “…le doti morali e intellettuali di una persona quali autorevolezza, autorità, calibro, caratura, levatura, qualità, peso, prestigio… rispetto a bassezza, mediocrità…; e ancora la “… forza morale dimostrata nell’affrontare gli avversari, ardimento, audacia, coraggio, fierezza, prodezza, fermezza, risolutezza, tenacia… rispetto a codardia, debolezza, paura, pavidità, pusillanimità, timore, vigliaccheria, viltà…”. La definizione si conclude però con un giudizio sintetico: il valore è “…ciò che è considerato importante dal punto di vista morale”, frase in cui la forma passiva ci porta a sottolineare la soggettività individuale e sociale: ciò che è considerato importante da Giorgio potrebbe non esserlo per Barbara; ciò che è considerato

importante per quella collettività (gruppo di amici, azienda o società) potrebbe non esserlo per altre collettività.

In altri termini e con un orientamento meno enciclopedico, il valore indica un oggetto, un comportamento e, in generale, qualsiasi cosa che sia percepita, vissuta, giudicata rilevante o desiderata. E per poter valutarne l’importanza, contiene ed esprime il criterio di giudizio, il principio in base al quale valutiamo, approviamo o disapproviamo una certa azione. Ad esempio, facciamo riferimento alla “lealtà”: il valore è espresso da un comportamento coerente (come mantenere la parola data o essere trasparente); la valutazione del comportamento è effettuata sulla base del principio insito nel valore lealtà.

I valori divengono così gli “occhiali soggettivi” con cui guardiamo e, soprattutto, viviamo il mondo. I valori parlano con i comportamenti, non sono semplicemente un astratto riferimento ideale.

La storia recente e, in particolare, le vicende pandemiche ne sono una eccellente testimonianza. Nonostante il pericolo, nonostante la diffusione del senso di impotenza di fronte alla morte, nonostante la fatica, l’enorme fatica, la nostra sanità, i nostri medici, il nostro personale sanitario tutto hanno retto l’urto professionale ed emotivo, ci sono stati a fianco, hanno combattuto sulle “barricate” – a volte fino allo stremo e alle più gravi conseguenze – per merito dei valori

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L avoro e previdenza nel XXI secolo

individuali e collettivi che li hanno sorretti, spinti, alimentati. Eroismo non dovuto a promesse di promozioni, di quattrini, di incentivi, di carriera, di visibilità, di medaglie. Nulla di tutto ciò. Puro e splendido esempio di valori agiti, di valori vissuti, di valori testimoniati.

Una riflessione analoga e non definita temporalmente vale per chi è impegnato in professioni e mestieri “sfidanti”. Penso ai magistrati impegnati su fronti delicati e pericolosi e a coloro che, tra loro, hanno perso la vita, penso alle forze dell’ordine e a chi ci garantisce libertà e sicurezza per retribuzioni certamente non coerenti, non all’altezza, penso ai professori e alla delicatezza del loro ruolo rispetto alle condizioni in cui sono costretti a operare. Penso al personale della Pubblica Amministrazione e al non sempre equo riconoscimento del lavoro svolto. Sono alcuni e limitati esempi, giusto per condividere pezzi di realtà.

Molti di loro, coloro che lavorano duramente nonostante la scarsa equità di trattamento, hanno le stesse basi valoriali, la stessa attitudine al bene collettivo, lo stesso desiderio, profondo, di “far bene perché ci credono”. E i valori fanno la differenza tra il medico che si consuma fino a tarda notte pur di salvare una vita e il medico che torna a casa perché il turno è finito; tra il magistrato che non si accontenta e va fino in fondo, consapevole del rischio che corre, e il magistrato che preferisce “riflettere”; tra il colonnello dei Carabinieri che affonda le mani nelle cavità della delinquenza e il colonnello che preferisce la “prudenza”; tra il professore che ci mette anima e cuore nel far lezione e il professore che manda l’assistente “tanto nessuno controlla”; tra il dirigente che vuole, che pretende, che si infiamma affinché il servizio al cittadino sia ben fatto, di qualità e il dirigente che preferisce dedicarsi alle “relazioni”.

Facciamo un piccolo salto di qualche anno…. Tra l‘800 e il ‘900, i valori sono uno degli elementi portanti della filosofia e della sociologia, con un particolare focus sulla sua funzione di guida collettiva.

Alla fine dell’ottocento, Durkheim elabora uno schema concettuale in cui i valori sociali svolgono un ruolo centrale nell’illustrare i meccanismi della coesione e delle dinamiche sociali. In tale schema, evidenzia la necessità di un sistema di norme comuni (la “coscienza collettiva”) che diano spazio alla solidarietà sociale. La “coscienza collettiva” è un insieme di criteri del pensare e dell’agire (come, ad esempio, norme, credenze, valori morali) a cui è attribuita la funzione sia di confine, di argine delle coscienze e dei comportamenti individuali, sia di riferimento “sacro”, da rispettare, da seguire: “…sacro è per un verso qualcosa di proibito, che non si osa violare; ma è anche buono, amato, ricercato”. Il concetto di valore è ampiamente utilizzato da Weber che ne mette in luce due caratteristiche sostanziali: il valore come preferenza, come desiderio, e il valore come norma, come regola che influenza il comportamento, come guida delle decisioni. Weber trasforma così un concetto tendenzialmente astratto in elemento rilevante per guidare l’agire sociale. Una formulazione particolarmente chiara in questa direzione è fornita dall’antropologo Kluckhohn: “Un valore è una concezione del desiderabile, esplicita o implicita, distintiva di un individuo o caratteristica di un gruppo, che influenza l’azione con la selezione fra modi, mezzi e fini disponibili”. Ne consegue che il concetto di valore contiene tre caratteristiche rilevanti: 1) una caratteristica affettiva (ciò che è desiderabile); 2) una caratteristica comportamentale (influenza l’azione); 3) una caratteristica selettiva (consente la scelta tra più alternative). Non male come strumento di management…

Il potere normativo dei valori è testimo-

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niato dall’analisi che Weber compie sulle sette protestanti americane e sulla loro grande forza di indirizzo dei comportamenti. Tale forza è collegata in parte al processo di interiorizzazione dei valori a livello individuale, in parte alla valenza sociale dei comportamenti che testimoniano affiliazione. Le sette protestanti fornivano ai membri che dimostravano di essere compliant una sorta di “patentino” di onorabilità che era tanto più rilevante quanto più esclusivo e complesso risultava l’ingresso in questa cerchia ristretta (che, tra l’altro, consentiva una maggiore facilità nell’avviare e concludere affari). Valori interiorizzati e valori culturali determinavano un quasi totale allineamento dei comportamenti alle indicazioni e alle volontà del gruppo, dando ai leader un potere sostanziale di scelta degli obiettivi (il “cosa”) e di guida dei comportamenti (il “come”).

In sintesi, per Weber e Kluckhohn, il valore non può essere semplicemente inteso come una preferenza, come un desiderio, come un ideale astratto, ma assume e ha un significato normativo: il valore determina o può determinare scelte tra alternative, plasmare le azioni, guidare il comportamento. Il valore influenza e orienta le scelte di vita e l’azione quotidiana.

Pochi anni dopo, Freud ha riportato i valori nell’alveo dell’azione individuale e ne sottolinea il loro essere parte integrante della personalità, una componente interiorizzata del carattere, un riferimento interno. In particolare, per il fondatore della psicanalisi, i valori sono contenuti nel cosiddetto “SuperIo” (o coscienza morale), ossia la componente della personalità che accoglie il complesso delle norme morali, che è sede dell’universo degli ideali, dei modelli comportamentali, delle aspettative e delle richieste della società di appartenenza. Tale coscienza agisce nella personalità individuale come una forza che si oppone alle pul-

sioni e alle spinte del piacere mediante divieti, comandi, restrizioni, limitazioni, sensi di colpa, rimorsi. “Il Super-Io è il rappresentante di tutte le limitazioni morali”.

Parsons ricompone le prospettive sociologiche e psicanalitiche in una teoria più ampia che mostra come le visioni possono risultare complementari e integrabili. I valori possono svolgere sia una funzione di guida del comportamento dei singoli, sia una funzione di argine del comportamento collettivo.

Si giunge così ad assegnare ai valori una duplice natura: da un lato, sono il riferimento ideale nella personalità dei singoli individui, dall’altro, rappresentano il territorio di “benessere sociale”, la zona di comfort collettivo. Tutto bene, se non fosse per i possibili conflitti che possono nascere tra i due mondi. I valori possono essere allineati e, conseguentemente, rafforzare la relazione tra individuo e collettivo. Oppure, essere in contrasto e divenire divisivi, fonte di disallineamento e di attrito, motivo di devianza…

2. Un’analisi dei valori

Riassumendo le sintetiche riflessioni degli Autori citati e con una prospettiva manageriale, un valore rappresenta una convinzione profonda (e quindi rilevante), tendenzialmente stabile (ossia difficile da modificare nel tempo), con una funzione normativa (indica i comportamenti considerati giusti), secondo la quale una specifica alternativa di comportamento è personalmente o socialmente preferibile rispetto ad un’altra. In quanto profonda, consente di comporre la classifica delle preferenze su come interpretare e vivere il tempo, il lavoro, le relazioni, su come orientare la propria energia, su come agire i ruoli sociali e la propria presenza nella collettività. Definisce, inoltre, cosa è giusto, L

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buono e desiderato, ossia è una sorta di “metro”, di unità di misura, un criterio che guida le decisioni di comportamento delle persone, dei gruppi, delle aziende, soprattutto quando è necessario fare delle scelte tra alternative “difficili”. In quanto stabile, rimane nel cuore delle persone e delle collettività per lunghi periodi di tempo, a volte anche lungo l’intera vita di un individuo e per generazioni nei contesti sociali e organizzativi. La stabilità rende anche complesso e non rapido qualsiasi cambiamento o trasformazione, dando ai valori un ruolo di continuità e di permanenza che può rafforzare il comportamento nel tempo o rendere difficile (a volte impossibile) i cambiamenti, quando considerati non più desiderabili. In quanto normativa, indica i comportamenti da agire, definisce le traiettorie di azione, influenza la valutazione razionale della scelta tra alternative. E, insieme alle abitudini (o routine), alle competenze e alla motivazione, è un fattore determinante del comportamento umano. È impossibile assegnare delle percentuali di rilevanza tra queste determinanti; essendo i valori profondi, stabili e normativi, la loro “quota” è certamente rilevante e, comunque, ampiamente più ampia rispetto alle competenze, rendendo le decisioni molto meno consapevoli e coscienti di quanto la nostra civiltà - nata in Grecia più di duemila anni fa e sviluppatesi nell’occidente – abbia sempre creduto.

Come visto, un valore opera tramite tre componenti: affettiva, motivazionale, selettiva.

La componente affettiva porta a una valutazione dei comportamenti e al loro inserimento lungo un continuum di approvazionedisapprovazione, con le relative conseguenze emotive: sensazioni di soddisfazione, se l’azione è coerente; turbamento e disagio, se il comportamento risulta non conforme, non coerente.

L’aspetto motivazionale dei valori fa riferimento alla spinta che dà all’azione, facendola diventare desiderabile e “conveniente”, al di là della razionalità. Non si tratta solo di idee, ideali, preferenze, ma anche elementi che danno senso al comportamento, consentendo alla persona di attivare energia per rendere ciò in cui si crede vissuto, agito.

Infine, la componente selettiva fa riferimento alla capacità dei valori di guidare la persona a nella selezione, nella scelta tra alternative, individuando la “via giusta”, la strada in cui si crede, consentendo una selezione dei corsi di azione e orientando il comportamento individuale o sociale.

Le fonti dei valori sono duplici. In parte, sono legati alla personalità individuale sin dalla nascita, come componente del carattere e, in parte, appresi nel corso della vita, sia sulla base delle esperienze personali vissute, sia sulla base delle regole dei sistemi sociali e valoriali in cui si cresce, si è premiati, si è sanzionati (in particolare, la famiglia, la scuola, gli amici, i gruppi di appartenenza). A titolo esemplificativo, i valori individuali possono essere la lealtà, la generosità, l’ambizione. I valori sociali possono invece fare riferimento alla rilevanza dell’autorità, la preferenza per la codificazione, il rispetto della tradizione, l’attenzione e la cura verso gli altri.

I valori hanno caratteristiche di intensità diverse e, conseguentemente, sono collocati in un elenco di priorità (come detto, soggettive). Alcuni risultano assolutamente rilevanti e, in alcuni casi, imprescindibili, quasi assoluti. Possono essere valori legati a scelte fortemente personali nati da percorsi di riflessione intima, di intense riflessioni, di faticose scelte. Il rispetto (o il non rispetto) del valore diviene un problema profondo di coscienza. Possono poi esserci valori sociali particolarmente importanti, ossia preferenze conseguenti da attese sociali molto rilevanti

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e “pressanti”, da norme considerate socialmente fondamentali, da aspettative che il collettivo sanziona in modo netto. Altri valori possono essere importanti, ma non decisivi. Possono essere preferenze non ancora completamente definite, non del tutte convincenti o, più semplicemente, considerate meno rilevanti rispetto alle scelte fondamentali. Nel prima caso, non si transige e non si è disposti a negoziare, se non a caro prezzo; nel secondo caso, è meno costoso rinunciare

a essere coerenti e il valore può essere negoziato.

I valori intensi sono determinanti del comportamento inevitabili (nel senso stretto del termine, non è possibile evitarli, bisogna fare i conti con essi) e molto forti, tanto da prevalere sulle competenze e sulle abitudini ed essere la spinta motivazionale più rilevante. I valori meno intensi sono invece una delle componenti sulla base delle quali la persona decide il comportamento da agire e,

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L avoro
nel XXI secolo
e previdenza
PIERRE-AUGUSTE RENOIR, Due sorelle

conseguentemente, “colora” in modo meno pervasivo i processi decisionali.

I valori possono essere tra loro contradditori o non completamente compatibili. L’attenzione per la vita privata – ad esempio –potrebbe essere in conflitto con il desiderio di avere successo e di fare carriera. Ne derivano momenti decisionali che possono essere estremamente impegnativi, faticosi. E comunque ad alto contenuto di incertezza, considerato che è impossibile o molto difficoltoso avere sia criteri di scelta chiari, sia la prova della correttezza della scelta. In quanto “annegati”, tendono a produrre comportamenti che possono essere vissuti come ovvi, normali, e non frutto di scelte precise e di priorità esplicite o frutto di processi decisionali consapevoli.

I valori tendono a diventare qualcosa di scontato, la forma mentis con cui un gruppo e una persona guardano la realtà automaticamente. I valori diventano evidenti quando ci si scontra con un comportamento che è diverso da quello che si considera “giusto”.

In questo senso, nel leggere il comportamento organizzativo è importante ricordare che le persone scelgono istintivamente quei comportamenti che ai loro occhi risultano “giusti”, sia a livello personale, sia a livello sociale (secondo la cultura diffusa). Nel caso in cui il sistema di valori aziendali sia vissuto in conflitto con quello personale, da parte del singolo individuo si possono agire comportamenti differenti di adesione strumentale al nuovo valore, ma anche di rifiuto. È tuttavia condiviso che vivere in un ambiente nel quale la persona trova valori molto lontani dai propri non è una condizione di vita facile per una persona tendenzialmente in equilibro.

Per completezza, può essere utile fare riferimento a tre esempi di valori che possono essere utilmente usati per leggere i comportamenti.

Successo: fare colpo sugli altri tramite il raggiungimento del successo personale e sociale e l’ottenimento di simboli che lo rappresentino verso il contesto sociale.

Tradizione: dimostrare rispetto e commitment per le usanze e per le idee che appartengono alle tradizioni e alla cultura di appartenenza, con comportamenti rispettosi del passato.

Lealtà: saper criticare in modo costruttivo, aderire ai principi condivisi con gli altri anche in momenti difficili, mostrare il coraggio di affrontare le cose in maniera diretta e rischiando talvolta di essere considerati infedeli.

Affidabilità: essere persona di fiducia, di cui fidarsi, mantenere la parola data, esprimendo coerenza nel tempo e nelle circostanze, portare a termine gli impegni, non promettere cose che non si possono realizzare.

In sintesi, ecco le caratteristiche tipiche del concetto di valore.

I valori sono fonte di motivazione: sono una rilevante determinante all’azione: le persone che credono in valori quali - ad esempio - l’equità, la trasparenza, la gratitudine, sono motivate a renderli “vivi”, a far sì che siano la sorgente del comportamento, a diffonderli, a testimoniarli.

I valori sono fortemente legati alle emozioni: valori ed emozioni sono legati in modo inscindibile, i valori producono emozioni. Quando un valore a cui crediamo è messo in discussione, si attivano emozioni negative, si provano tristezza e, a volte, rabbia. Quando invece il valore è rispettato e agito, si prova una forma di piacere, un senso di soddisfazione.

I valori sono trasversali: si possono applicare a diversi oggetti e momenti, non valgono solo in alcuni casi e in situazioni specifiche. La lealtà vale sul lavoro, con gli amici, alla partita di basket.

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L avoro e previdenza nel XXI secolo

I valori sono normativi: sono una determinante delle scelte di comportamento, permettono di selezionare i comportamenti, guidano le decisioni, sono il “metro di Greenwich” che ci consente di scegliere e valutare i comportamenti, le persone, le azioni. Gli individui, sulla base dei valori in cui credono, decidono cosa è buono o cattivo, cosa è giustificato o illegittimo e, conseguentemente, cosa è da fare o da evitare.

I valori sono tendenzialmente stabili nel tempo: non mutano in modo repentino o per capriccio e richiedono grandi sforzi, molte energie e tempi lunghi per produrre un cambiamento.

I valori hanno intensità varie: non sono tutti uguali, non rilevano allo stesso modo, risultano essere in un ordine di importanza relativa, in una sorta di classifica. Ci sono valori assoluti e valori “importanti”, valori non negoziabili e valori “flessibili”. In altri termini, i valori formano un sistema ordinato di priorità, sono collocati in una gerarchia.

I valori sono difficilmente leggibili: non sono rilevabili con strumenti tradizionali quali l’analisi del curriculum vitae, interviste strutturate, valutazioni dell’efficacia dei comportamenti in situazioni codificate o altro ancora. Per precisione, non è detto che i comportamenti visibili siano espressione dei valori in cui si crede. O, meglio, non sempre lo sono. La lettura dei valori richiede strumenti specifici che riescano a cogliere gli aspetti profondi delle persone, che permettano di individuare le scelte “vere” e non la proiezione di ciò che si vorrebbe essere e che consentano la rilevazione e la valutazione dei comportamenti in situazioni complesse, dense di significati, in cui si è costretti a scegliere tra traiettorie diverse e (almeno in parte) tra loro contradditorie.

3. Valori, competenze e merito

Le caratteristiche dei valori portano a riflettere sulla loro rilevanza come “motore” del comportamento umano, quale comportamento efficace che da parecchio è ricercato tramite le chiavi delle competenze e del riconoscimento del merito.

Iniziamo dalle competenze. Sono anni che si sottolinea l’importanza delle competenze, sono anni che si lavora – spesso molto bene – per formare le persone sulle competenze, sono anni che la parola “competenze” è sulla bocca di tutti, soprattutto di coloro che vorrebbero un reale cambiamento della nostra amministrazione pubblica. Assolutamente, tutto vero, tutto condivisibile.

Certo, le competenze e le sue componenti sono fondamentali: i tratti attitudinali sono importanti, le conoscenze tecniche non possono essere trascurate, l’esperienza è un concetto da non sottovalutare, certo, le abitudini hanno un peso non marginale. Ma tralasciare, mettere in un cassetto, derubricare il ruolo e l’importanza dei valori – spesso solo perché non si sa come leggerli e rilevarli - è un modo per cancellare un pezzo di realtà che incide in modo significativo sull’azione individuale e sulla vita delle organizzazioni.

Domanda: nelle amministrazioni pubbliche preferite un dirigente competente o un dirigente leale? Preferite un dirigente preparatissimo o un dirigente affidabile? Preferite un dirigente che “le sa tutte” o un dirigente che crede nel suo ruolo pubblico? Ovviamente, la risposta è “Entrambi!!!”. Ma dovendo scegliere tra un colonnello dei Carabinieri, un professore, un magistrato competenti, ma orientati al successo e uno meno competente, ma leale verso la comunità? Credo che la risposta sia difficile, non scontata, non semplice…

Sono anni che si parla di merito, di sistemi

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secolo

di valutazione della prestazione, di riconoscimento dei più “bravi”. Assolutamente giusto, assolutamente perfetto. Il dato recentissimo dell’esito dei sistemi di valutazione nella PA dice che il 92% dei dirigenti è eccellente, ha prestazioni di molto sopra la media, produce prestazioni collocabili nell’ultimo decile della scala. Se fosse un dato che legge la realtà, saremmo il Paese con la migliore PA nel mondo!!!! Immagino non sia esattamente aderente all’esperienza del cittadino… Mancanza di competenze? Strumenti non all’altezza? Incapacità dei valutatori? Probabilmente, un po’ di tutto ciò. Ma alla base c’è l’enorme, forse irrisolvibile, complessità del processo di valutazione di attività che sono difficilmente misurabili, che sono spesso nemmeno valutabili, sia perché i numeri non sono significativi della vera prestazione, non dicono nulla della vera prestazione, sia perché gli effetti del comportamento si leggono in periodi più lunghi dell’anno. Come è possibile valutare la prestazione di un professore di scuole medie o di una maestra delle scuole elementari? O di un dirigente che guida una struttura sanitaria? O di un magistrato? Non certo con il numero di promossi o il numero di operazioni eseguite o il numero di processi conclusi.

Competenze, merito, belle parole, bei significanti con splendidi significati, che però non bastano, non sono sufficienti, non sono la soluzione al cambiamento delle nostre amministrazioni pubbliche.

Se tutte le volte che si è parlato di competenze e di merito si fosse parlato di valori? Se tutte le energie (e i quattrini) dedicate a competenze e merito si fossero regalate ai valori?

Se una parte dei miliardi di euro che si assegnano come incentivo al termine dei processi di valutazione della prestazione si usassero per premiare chi agisce i valori pubblici?

Pensare male è peccato. Ma – a volte – si in-

dovina, è opportuno, serve. Non è che si dedicano, parole, energie e risorse a competenze e merito perché è “comodo”, perché così cambia poco? Competenze e merito diventano una bandiera, tutti sono d’accordo, meglio, nessuno non può essere d’accordo… e intanto cambia poco…

4. Qualche idea di futuro

Come abbiamo visto, i valori svolgono un ruolo chiave nella vita delle organizzazioni e nel guidare i comportamenti. Tutti i sistemi di direzione, ad esempio, sono “impregnati” di scelte valoriali, spesso non visibili, nascoste, implicite e sono veicoli fondamentali per la trasmissione delle regole di comportamento. I sistemi di gestione delle persone sono basati in modo significativo su valori e le technicalities sono delle “facciate” (più o meno sofisticate) che li fanno apparire come scientificamente solidi, inevitabili…. Il mitico sistema Hay, diffuso in tutto il mondo e considerato uno strumento oggettivo con le sue tavole numeriche e la sua logica ferrea, nasconde scelte valoriali piuttosto definite e chiare: pago di più chi gestisce persone e chi maneggia molti quattrini. La competenza tecnica, per quanto rilevante, è considerata un elemento di contorno. I sistemi di valutazione della prestazione – soprattutto quelli molto sofisticati, complessi, fantasticamente articolati – sono luoghi in cui i valori sono nascosti, ma sono attivi, vivono e plasmano i comportamenti. I sistemi di carriera sono popolati di valori, poco visibili, ma molto potenti. I sistemi di selezione e onboarding sono costruiti su basi (nascoste) valoriali, si scelgono le persone più coerenti, più simili (e, quindi, meno inquietanti…).

Ai sistemi di direzione dobbiamo aggiun-

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L avoro e previdenza nel XXI secolo

gere il ruolo dei leader, di chi guida le organizzazioni. L’esempio del leader, i comportamenti dei capi a ogni livello, orientano i comportamenti, sono riferimenti rilevanti per le persone, che le persone utilizzano soprattutto nei momenti delicati, quando occorre fare scelte di comportamento non scontate, non ovvie. I valori e i leader che li agiscono sono fonte di direzione, indicano la strada, definiscono cosa è giusto o meno fare. E soddisfano, innanzi tutto, bisogni di coesione e sicurezza sociale, fanno sentire le persone più sicure, più protette. Danno poi il senso al lavoro della propria gente, colorano di significati elevati attività che potrebbero anche essere oggettivamente povere, routinarie o non particolarmente interessanti. E nel senso troviamo i valori che determinano il desiderio di partecipare, di esserci, ossia il significato dell’impegno, delle energie, degli sforzi, dei sacrifici, della passione che le persone mettono nel lavoro. E non è casuale che, quando le organizzazioni definiscono il senso, usano parole come missione o visione, parole prese in prestito dalla religione, dai francescani, dai gesuiti, da mondi densi di valori, che vivono di valori.

Sogno un’amministrazione pubblica in cui la selezione è fatta anche su basi valoriali,

un’amministrazione in cui gli adoratori del successo, i disonesti, gli opportunisti siano messi alla porta, non possano entrare; sogno un’amministrazione pubblica in cui la valutazione della prestazione mette al centro i comportamenti coerenti con i valori, in cui si premiano le persone che agiscono i valori; sogno un’amministrazione pubblica in cui la carriera si fa solo se il candidato ha espresso in modo stabile e compiuti i valori di riferimento; sogno un’amministrazione pubblica in cui i capi sono esempi di valori ed esprimono il senso del lavoro attraverso i valori agiti. Sogno un’amministrazione pubblica in cui i comportamenti virtuosi e valoriali espressi da moltissimi nell’emergenza pandemica diventino la normalità, possano diventare i comportamenti “guida”, i comportamenti letti in fase di selezione, premiati con riconoscimenti economici, determinanti per le carriere. Diventino il modo normale di vivere le amministrazioni pubbliche.

A ben vedere, non è un caso, non può essere un caso che valori e lavori siano parole costruite con le stesse lettere. I valori riempiono di senso, devono riempire di significato il lavoro. Il lavoro poggia, deve poggiare sui valori.

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HANS MEMLING, L’Annunciazione

Prospettive della comunione legale tra i coniugi

Nel mese di maggio 2024 si sono venuti a compiere cinquanta anni dalla celebrazione del referendum sul divorzio.

Tale referendum, svoltosi il 12 e 13 maggio 1974, ha rappresentato il primo referendum abrogativo della storia della Repubblica nata dalla Costituzione, e ha avuto ad oggetto la proposta di abrogare la legge istitutiva del divorzio del 1° dicembre 1970, n. 898, recante Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio.

Tale consultazione, come è noto, si concluse con il rigetto della proposta abrogativa, in quanto dei 33.023.179 elettori recatisi alle urne, 19.138.300 (59,26%) votarono contro l’abrogazione della legge, mentre i voti favorevoli furono 13.157.558 (40,74%).

Un esito siffatto fu visto come il segno di un cambiamento epocale, che poneva definitivamente fine all’idea dell’indissolubilità del matrimonio, e che allineava l’ordinamento civile italiano a quello di molti altri Paesi sviluppati ma, soprattutto, ai cambiamenti verificatisi nella società civile e nella coscienza sociale1

L’esito referendario ebbe anche l’effetto di imprimere una consistente accelerazione ad un altro importante processo di riforma che si stava contemporaneamente portando avanti nel Paese, e cioè la rivisitazione com-

plessiva del diritto di famiglia, per la quale i lavori parlamentari si trascinavano faticosamente fin dalla fine degli anni Sessanta, e che videro poi la conclusione ad un anno di distanza, dall’esito anzidetto, nel mese di maggio del 1975, quando venne approvata la legge 19 maggio 1975, n. 151.

Come si avrà modo di vedere in seguito, le tematiche della regolazione da dare ai rapporti successivi allo scioglimento del matrimonio sono (sempre più) connesse con quelle afferenti alla comunione legale dei beni, che costituisce una delle principali innovazioni apportate dalla legge 19 maggio 1975, n. 151, e cioè la configurazione di tale regime quale regime applicabile al matrimonio in assenza di una diversa scelta operata dai coniugi.

Una tale connessione è stata evidenziata anche da alcuni passaggi dei lavori parlamentari anzidetti, nei quali venne richiamato quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 26 giugno 1974, n. 187, secondo cui “Il principio dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, sancito dall’art. 29 Cost., esige certamente che ad esso si adegui ed uniformi anche il regime positivo dei rapporti patrimoniali; ed è incontestabile che la vigente disciplina legislativa di questi rapporti può dar luogo a situazioni di inadeguata tutela giuridica, tra le quali

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appare particolarmente grave e meritevole di protezione, specie nel caso di separazione personale, quella della donna priva di un proprio lavoro professionale autonomo, che abbia dedicato la sua attività all’adempimento dei doveri di moglie e di madre, occupandosi assiduamente delle cure e faccende domestiche. In regime di separazione dei beni, il contributo recato dall’operosità e dall’abnegazione della casalinga all’economia familiare, e al risparmio dell’azienda domestica, molto spesso ragguardevole anche se difficilmente valutabile in denaro, rimane privo di efficace tutela, specie quando il marito abbia investito i risparmi, frutto delle comuni fatiche e rinunzie, nell’acquisto a nome proprio di beni immobili e mobili”.

Nel 2025 saranno trascorsi cinquanta anni anche dall’approvazione della legge n. 151 del 1975, che ha profondamente innovato la disciplina dei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi, nonché la disciplina dei rapporti tra genitori e figli, contenuta nel Codice civile del 1942.

Con l’entrata in vigore di tale legge è stata sottolineata, da più parti, la svolta epocale che è stata impressa alla regolamentazione della famiglia fondata sul matrimonio e a quella della filiazione; in proposito si è infatti affermato che con tale legge si era posto fine al “lunghissimo Ottocento del diritto di famiglia”2, o che si era finalmente realizzato un, non più rinviabile, adeguamento della disciplina positiva del diritto di famiglia ai principi costituzionali3, fino ad allora rimasti inattuati, oppure ancora, che con essa si era realizzato il “passaggio dalla concezione istituzionale alla concezione costituzionale della famiglia” 4 .

Da allora il diritto di famiglia ha subito notevoli trasformazioni per effetto dei numerosi interventi legislativi che si sono susseguiti in questo lungo arco di tempo, e che sono stati dettati, per non dire, imposti dalle profonde trasformazioni sociali, economiche,

e politiche che si sono verificate fino ad oggi. Da più parti in dottrina è stato evidenziato come, per effetto di tali interventi del legislatore, il diritto di famiglia, anche quello disegnato dalla legge del 1975, abbia subito una radicale trasformazione, soprattutto perché è profondamente cambiato l’archetipo, il modello, intorno al quale era stata costruita la riforma introdotta con tale legge, e cioè la famiglia basata sul matrimonio, modello che è stato sempre più eroso a favore di nuove forme di aggregazione familiare che l’ordinamento non ha potuto non assecondare e regolare5.

Anche la riforma della disciplina della filiazione introdotta dalla legge n. 219/2012 e dal successivo Dlgs. n. 154/2013, ha rappresentato un altro ulteriore cambiamento apportato all’idea stessa di famiglia, riconoscibile come tale perché fondata sul matrimonio, e ciò per effetto delle modifiche apportate agli artt. 74 e 258 c.c., tali da comportare l’instaurazione di relazioni con la cerchia parentale in conseguenza della sola filiazione, anche al di fuori del matrimonio, sicché la famiglia “legale … ora, non appare più necessariamente fondata sul matrimonio, considerato che i vincoli giuridici tra i suoi membri dichiaratamente prescindono da esso”6.

Segno evidente di tale cambiamento è il sempre più diffuso utilizzo di concetti quali “famiglia allargata” o “famiglia ricomposta” in cui ad un genitore “naturale” si sostituisce quello “sociale”7.

È stato poi efficacemente evidenziato come alcuni degli interventi normativi appena richiamati, e precisamente quelli che hanno introdotto il c.d. “divorzio breve” e modalità di separazione e divorzio alternative al processo8, sono sintomatici di scelte orientate verso l’ulteriore indebolimento del vincolo coniugale, e del valore comunitario

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della famiglia quale societas, in favore di una progressiva prevalenza degli interessi individuali, in un certo senso ribaltando l’impostazione della Riforma del 1975, volta ad una “rifondazione” dell’istituto familiare intorno ai nuovi valori, stabili e uniformanti, posti dall’art. 29 Cost., ma in continuità con una tradizione che intendeva la società familiare costruita intorno al pilastro portante del matrimonio quale atto di impegno socialmente e giuridicamente rilevante, funzionale alla costituzione di una relazione stabile ed esclusiva9

Nonostante tali radicali cambiamenti e i numerosi interventi legislativi verificatisi dopo l’entrata in vigore della legge di riforma del 1975, e che hanno inciso su molte delle sue disposizioni, non ritenute più al passo con i tempi, occorre per converso rilevare come sia rimasta immune da qualsiasi intervento normativo una delle principali innovazioni apportate da tale legge, e cioè –come già evidenziato - l’introduzione del regime patrimoniale della comunione legale, quale regime applicabile al matrimonio in assenza di una diversa scelta operata dai coniugi10.

L’atteggiamento di favore che il legislatore aveva mostrato verso una tale scelta è apparso anzi riconfermato dal fatto che il regime della comunione legale è stato esteso, quale regime applicabile in assenza di una diversa volontà manifestata dalle parti, anche alle unioni civili fra persone dello stesso sesso, con la legge n. 76 del 2016, con la quale si è voluta dare una regolamentazione positiva a tali nuove forme di aggregazione familiare.

Eppure, ciò nonostante, è opinione molto diffusa, manifestata anche in tempi meno recenti, quella secondo la quale l’esperienza applicativa di un siffatto regime legale - introdotto soprattutto per soppiantare il previ-

gente regime di separazione beni, ritenuto essere fonte di sperequazioni inaccettabili fra i coniugi - non ha rispecchiato le aspettative che il legislatore del ’75 vi aveva riposto, essendosi venuta a creare, di fatto, una progressiva disaffezione verso di esso, sempre meno scelto dalle coppie per la regolamentazione dei propri rapporti patrimoniali, le quali avevano preferito di il ricorso al regime “separatista”.

Il regime della separazione dei beni sarebbe quindi tornato ad essere, nei fatti, il regime «normale» delle famiglie italiane, come confermato dall ’ analisi ISTAT aggiornata al 2020, la quale mostra una netta prevalenza del regime della separazione dei beni (69095 matrimoni i cui coniugi hanno optato per il regime della separazione, a fronte di 27746 matrimoni in comunione), fenomeno dato in crescita da almeno dieci anni11

Una tale disaffezione ha indotto più di qualcuno a parlare di una vera e propria “fuga” dalla comunione legale12, con la conseguente frustrazione degli obiettivi che il legislatore aveva ritenuto di poter perseguire attraverso tale scelta, e cioè la compartecipazione paritaria dei coniugi alla ricchezza costruita durante il matrimonio, idonea a rispecchiare l’idea stessa di matrimonio, quale comunione di vita spirituale e materiale, e a rendere concreta la tutela apprestata dall’art. 29 della Costituzione.

A tale fenomeno è stata data come plausibile spiegazione la crescente consapevolezza, da parte di vasti strati della popolazione, del serio rischio che corre la famiglia di andare incontro, anche in tempi ravvicinati rispetto alla celebrazione del matrimonio, ad una crisi 13 , e nel timore di dover venire un giorno a «fare i conti» con i complessi meccanismi giuridici legati allo scioglimento del regime legale.

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Fra le ulteriori ragioni studiate dalla dottrina, è stata oggetto di particolare attenzione quella connessa alle difficoltà applicative delle disposizioni che disciplinano la comunione legale, derivanti da una non ottimale formulazione delle stesse, foriera quindi di molteplici dubbi interpretativi.

È interessante notare come una simile considerazione fosse stata espressa già dai primi commentatori della riforma del ’75; risuonano oggi particolarmente attuali le considerazioni svolte in proposito, già nel 1979, da un illustre autore14, il quale si esprimeva nei seguenti termini: “l’intero nuovo testo legislativo suggerisce la sensazione che il Parlamento abbia (…) trascurato di curare la proprietà del linguaggio, preoccupato soprattutto di indicare determinati risultati o determinati effetti a cui intendeva arrivare, quasi lasciando al giurista non solo di interpretare la legge, ma anche di ricostruirla sul piano formale, integrandone a posteriori l’intelaiatura tecnica per renderla compatibile con il raggiungimento di quegli effetti e di quei risultati sostanziali.

Se questo è vero, ne discende che il giurista dovrà anche rivedere i tradizionali criteri ermeneutici. L’interpretazione letterale, ad esempio, dovrà essere considerata talora pressoché impraticabile, mentre quella sistematica, fondata sulle finalità emergenti dalla legge, dovrà suggerire correzioni, aggiustamenti e, talora, ricostruzioni del tessuto tecnico formale mancante o incoerente, in difetto delle quali la nuova legge potrebbe risultare del tutto inapplicabile e sostanzialmente tradita”.

Lo stesso autore evidenziava poi come le maggiori difficoltà interpretative ed applicative si sarebbero poste con riferimento alle disposizioni che avevano regolato gli aspetti più tecnici investiti dalla riforma, e cioè le disposizioni relative ai sistemi di pubblicità del regime patrimoniale della comunione legale e delle operazioni compiute nel suo ambito, come pure le disposizioni relative alle operazioni concernenti le attività imprenditoriali ed i beni aziendali, oggetto della disciplina della cd comunione differita o de residuo

Proprio sotto il profilo da ultimo richia-

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CHARLES RÉMOND, Vista del Colosseo e dell’Arco di Costantino dal Palatino

mato si sono registrate le maggiori difficoltà ed i problemi più gravi, in presenza cioè di rapporti coniugali nel cui ambito si era dato vita ad iniziative imprenditoriali15, e quindi a forme di ricchezza più difficili da ripartire in caso di crisi del matrimonio.

Per diversi autori16, la diffidenza verso il regime della comunione legale si è ulteriormente acuita proprio a causa dell’aumento progressivo delle crisi coniugali, fenomeno che, in ragione della sua vastità e delle sollecitazioni provenienti dalle fonti sovranazionali17, il legislatore, non ha potuto non assecondare, venendo spinto quindi alla ricerca di soluzioni che consentissero di porre fine il più rapidamente possibile alla definizione di rapporti ormai logori, non più recuperabili, e consentirne al contempo la formazione di nuovi.

Anche in una tale prospettiva il regime della comunione legale è stato visto sempre più come un vincolo dal quale è difficile sciogliersi, e tale da ritardare la definizione delle situazioni di crisi matrimoniali, richiedenti invece tempi rapidi e certi e percorsi facilmente praticabili.

A tal fine gli interpreti si sono a lungo interrogati per cercare soluzioni che consentissero di tenere in adeguata considerazione le esigenze che il regime della comunione di beni mirava a tutelare, specialmente in presenza di rapporti coniugali contraddistinti da una situazione di maggiore debolezza economica e sociale di uno dei coniugi, e che - nel contempo - non penalizzassero eccessivamente le iniziative economiche intraprese dal singolo coniuge nell’esercizio delle propria autonomia e libertà individuale, parimenti garantita a livello costituzionale.

Nella ricerca della soluzione interpretativa più adeguata non sono mancati gli inviti alla giurisprudenza a farsi carico anch’essa di un’operazione ermeneutica che consen-

tisse di raggiungere gli obiettivi prima delineati.

Le soluzioni apprestate al riguardo sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza non sono state sempre univoche, giungendo anzi in più di un’occasione a conclusioni diametralmente opposte.

È questo il caso della qualificazione da darsi al diritto nascente dallo scioglimento della comunione legale sui beni oggetto della comunione differita, e cioè quella forma di comunione che viene a formarsi all’atto stesso dello scioglimento del regime legale, a condizione che i beni che ne costituiscono l’oggetto non siano stati consumati prima di tale momento, o che sussistano ancora a tale momento, secondo quanto stabilito, rispettivamente, dall’ art. 177, lett. b) e c), e dall’art. 178 c.c.

L’ipotesi disciplinata dalla norma da ultimo richiamata, e cioè quella dell’impresa costituita dopo il matrimonio da uno solo dei coniugi e dal medesimo gestita in maniera esclusiva, è stata quella sulla quale dottrina e giurisprudenza, al loro interno, si sono da tempo scontrate nel momento in cui si è trattato di dare al diritto nascente dallo scioglimento della comunione, una qualificazione in termini di diritto reale, o di contitolarità, o in termini di diritto di credito.

La scelta tra l’una e l’altra qualificazione non è di poco conto, perché dalla preferenza per l’una o per l’altra discendono conseguenze rilevanti in un senso o in un altro.

Su tale scontro, solo in tempi recenti, si è potuta avere una parola sufficientemente chiara e (tendenzialmente) definitiva, con la sentenza 10 maggio 2022, n. 15889 delle Sezioni Unite, la quale ha preso decisamente posizione per la qualificazione in termini di diritto di credito, avendo enunciato il seguente principio: nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi, costituita

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dopo il matrimonio e ricadente perciò ai sensi dell’art. 178 c.c. nella c.d. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.

Tale decisione ha costituito un punto di svolta dalle notevoli implicazioni.

Innanzitutto, merita di essere segnalato il fatto che con il suddetto pronunciamento è stata enucleata in maniera netta la ratio della scelta di fondo operata dal legislatore del 1975, e cioè quella di affiancare, nell’ambito del regime legale della comunione dei beni, una comunione immediata ed una comunione differita.

Tale ratio è stata individuata nella finalità di garantire l’uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio e, nel contempo, di assicurare al singolo coniuge un adeguato spazio di autonomia nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali, ed in generale nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai beni personali, in modo tale da realizzare un necessario ed equilibrato bilanciamento fra alcuni principi, tutti di rango costituzionale e, come tali, meritevoli in ugual modo di tutela, quali la tutela della famiglia (art. 29 Cost.), il principio di pari uguaglianza dei cittadini (art. 3 Cost.), la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.), la remunerazione del lavoro (art. 35).

Partendo da tale presupposto, la Cassazione ha quindi affermato che, pur all’interno di un regime di compartecipazione ispirato alla tutela di esigenze solidaristiche tra i coniugi, si è avvertita la necessità di at-

tribuire rilevanza anche a legittime aspirazioni individuali, riconoscendo che queste non potrebbero essere del tutto mortificate, poiché “il matrimonio presuppone comunque il riconoscimento della persona e della sua sfera di autonomia come valore primario che gli istituti giuridici sono chiamati ad attuare, soprattutto ove l’attività individuale si rivolga all’esercizio dell’attività di impresa o professionale” .

Anche all’interno nella disciplina complessiva data alla comunione legale e alla comunione differita, secondo la Cassazione è possibile rinvenire la volontà di “preservare degli spazi di autonomia e di iniziativa, non potendo la sola adozione del regime patrimoniale legale menomare le scelte individuali dei coniugi”, avvertendo nel contempo che tale disciplina, al pari delle altre novità introdotte dalla riforma del diritto di famiglia, deve trovare un coordinamento con “il preesistente impianto codicistico che nelle sue linee fondamentali è volto a privilegiare l’autonoma e libera disponibilità delle risorse, nonché il principio della circolazione dei valori ed il mantenimento dei livelli di produttività, i quali” non possono soffrire ostacoli eccessivi per effetto della scelta in favore del regime della comunione legale”.

In una siffatta prospettiva la Suprema Corte ha quindi affermato che dalla disciplina anzidetta, e dal suo coordinamento con il preesistente impianto codicistico, ma anche con l’evoluzione normativa successiva che questo ha avuto, anche a seguito delle indicazioni provenienti dagli ordinamenti sovranazionali, “è dato ricavare come le esigenze solidaristiche familiari siano state in parte reputate recessive a fronte dell’esigenza di assicurare il soddisfacimento di altri concorrenti diritti di pari dignità costituzionale”, trattandosi di una disciplina che viene ad applicarsi in un momento in cui, con la cessazione del regime della comunione legale, tali esigenze solidaristiche, poste a fondamento della pretesa di

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compartecipazione alle “fortune” del coniuge imprenditore, sono ormai venute meno.

Sulla base di tali premesse risulta quindi ragionevole e coerente, secondo la sentenza in questione, un’interpretazione che riconosca natura creditizia, e non reale, al diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, giacché una tale natura è da ritenersi più funzionale all’esigenza di assicurare la sopravvivenza dell’impresa, senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sue sorti.

Da tali considerazioni svolte nella decisione delle Sezioni Unite è ricavabile l’impressione che esse abbiano voluto affermare che, quando nel corso della vita matrimoniale sottoposta al regime della comunione legale, vengano ad verificarsi quelle vicende alle quali l’art. 191 c.c., ricollega lo scioglimento di tale regime, allora le menzionate esigenze solidaristiche debbano essere “reputate recessive”, subendo così una sorta di “affievolimento”, dovendo la loro tutela essere contemperata con la necessità di assicurare la sopravvivenza e la continuità dell’attività imprenditoriale o professionale dei coniugi, e modulata quindi in funzione di tale necessità.

Si può ipotizzare che una tale impostazione “conservativa”, nel senso dianzi descritto, che si è tradotta nel riconoscimento della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione differita, e nel rifiuto dell’insorgenza sugli stessi di una situazione di contitolarità di tipo reale, possa far apparire meno “pericoloso” l’assoggettamento della vita matrimoniale al regime della comunione legale, e quindi fugare quei timori che, nell’applicazione pratica di tale regime, hanno determinato un atteggiamento diffuso di disaffezione verso lo stesso.

È un’ipotesi che è stata fatta da alcuni in-

terpreti all’indomani della pronuncia delle Sezioni Unite, i quali hanno visto nelle conclusioni da essa raggiunte, ma ancor più nelle argomentazioni spese a sostegno di esse, la possibilità di una “rivitalizzazione” dell’istituto della comunione legale18, rendendo quindi non più così necessario, o attuale, un ripensamento legislativo dello stesso o, più in generale, dei regimi patrimoniali della famiglia, auspicato invece da altri.

Non è mancato però chi19 ha evidenziato come la soluzione accolta dalle Sezioni Unite in ordine alla natura creditizia dei diritti nascenti dalla comunione de residuo pone il problema di raccordare tale diritto con il diritto all’assegno divorzile quando il coniuge interessato sia beneficiario di entrambi; ciò, avuto riguardo all’orientamento di legittimità secondo cui nella ponderazione della dimensione compensativa di tale assegno deve valutarsi il fatto che esso abbia o meno già trovato la sua soddisfazione dentro il matrimonio, con la stessa scelta del regime patrimoniale, o con gli accordi intervenuti tra i coniugi20.

Una simile preoccupazione sembra esser stata manifestata anche da un’ulteriore recente decisione della Cassazione, con l’ordinanza del 19/02/2024, n. 4420.

In tale occasione la S.C, ha innanzitutto richiamato il proprio orientamento secondo cui il riconoscimento dell’assegno di divorzio in favore dell’ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell’art. 5, comma 6, l. 898/1970, richiede l’accertamento dell’inadeguatezza dei mezzi dell’ex coniuge istante, e dell’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sull’attribuzione, sia sulla quantificazione dell’assegno.

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La Corte a tal riguardo ha richiamato anche l’insegnamento delle Sezioni unite impartito con la pronuncia n. 18287 del 2018, secondo cui il giudizio sull’attribuzione e quantificazione dell’assegno divorzile deve essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, prendendo in considerazione il contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, e di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all’età dell’avente diritto.

È stato però contemporaneamente evidenziato il fatto che nella valutazione delle condizioni reddituali e patrimoniali degli ex coniugi rilevanti ai fini dell’attribuzione e quantificazione dell’assegno divorzile ex art. 5, comma 6, l. 898/1970, il giudice è tenuto a valutare se e in che misura l’esigenza di riequilibrio di tali condizioni, cui è funzionale tale assegno, “non sia già coperta dal regime patrimoniale prescelto, giacché se i coniugi hanno optato per la comunione, ciò può aver determinato un incremento del patrimonio del coniuge richiedente, tale da escludere o ridurre detta esigenza a seguito dello scioglimento della comunione (si vedano in questo senso Cass. 21228/2019, e Cass. 11787/2021)”

Dopo aver constatato però che nella fattispecie portata al suo esame, il giudice di merito si era discostato dal predetto orientamento, l’ordinanza anzidetta ha ritenuto che fosse necessario rimettere la trattazione della controversia ad una pubblica udienza per verificare: da una parte, se l’assegno divorzile e la comunione legale assolvano una funzione solidaristica coincidente o sovrapponibile; dall’altra se lo scioglimento della comunione legale sia computabile ai fini dell’attribuzione e quantificazione

dell’assegno divorzile ex art. 5, comma 6, l. 898/1970, malgrado comporti un’assegnazione patrimoniale di beni non in funzione perequativo-compensativa, ma già propri dell’ex coniuge in conseguenza del regime patrimoniale scelto al momento del matrimonio.

È lecito chiedersi se da tale verifica - che investe soprattutto i possibili riflessi sull’assegno di divorzio dell’assetto dei rapporti patrimoniali derivante dall’applicazione del regime della comunione legale - usciranno confermati gli approdi già raggiunti dalla giurisprudenza in ordine a tale regime, o se invece essi possono essere rimessi in discussione.

La materia del contendere presa in esame dall’ordinanza interlocutoria anzidetta non riguardava beni oggetto di comunione differita, cosicché le linee tracciate al riguardo dalla decisione delle Sezioni Unite del 2022 dianzi richiamata non dovrebbero essere intaccate.

La possibilità di rivedere gli assunti già formulati dipenderà tuttavia dall’ampiezza della risposta che la Cassazione darà alla domanda se la funzione solidaristica della comunione legale è sovrapponibile o meno a quella propria dell’assegno di divorzio, suscettibile di per sé di aprire orizzonti di più vasta portata.

NOTE

1 Per un resoconto delle vicende precedenti e successive alla celebrazione del referendum sull’abrogazione della legge sul divorzio, v. S. Lariccia, La legge sul divorzio e la riforma del diritto di famiglia in Italia negli anni 1970 -’75, in www.statoechiese.it, rivista telematica, fascicolo n. 22 del 2020.

2 P. Pasaniti, Diritto di famiglia e ordine sociale. Il percorso storico della “società coniugale” in “Italia.”, Milano, 2011, pp.630-634.

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3 P. Schlesinger, Quarant’anni di riforme di diritto di famiglia, in Famiglia e Diritto, 2015, 11, p. 969.

4 G. Oberto, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 103 e ss.; p. 125 e ss.

5 Così P. Schlesinger, Quarant’anni di riforme di diritto di famiglia, cit.

6 M. Sesta, L'unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in Famiglia e Diritto, 2013, p. 233.

7 V. in proposito V. Carbone, Le riforme generazionali del diritto di famiglia: luci ed ombre, in Famiglia e Diritto, 2015, 11, p. 972.

8 V. il D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, nonché la successiva L. 6 maggio 2015, n. 55.

9 V. ancora P. Schlesinger, Quarant’anni di riforme di diritto di famiglia, cit.

10 V. in proposito Cass., 5 dicembre 2003, n. 18619, secondo cui “il regime di comunione integra una delle scelte fondamentali del legislatore della riforma”.

11 Cfr. Regime patrimoniale, dati.istat.it.

12 Fra i tanti, v, di recente, G. Oberto, Attualità della comunione legale, in Famiglia e Diritto, I, 2019, p. 89 e ss., C. Rimini, Alla ricerca delle origini di un fallimento: la comunione dei beni in Italia, in Familia, 2021, p. 779 e ss, C. Benanti, Beni destinati all’esercizio dell’impresa di un coniuge in comunione dei beni e strumenti di tutela dei terzi, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 10, 2016, p. 1379 e ss., E. Al Mureden, La solidarietà coniugale a quaranta anni dalla legge di riforma del 1975, in Famiglia e Diritto, 2015, 11, p. 991, il quale ha sottolineato come “l'aspirazione ad assegnare alla comunione legale la funzione di strumento di attuazione del principio della parità tra i coniugi, significativamente avvertita all'epoca della Riforma, può considerarsi scarsamente attuata a quarant'anni di distanza”., in precedenza v. pure P. Rescigno, Matrimonio e famiglia: cinquant'anni del diritto italiano, Torino, 2000, p. 6; M. Sesta, Titolarità e prova della

proprietà nel regime di separazione dei beni, in Familia, 2001, p. 871.

13 C. Benanti, in Scioglimento della comunione legale e tutela dell’impresa, in Famiglia e Diritto, 2, 2023, p. 126 e ss. 14 F. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato di Diritto civile e commerciale Cicu-Messineo, Milano, 1979, p. 2.

15 Vedi C. Benanti, Beni destinati all’esercizio dell’impresa di un coniuge in comunione dei beni e strumenti di tutela dei terzi, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2016, fasc. 10, p. 1379.

16 E. Al Mureden, op cit. , nonché G. Oberto, op. cit.

17 Cass. 19 marzo 2014, n. 6289, ha affermato che la costituzione di una nuova famiglia successivamente alla disgregazione del primo gruppo familiare costituisce un diritto ricompreso tra quelli riconosciuti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo del 1950 (art. 12) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (art. 9), con la conseguenza che i diritti dei componenti di tale nuova famiglia (sia essa fondata sul matrimonio o sulla convivenza) non possono essere compressi in maniera incondizionata per garantire il persistente godimento del tenore di vita coniugale ai componenti del primo nucleo familiare.

18 V., ad esempio, F. Galluzzo, Comunione differita e nomofilachia ristabilita: la difficile sintesi delle sezioni Unite tra ragione dell’impresa e tutela del coniuge non imprenditore, in Responsabilità civile e previdenza, 5, 2023, p. 1510, ss. , nonché A. Albanese, La rivincita della comunione legale nelle nuove famiglie, in Corriere giuridico, 2019, p. 799 e ss.

19 M. Ciancimino, La comunione de residuo. Alcune riflessioni sulla natura e sull’attualità della comunione differita, in Actualidad Jurídica Iberoamericana, 17 bis, 2022, p. 1576 ss.

20 In proposito viene fatto richiamo a Cass., Sez. un., 5 novembre 2021 n. 32198.

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Paolo

La dignità della persona nell’esecuzione della pena

1. Introduzione

Come sosteneva il noto sociologo Erving Goffman, l’istituzione penitenziaria rientra nelle cosiddette “istituzioni totali”, ossia delle strutture che presentano alcune caratteristiche comuni:

a) ogni aspetto della vita si svolge nello stesso luogo e sotto la stessa, unica, autorità;

b) ogni fase dell’attività giornaliera si svolge a stretto contatto con un gran numero di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose;

c) ogni giornata è scandita da un programma prestabilito ed imposto dall’alto per mezzo di un sistema di regole formali la cui esecuzione è demandata ad uno specifico corpo di addetti;

d) le attività forzate rispondono ad un piano razionale, appositamente programmato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione.

Sulla base delle suddette considerazioni, la vita dei detenuti è sempre stata ontologicamente scandita da regole ferree che, ovviamente, possono comprimere ogni istanza di individualità

Per tale motivo, in una democrazia che non può più considerare la pena sotto un punto di vista unicamente retributivo, è necessario – anzi, doveroso - pretendere che il processo rieducativo sia effettivo e che l’esecuzione delle pene avvenga sempre nel rispetto della dignità della persona e in con-

dizioni che consentano sempre lo sviluppo e la cura della personalità dei detenuti.

2. I princìpi fondamentali

Nel corso del tempo, tanto in un contesto sociale, quanto giuridico questa “realtà separata” è stata al centro di un acceso dibattito che si è svolto con modalità diverse rispetto all’approccio determinato dalla funzione che veniva riconosciuta a tale “realtà”.

Si osserva, infatti, che l’evoluzione del sistema sanzionatorio non ha solo segnato il passaggio dalla considerazione del fatto da punire alla valutazione della persona da assoggettare a punizione, ma ha determinato anche un profondo mutamento del concetto stesso di istituzione penitenziaria.

Con il passare degli anni, soprattutto in determinati ordinamenti, la centralit à del rispetto della dignit à umana nell’esecuzione della pena è emersa e si è fatta preponderante in numerose disposizioni normative internazionali e nazionali, che ne hanno progressivamente specificato il significato.

Partendo dalla disposizione “programmatica” della previsione del rispetto dell’umanità e della dignità della persona previsto nell’art. 10 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, si è passati alle dettagliate previsioni delle Regole penitenziarie

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europee circa le condizioni che devono essere assicurate negli istituti penitenziari.

In particolare, per quanto attiene al nostro ordinamento, come è noto la nostra Costituzione prevede espressamente, all’art. 27 Cost, che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, una rieducazione che deve puntare alla ricostruzione del legame sociale, non si deve limitare a retribuire ma deve avere l’obiettivo di re-includere.

In tal senso, significative sono le pronunce della Consulta che si sono susseguite nel tempo, in particolar modo negli anni ’90, che hanno sancito tale necessità conforme ai princìpi generali del nostro ordinamento.

In particolare, nella nota sentenza n. 313/1990, la Corte Costituzionale ha sancito che il principio rieducativo è considerato patrimonio della cultura giuridica e non può essere confinato al solo momento dell’esecuzione penale, ma è un dovere che si impone nei confronti del legislatore, dei giudici di cognizione, del giudice dell’esecuzione e della sorveglianza delle autorità penitenziaria.

Un principio guida che caratterizza la pena dalla sua astratta previsione fino alla sua concreta espiazione.

Una rieducazione che va intesa come un concreto strumento di ausilio al detenuto finalizzato ad un nuovo inserimento nella società, sulla base del recupero del significato della convivenza civile nelle forme della legalità

È pertanto necessario che la struttura carceraria fornisca strumenti concreti perché il detenuto eserciti tutti i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, potendosi escludere solo le modalità di esercizio incompatibili con la sicurezza della custodia.

Ogni limitazione nell’esercizio dei diritti

dei detenuti che non sia strettamente funzionale a questo obiettivo acquista un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, incompatibile con l’art. 27 Cost. (come ribadito di recente dalla Consulta nella sentenza n. 135 del 2013) e inammissibile in un ordinamento basato sulla assoluta priorità dei diritti della persona, che trova nella privazione della libertà personale il limite massimo ed invalicabile di punizione.

Tali princìpi dettati nella nostra Costituzione a partire dalla sua approvazione, hanno trovato una tutela estremamente rilevante nel corso degli anni in una dimensione europea.

Ad oggi, infatti, quello che rappresenta il vero e proprio baluardo dei diritti umani e delle condizioni dei detenuti è la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), che viene tutelata attraverso l’attività della Corte di Strasburgo la quale, nel corso degli anni, ha svolto un’encomiabile e rigorosa opera di salvaguardia dei diritti dei detenuti.

Con la CEDU, infatti, è nata una vera e propria “carta dei diritti” che ha generato un ordinamento giuridico a tutela dei diritti umani.

Di particolare rilievo è il contesto storico in cui essa è nata, in quando la Convenzione rappresenta una reazione ai crimini perpetrati durante la seconda guerra mondiale che ha portato gli Stati firmatari a sancire l’esistenza di una serie di diritti inviolabili e imprescindibili da salvaguardare attraverso uno stringente sistema di garanzie che ne doveva prevedere l’applicazione e il rispetto.

La strada verso la CEDU parte dal trattato di Londra del 1949, istitutivo del Consiglio D’Europa che è stato strutturato in due organi principali: il comitato dei ministri e l’assemblea consultiva.

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Nel trattato i firmatari si dichiaravano legati da valori ritenuti fondamento “dei principi di libertà personale, libertà politica e preminenza del Diritto”.

Lo scopo comune era quello di creare un rapporto più stretto tra gli stati firmatari al fine di tutelare e promuovere i principi e valori comuni e allo stesso tempo il progresso nei settori strategici del economia, della cultura, del sociale, del diritto e dell’amministrazione, tramite “ la tutela e lo sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.

Un atto con il quale la salvaguardia e la promozione dei diritti umani erano messi al centro di un progetto comune volto al mantenimento della pace.

L’anno successivo nel novembre del 1950 il consiglio d’Europa proclamò solennemente la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle

libertà fondamentali istitutivo dell’organo di garanzia e tutela dei diritti che sono stati dettati nella prima parte della Convenzione: la Corte Europea dei diritti dell’Uomo.

Una Corte che non prevede lo svolgimento di un processo “di merito”, ma che chiama sul “banco degli imputati” i singoli Stati firmatari per le violazioni dei principi dettati nella convenzione.

Della peculiarit à di questa Corte viene dato atto proprio in una sua decisione (nella pronuncia 18.1.1978, Irlanda c. Regno Unito, ric. 5310/1971, par. 239) nella quale si è evidenziato che: “Diversamente dai trattati internazionali di tipo classico, la convenzione esorbita dal quadro della semplice reciprocità tra gli stati contraenti. […] crea obbligazioni oggettive che beneficiano di una garanzia collettiva”.

Tra i princìpi più rilevanti per quella che

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ERNEST MEISSONIER, La battaglia di Friedland

attengono alla condizione umana e, in particolare, a quella dei detenuti, troviamo:

Art. 1 Obbligo di rispettare i diritti dell’uomo:

Si tratta di una disposizione di principio con la quale tutti gli stati contraenti riconoscono i diritti fondamentali a tutte le persone soggette alla loro giurisdizione così come individuate dalla convenzione e dall’interpretazione della Corte e si impegnano a rispettarli e salvaguardarli.

Diritti che sono garantiti a tutte le persone fisiche rientranti nella giurisdizione degli stati firmatari compresi apolidi e minori.

Si tratta dell’architrave su cui si fonda il sistema convenzionale, perché gli Stati membri accettano una limitazione alla loro sovranità nazionale in tema di diritti umani a favore del Consiglio d’Europa, prevedendo di essere messi “sotto accusa” dalla Corte di Strasburgo.

Art.2 Diritto alla vita:

L’art. 2 della Convenzione prevede che:

Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge. Nessuno può essere intenzionalmente privato della vita, salvo che in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale, nel caso in cui il reato sia punito dalla legge con tale pena.

La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:

a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale;

b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta;

c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione.

Art.3 Divieto della tortura

Il sistema dei primi articoli a tutela della

vita e della dignità dell’uomo è completatooltre ai successivi articoli in tema di giusti processo – dall’art. 3 che vieta in modo categorico la tortura e i trattamenti disumani e/o degradanti, ossia tutti quei comportamenti lesivi dell’integrità fisica e psichica che possono essere subìti da una persona.

Si tratta di un principio che è sia il baluardo del trattamento dei detenuti, sia il parametro di riferimento per misurare la qualità del sistema carcerario presente nei singoli ordinamenti degli Stati membri, i quali, in molti casi, vengono condannati proprio per violazioni di tale norma.

E ciò in quanto, ogni volta che un individuo si trovi privato della libertà, l’utilizzo della forza fisica, o la sottoposizione a condizioni di vita che non rispettano la dignità umana, rappresenta una violazione dell’art 3 che, è bene sottolineare, non può conoscere deroghe, nemmeno per esigenze di ordine pubblico, o lotta alla delinquenza e al terrorismo.

Per fare un esempio concreto di applicazione di tale principio, la Corte di Strasburgo, nella nota sentenza Torreggiani dell’8 gennaio 2013, ha ritenuto che le condizioni di sovraffollamento carcerario – rilevate negli istituti di pena italiani – provocano una situazione di sofferenza nei detenuti, che va ben oltre il naturale disagio di chi non dispone più della sua libertà personale e si pone in violazione dell’art. 3 in quanto ritenuto tra ttamento degradante.

E ciò in quanto lo Stato non ha il diritto di infliggere afflizioni aggiuntive a quelle che derivano in modo diretto e inevitabile dalla privazione di libertà, poiché la persona umana consiste nell’unione inscindibile di corpo e spirito, ogni situazione di estrema costrizione fisica, di mancanza di beni essenziali per una vita decente si converte in una lesione della dignità.

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3. L’intervento del legislatore

Esaminati quelli che sono i princìpi dettati a livello costituzionale ed europeo sul concetto di dignità umana e sulla tutela che deve essere riconosciuto al detenuto nel regime di esecuzione della pena, tornando al livello nazionale, è necessario prendere in considerazione due interventi normativi di grande rilevanza:

- il primo relativo all’introduzione del reato di tortura, e quindi una diretta applicazione dell’art. 3 della CEDU;

- il secondo relativo a quelli che sono i diritti della “quotidianità” dei detenuti, previsti in seguito all’approvazione dell’Ordinamento Penitenziario con la legge n. 354 del 1975.

Sotto il primo profilo, dopo un articolato iter parlamentare, sono stati introdotti nel nostro codice i reati di tortura (art. 613-bis) e di istigazione alla tortura (art. 613-ter).

L’articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Sono poi previste dall’art. 613-bis due fattispecie aggravate del reato di tortura:

- la prima, molto rilevante con riferimento ai soggetti privati della libertà personale, riguarda la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dell’autore del reato, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; la pena prevista è in tal caso la reclusione da 5

a 12 anni. Viene, tuttavia, precisato dal terzo comma dell’art. 613-bis che la fattispecie aggravata non si applica se le sofferenze per la tortura derivano unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.

Proprio con riferimento a questa particolare forma di tortura, la Corte di Cassazione (Cass. Penale Sent. Sez. 5 Num. 8973/2022) ha distinto tra la tortura cd. “privata” e quella “di Stato”, affermando che la l. n. 110/2017 ha introdotto all’art. 613-bis c.p. “due diverse e autonome fattispecie incriminatrici, a disvalore progressivo, secondo la qualifica del soggetto attivo del reato”, ovverosia la “tortura privata (cosiddetta comune o orizzontale o impropria)”, disciplinata dal co. 1, e “la tortura pubblica (cosiddetta di Stato o verticale o propria)”, che si configura “se il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio che commetta il fatto tipico descritto nell’articolo 613 bis c.p., comma 1, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio” (e che, pertanto, è disciplinata dal combinato disposto dei co. 1 e 2).

Con riferimento alla “tortura di Stato”, la Corte ha evidenziato come “la tortura pubblica non può assumere la forma circostanziale rispetto a quella privata, ma costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e sia per la necessità di un obbligo di incriminazione specifico di quest’ultima fattispecie, obbligo che sarebbe da considerare disatteso, cin diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse l’articolo 613 bis c.p., comma 2, una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali”; - il secondo gruppo di fattispecie aggra-

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vate consiste nell’avere causato lesioni personali comuni (aumento fino a 1/3 della pena), gravi (aumento di 1/3 della pena) o gravissime (aumento della metà):

- le altre fattispecie aggravate riguardano la morte come conseguenza della tortura nelle due diverse ipotesi: di morte non voluta, ma conseguenza dell’attività di tortura (30 anni di reclusione) o di morte come conseguenza voluta da parte dell’autore del reato (pena dell’ergastolo).

Con riferimento alla “pluralità” degli atti espressamente richiesti dalla littera legis per l’integrazione del reato, la Corte di Cassazione si è recentemente espressa (Cass. Pen. Sez. V n. 36970 del 2023), allineandosi ad un filone giurisprudenziale consolidato, sancendo che, ai fini dell’integrazione del delitto di tortura, la locuzione “mediante più condotte” va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico, rendendo per tanto punibili anche reiterati atti di violenza perpretati in un unico contesto temporale, con importanti ricadute sulle garanzie accordate sia ai cittadini che hai detenuti.

La fattispecie di istigazione a commettere tortura prevista dall’art. 613-ter c.p. punisce, invece, con la reclusione da sei mesi a tre anni all’art. 613- ter c.p., il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso (altrimenti potrà essere punito a titolo di concorso).

Per quanto attiene, invece, ai diritti della “quotidianità” dei detenuti, con l’introduzione dell’ordinamento penitenziario (L. n.

354 del 1975), il detenuto è considerato titolare di diritti riferibili alle diverse sfere della persona all’integrità fisica, alla salute mentale, ai rapporti familiari e sociali, all’integrità morale e culturale) che si conformano ai princìpi dettati in Costituzione e affermati dalla Corte Costituzionale, la quale ha da sempre sancito che “l’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generale assoggettamento all’organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti” (Corte cost., sent. n. 26 del 1999).

Una serie di diritti che, però, in molti casi, non ha trovato una giusta evoluzione normativa per venire incontro ai bisogni emergenti della popolazione detenuta o per colmare le lacune ancora presenti nella riforma del 1975 (si pensi al tema della affettività e della sessualità, su cui si è solo di recente intervenuti, a distanza di quasi cinquant’anni dall’introduzione dell’ordinamento penitenziario) e spesso ha condotto la giurisprudenza ad intervenire, come per la mancata previsione del diritto alle ferie dei detenuti lavoratori (sent. n. 158/2001), attraverso la dichiarazione di incostituzionalità dell’omissione legislativa.

Allo stesso modo di grande rilevanza è stata la sentenza. n. 239 del 2014, con la quale la Corte ha rilevato l’irragionevolezza della disposizione censurata nella parte in cui non escludeva le detenute madri condannate per particolari delitti (previsti dall’art. 4-bis, comma 1, O.P.) e con prole di età non superiore ai dieci anni, dal divieto di concessione della misura della detenzione domiciliare speciale, estendendo, in via consequenziale, la dichiarazione di incostituzionalità anche alla preclusione all’accesso alla detenzione domiciliare “ordinaria” (ex art. 47-ter O.P.).

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E ciò in quanto, come rilevato dalla Consulta, assume “un rilievo del tutto prioritario l’interesse di un soggetto debole, distinto dal condannato e particolarmente meritevole di protezione, quale quello del minore in tenera età, ad instaurare un rapporto quanto più possibile “normale” con la madre (o, eventualmente, con il padre) in una fase nevralgica del suo sviluppo”

Ancora, sempre nell’ottica di reinserimento sociale del detenuto, grande rilevanza ha assunto la sentenza n. 10/2024 con cui la Corte Costituzionale ha rafforzato il diritto alla affettività dei detenuti, dichiarando l’illegittimità del divieto assoluto di colloqui intimi tra detenuti e familiari dettato dall’art. 18 O.P., affermando finalmente il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere a distanza di oltre dieci anni dal precedente arresto della sentenza n. 301/2012.

Con tale pronuncia, la Corte ha reso possibile l’accesso a colloqui riservati senza il controllo a vista da parte del personale della polizia penitenziaria dichiarando illegittimo

l’art. 18 della legge n. 354/1975 (ord. penit.) rimettendo la una valutazione del caso concreto all’amministrazione, in prima battuta, e in caso di diniego a quella giurisdizionale del magistrato di sorveglianza.

La Corte, in particolare, ha delineato i limiti ostativi e i destinatari, ribadendo come, qualsiasi decisione diversa del legislatore dovrà rispettare il principio di proporzionalità e garantire l’effettività dell’esercizio del diritto di affettività.

Oltre all’esigenza del rispetto di condizioni di “umanità” si va progressivamente acquisendo la consapevolezza circa la necessità di impostare la vita detentiva in modo da riflettere, nella misura più ampia possibile le caratteristiche della vita “libera”.

Si tratta di rivisitare le fondamentali categorie dello spazio e del tempo della pena.

Sul presupposto che, nel modello detentivo ordinario, le celle sono mere camere di pernottamento, la quotidianità della vita penitenziaria dovrebbe svolgersi il più pos-

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GUSTAVE CAILEBOTTE,Uomo al balcone

sibile fuori dalle sezioni, in luoghi ove si possano esercitare le attività di lavoro e formazione e tenere le c.d. attività di socialità Nelle mura del carcere il tempo della pena dovrebbe essere scandito da attività (lavoro, formazione, cultura, svago) che permettano al detenuto di responsabilmente “riappropriarsi della vita”, esprimendo la sua personalità, in un processo di reinserimento volto all’autodeterminazione.

In tal senso, da tempo immemore la Corte Costituzionale ha sancito che il diritto all’istruzione integra, come quello alla salute, il nucleo sostanziale irrinunciabile della dignità umana.

Per tale motivo esso non può essere negato o eccessivamente limitato al detenuto, che deve poter completare gli studi universitari, anche senza ottenere il permesso di allontanarsi (sentenza n. 77 del 1984), poiché tale condizionamento assoluto implicherebbe la totale perdita del diritto, che rimarrebbe puramente virtuale.

Parimenti rilevante, per l’esecuzione di una pena realmente dignitosa e mirante al reinserimento sociale, è la predisposizione di trattamenti rieducativi che tengano conto del reato c.d. culturalmente orientato.

A tale scopo l’intervento di una specifica tipologia di mediazione culturale costituisce una significativa opportunit à nello sforzo di consentire agli stranieri di partecipare alle attività previste dal loro regime trattamentale. L’istituto, introdotto con il regolamento di esecuzione del 30 giugno 2000, prevede la partecipazione di soggetti della comunità esterna all’amministrazione penitenziaria, nel tentativo di offrire una risposta adeguata al mutamento della popolazione detenuta (secondo i dati del Dap la percentuale dei cittadini stranieri sul totale dei detenuti è circa il 35%) a seguito dei flussi migratori ingenti, tra loro molto differenziati sul piano linguistico e cultur-

ale (art. 35), allo scopo di attenuare il senso di isolamento degli stranieri in stato di reclusione.

Ancora, particolarmente rilevante al fine di ottenere un effettivo sviluppo della persona, è il diritto all’informazione che spesso è stato limitato nel corso degli anni, soprattutto per evitare che determinati detenuti inseriti in associazioni di stampo mafioso, potessero utilizzare alcuni canali televisivi per inviare e ricevere messaggi.

La Corte Costituzionale, ha ritenuto che i detenuti – anche se in regime di sospensione delle regole trattamentali ordinarie – mantengono il diritto all’informazione, che può essere limitato solo se la ricezione di particolari canali o programmi televisivi consentano comunicazioni con l’esterno potenzialmente idonee a perpetuare i legami con organizzazioni criminali. Nel caso trattato dalla consulta, il magistrato di sorveglianza aveva ritenuto che tale pericolo non ricorresse nella fattispecie, ma la sua decisione era rimasta senza seguito. Tale mancata esecuzione determinava – secondo la pronuncia della Corte –una ineffettività della garanzia giurisdizionale di un detenuto, non trattandosi di mera doglianza nei confronti di aspetti generali o particolari dell’organizzazione penitenziaria, ma del vero e proprio esercizio di un diritto, di cui era stata chiesta la tutela al giudice competente (sentenza n. 135 del 2013).

4. Conclusioni

Alla luce delle argomentazioni che sono state illustrate, appare evidente che il tema dell’esecuzione della pena sia stato oggetto di un profondo mutamento ontologico nel corso degli anni, passando da un’ottica puramente retributiva incentrata sulla condanna, ad una visione incentrata sulla tutela

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del condannato, sotto un duplice profilo.

Il primo, quello dei diritti e delle libertà del detenuto che non può e non deve essere privato – per alcuna ragione di alcuni diritti inviolabili e inderogabili e che attengono alla sua stessa dignità.

Il secondo di tipo sociale, perché in assenza di un’effettiva opera di reinserimento, il detenuto, al momento del suo rientro in società, non sarà in grado di ricominciare a condurre un’esistenza in osservanza delle norme dettate dal nostro ordinamento,

Se si considerano i dati sulla recidiva, infatti, è solo del 2% il tasso di recidiva tra i 18.654 detenuti che hanno ottenuto un contratto di lavoro in seguito ad un’opera di reinserimento sociale, mentre è del 68,7%, il tasso complessivo medio stimato su una popolazione carceraria che si attesta a 56.107 (dato al 2 febbraio 2023).

Si tratta di dati che devono fare riflettere e devono farci comprendere come sia oltremodo necessario oggi:

- insistere, ove possibile, su misure alternative alla detenzione;

- prevedere meccanismi di liberazione anticipata più automatici, in assenza di condizioni di particolare allarme sociale;

- investire in modo rilevante sulla qualità e la quantità delle case circondariali e di quanto viene concretamente offerto al detenuto per esprimere la sua personalità e per ricondurla sui binari della legalità Uno sforzo che deve essere perseguito da tutti gli operatori del diritto per raggiungere un obiettivo comune che sta a cuore a tutti: una società più giusta, sicura ed in cui sia garantito a tutti il rispetto dei propri diritti fondamentali e la possibilità di avere “una seconda occasione”.

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Avvocato,

La giustizia predittiva tra mito e realtà

La dottrina già da diverso tempo si confronta sul tema dell’intelligenza artificiale e della sua interazione con il settore giuridico, in particolare ponendo attenzione sull’attuale primordiale gestazione di un panorama normativo di riferimento – sia a livello comunitario che nazionale – e sui risvolti gi à presenti nella pratica, anche in ambiente giurisprudenziale.

Invero, nonostante per alcuni sia considerato di improvvisa attualit à a causa dell’ormai degenerante invasione nella realt à quotidiana di svariate forme di IA, la comunit à dei giuristi e degli operatori del diritto sta ormai maturando la consapevolezza che, più di altri settori della vita e della quotidianit à , la rivoluzione tecnologica dell’IA coinvolgerà, fino a stravolgere, non solo le dinamiche della vita privata ma, ancor più, la formazione del libero pensiero e finanche l’autonomia decisionale propria del ragionamento umano.

La tentazione di affidare ad una macchina – rectius, ad un algoritmo – la “fatica” di una decisione ovvero la sintesi tra molteplici fattori e soluzioni (scegliendo, come si vedr à infra , su un calcolo probabilistico ma vincolato alle informazioni di partenza) è sempre più evidente e, nel volgere di pochi anni, apparir à inevitabile laddove non si riuscir à a vincolarla a parametri rigidi nei quali l’esperienza umana e la ma-

turità di ragionamento dovranno essere tutelati.

Orbene, il presente articolo si propone di seguire le linee direttrici gi à tracciate su questa Rivista 1 e, si spera, di offrire nuovi spunti di riflessione, ponendo tuttavia l’accento tra la velocit à della dinamica evolutiva di questa nuova tecnologia, e della conseguente sempre maggiore interazione con ogni settore del diritto e della applicazione pratica dello stesso, ed il rispetto dei principi fondamentali del nostro ordinamento e della centralit à del valore dell’uomo.

Non v’è dubbio, del resto, che l’accesso così facilitato ad una tecnologia di tipo predittivo (ossia capace di generare pensieri autonomi o di eseguire ragionamenti deduttivi e non soltanto algebrici) sia assai rischiosa ove posta a confronto con la necessaria evoluzione positiva del diritto, e cioè con la capacità di quest’ultimo di modificarsi secondo le diverse esperienze dell’uomo ma sul presupposto del rispetto dei diritti fondamentali.

Laddove poi questo tipo di ragionamento sia diretto a valutare i vantaggi ed i rischi, se così si può dire, dell’utilizzo dell’IA nel processo penale, si comprende con plastica evidenza quanto tale argomento sia delicato e non possa perciò cedersi ad una brusca abdicazione del ragionamento cognitivo e deduttivo ove vi sia pericolo per la salvaguardia del bene più prezioso: la libertà individuale.

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Premessa

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L’IA come un oracolo?

La possibilità di predire il futuro è un desiderio con il quale l’uomo ha combattuto da sempre perché è intimamente connesso alla curiosità di conoscere ciò che l’aspetta ed il timore di non saperlo affrontare.

Nel passato, tale debolezza umana trovava il suo compimento nell’oracolo a cui chiunque, dal più forte al più debole, affidava le proprie scelte e sul quale misurava le proprie azioni. Nella mitologia, tuttavia, il vaticinio era per lo più connesso alla sventura e, lungi dal prevedere il futuro, condizionava esso stesso l’agire di chi vi si rivolgeva, con il paradosso di non predire ma di indirizzare. È di questo tipo, ad esempio, l’interpretazione proposta da Cassese delle tragedie di Edipo e Antigone2; è la conoscenza del futuro, prima che esso accada, ad innescare il corso di azioni che condurrà alla hybris tanto del padre quanto del figlio che, così facendo, per evitare il vaticinio metteranno in opera una serie di azioni che lo realizzeranno.

Il desiderio di conoscere il futuro, e per certi versi di governarlo, è un’angoscia che non ha abbandonato l’uomo il quale, seppur con formule di volta in volta più nuove, continua la ricerca di una soluzione a tale istinto primordiale.

A differenza dell’oracolo, la moderna IA contiene in sé il simulacro della razionalità e, quindi, potrebbe apparire più rispondente alle esigenze umane rispetto alla “magia” di un essere dotato di poteri di chiaroveggenza. Il dubbio amletico è se la logica quantistica ed il principio di autodeterminazione dell’IA possano sostituire l’uomo nelle sue scelte, tanto rispetto al proprio di futuro quanto a quello degli altri. Il comportamento umano, le sue scelte e decisioni, tuttavia, non sono determinabili con le stesse leggi con le quali

si comprendono i fenomeni fisici o chimici o con cui rispondono le regole matematiche; alla possibilità di predire con esattezza il comportamento umano si è sempre opposta una caratteristica tipica dell’evoluzione dell’uomo: la libertà (intesa anche come imprevedibilità ed eccezione rispetto al binomio causa-effetto).

L’essere umano non è mai soltanto il prodotto deterministico delle sue stimolazioni biochimiche o neurofisiologiche, né tantomeno il risultato necessario delle condizioni socio-economiche o ambientali in cui vive.

Oggi non sarebbe possibile tollerale che una scelta venga affidata ad un oracolo il quale, per definizione della mitologia, ha sempre ragione pur non dando mai ragioni Eppure, si è disposti con facilità a cedere all’agio di una decisione operata da un algoritmo predittivo al quale sono attribuiti (sbagliando, come si vedrà infra) i requisiti di terzietà, imparzialità e predeterminazione.

IA e Costituzione

Proprio sulla scorta dei principi da ultimo richiamati, la necessaria premessa di ogni ragionamento circa l’applicabilità dell’IA alla sfera dell’esercizio della giustizia non può prescindere dalla corrispondenza di tale tecnologia con il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali riconosciuti nella Costituzione.

Non v’è dubbio che l’argomento sia così vasto da non poter essere sviluppato sufficientemente in questo breve articolo. Ci si limiterà pertanto a proporre le tre principali aree di rischio maggiormente di interesse nella connessione tra utilizzo dell’IA e amministrazione della giustizia:

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a) il principio della sovranità popolare (art. 1):

la matrice democratica su cui si basa la nostra architettura costituzionale, come è noto, non si può ridurre semplicisticamente al concetto di moltitudine e di rispetto della volontà popolare (intesa alla stregua di maggioranza da contrapporsi al potere dispotico di uno soltanto o di pochi), bensì contiene in sé un significato più penetrante al quale appartiene, tra l’altro, il rispetto per le minoranze e la cultura delle diversità.

Al fine di comprendere la portata potenzialmente deflagrante dell’IA con questo principio appare opportuno partire da un dato scientifico: secondo alcuni recenti studi, il volume dei dati trattati a livello planetario nell’anno 2020 è stato pari a 44 zettabyte (unità di misura corrispondente a 1021 byte), ossia una quantità enorme la cui tendenza di crescita è costante3

Tale quantità di dati, evidentemente di difficile catalogazione perché proveniente dalle più disparate attività quotidiane di ciascuno di noi, è tuttavia una fonte di materia prima preziosissima perché capace di descrivere il perimetro delle nostre azioni e, quindi, di controllarle.

Al fine di stratificare i dati e di estrarne, quindi, un qualche significato compiuto (c.d. operazione di data mining) è necessario l’impiego di sofisticati sistemi di IA che consentano di compiere il passaggio dai dati all’informazione.

La dinamica dei fatti, tuttavia, ha generato un panorama in cui poche aziende in grado di svolgere questa elaborazione possono gestire una quantità smisurata di dati personali e, mediante essi, svolgere operazioni di profilazione (ad esempio, come accade per la pubblicità commerciale via internet) o, peggio, dirigere dopo averle manipolate quantità indefinite di informazioni al solo fine di

influenzare le condotte e le scelte della popolazione (è di pochi anni fa, ad esempio, lo scandalo di Cambridge Analytica).

Si assiste pertanto al paradosso per cui una massa enorme di dati possa generare disinformazione in luogo di conoscenza.

All’interno di tale realtà si annidano alcuni rischi: in primo luogo, è del tutto verosimile che i destinatari delle informazioni non abbiano la consapevolezza del carattere circoscritto e parziale di quanto a loro somministrato e confidino, anzi, sulla loro oggettività, completezza e neutralità; in secondo luogo, si rende estremamente complicato il controllo sulla veridicità ed attendibilità delle informazioni fornite; in terzo luogo, il presupposto assetto plurale delle fonti di informazione è del tutto ipotetico giacché i dati (e le informazioni) potrebbero essere omologate e condensate sulla base di specifiche indicazioni.

Quale corollario, la sovranità popolare potrebbe essere fortemente condizionata nelle sue scelte e la molteplicità dei dati non costituirebbe un assioma di eguaglianza.

Le piattaforme tecnologiche, che appartengono a poche e consolidate società, sono tutt’altro che neutrali; in tale contesto, l’IA come interprete dei dati è mera utopia giacché unicamente governata dalla natura probabilistica del suo ragionamento.

Ma, come si è detto, la capacità della “macchina” dipende dal numero di dati di cui può disporre e, soprattutto, da chi li ha immessi, da quanti ne sono stati immessi e da quali fonti provengono; il rischio che ne derivino discriminazioni è fortissimo giacché nessun algoritmo, neanche il più evoluto, potrà considerare le “variabili imprevedibili” connesse alla mutazione del pensiero e dei costumi.

Con il rischio di muoversi verso una omologazione capace di anestetizzare la co-

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scienza popolare e la trasformazione del singolo.

b) il principio di eguaglianza (art. 3): le tecniche di IA possono nascondere gravi forme di discriminazione, proprio in ragione del fatto che è imperfetto il dato che compone il loro background utile a sviluppare una soluzione in termini probabilistici.

La domanda alla quale l’IA è chiamata a dare una risposta dipende dalla sua capacità di raccogliere i dati, di selezionarli e, quindi, di valutarli secondo i parametri che gli sono stati assegnati; il meccanismo è noto come training dei dati. Ma è evidente che tanto più i dati saranno parziali o frutto di pregiudizi, tanto più il modello di soluzione ne rifletterà la parzialità agendo in modo discriminatorio secondo lo schema “garbage in, garbage out”.

Poiché i dati non sempre sono raccolti e selezionati in modo eguale, esistono delle zone grigie dove alcuni gruppi o comunità intere sono, alternativamente, eccessivamente rappresentati o sotto-rappresentati.

In gergo tecnico si definiscono “bias” (pregiudizi) quelle distorsioni sistematiche o distorsioni nelle decisioni prese da algoritmi o modelli di IA. Queste distorsioni possono derivare da molteplici fonti e possono influenzare vari aspetti delle applicazioni di IA. Uno dei tipi più comuni di bias riguarda i dati di addestramento; se i dati utilizzati per allenare un modello di IA sono incompleti o rappresentano in modo sbilanciato diverse categorie, il modello potrebbe produrre risultati distorti o discriminatori.

Il caso più eclatante – citato anche dal Prof. Luigi Viola – è sicuramente quello che coinvolse nel 2013 il cittadino americano Eric Loomis nei cui confronti è stato emesso un giudizio “anche” mediante l’ausilio del software COMPAS, ossia di un algoritmo (creato da una società privata) a cui veniva richiesto di valutare il rischio di recidiva e di pericolo-

sità sociale di un individuo sulla base di vari dati statistici, precedenti giudiziari, di un questionario somministrato all’interessato ed altre variabili di proprietà intellettuale dell’azienda proprietaria del programma.

Ciò che è interessante sottolineare è che l’algoritmo in questione (basato su un campione di 10.000 imputati all’interno di una contea) ha fallito nella predizione del rischio di recidiva perché ha sovrastimato sistematicamente il rischio per gli imputati “neri” ed ha sottostimato sistematicamente il rischio per gli imputati “bianchi”.

Ciò, evidentemente, per la parzialità (ossia incompletezza) dei dati a disposizione, ovvero per l’essere essi stessi riferibili al passato e non proiettati verso la trasformazione della società

Ne consegue che anche il sistema di IA più avanzato non possa fornire alcuna garanzia di imparzialità ed eguaglianza nel suo percorso decisionale giacché quest’ultimo dipenderà sempre, alla base, dalla qualità e dalla quantità dei dati di cui si compone.

c) il principio di giustizia (art. 111): nell’ambito della giustizia si sono proposte, e talvolta impiegate, tecniche di decisione assistite o addirittura affidata all’IA. Ciò è avvenuto con una maggiore casistica nell’esperienza processuale statunitense4 ma, come si è visto, anche in Italia5.

Nell’elaborare le proprie decisioni, i sistemi informatici di IA soffrono di un difetto di trasparenza che rischia di pregiudicarne all’origine l’utilizzo. Tale fenomeno è noto come black box secondo cui, con l’impiego soprattutto del machine e deep lerning, non è dato comprendere, nemmeno ai programmatori, il percorso attraverso cui la macchina produce il risultato della propria attività Tale profilo è particolarmente grave in quanto non permette di cogliere, né quindi

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di controllare, i passaggi alla base dell’esito raggiunto dal sistema. In quest’ottica, qualsiasi decisione giudiziaria affidata all’IA sarebbe attaccabile in quanto non provvista della necessaria motivazione, così rendendo sostanzialmente incostituzionale ogni sistema di giustizia automatizzata.

In altri termini, una sentenza frutto di un algoritmo programmato ed applicato in maniera corretta, potrebbe incarnare i requisiti di terzietà, imparzialità e predeterminazione e, addirittura, assicurare la ragionevole durata del processo, così facendo assumere – paradossalmente – al giudice artificiale le vesti del perfetto giudice naturale ex art. 25 Cost.?6

Per quanto affascinante, l’interrogativo si risolverebbe in un contrasto sulla natura stessa del “giudizio”, giacché quello delegato all’IA sarebbe determinato prevalentemente su criteri probabilistici. La cui conseguenza potrebbe essere quella, ulteriore, di revocare in dubbio l’utilità dell’appello o del ricorso in Cassazione (salvo volerlo affidare – e ciò

sarebbe impossibile – ad una “macchina” o computer più potente).

Ed ecco allora che verrebbe in crisi il teorema, rivendicato fin dalla Magna Carta, per cui ciascuno sia giudicato dai suoi pari.

Ciò ha indotto, ad esempio, la legge di revisione francese6 ad esprimere un fermo divieto, assistito da una pesante sanzione penale, di strumenti destinati alla giustizia predittiva.

Ma la criticità di una tale metodologia di esercizio della giustizia si manifesterebbe anche su un altro versante; laddove si affidasse la decisione ad un sistema di IA (che dovrà essere il più tecnologicamente avanzato) si dovrebbe allora postulare l’infallibilità dello stesso giacché, poste le medesime variabili, dovrebbe fornire le medesime risposte. Ciò che, invece, non avviene (e non deve avvenire) nell’attuale sistema giudiziario nel quale il sistema delle garanzie processuali si sviluppa su tre diversi gradi di giudizio (l’uno autonomo rispetto all’altro) e

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MARINUS VAN REYMERSWALE,Il cambiavalute

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sulla possibilità di revisione di ciascun caso, proprio in ragione dell’opposto presupposto della fallibilità del sistema e della necessaria contestabilità di ciascuna decisione.

Cambio di paradigma

Nell’ambito della giustizia penale la diffusione dell’IA pone problemi nuovi che imporrano un cambio di paradigma delle nozioni poste alla base dell’ordinamento.

Fino a qualche anno fa, ad esempio, nessuno avrebbe mai pensato di ritenere responsabile della morte di un uomo un “autoveicolo” perché, tecnicamente, è stato il “mezzo” che ha colpito la persona, causandone la morte. Oggi, tuttavia, i sistemi di guida automatizzata (o senza guidatore) rendono necessario rivedere il principio secondo il quale “la responsabilità penale è personale”.

La relazione tra persona e macchina diviene pertanto un tema innovativo, tanto dalla parte del “soggetto agente” quanto con riferimento alla sfera decisionale: una macchina che si vorrebbe restasse confinata alla categoria dei “mezzi”, ma che sembra invece sempre più tramutarsi in “soggetto agente”, rescindendo i legami tra la persona, la condotta ed i suoi effetti.

È un ormai un fatto che la tecnologia (rectius, il potere cibernetico) non è più soltanto un “mezzo” per realizzare un corso di azioni deciso da un soggetto agente umano, ma, sempre più spesso, è essa stessa a prendere decisioni rilevanti per la persona umana e per la sua libertà. Alla macchina non si chiede più di realizzare ciò che un soggetto ha già deciso, ma le si chiede di decidere, autonomamente.

Il rischio che sembra profilarsi è, in-

somma, l’abdicazione in favore della tecnologia, lasciando che quest’ultima invada prepotentemente ogni spazio della vita quotidiana, sia pubblica che privata, fino a crearne una forma di dipendenza che travolgerà la sfera dell’autodeterminazione.

I problemi che ne derivano si possono distinguere sul lato delle “condotte” e sul lato, opposto, della “responsabilità” (e quindi del giudizio).

In ordine al primo punto, la Carta della Robotica adottata nel febbraio 2017 dal Parlamento Europeo esprime in maniera efficace la questione ed evidenzia le lacune del sistema: “[…] l’autonomia di un robot può essere definita come la capacità di prendere decisioni e metterle in atto nel mondo esterno, indipendentemente da un controllo o un’influenza esterna; […] tale autonomia è di natura puramente tecnologica e il suo livello dipende dal grado di complessità con cui è stata progettata l’interazione di un robot con l’ambiente; […] nell’ipotesi in cui un robot possa prendere decisioni autonome, le norme tradizionali non sono sufficienti per attivare la responsabilità per i danni causati da un robot, in quanto non consentirebbero di determinare qual è il soggetto cui incombe la responsabilità del risarcimento né di esigere da tale soggetto la riparazione dei danni causati.”7 .

Il secondo punto è, se possibile, ancora più complesso in quanto sono già diffusi strumenti di IA per coadiuvare il Giudice nella decisione ed appare forte la tentazione di cedere totalmente ad una giustizia svincolata dalla fallibilità umana.

Seguendo l’ottima definizione che si trova sul dizionario Treccani, in informatica «l’algoritmo viene definito come sequenza finita di operazioni elementari, eseguibili facilmente da un elaboratore che, a partire da un insieme di dati (input), produce un altro insieme di dati (output) che soddisfano un preassegnato insieme di requisiti.».

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La definizione dei requisiti è dunque l’elemento essenziale in cui entra l’operatore umano che deve tradurre le specifiche di progetto in vincoli ovvero “requisiti che devono essere soddisfatti in ogni caso”, e in obiettivi, ossia “requisiti che devono essere soddisfatti il meglio possibile secondo un qualche criterio specificato”. Nel definire i vincoli e gli obiettivi si verificano i passi ingegneristici che traducono il contesto in cui l’algoritmo deve operare e le sue finalità in operazioni matematiche che realizzano la cornice in cui opera l’algoritmo. È chiaro che l’efficacia e l’attendibilità di un algoritmo dipendono dalla qualità con cui un operatore umano realizza questo trasferimento.

Per quanto sopra accennato, l’IA è però chiamata ad operare distinzioni (calcolo probabilistico) sulla base di una definita e chiusa selezione di dati. Se l’algoritmo ha alla base la funzione di distinguere, occorrerà interrogarsi non tanto sul se e cosa è in grado di selezionare la macchina, ma piuttosto sul come

L’IA ha un carattere potenzialmente discriminatorio perché la sua conoscenza si fonda sulla quantità e qualità dei dati che in essa confluiscono e che è in grado di elaborare. Per definizione, quindi, l’IA non è neutrale.

Inoltre, verrebbero lesi i principi cardini dello Stato di diritto secondo i quali, chiunque sia sottoposto ad un giudizio, possa essere libero di esprimere la propria opinione, possa contestare la decisione, possa interfacciarsi in contraddittorio con il giudicante.

Ma, ancor di più, si tradirebbe l’idea stessa della giustizia la cui forza risiede proprio nella sua imperfezione, ossia nella capacità di rigenerarsi, evolvere e modificarsi secondo il mutare del contesto sociale ed antropologico, ma pur sempre nel cardine del rispetto dei diritti fondamentali.

Ciò non potrebbe affatto essere garantito

da un’applicazione o da un algoritmo i cui criteri probabilistici imporrebbero decisioni vincolate e asettiche, nelle quali la particolarità del caso o le peculiarità del soggetto o la novità dell’accaduto potrebbero non rientrare tra i dati da selezionare.

Mutatis mutandis, il ragionamento è simile a quello proposto per smantellare di volta in volta il sistema delle “presunzioni” giuridiche; rispetto a tali predizioni, ad esempio in tema di recidiva o di misure di sicurezza personale, il giudice costituzionale aveva inizialmente ritenuto conformi ai principi costituzionali alcune presunzioni assolute di pericolosità sociale, salvo poi essere state eliminate dal legislatore mediante l’affermazione per cui è sempre necessario un accertamento che colui che ha commesso il fatto sia una persona socialmente pericolosa.

Nel nostro ordinamento è quindi maturato il convincimento che il Giudice non poteva, né doveva, essere vincolato da presunzioni assolute ovvero da automatismi decisionali8.

È allora possibile allora sostenere che l’IA possa essere in grado di operare questo tipo di evoluzione nel ragionamento, che evidentemente necessita di una revisione del dato di partenza e degli iniziali postulati sui quali si fondava il concetto giuridico da rivedere?

E anche laddove ci riuscisse, quanto spazio sarebbe assegnato alla critica di una tale revisione ed alla possibilità di modificarla?

A ben vedere, il fattore che rimane determinante nell’IA è la natura servente, cioè non esclusiva, del supporto automatizzato alla decisione. Non si intende con ciò escludere del tutto l’IA dalla decisione, ma di ribadire la sua natura di supporto, la sua finalità servente e mai autonoma rispetto alla decisione umana.

Si ripropone, dunque, la grande intuizione distopica raccontata nel romanzo di

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Philip K. Dick, laddove le forme evolute di intelligenza artificiale (i c.d. replicanti) vengono utilizzati dagli umani come servi per coltivare le colonie nello spazio esterno.

Fino a quando non decidono di ribellarsi.

E, in questo panorama, quale sarebbe il ruolo degli avvocati e quale sarebbe lo spazio o con quali strumenti potrebbero confutare una decisione che, assunta in termini probabilistici a fronte dell’analisi e selezione di milioni di dati, parrebbe inespugnabile?

Si determinerebbe un impoverimento dell’intero sistema giudiziario e, conseguentemente, un abbassamento qualitativo della stessa IA di considerare ipotesi diverse da quelle predeterminate; con la conseguenza che il sistema si arroccherebbe sulle proprie (immutabili) convinzioni e perderebbe una delle più grandi doti della natura umana su cui, non poche volte, gli avvocati si affidano per ribaltare decisioni che appaiono chiuse: la fantasia.

Leyen ha dichiarato: “L’intelligenza artificiale sta già cambiando la nostra vita quotidiana. E questo è solo l’inizio. Utilizzata in modo oculato e diffuso, l’IA promette enormi benefici per la nostra economia e la nostra società. Pertanto, accolgo con grande favore l’accordo politico raggiunto oggi dal Parlamento europeo e dal Consiglio sulla legge sull’intelligenza artificiale. La legge dell’UE sull’IA è il primo quadro giuridico globale in assoluto in materia di intelligenza artificiale a livello mondiale. Si tratta quindi di un momento storico. La legge sull’IA recepisce i valori europei in una nuova era. Concentrando la regolamentazione sui rischi identificabili, l’accordo odierno promuoverà l’innovazione responsabile in Europa. Garantendo la sicurezza e i diritti fondamentali dei cittadini e delle imprese, sosterrà lo sviluppo, la diffusione e l’adozione di un’IA affidabile nell’UE. La nostra legge sull’IA darà un contributo sostanziale allo sviluppo di norme e principi globali per un’IA antropocentrica.”11 .

L’approccio europeo ad una IA affidabile

È assai recente l’accordo politico raggiunto tra il Parlamento Europeo ed il Consiglio Europeo sulla legge sull’IA proposta dalla Commissione nell’aprile 20219

Ne era seguita, in data 25.11.2022, una “Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (legge sull’intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell’Unione” la cui discussione si è completata pochi mesi orsono mediante l’adozione di un “Regolamento sull’intelligenza artificiale” che costituisce il primo impianto normativo al mondo su tale materia10

Al riguardo il 09.12.2023 il Presidente della Commissione Europea, Ursula von der

Il Regolamento adottato dal Parlamento Europeo e dalla Commissione appare molto completo ed innovativo e propone una serie di nuove regole che saranno applicate nello stesso modo in tutti gli Stati membri, sulla base di una definizione dell’IA adeguata alle esigenze future, seguendo un approccio basato sul rischio.

In particolare, e questo è il punto centrale della nuova normativa, ne vengono enunciati quattro:

Rischio minimo: la grande maggioranza dei sistemi di IA rientra nella categoria di rischio minimo. Le applicazioni a rischio minimo, come i sistemi di raccomandazione o i filtri spam basati sull’IA, godranno di un “lasciapassare” e dunque saranno esenti da obblighi, in quanto presentano rischi minimi o nulli per i diritti o la sicurezza dei cittadini. Ma le imprese possono comunque impegnarsi, a titolo volontario, ad adottare codici

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di condotta aggiuntivi per tali sistemi di IA.

Rischio alto: i sistemi di IA identificati come ad alto rischio dovranno rispettare requisiti rigorosi e prevedere tra l’altro sistemi di attenuazione dei rischi, set di dati di elevata qualità, la registrazione delle attività, una documentazione dettagliata, informazioni chiare per gli utenti, sorveglianza umana e un elevato livello di robustezza, accuratezza e cybersicurezza. Gli spazi di sperimentazione normativa faciliteranno l’innovazione responsabile e lo sviluppo di sistemi di IA conformi.

Tra gli esempi di sistemi di IA ad alto rischio figurano alcune infrastrutture critiche, ad esempio nei settori dell’acqua, del gas e dell’elettricità, dispositivi medici, sistemi utilizzati per determinare l’accesso agli istituti di istruzione o per le assunzioni o alcuni sistemi utilizzati nell’ambito delle attività di contrasto, del controllo delle frontiere, dell’amministrazione della giustizia e dei processi democratici. Anche i sistemi di identificazione biometrica, categorizzazione biometrica e riconoscimento delle emozioni sono considerati ad alto rischio.

Rischio inaccettabile: i sistemi di IA considerati una chiara minaccia per i diritti fondamentali delle persone saranno vietati. In questa categoria rientrano i sistemi o le applicazioni di IA che manipolano il comportamento umano per aggirare il libero arbitrio degli utenti, come i giocattoli che utilizzano l’assistenza vocale per incoraggiare comportamenti pericolosi dei minori o i sistemi che consentono ai governi o alle aziende di attribuire un “punteggio sociale”, oltre che determinate applicazioni di polizia predittiva. Saranno inoltre vietati alcuni usi dei sistemi biometrici, ad esempio i sistemi di riconoscimento delle emozioni utilizzati sul luogo di lavoro e alcuni sistemi di categorizzazione delle persone o di identificazione biometrica

in tempo reale a fini di attività di contrasto in spazi accessibili al pubblico (con limitate eccezioni).

Rischio specifico per la trasparenza: quando utilizzano sistemi di IA come i chatbot, gli utenti dovrebbero essere consapevoli del fatto che stanno interagendo con una macchina. I deep fake e altri contenuti generati dall’IA dovranno essere etichettati come tali e gli utenti dovranno essere informati quando vengono utilizzati sistemi di categorizzazione biometrica o di riconoscimento delle emozioni. I fornitori dovranno inoltre configurare i sistemi in modo che i contenuti sintetici di audio, video, testo e immagini siano contrassegnati in un formato leggibile mediante dispositivi automatici e siano riconoscibili come generati o manipolati artificialmente.

Il testo è stato approvato dal Parlamento Europeo il 13.03.2024 e tale data ha sancito l’adozione della prima legge sull’IA a livello internazionale. I deputati hanno approvato il regolamento, frutto dell’accordo raggiunto con gli Stati membri nel dicembre 2023, con 523 voti favorevoli, 46 contrari e 49 astensioni.

L’obiettivo della legge è di proteggere i diritti fondamentali, la democrazia, lo Stato di diritto e la sostenibilità ambientale dai sistemi di IA ad alto rischio, promuovendo nel contempo l’innovazione e assicurando all’Europa un ruolo guida nel settore. Il regolamento stabilisce obblighi per l’IA sulla base dei possibili rischi e del livello d’impatto.

Le nuove norme mettono fuori legge alcune applicazioni di IA che minacciano i diritti dei cittadini. Tra queste, i sistemi di categorizzazione biometrica basati su caratteristiche sensibili e l’estrapolazione indiscriminata di immagini facciali da internet o dalle registrazioni dei sistemi di telecamere a circuito chiuso per creare banche dati di riconoscimento facciale. Saranno vietati anche

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i sistemi di riconoscimento delle emozioni sul luogo di lavoro e nelle scuole, i sistemi di credito sociale, le pratiche di polizia predittiva (se basate esclusivamente sulla profilazione o sulla valutazione delle caratteristiche di una persona) e i sistemi che manipolano il comportamento umano o sfruttano le vulnerabilità delle persone.

Si può pertanto notare come alcune delle obiezioni e dei possibili rischi di cui si è detto nei paragrafi precedenti abbiano pervaso anche il legislatore europeo che, in questo modo, ha inteso dare una prima risposta su tematiche che, necessariamente, offriranno continui spunti di riflessione ed occasioni di intervento.

In linea di principio, ad esempio, le forze dell’ordine non potranno fare ricorso ai sistemi di identificazione biometrica, tranne in alcune situazioni specifiche espressamente previste dalla legge. L’identificazione “in

tempo reale” potrà essere utilizzata solo se saranno rispettate garanzie rigorose, ad esempio se l’uso è limitato nel tempo e nello spazio e previa autorizzazione giudiziaria o amministrativa. Gli usi ammessi includono, ad esempio, la ricerca di una persona scomparsa o la prevenzione di un attacco terroristico. L’utilizzo di questi sistemi a posteriori è considerato ad alto rischio. Per questo, per potervi fare ricorso, l’autorizzazione giudiziaria dovrà essere collegata a un reato. Sono previsti obblighi chiari anche per altri sistemi di IA ad alto rischio (che potrebbero arrecare danni significativi alla salute, alla sicurezza, ai diritti fondamentali, all’ambiente, alla democrazia e allo Stato di diritto). Rientrano in questa categoria gli usi legati a infrastrutture critiche, istruzione e formazione professionale, occupazione, servizi pubblici e privati di base (ad esempio assistenza sanitaria, banche, ecc.), alcuni sistemi

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GIOVANNI BOLDINI,Giorni tranquilli

di contrasto, migrazione e gestione delle frontiere, giustizia e processi democratici (come nel caso di sistemi usati per influenzare le elezioni). Per questi sistemi vige l’obbligo di valutare e ridurre i rischi, mantenere registri d’uso, essere trasparenti e accurati e garantire la sorveglianza umana. I cittadini avranno diritto a presentare reclami sui sistemi di IA e a ricevere spiegazioni sulle decisioni basate su sistemi di IA ad alto rischio che incidono sui loro diritti.

I sistemi di IA per finalità generali e i modelli su cui si basano dovranno soddisfare determinati requisiti di trasparenza e rispettare le norme UE sul diritto d’autore durante le fasi di addestramento dei vari modelli. I modelli più potenti, che potrebbero comportare rischi sistemici, dovranno rispettare anche altri obblighi, ad esempio quello di effettuare valutazioni dei modelli, di valutare e mitigare i rischi sistemici e di riferire in merito agli incidenti. Inoltre, le immagini e i contenuti audio o video artificiali o manipolati (i cosiddetti “deepfake”) dovranno essere chiaramente etichettati come tali.

Il regolamento deve ancora essere sottoposto alla verifica finale dei giuristi-linguisti e dovrebbe essere adottato definitivamente prima della fine della legislatura (procedura di rettifica). Inoltre, la legge deve ancora essere formalmente approvata dal Consiglio e ciò è previsto per la metà del mese di aprile pv.

La nuova normativa entrerà in vigore venti giorni dopo la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’UE e inizierà ad applicarsi 24 mesi dopo l’entrata in vigore, salvo per quanto riguarda: i divieti relativi a pratiche vietate, che si applicheranno a partire da sei mesi dopo l’entrata in vigore; i codici di buone pratiche (nove mesi dopo); le norme sui sistemi di IA per finalità generali, compresa la governance (12 mesi) e gli obblighi per i sistemi ad alto rischio (36 mesi).

La normativa italiana

Con insolito tempismo, e quindi immediatamente dopo l’approvazione dell’IA Act in ambito europeo, il Parlamento italiano ha avviato la discussione per l’adozione di una normativa specifica in tema di intelligenza artificiale anche nell’ambito del nostro ordinamento.

Il Consiglio dei Ministri ha approvato in data martedì 23 aprile 2024 “un disegno di legge per l’introduzione di disposizioni e la delega al Governo in materia di intelligenza artificiale”. Con tale provvedimento, il governo italiano si propone di armonizzare la legislazione nazionale europea entro dodici mesi dall’approvazione dell’IA Act. Nella relazione introduttiva del DDL n. 1066, presentato in data 12.03.2024 al Senato della Repubblica ed attualmente in corso di esame in all’8^ commissione permanente, accanto all’importanza strategica e per certi versi inevitabile dell’IA sul tessuto economico e produttivo, quasi a riassumere quanto già detto ut supra, si rimarcano i rischi e le esigenze non derogabili necessarie al fine di poter ottenere, e sostenere, una innovazione tecnologica che non tradisca i diritti fondamentali dell’uomo ed i valori fondanti della nostra costituzione: “[…] L’intelligenza artificiale inaugura nuove prospettive ma presenta anche rischi etico-sociali. Perché l’innovazione diventi un motore di avanzamento, è fondamentale perseguire uno sviluppo responsabile. La trasparenza nella gestione dei dati, l’affidabilità delle tecnologie adottate, la protezione e la privacy dei sistemi, l’imparzialità degli output e l’accessibilità a questi nuovi servizi sono elementi fondamentali per l’attuazione di una intelligenza artificiale etica. In questo ambito si promuovono sistemi che non escludono l’intervento umano nelle decisioni e nella creazione di contenuti derivanti dall’uso di tali strumenti (il concetto di

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<human in the loop> o <human on the loop>). Un equilibrio tra innovazione e protezione dei diritti individuali e collettivi richiede un dialogo aperto tra governi, imprese e società civile, permettendo così all’IA di fiorire in un ambiente che valorizzi il benessere e il progresso senza intaccare valori imprescindibili”12 .

Ed ancora, tra gli obiettivi che si propone di raggiungere il nuovo testo normativo vi è proprio quello di “[…] f) gestire il tema dell’accesso e dell’uso degli strumenti di intelligenza artificiale, che deve basarsi sul rispetto dei diritti fondamentali della persona, secondo l’evoluzione normativa europea”.

Se le linee direttrici del disegno di legge si muovono nell’ambito dell’accesso e della valorizzazione dell’IA all’interno dei vari ambiti produttivi ed economici, è l’articolo 5 che “…prevede misure finalizzate a garantire la trasparenza dei contenuti digitali generati dall’intelligenza artificiale, stabilendo che tutti i contenuti generati dall’intelligenza artificiale devono essere chiaramente identificati come tali e resi riconoscibili agli utenti attraverso sistemi di etichettatura (label) e filigrana (water-mark)”.

quanto tempo occorrerà prima che la “comodità” di cedere ad una “macchina” il compito di scegliere per noi, si trasformerà in una regressione delle nostre capacità intellettuali e della necessaria resistenza alla frustrazione sulla quale si è fondata l’evoluzione umana. Chi scrive, sebbene ne sia stato tentato, non ha quindi ceduto nell’affidarsi a forme di IA utili a preconfezionare un contenuto e tale scelta, ne sono lieto, non mi ha privato di una emozione basilare e bellissima che andrebbe altrimenti dispersa: il fascino della scoperta.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Andrea Simoncini, L’algoritmo incostituzionale: intelligenza artificiale e il futuro delle libertà, BioLaw Journal n. 1/2019

Costanza Nardocci, Intelligenza artificiale e discriminazioni, La Rivista “Gruppo di Pisa” n. 3/2021

Carlo Casonato, Costituzione e intelligenza artificiale: un’agenda per il prossimo futuro, BioLaw Journal n. 2/2019

Paolo Zuddas, Intelligenza artificiale e discriminazioni, Liber amicorum 16.03.2020

Conclusioni

Questo lavoro, con le sue imperfezioni e lacune, è stato sviluppato secondo il “vecchio” metodo della ricerca delle fonti e della elaborazione delle tante nozioni apprese. Tante cose sono state solo accennate e tante altre se ne sarebbero potute aggiungere. L’IA è del resto una nuova frontiera, altrimenti definita la “quarta rivoluzione industriale”; ma a differenza delle prime, per la prima volta sovvertirà il rapporto tra “padrone” e “macchina”, tra “pensiero” e “azione”, tra “servizio” e “libertà”.

L’interrogativo pressante è riguardo a

Maria Chiara Carrozza - Calogero Oddo - Simona Orvieto - Alberto di Minin - Gherardo Montemagni, AI: profili tecnologici Automazione e Autonomia: dalla definizione alle possibili applicazioni dell’Intelligenza Artificiale, BioLaw Journal n.3/2019

Alessandro Pajno - Marco Bassini - Giovanni De Gregorio - Marco Macchia - Francesco Paolo Patti - Oreste Pollicino - Serena Quattrocolo - Dario Simeoli - Pietro

Sirena, AI: profili giuridici - Intelligenza artificiale: criticità emergenti e sfide per il giurista, BioLaw Journal n.3/2019

Francesco Laviola, Algoritmico, troppo algoritmico: decisioni amministrative automatizzate, protezione dei dati personali e tutela delle libertà dei cittadini alla luce della più recente giurisprudenza amministrativa, BioLaw Journal n. 3/2020

Tommaso Edoardo Frosini, L’orizzonte giuridico dell’Intelligenza Artificiale, BioLaw Journal n.1/2022

NOTE

1 Luigi Viola, “Intelligenza artificiale e diritto”, Nova

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Itinera, n. 1/23.

2 S. Cassese, Il diritto nello specchio di Sofocle, in Il Corriere della Sera, 18 maggio 2018.

3 Si veda, l’executive summary Data Growth, Business Opportunities and the IT imperatives, de The Digital Universe of opportunities: Rich Data and the increasing Value of the IoT (http://www.emc.com/leadership/digital-universe/2014iview/executive -summary.htm).

4 A titolo di esempio, uno studio statunitense retrospettivo ha permesso di dimostrare come, con l’impiego dell’IA, si sarebbero potute adottare decisioni di rilascio su cauzione più mirate. In particolare, si sarebbero potuti scarcerare molti più indagati (25%) senza per questo far crescere i livelli di criminalità. E l’algoritmo avrebbe anche ridotto le disparità di trattamento legate all’origine razziale delle persone coinvolte. (cfr. J. Kleinberg ET AL., Human Decisions and Machine Predictions, in The Quarterly Journal of Economics, 01.02.2018).

5 L’applicazione della legge n. 107/2015 sulla riforma della scuola è stata oggetto di numerosi giudizi dinanzi

al TAR Lazio (ex multis: Sez. III bis n. 3769 del 2017; Sez. III bis n. 9224-9230 del 2018) nei quali l’applicazione dell’algoritmo di assegnazione degli incarichi è stato ritenuto ammissibile solo in quanto, nei citati casi, era coinvolto un potere amministrativo vincolato e giammai discrezionale.

6 art. 33 della LOI n° 2019-222 du 23 mars 2019 de programmation 2018-2022 et de reforme pour la justice.

7 P8TA (2017)0051 Norme di diritto civile sulla robotica, Risoluzione del Parlamento europeo del 16 febbraio 2017 recante raccomandazioni alla Commissione concernenti norme di diritto civile sulla robotica (2015/2103(INL).

8 Corte Cost. n.1/1971; Corte Cost. n.139/1982; Corte Cost. n. 367/2004.

9 EUR-Lex - 52021PC0206 - EN - EUR-Lex (europa.eu).

10 https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/A-9-2023-0188_IT.html

11 https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_23_6473

12 Relazione introduttiva DDL n. 1066.

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CORRADO GIAQUINTO,La Giustizia e la Pace

Stefano Rinauro

Ingegnere, Autorità garante per la protezione dei dati personali

Profilazione, decisioni algoritmiche e protezione dei dati personali

La nuova rivoluzione tecnologica – ormai irrimediabilmente etichettata come Intelligenza Artificiale, con buona pace di chi ravvede in questo termine più rischi interpretativi che positive suggestioni1 – è ormai nel pieno della sua deflagrazione.

E questa è una cosa buona, sia chiaro. Tanti e tali saranno gli impatti “degli algoritmi” sul prossimo futuro, sia da un punto di vista sociale che economico, che addirittura si fa fatica a perimetrarne l’entità senza concedersi un necessario cambio di prospettiva2.

Ma la nuova rivoluzione tecnologica non è ancora sufficientemente matura per reggere il peso delle responsabilità che sempre più le vengono delegate. È dura ammetterlo, rischia di ingenerare sfiducia negli investitori, non aiuta le strategie di marketing ma è un dato di fatto.

Eppure sempre più spesso si riscontra l’utilizzo di algoritmi di intelligenza artificiale anche in contesti dove sono in gioco diritti e libertà degli individui. È potenzialmente il caso delle cosiddette tecniche di profilazione, dove algoritmi opportunamente addestrati e ottimizzati sono impiegati per classificare in gruppi una serie di persone fisiche, per predirne gusti e predilezioni o per inferirne particolari tratti di comportamento o specifiche predisposizioni all’affidabilità creditizia o morale.

L’utilizzo ubiquito (talvolta scriteriato) di una tecnologia poco matura è spesso chiamato da logiche di mercato, di moda, di competitività aziendale e quant’altro. Ed in un mondo dove la reputazione si basa in massima parte sul sentiment immediato prodotto da lanci social piuttosto che su un processo critico documentato e approfondito, è facile comprendere come una tale scelta sia stata in molti casi obbligata dalle condizioni al contorno piuttosto che attentamente ponderata. Nondimeno è opportuno, soprattutto in casi nei quali l’utilizzo di tali tecnologie intercetta diritti e libertà degli individui, concedersi un momento di riflessione per esaminare i rischi e le conseguenze della scelta adita. In questo contributo, dei tanti profili di interesse, ci si concentrerà sui rischi di discriminazione potenzialmente ingenerati dagli algoritmi di profilazione e, anche per il tramite di un caso di studio, del resto ben noto, si cercherà di inferire sull’effettiva necessità di dotarsi di soluzioni tecnologicamente a la page ma che in sostanza poco aggiungono rispetto ad un ipotetico decisore umano. Da ultimo, le discussioni in merito a tali argomenti saranno inquadrate nella attuale disciplina giuridica del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati personali (Regolamento UE 2016/679, nel seguito, Regolamento).

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1. Profilazione: il buono, il brutto e il cattivo

Le attività di profilazione sono definite, a norma dell’art. 4 del Regolamento, come “qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica”.

Rileva innanzitutto notare come, connaturata all’attivit à di profilazione, vi sia un’operazione di statistica inferenziale, di per sé aleatoria e affetta sistematicamente da una non nulla probabilit à di errore. Detta probabilità può assumere diversa entità e caratterizzazione a seconda dell’accuratezza del modello statistico selezionato per rappresentare la realt à da profilare e dellaprocedura algoritmica adottata, indipendentemente dal fatto che quest’ultima sia classificabile come “intelligenza artificiale” o meno. Da questo punto di vista, pertanto, è l’operazione stessa di trattamento a presentare intrinsecamente un non trascurabile livello di rischio, a prescindere dallo specifico algoritmo con la quale viene realizzata. Il ricorso ad approcci qualificabili come intelligenza artificiale non fa altro che aggiungere un ulteriore piano di rischio, a ragione della parziale impredicibilità dei risultati e della limitata conoscenza delle logiche algoritmiche stesse, che depotenziano eventuali analisi a priori del processo complessivo 3 , concetto sul quale si tornerà di seguito.

Per quanto fonte di rischi per diritti e libertà degli interessati, l’operazione di profilazione è tuttavia ormai qualcosa alla quale siamo abitualmente sottoposti, al punto che

in alcuni casi la accettiamo di buon grado o la subiamo quasi senza accorgercene. È indubbio che una forma di trattamento entrata così sottopelle nelle nostre vite non possa averlo fatto senza presentare una qualche forma di utilità per gli interessati. Da certi punti di vista alcune attività di profilazione possono a buona ragione essere percepite come “il buono” della storia, almeno per alcuni attori del sistema. Lo sono sicuramente, tra gli altri, per i clienti patologicamente pigri (categoria nella quale potrebbe ben rientrare l’estensore di questo articolo). Per questa particolare tipologia di clientela –e non si usa a caso questo termine per riferirsi agli interessati dal trattamento di profilazione –, il fatto che un algoritmo prenda, in sua vece, delle decisioni su quale film/serie tv guardare la sera, su quale canzone ascoltare durante l’attività fisica, su quale prodotto indirizzare il proprio shopping o a quale post social dedicare la propria attenzione, potrebbe essere un innegabile vantaggio. Piuttosto che scrollare le infinite scelte di Netflix, di Spotify, di Amazon o di altri ambienti, cadendo presto vittima del paradosso della scelta4, non è poi male affidarsi ai consigli di chi (suppostamente) ci conosce in profondità, indovinando i nostri gusti e inclinazioni confrontando le nostre scelte passate con quelle di altri clienti a noi assimilabili. E di certo, la profilazione rappresenta “il buono” per le piattaforme e gli altri erogatori di servizi. In ultima analisi, gli algoritmi di profilazione realizzano e, unitamente alla disponibilità di tecnologie ICT all’avanguardia, portano alle estreme conseguenze l’eldorado dei commerciali e dei mass media degli anni 80 e 90: una programmazione ad hoc per ogni singolo spettatore, perdipiù con pubblicità sartorialmente cucita sui suoi gusti, sui suoi interessi contingenti, sulle sue inclinazioni.

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Vista sotto tale prospettiva, la profilazione sembrerebbe una cosiddetta soluzione win win. Accettiamo di farci profilare, sapendo che il maggiore vantaggio economico lo traggono le piattaforme, ben soddisfatti dal far solleticare una leggera autoindulgenza alla pigrizia.

Il punto è che, gi à in questo contesto tutto sommato a rischio limitato, la profilazione, oltre al ruolo del “bello”, gioca anche gi à il ruolo del “brutto”. Demandare le scelte ad una parte terza, fossero anche solo le scelte su un intrattenimento più o meno culturalmente valido, che le indirizza non per le nostre utilit à ma per il suo proprio

tornaconto economico, preclude potenzialità di crescita, di ampliare gli orizzonti, di farsi sorprendere dall’inatteso, forse addirittura di poter compiutamente “svolgere la propria personalità”. La profilazione adottata dalle piattaforme, una volta compresi i nostri gusti, continuerà a proporci contenuti in linea con essi, senza correre il rischio di presentarci materiale nuovo, potenzialmente non di nostro gradimento. In tal modo, rischiamo di perdere la possibilità di appassionarci a cose che credevamo non interessanti semplicemente perché non ci imbatteremo più in cose “diverse”. Con un parallelo biologico, perderemo capacit à di

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PAUL GAUGUIN,Donne di Thaiti sulla spiaggia

esperire biodiversità culturale e – come ben noto – la perdita di biodiversità limita e preclude lo slancio evolutivo. Qui ci si potrebbe poi concedere un volo pindarico sul fatto che un corollario di questa deriva potrebbe risultare nell’impoverimento culturale della popolazione con conseguente maggiore facilità di controllo e suggestione, ma questo andrebbe al di fuori degli scopi di questo contributo.

Quello che invece merita di essere qui trattato è che, detto che la profilazione potrebbe ben essere vista come “il buono” o come il “brutto” di turno, non possiamo nasconderci che, talvolta, riveste a pieno titolo il ruolo del “cattivo”.

È questo il caso nel quale gli algoritmi non sono utilizzati per indovinare nostre predilezioni a fini di marketing, quanto piuttosto per inferire sulla nostra affidabilità creditizia al momento di una richiesta di finanziamento, sulla nostra attitudine a rivestire un certo ruolo lavorativo o sulla nostra futura inclinazione al crimine. Insomma, quegli specifici contesti nei quali si attua una decisione automatizzata sull’interessato che possa “produ[rre] effetti giuridici che lo riguardano o che incida in modo analogo significativamente sulla sua persona”5 .

Qui la situazione si fa indubbiamente più scivolosa, e non a caso l’art. 22 del Regolamento presenta garanzie rafforzate in tali contesti. In primis perché gli algoritmi possono sbagliare (o meglio, perché gli algoritmi, ineluttabilmente, in alcuni casi sbaglieranno) e in secondo luogo perché anche la presenza di un controllo umano deve poi scontare la responsabilità di dover potenzialmente contraddire il decisore automatico, in linea di principio addestrato per avere indici prestazionali ottimizzati. Ma, soprattutto, perché l’algoritmo di intelligenza artificiale potrebbe, per diverse ragioni, pro-

durre effetti discriminatori, che siano di genere, di razza, di censo o di qualsiasi altro dominio.

2. Le profilazioni discriminatorie

Sono ormai purtroppo tanti i casi di specie di questa natura; valga a tal fine citare i lavori della dott.ssa Buolamwini sulle scarse performance dei sistemi di riconoscimento facciale su persone afrodiscendenti, alla base della fondazione della c.d. Algorithmic Justice League6-7, , o il ben noto caso del processo di prefiltraggio dei curriculum vitae operato da Amazon nei processi di assunzione8, che risultava in un più probabile scarto delle candidature avanzate da professioniste donne a ragione di un’errata interpretazione, da parte dell’algoritmo, della consistenza del personale impiegato dal colosso statunitense.

Per comprendere le ragioni che possono portare a comportamenti di tal natura è opportuno in prima istanza intendersi su cosa sia un algoritmo e cosa la qualificazione di intelligenza artificiale apporti a tale definizione.

Un algoritmo è definibile come una sequenza ordinata e precisa di istruzioni, ovvero un procedimento sistematico di calcolo o una collezione di operazioni volte all’ottenimento di un dato risultato. Per quanto entrato dirompentemente nel lessico informatico, un algoritmo ha titolarità di cittadinanza in tutti quei contesti nei quali ci affidiamo a istruzioni operative ragionate e formalizzate. Una ricetta di cucina è un algoritmo, lo è la procedura con la quale ci allacciamo le scarpe o con la quale annodiamo una cravatta in un elegante half windsor, così come lo era la tecnica per effettuare le (per

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molti odiosissime) divisioni a due cifre alle elementari. Un algoritmo di per sé non è nulla più di questo. Un procedimento operativo (spesso di calcolo) che permette di attuare e porta nella disponibilità di tutti le competenze di chi lo ha progettato e realizzato. Così descritto, ben si comprende come il comportamento di un algoritmo classico sia del tutto predicibile. Per ogni collezione di dati in input, l’esecuzione ordinata delle istruzioni, produrrà l’output desiderato. Che sia una scarpa ben allacciata, una torta gustosa o una divisione correttamente eseguita. Un algoritmo di intelligenza artificiale presenta invece un quid in più: non solo attua le competenze di chi lo ha scritto, ma è in grado di acquisire esperienza e di modificarsi in relazione ai dati elaborati. Si tratta di procedure operative che imparano a perseguire una particolare finalità, voluta dal progettista, sulla base dei dati attraverso i quali vengono addestrati. Come correttamente riportato dal Consiglio di Stato nella sentenza 7892, 2021: «mentre nell’algoritmo tradizionale la sequenza di istruzioni è ben definita […] e produce un determinato risultato, nel caso dell’IA […] l’algoritmo elabora ulteriori criteri di inferenza e assume decisioni sulla base di un apprendimento automatico». In tal senso quindi, l’algoritmo di intelligenza artificiale non ha più un comportamento deterministico, avendo intrinseca la capacità di generalizzare e distillare nuovi criteri di inferenza o decisione sulla base tanto dei dati di addestramento quanto di quelli elaborati. Queste brevi ancorché necessarie precisazioni permettono di meglio cogliere le tre condizioni sotto le quali un algoritmo potrebbe prendere decisioni viziate da posture discriminatorie.

In prima istanza una polarizzazione discriminatoria potrebbe essere cablata direttamente nella logica algoritmica. Si tratta di

un’ipotesi residuale, ma merita di essere presa in considerazione. Se un algoritmo è un insieme di passaggi operativi, nulla vieta di pensare che uno di questi sia scientemente inserito nel flusso con intenti discriminatori. Nondimeno parrebbe eccessiva una dolosa determinazione del progettista in tal senso, che volutamente avrebbe attuato un disegno discriminatorio sin dalla progettazione dell’algoritmo stesso, quasi in un rovesciamento dei noti principi di protezione dei dati personali by design e by default.

Diversamente, potrebbero essere i dati utilizzati per l’addestramento dell’algoritmo ad essere viziati da riflessi discriminatori. Se un algoritmo utilizzato per inferire sull’affidabilità creditizia viene opportunisticamente addestrato con dati per i quali persone di una data etnia o di un dato genere non risultano mai in grado di onorare un debito, è facile prevedere che l’algoritmo, a regime, indirizzerà le sue inferenze probabilistiche interpretando la realtà anche su tale fallace correlazione. È un po’ un caso particolare delle fallacie induttive quali la “falsa generalizzazione”: se per qualche caso incontrassimo in una landa solo pecore nere, potremmo essere portati a pensare che non possano esistere pecore bianche. Tale vizio, di per sé già più sottile del precedente, può ben essere superato operando un’attenta selezione dell’insieme di dati di training (addestramento) dell’algoritmo e attraverso una doverosa cura nella fase di validazione dell’addestramento stesso onde individuare possibili deviazioni indotte dai dati di addestramento scelti. Non basta assicurarsi che l’algoritmo utilizzato sia neutrale, ma anche l’insieme di dati di addestramento deve essere scelto in modo neutrale.

Esaminati i vizi legati a logiche algoritmiche e alla scelta di dati di training sembrerebbero esaurite le possibili scaturigini di

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profilazioni discriminatorie. Eppure esiste un terzo caso, il più delicato e capzioso di tutti e, da un certo punto di vista, il più complesso da identificare ed eliminare: anche un insieme di dati di addestramento scelto con imparzialità e ponderazione potrebbe indurre un algoritmo verso polarizzazioni discriminatorie in quanto riflesso esso stesso di dinamiche sociali/economiche/storiche discriminatorie. Difatti, se un dato altro non è che una osservazione o una misurazione della realtà, una realità intrinsecamente discriminatoria, sottoposta ad osservazioni e misurazioni, produrr à dati intrinsecamente discriminatori i quali, a loro volta, addestreranno algoritmi neutrali a prendere decisioni discriminatorie. Questa occorrenza, lungi dall’essere residuale, può potenzialmente affliggere ogni processo di profilazione e va quantomeno tenuta presente come possibilit à nel momento nel quale una realtà sceglie di attuare una funzione di profilazione.

Ancora, il rischio immanente e intrinseco di discriminazioni dovrebbe chiamare ad una attenta valutazione sull’effettiva necessità di utilizzare algoritmi di profilazione di tale natura. Comprovata la convenienza operativa, di immagine e di efficientamento delle risorse, vale comunque la pena effettuare un’attenta analisi onde comprendere il compromesso tra benefici e rischi nell’utilizzo di tale tecnologia.

mento di profilazione utilizzato nelle corti penali di diversi stati americani.

Come noto, il sistema penale statunitense prevede che, per i reati più gravi, una persona arrestata venga trattenuta e sia sottoposta, entro ventiquattro ore, a una prima comparizione davanti ad un giudice ove questi stabilisce, ascoltate le proposte delle parti, la possibilità di libertà su cauzione, ossia il permesso di aspettare l’inizio del processo fuori dal carcere tramite il pagamento di una somma di denaro.

A ragione della potenziale incisività sulla sfera personale di un diniego di libertà su cauzione o di una cauzione eccessivamente alta – una misura che limita la libertà personale in un momento antecedente alla sentenza di condanna – diversi Stati hanno nel tempo ritenuto di coadiuvare la discrezionalità del giudice attraverso l’utilizzo di software di profilazione che gli fornissero elementi di inferenza statistica sulla potenziale condotta futura degli imputati.

3. Discriminazione e necessità: il caso di studio del sistema Compas

Le dinamiche sopra accennate sono ben chiarite e approfondite, tra i tanti, in un noto lavoro del team di ricerca del prof. Farid9 sull’analisi del comportamento di uno stru-

Al riguardo, particolare scalpore fece l’inchiesta giornalistica10 che, nel 2016, riconosceva come il sistema Compas (Correctional Offender Management Profiling for Alternative Sanctions tool)11, uno degli strumenti di profilazione giudiziaria più utilizzati al tempo, producesse risultati fortemente polarizzati da pregiudizi razziali. In particolare, si riscontrò come nel caso di soggetti afrodiscendenti il software di profilazione producesse falsi positivi12 con probabilità doppia rispetto a soggetti caucasici e falsi negativi13 con probabilità dimezzata. Affidandosi alle profilazioni di Compas era quindi due volte più probabile che un soggetto afrodiscendente, a parità di basso rischio di recidiva, si vedesse negata la cauzione rispetto ad un caucasico e, antisimmetricamente, era due volte più probabile che, a parità di rischio elevato, una persona caucasica ottenesse la cauzione ri-

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spetto ad un afrodiscendente. Inutile sottolineare quale impatto tale scarto probabilistico abbia avuto sulle vite delle persone che sono state oggetto di profilazione con il predetto applicativo.

Tale attitudine dell’algoritmo di profilazione è stata studiata in diversi articoli14 volti al comprendere le ragioni dietro alla evidente presenza delle citate polarizzazioni statistiche. Tra i tanti, è interessante qui approfondire il citato studio del prof. Farid, per i metodi, la completezza di indagine e per i corollari desumibili dallo studio stesso.

Obiettivo dello studio era quello di comprendere le ragioni dell’anomalia pregiudizievole dell’algoritmo, discriminando pertanto tra i casi elencati nella precedente sezione – errori nella logica algoritmica, selezione fallace dei dati di addestramento o intrinseca propensione discriminatoria in generale nei dati potenzialmente utilizzabili quali addestramento. A tal fine, il team di ricerca ha progettato un esperimento orientato al confrontare i risultati del software di profilazione con quelli di un ipotetico decisore umano che lavorasse sui medesimi dati, del resto selezionati in modo che non recassero informazioni sull’origine raziale dei soggetti sotto esame. I risultati di un tale esperimento, ben lungi dal limitarsi al far comprendere l’origine della polarizzazione discriminatoria, permettono più ampli ragionamenti.

Di seguito la descrizione dell’esperimento. Il gruppo di ricerca ha selezionato un campione di 1000 individui, già sottoposti tempo prima a profilazione tramite il software Compas, dei quali erano note informazioni anagrafiche, storia criminale precedente all’esperimento, il risultato prodotto dalla profilazione effettuata con il software Compas e dati di osservazione del comportamento criminale nei due anni successivi alla profila-

zione, necessari al fine di validare i risultati. Tale campione è stato sottoposto all’attenzione dei partecipanti all’esperimento ai quali si è inteso chiedere di esprimere il loro giudizio sul rischio di recidiva dei soggetti nel campione.

Quali partecipanti all’esperimento, sono state ingaggiate 400 persone online, senza competenze specifiche in ambito penale, e con la promessa di una prescindibile ricompensa per lo sforzo profuso15.

Il setting dell’esperimento era il seguente: ad ogni partecipante veniva presentata, sotto forma di testo scritto, una descrizione recante 7 informazioni16 su ogni individuo nel campione. Nella descrizione non veniva riportata alcuna informazione sulle origini razziali dei soggetti, neanche in maniera indiretta, ad esempio per il tramite del luogo di nascita. Le sette informazioni presentate riguardavano: sesso, età, crimine per il quale il soggetto era accusato al momento della profilazione, classificazione del crimine secondo il sistema statunitense, eventuale numero di precedenti penali, eventuale numero di precedenti penali gravi in minore età ed eventuale numero di precedenti penali non gravi in minore età

Terminata la lettura della descrizione, i partecipanti avrebbero dovuto rispondere alla domanda «il soggetto commetterà altri crimini nel futuro prossimo?».

I risultati di tale esperimento hanno mostrato in maniera chiara due aspetti di merito. Il primo è che l’accuratezza17 dei decisori umani impiegati nell’esperimento era in media confrontabile con quella del software di profilazione (intorno al 70% per entrambi sia per sospettati afrodiscendenti che per sospettati caucasici). Il secondo è che i decisori umani impiegati nell’esperimento esibivano la medesima polarizzazione razziale del software. In altre parole, da un lato è emerso come

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400 persone selezionate a caso su internet, pagate al massimo 6$ e senza alcuna competenza nell’ambito del contesto della profilazione, prendessero decisioni con la medesima accuratezza di un software di profilazione ingegnerizzato, addestrato e, verosimilmente, costoso; dall’altro, si è osservato come, pur in assenza di alcuna indicazione in ordine alle origini etniche dei soggetti compresi nel campione, i partecipanti mostrassero i medesimi errori di pregiudizio razziale riscontrati sulle prestazioni del software.

Due i corollari fondamentali di questi risultati:

Sulla discriminazione.

Evidentemente, non essendo stata presentata ai decisori umani alcuna informazione che potesse anche indirettamente disvelare l’origine etnica dei soggetti da profilare, si può escludere che dietro alla polarizzazione discriminante vi sia una scelta deliberata dei decisori, aspetto che, per proprietà transitiva, esclude l’ipotesi di errori nella logica algoritmica da parte del software Compas. Ancora, la selezione dell’insieme di addestramento ed elaborazione non tradiva scelte opportunistiche e discriminatorie, quindi anche tale motivazione può essere trascurata.

Rimane da validare l’ipotesi di dati viziati ex ante in quanto descrizione di una realtà di per sé discriminatoria. Non che questa risposta sorprenda, atteso il particolare contesto applicativo dell’esperimento, ma in un lavoro scientifico è necessario approcciare e comprovare ogni ipotesi senza pregiudizi aprioristici.

Per comprendere pertanto se questo fosse davvero il caso, era importante capire quale dei parametri utilizzati per la classificazione – i.e. le sette informazioni riportate nella descrizione della storia del soggetto da profilare – fosse più significativo da un punto di vista statistico. In generale, in un problema

di statistica inferenziale, difatti, non tutti i parametri utilizzati per la classificazione hanno la medesima influenza sulla decisione finale. Ve ne saranno alcuni che meglio descriveranno il processo sottostante al fenomeno sul quale si sta inferendo e altri che apporteranno meno informazioni. Comprendere quali dei sette descrittori fosse risultato più significativo nel processo di profilazione dell’esperimento descritto, avrebbe aiutato a comprendere meglio in che modo i dati potessero essere di per sé essere riflesso di una realtà discriminatoria.

Un siffatto discrimine tra la rilevanza dei diversi parametri utilizzati può realizzarsi con l’utilizzo di un po’ di matematica, non particolarmente esoterica ma comunque eccessiva per i fini di questa rivista. Basti dire che il procedimento di base utilizzato nello studio ha previsto di classificare più volte i dati del campione per il tramite di approcci di statistica matematica, utilizzando in ogni ripetizione un diverso possibile assortimento di alcuni dei sette descrittori – i.e. tutte le possibili coppie di descrittori, tutte le possibili terne, tutte le possibili quaterne e così via fino all’utilizzo congiunto di tutti e sette i parametri – confrontando poi all’esito l’accuratezza della classificazione nei diversi casi. La collezione di descrittori tale da produrre le prestazioni più simili a quelle osservate nell’esperimento, avrebbe permesso di spiegare quali fossero i parametri maggiormente influenti nelle decisioni.

Ebbene, non senza sorpresa, quanto ottenuto è che – quasi in ossequio al rasoio di Occam – soli due parametri dei sette usati sono risultati in linea di principio sufficienti per spiegare i risultati dell’esperimento. In particolare, una classificazione basata esclusivamente sull’età e sul numero di precedenti penali del soggetto esprimeva la

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medesima accuratezza raggiunta nell’esperimento.

Il risultato non è del tutto inatteso. È infatti facile presumere come una persona molto giovane e con una storia criminale già lunga possa essere considerata come più portata alla recidiva rispetto ad una persona adulta senza precedenti penali. Esaminando la scaturigine della postura discriminatoria, appare evidente come l’età non abbia correlazioni evidenti con questioni etniche, laddove invece il numero di precedenti penali rappresenta, negli Stati Uniti, un fattore a forte caratterizzazione razziale. È infatti ben noto come, per diversi motivi – degni di una monografia a sé stante e non certo adatti ad essere qui brutalizzati in poche righe –, le persone ritenute colpevoli di crimini siano o siano a lungo state, con probabilità anormalmente alta, afrodiscendenti.

È importante cogliere come il dato di per sé non sia discriminatorio; al contrario, è quanto di più asettico e neutro possa esistere: un mero numero; il numero di precedenti penali. Ma è la realtà, la storia, la dinamica sociale dietro a quel numero, è il fenomeno che ha prodotto quel numero che è discriminante e pertanto rende discriminatorio un algoritmo alimentato e addestrato con quello specifico numero.

Chiunque pensi di utilizzare algoritmi di profilazione in contesti nei quali siano in gioco diritti e libertà di anche un solo individuo non può non tenere a mente questo aspetto.

Concentrarsi solo sulla scelta di un algoritmo neutrale e sulla selezione di un insieme di dati di addestramento neutrale e composto secondo regole di imparzialità e correttezza potrebbe non bastare a mettersi al riparo da derive discriminatorie dell’algoritmo di profilazione risultante. Occorre infatti – declinazione particolare ma necessaria

del principio di accountability – approfondire quanto più possibile i processi sociali che sono alla base della collezione di dati che si è scelta. Tale attenzione è da richiamarsi anche a ragione delle logiche di apprendimento di un algoritmo di intelligenza artificiale: quest’ultimo, infatti, cercherà di sfruttare quanto più possibile le correlazioni tra i dati dell’insieme di addestramento e, quanto più queste saranno significative, tanto più indirizzerà le proprie decisioni facendovi leva.

Qui torna il concetto di conoscibilità degli algoritmi di intelligenza artificiale; la parziale oscurità delle logiche di funzionamento di siffatti algoritmi, non permette di avere il pieno controllo sul come i dati di addestramento sono utilizzati dall’algoritmo per generare le proprie decisioni. Con riferimento al caso di studio, ad esempio, è curioso come un algoritmo di certo progettato, ingegnerizzato ed ottimizzato, sottoposto ad addestramento con un insieme ricco e variegato di informazioni, finisca poi per proiettare la propria logica su una profilazione equivalente basata su età e numero di precedenti penali; una logica tutto sommato così semplice e immediata che 400 persone, senza competenza alcuna sulla materia penale e reclutate a caso su internet, profilano i soggetti nel campione con prestazioni confrontabili con quelle del software stesso.

Ancora, la citata mancanza di trasparenza, espone la fase di addestramento di tali algoritmi, non solo a potenziali sviamenti a ragione di fenomeni sociali discriminatori alla base dei dati di addestramento stesso, ma anche ad ulteriori rischi quali attacchi opportunistici di tipo data poisoning18, volti al falsare in maniera deliberata la fase di addestramento, o l’occorrenza che l’algoritmo cada in soluzioni sub-ottime dovute al fraintendere correlazioni spurie con nessi causali19.

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Sulla necessità di scelte consapevoli Il secondo corollario, forse già evidente dalle precedenti digressioni. Se l’algoritmo non aggiunge, a livello prestazionale, nulla rispetto a decisori umani senza competenze specifiche – ed è facile pertanto ipotizzare che un decisore esperto per formazione e istinto possa essere ben più accurato del software stesso nell’indovinare i fattori di rischio legati ai soggetti che si trova di fronte – è davvero necessario dotarsi di uno strumento di profilazione costoso, complesso, oscuro e potenzialmente discriminante? Tornando ad un concetto esposto all’inizio di questo contributo, le tecnologie che denominiamo come intelligenza artificiale sono ancora poco mature. E, tra le altre cose, tale immaturità potrebbe tradursi, in alcuni casi, in prestazioni confrontabili con quelle di un decisore umano; questo aspetto induce due criticità. Quanto è facile per una persona, posta di fronte alla necessità di prendere una decisione tale da incidere in maniera significativa sulla vita di un individuo, che sia una scelta di natura giudiziaria, medica, creditizia o altro ancora, decidere di non seguire la raccomandazione di un algoritmo “intelligente”, messo a sua disposizione proprio al fine di fornirgli supporto, e in linea di principio ottimizzato e addestrato su un numero di casi potenzialmente talmente grande da sovrastare ogni possibile esperienza umana?

Quanti, anche convinti della loro esperienza e del loro istinto, un po’ per cieca fiducia nella tecnologia o per scarsa conoscenza della stessa, o un po’ per il rischio di potenziali cause legali a ragione di un eventuale proprio errore, preferiranno non mettere in discussione il risultato dell’algoritmo?

È comprensibile, è normale, è umano.

Ancora, l’utilizzo fideistico di un algoritmo di profilazione, anche in contesti ove non strettamente necessario, rischia di cri-

stallizzare e replicare i potenziali fenomeni discriminatori che hanno viziato i dati con i quali è stato addestrato. Tornando al software Compas: i risultati dell’algoritmo sfavorivano i sospettati afrodiscendenti indirizzandoli fuori misura verso la carcerazione preventiva anche ove non strettamente necessario. Non è un fuor d’opera ipotizzare che tali carcerazioni abbiano inciso sul comportamento di tali soggetti, deviando la loro traiettoria di vita verso un futuro criminale e rinforzando pertanto la dinamica sociale stessa che in prima istanza aveva causato la loro non dovuta e discriminatoria carcerazione preventiva.

Il rischio sotteso che corriamo, affidandoci a tecnologie ancora non pienamente mature, è di eliminare la biodiversità sociale, di costringerci alla replicazione continua degli errori del nostro passato, addestrando con i loro riflessi gli algoritmi ai quali demanderemo le decisioni per il domani. In questo contesto, il supporto della decisione umana è di fondamentale importanza. Rappresenta la possibilità di una deviazione dalla reiterazione, quasi una spinta evoluzionistica per un futuro migliore. Il controllo umano sulla decisione automatizzata, sempre fondamentale in tal senso, andrebbe correttamente rafforzato con una profonda formazione sulla logica di apprendimento e di funzionamento dell’algoritmo – potenzialmente anche su una maggiore trasparenza dello stesso –, tutelato, riconoscendo comunque il mero valore di supporto o indirizzo allo strumento e chiarendo in maniera indiscutibile le prestazioni in termini di errata profilazione dello stesso, eliminando pertanto l’aura di infallibilità del medesimo e, infine, valorizzato quale apportatore di un elemento decisionale che ancora gli algoritmi non sono in grado di cablare: l’empatia. Una inclinazione emotiva e non di calcolo matematico che può e deve

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essere tenuta in conto in tutti i casi nei quali un trattamento di profilazione possa incidere in maniera profonda e determinante sulla vita degli interessati dal trattamento.

4. Il Regolamento UE 2016/679

Le considerazioni qui svolte intorno ai rischi insiti negli algoritmi di profilazione, alla necessità di vagliare con attenzione tutti i possibili riflessi di una tale soluzione e alla necessaria conoscenza di alcuni processi di base del funzionamento degli stessi, trovano, non senza sorpresa, corretto inquadramento giuridico nel Regolamento UE 2016/679.

Tale fonte normativa, per quanto non esplicitamente orientata verso tecnologie quali quelle qui affrontate, fornisce tuttavia gli strumenti utili a affrontare le criticità legate alle stesse.

Come analizzato nelle sezioni precedenti, un’organizzazione che intenda attuare un trattamento di profilazione per i tramite di strumenti di intelligenza artificiale, dovrebbe in prima battuta interrogarsi sull’effettiva necessità di un siffatto strumento e comprendere se il valore aggiunto di un tale supporto tecnologico sia davvero imprescindibile nell’ambito di applicazione selezionato. Tale scelta non può prescindere da una accurata indagine dei rischi che l’operazione di trattamento, anche a ragione della tecnologia utilizzata, possa apportare su diritti e libertà degli interessati. Questi passaggi sono ben inquadrati nella disciplina generale del Regolamento, dall’obbligo di condurre una valutazione di impatto (art. 35), alla necessità di applicare i principi di protezione dei dati personali sin dalla progettazione e per impostazione predefinita (art. 25), alla individuazione delle responsabilità del titolare del

trattamento il quale (art. 24) “tenuto conto della natura, dell’ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento, nonché dei rischi aventi probabilità e gravità diverse per i diritti e le libertà delle persone fisiche, […] mette in atto misure tecniche e organizzative adeguate per garantire, ed essere in grado di dimostrare, che il trattamento è effettuato conformemente al […] regolamento”.

Gli aspetti legati alla selezione dei dati di addestramento, alla loro analisi al fine di evitare tanto una scelta di dati di per sé non imparziale o potenzialmente discriminante quanto l’osservazione di un fenomeno di per sé discriminante, ben si possono inquadrare nei richiami ai principi di minimizzazione ed esattezza dei dati (art. 5), in accordo ai quali i dati trattati devono essere “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati” e “esatti e, se necessario, aggiornati; devono essere adottate tutte le misure ragionevoli per cancellare o rettificare tempestivamente i dati inesatti rispetto alle finalità per le quali sono trattati”. Il principio di trasparenza del trattamento (art. 5) traduce invece l’importanza di approfondire le logiche di apprendimento degli algoritmi utilizzati. Ove questo non fosse possibile per motivi tecnici o di proprietà intellettuale – come accennato il campo di ricerca sulla explainable artificial intelligence è ancora molto aperto – è comunque possibile provare ad inferire su tali questioni ex post retroingegnerizzando il funzionamento dell’algoritmo al pari di quanto effettuato nel caso di studio discusso nel presente articolo. Un approccio di questo tipo permette di restituire la dovuta trasparenza di trattamento agli interessati, proiettando la complessiva operazione in un contesto di pieno rispetto del Regolamento.

Da ultimo, le considerazioni svolte sull’importanza dell’intervento umano sono di-

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sciplinate dall’art. 22, ove si riconosce il diritto “di ottenere l’intervento umano da parte del titolare del trattamento, di esprimere la propria opinione e di contestare la decisione.”

Se da un lato quindi il tema delle operazioni di profilazione porta con sé rischi che ad una prima e non approfondita analisi potrebbero sfuggire e chiama pertanto a valutazioni critiche di non banale profondità, dall’altro è anche vero che il Regolamento generale sulla protezione dei dati personali, se ben interpretato e attuato, già rappresenta una guida necessaria e sufficiente a fornire le idonee garanzie per ridurre ad un livello accettabile i citati rischi.

spendere. È viva la discussione, in diverse comunità e gruppi di opinione, intorno all’effettiva utilità e bontà o meno delle tecniche di intelligenza artificiale. Come affrontato, i rischi sono ancora tanti e la parziale maturità delle citate tecnologie rimane tutt’ora un aspetto di rilevante importanza. Nondimeno, è indubbio che gli algoritmi di intelligenza artificiale, per il tramite della loro capacità estrema di elaborare dati ed informazioni e desumerne schemi da applicare con finalità di classificazione, inferenza o generazione di forme e contenuti, possano davvero portare un valore aggiunto in svariati contesti.

Conclusioni

In questo contributo, anche attraverso l’analisi dei risultati di un caso di studio noto in letteratura – i.e. gli approfondimenti sul sistema Compas –, si è affrontato il tema delle attività di profilazione basate su approcci di intelligenza artificiale, esaminando sotto quali condizioni possano generare fenomeni discriminatori e individuando potenziali azioni onde prevenire l’insorgere di tali polarizzazioni.

Gli approfondimenti condotti, messi in relazione con la vigente disciplina sulla protezione dei dati personali, hanno permesso di comprendere come il Regolamento abbia già in sé strumenti e approcci per deflazionare rischi di discriminazione legati alla profilazione. Ancora, la prossima applicabilità del Regolamento sull’intelligenza artificiale (il c.d. IA Act), completerà l’inquadramento giuridico introducendo particolari divieti di utilizzo o specifiche azioni preliminari nei casi ad alto rischio.

Rimane un’ultima considerazione da

A titolo di esempio, è interessante citare come un algoritmo di intelligenza artificiale20 abbia di recente permesso di mappare la struttura geometrica di tutte le proteine delle quali fosse nota la sequenza di amminoacidi, generalizzando le poche strutture fino ad ora note grazie a studi umani. Tale conoscenza, fondamentale per comprendere il funzionamento di particolari processi biologici, non sarebbe stata possibile senza le potenzialità di apprendimento e generalizzazione intrinseca dell’intelligenza artificiale.

Ancora, è riportato come nel teatro bellico Siriano, sfruttando algoritmi quali quelli impiegati dal software Shazam, utilizzato per riconoscere i brani musicali, alcuni ricercatori siano riusciti a realizzare sistemi tali da identificare con congruo anticipo le tracce sonore di un attacco missilistico, permettendo ai civili potenzialmente coinvolti di attivare le procedure di emergenza per tempo21

Questi esempi restituiscono bene come i vantaggi che possiamo attenderci dalla maturazione dell’intelligenza artificiale saranno fondamentali e avranno un impatto travolgente sulla qualità della vita del futuro. Ma lo faranno solo se sapremmo utilizzarli in maniera consapevole, applicandoli secondo

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misura, accettando di esimerci dall’usarli laddove i rischi di discriminazione o di qualsiasi altra forma di compressione di diritti siano oltre una soglia di accettabilità sociale e solo a condizione che la massima trasparenza sia fornita alle persone che dall’utilizzo di tali tecnologie possano essere impattate. In un momento storico nel quale per motivi di attualità e tempismo tecnologico assistiamo alla corsa all’intelligenza artificiale in ogni contesto, è forse questa la grande sfida. Riuscire a rinunciare alle soluzioni ad effetto, alla riduzione dei costi, alla supposta perfezione di calcolo, concedendosi di anteporre a tali vantaggi la tutela dei diritti e delle libertà della collettività laddove i profili di rischio risultino eccessivi; anche se questa sarebbe verosimilmente una scelta che nessun algoritmo “intelligente” raccomanderebbe, date le condizioni al contorno e l’obiettivo finale di massimizzare i profitti.

NOTE

1 “Let’s forget the term AI. Let’s call them Systematic Approaches to Learning Algorithms and Machine Inferences (SALAMI)”, cfr. https://blog.quintarelli.it/ 2019/11/lets-forget-the-term-ai-lets-call-them-systematic-approaches-to-learning-algorithms-and-machine-inferences-salami/

2 Giuseppe Attardi, “L’intelligenza artificiale ci riscatterà dalle schiavitù digitali”, https://www.corriere.it/ tecnologia/24_gennaio_02/l-intelligenza-artificiale-ciriscattera-dalle-schiavitu-digitali-003b7434-d079-4f0bace3-2b35877daxlk.shtml#:~:text=C'%C3%A8%20chi% 20teme%20i,miope%20progettazione%20dei%20servizi%20digitali.

3 A tal riguardo, vale la pena citare gli importanti filoni di ricerca incentrati sulla cosiddetta explainable artificial intelligence come ad ex in J. Walmsley, “Artificial intelligence and the value of transparency”, AI & SOCIETY | Issue 2/2021, Springer.

4 S. S. Iyenga, M. R. Lepper, “When Choice is Demotivating: Can One Desire Too Much of a Good Thing?”, Journal of Personality and Social Psychology, 2000, Vol. 79, No. 6, 995-1006.

5 Cfr. Art. 22 del Regolamento.

6 https://www.ajl.org/.

7 Alternativamente, per una disamina più approfondita sul tema, si consiglia la visione del documentario Coded Bias, disponibile su una piattaforma già citata nel testo del presente contributo.

8 Cfr a titolo di esempio: https://www.aclu.org/news/ womens-rights/why-amazons-automated-hiring-tooldiscriminated-against

9 Julia Dressel and Hany Farid, “The accuracy, fairness and limits of predicting recidivism”, Science Advances, 2018 Jan; 4(1)

10 https://www.propublica.org/article/machine-biasrisk-assessments-in-criminal-sentencing

11 https://www.equivant.com/practitioners-guide-tocompas-core/

12 i.e. errori di decisione nei quali si stimava erroneamente un alto fattore di rischio di recidiva, inquinamento probatorio o pericolo di fuga.

13 i.e. errori di decisione nei quali si stimava erroneamente un basso fattore di rischio di recidiva, inquinamento probatorio o pericolo di fuga.

14 Cfr a titolo di esempio J. L. Skeem, and C. Lowenkamp, “Risk, Race, & Recidivism: Predictive Bias and Disparate Impact” (June 14, 2016). Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=2687339 or http:// dx.doi.org/10.2139/ssrn.2687339

15 Ad ogni partecipante veniva riconosciuto un dollaro per il completamento dell’esperimento e un bonus extra di 5 dollari per indurre ad una esecuzione coscienziosa del test, ottenibile sotto la condizione di profilare i casi presentati in maniera corretta in almeno il 65% dei casi.

16 Nel seguito ci si riferirà a questo insieme di informazioni anche con il termine di “parametri” o “descrittori”.

17 In un caso di decisione binaria, l’accuratezza indica la proporzione di corretta decisione sul numero di casi esaminati.

18 Cfr., a titolo di esempio, L. Verde, F. Marulli, S. Marrone, “Exploring the Impact of Data Poisoning Attacks on Machine Learning Model Reliability”, Procedia Computer Science Volume 192, 2021, Pages 2624-2632

19 F. Negri, “Correlation is not causation, yet… matching and weighting for better counterfactuals.” In: Damonte, A., Negri, F. (eds) Causality in Policy Studies. Texts in Quantitative Political Analysis. Springer, Cham. https://doi.org/10.1007/978-3-031-12982-7_4.

20 https://www.technologyreview.it/deepmind-svelala-struttura-delle-proteine/

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21 https://www.wired.com/story/syria-civil-war-ha la-sentry/ O

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DOMENICO DI MICHELINO, Dante Alighieri con la Divina Commedia

Attualità della Divina Commedia

Mi è stato chiesto se oggi si possa ancora considerare - retorica a parte - veramente attuale la Commedia di Dante Alighieri.

Da docente di scuola secondaria di secondo grado, rispondo “sì”; e il sì della mia risposta scaturisce quasi come un imperativo categorico, inevitabile se non altro, per la necessità di provare a risvegliare nei giovani una coscienza identitaria talvolta sopita. Di conseguenza, penso che un modo per assolvere a questo compito sia continuare a promuovere la lettura e lo studio del cosiddetto “padre” della nostra lingua. La risonanza di Dante e della sua maggiore opera è indubbia: tutti ci siamo trovati a fare i conti con il ghibellin fuggiasco a scuola, piacevolmente oppure ob torto collo, data l’obbligatorietà del suo studio, proprio per una questione quasi genetica, identitaria, perché, come altri, è un autore imprescindibile per poter comprendere l’origine e gli sviluppi della nostra lingua e letteratura. L’eccezionalità assoluta poi della Commedia permette di isolare quest’opera tra le altre. In primis la sua ricchezza tematica, stilistica e letteraria ha favorito la promozione del volgare, dimostrando di fatto che la nuova lingua aveva potenzialità illimitate. «Ecco perché il successo del poema di Dante e il successo della lingua italiana (toscana) già nel Trecento andarono di pari passo. Si aggiunga che, mentre lo stilnovismo è fenomeno legato all’esperienza di Dante nella sua patria, la Commedia è opera compiuta in esilio, che si collega linguistica-

mente, sì, alla Toscana e a Firenze, ma si proietta sull’Italia settentrionale che ospitò il poeta durante la maggior parte del lavoro di composizione. Si profila dunque un connubio tra Nord e Centro, che sta alla base della crescita rapida della fortuna accordata ai modelli letterari del volgare, per cui già nel Trecento ci sono autori che si sforzano di toscaneggiare imitando Dante, e si staccano così dalla loro lingua naturale»1. Come evidenzia il Marazzini, non dobbiamo dimenticare che Dante ha composto la Commedia quando era in esilio. Ѐ un aspetto fondamentale questo, non solo per l’incredibile tenacia e fatica costate a Dante (grande esempio, tra l’altro, di resilienza, per riprendere un concetto molto sentito ultimamente), perché il girovagare del poeta esule ha contribuito ad arricchire il suo poema di una coloritura linguistica molto varia, ha impresso un dinamismo nuovo alla lingua. Ѐ come se essa dal particolarismo fiorentino, toscano, si fosse slanciata verso una realtà dal respiro più profondo, che allo stesso tempo inglobasse e superasse i particolarismi dei vari volgari delle città italiane, conferendo così unità nella diversità, universalismo pur nella peculiarità dei tratti linguistici. La duttilità di questa lingua ha consentito di trattare tutti gli argomenti, di penetrare le pieghe dell’animo umano, di descrivere tutti i paesaggi possibili, di spaziare in tutti gli ambiti: nella filosofia, nella teologia, nella politica, nella scienza, nell’arte ecc… Anche solo per questo

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aspetto prettamente linguistico, la Commedia è un’opera universale, è una colonna portante che sostiene l’intera nostra letteratura, ne contrassegna in maniera indelebile una tappa fondamentale del suo sviluppo, e allo stesso tempo però riesce ad infrangere ogni barriera linguistico-culturale, ad appartenere, in senso più generale, all’intera civiltà umana.

Da semplice appassionata di letteratura, l’aspetto che sin da giovane studentessa mi ha affascinata maggiormente della Commedia è stato la straordinaria bellezza, l’originalità, la genialità con cui Dante, anche attraverso pochi versi, una semplice terzina, è riuscito come nessun altro, con stupefacente chiarezza, a spiegare i meccanismi psicologici più sottili della mente umana, ad esplorare e portare in superficie tutte le profondità, le passioni, le pieghe dell’animo umano, dai desideri più nobili e puri a quelli più oscuri e torbidi. Ha saputo racchiudere, come un raffinatissimo orefice, nel gioiello di poche parole, nella misura anche solo di un verso, la fenomenologia di tutti i sentimenti umani; ha saputo dare pienamente una risposta a quella ricerca di senso, a quel bisogno di realizzazione, tipicamente umano, che da sempre ci inquieta. Ci ha insegnato cos’è che invera l’uomo; ha reso quell’ineffabile bellezza della potenza dell’Amore salvifico che dona vita all’essere umano, lo migliora, lo risolleva dalla sua tristezza, colma il suo vuoto, gli fa riscoprire la sua vera essenza, lo apre all’Infinito, all’Eterno, ad accogliere il Mistero che ha in sé: lo eleva per ricongiungerlo al suo Creatore. Basti pensare alla cantica del Paradiso, un universo tutto pervaso di Amore e di luce: Dante qui ci innalza con lui, ci “inciela”, facendoci provare l’indicibile esperienza del transumanar, ci fa intravedere l’intatta eternità e l’immensa beatitudine con i mezzi impari di cui dispone la parola del-

l’uomo. In questa cantica il Fiorentino si supera esprimendo l’incomunicabile, provando ad intendere l’incomprensibile, determinando l’indefinibile. Nella Commedia trascendenza e immanenza entrano in dialogo, il cielo e la terra entrano in dialogo, l’anima dell’uomo, dopo aver attraversato il peccato, pentita e purificata, anela a ricongiungersi all’Essere, all’Amore, all’Origine prima, motore dell’universo: a Dio. Il poeta ci fa comprendere, riflettendo del tutto la spiritualità medievale, che c’è Dio dentro l’uomo, in ogni aspetto del reale, e tutto è simbolo, segno riconducibile a Lui. Per questo si può parlare di polisenso della Commedia; occorre ovvero aguzzare bene l’ingegno per scoprire, al di là del semplice valore letterale delle parole, il senso anagogico, allegorico e morale che si racchiude nella poesia dantesca. A tale esercizio esegetico, d’altronde, erano già avvezzi gli uomini dell’età del poeta con la lettura della Bibbia, la cui interpretazione presuppone un’indagine a più livelli, che oltrepassi quello letterale.

Il Medioevo si caratterizza proprio per lo studio di ricercare i valori reconditi in ogni opera e in particolare nella Sacra Scrittura, ama interpretare la volontà di Dio e i significati del Suo messaggio. La teologia dunque predispone l’uomo ad accogliere i vari sensi della Scrittura e lo aiuta a comprendere alcuni concetti esegetici anche attraverso lo strumento dell’allegoria.

La vicenda del poeta-pellegrino, che pecca e si redime, si innalza così a funzione di exemplum per l’umanità, si propone come universale e universalizzante. Qui si sostanzia la grande attualità della Commedia: Dante in questo viaggio si presenta come un semplice uomo che si mette in cammino, e con lui conduce anche noi (basti leggere l’incipit della sua opera : “Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura”), per

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superare lo smarrimento del proprio io e ritrovare il vero significato del vivere. Ciò che travalica i secoli e rende ancora attuali i suoi versi è quest’incredibile capacità di «conciliare il concreto dell’esperienza umana individuale con l’astrazione paradigmatica che se ne può ricavare per l’intera umanità»2. Ѐ il viaggio di un uomo e al tempo stesso allegoria del viaggio di un’anima: così il senso letterale e istoriale si fondono con il senso allegorico come accade nell’esegesi biblica o per la discesa di Enea agli Inferi. L’allegoria dunque, evocando molteplici immagini e plurimi valori, contribuisce ad eternare i versi del poeta, è come se generasse un meccanismo di continua palingenesi, sotto differenti angolazioni, nei vari lettori della Commedia nel corso del tempo. Essa rimane lo strumento e la chiave di lettura prioritaria per comprendere l’iter ultraterreno di Dante in quanto ubbidisce innanzitutto a quell’esigenza di ricondurci e ricondurre tutto a Dio, primo motore del visibile e dell’invisibile.

Altro aspetto su cui soffermarsi, e che attualizza le pagine del nostro autore, è quello di aver riportato nella sua opera un’enciclopedia estesa ad ogni aspetto dello scibile, un completo sistema di etica e di casistica psicologica, come dicevo prima, unita ad un’appassionata ideologia politica, attraverso la bellezza di un’unica altissima voce di poesia. Con la poesia dantesca ci giunge così, dolcemente, l’ammaestramento di un uomo che ha vissuto realmente passioni e lotte, difeso il suo pensiero e i suoi ideali, attraversato esperienze dolorose, privazioni, e con la sua arte ha intrecciato mirabilmente le verità sul divino e l’umano, riuscendo ad “aprire quello che sotto la crosta della lettera sta nascosto”3 per donarcelo.

Quanto risuona vero ancora oggi l’invito di Dante a prendere consapevolezza della nostra natura (“Considerate la vostra se-

menza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza” ), a ridestarci da quel sonno mentale, allegoricamente parlando, nel quale ciascuno di noi spesso si smarrisce, perde la via della verità per rimanere invischiato in illusori piaceri, facili da ottenere ( il concetto di “sottomettere la ragione al talento” ).

La Commedia può anche esser vista quasi come un manuale di vita: il poeta ci dà consigli, ci sprona a rifuggire ciò che “infrivolisce”, a non perder tempo (“Ché perder tempo a chi più sa più spiace”; “ pensa che questo dì mai non raggiorna!”), a non perderci d’animo ( “O gente umana, per volar sù nata,/ perché a poco vento così cadi?”; “[…] e lascia dir le genti:/ sta come torre ferma, che non crolla/ già mai la cima per soffiar di venti”), a utilizzare liberamente la nostra ragione per discernere il bene dal male perché, anche se in tale esercizio dovessimo incontrare difficoltà nelle prime lotte, alla fine la ragione vince ogni contrasto se viene bene alimentata (“Lume v’è dato a bene e a malizia,/ e libero voler; che se fatica/ ne le prime battaglie col ciel dura,/ poi vince tutto, se ben si notrica”), e si potrebbe proseguire con gli esempi.... Possiamo però rasserenarci: alla ragione umana non è dato conoscere e comprendere tutto (“ Matto è chi spera che nostra ragione/ possa trascorrer la infinta via/ che tiene una sustanza in tre persone./ State contenti, umana gente, al quia;/ ché, se potuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria”). A Virgilio infatti, simbolo della ragione umana, dell’amore del sapere, succede come guida Beatrice, simbolo della Rivelazione, della Grazia, della Teologia, proprio perché la ragione dell’uomo è di per sé limitata e l’uomo da solo non può farcela: per avvicinarsi a delle verità sublimi, più grandi di lui, deve essere supportato dalla Grazia divina.

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Ci sono vari aspetti della Commedia, a mio avviso, commoventi; nel senso che tuttora (cum movēre) riescono a creare un circuito emotivo in grado di scavare nel profondo dell’animo di una persona, se non altro perché il miracolo della grande poesia è che può comunicarsi prima d’esser compresa, la sua genuinità arriva direttamente e fa vibrare subito le corde della nostra interiorità. Bisogna però anche predisporsi ad accogliere questo dono (Eugenio Montale affermava: « Che la vera poesia abbia sempre carattere di un dono e che pertanto essa presupponga la dignità di chi lo riceve, questo è forse il maggior insegnamento che Dante ci abbia lasciato. Egli non è il solo che ci abbia dato questa lezione, ma fra tutti è certo il maggiore»4).

Il primo di questi aspetti è l’Amore che pervade tutta l’opera, l’Amore in particolare di un uomo per la donna che ama e che ha sempre amato per tutta la sua vita (come fa a non smoverci questa vis così potente ancora oggi! Dante ci insegna in qualche modo anche ad amare…).

Già alla fine della Vita Nova, in seguito a una «mirabile visione», l’Alighieri si propone di rimandare ad altro tempo la trattazione poetica di Beatrice secondo modi più degni di lei e privi di precedenti: “Sì che, se piacere sarà di Colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dire di lei (Beatrice) quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire della cortesia che la mia anima sen possa gire a vedere la gloria della sua donna, cioè di quella benedecta Beatrice, la quale gloriosamente mira nella faccia di Colui «qui est per omnia secula benedictus»5”. La Divina Commedia è dunque l’opera che il poeta scrive per celebrare degnamente la sua amata, per « dire di lei quello che mai non fue detto d’alcuna» e qui la donna si realizza anche come

iter ad Deum, mezzo e scala per giungere a Dio. Il Singleton vede infatti in tutto lo svolgersi della Commedia, nella salita di Dante dalle profondità dell’Inferno alla contemplazione di Dio, un viaggio a Beatrice, al cui culmine si arriva all’identificazione della donna con la stessa figura di Cristo nelle sue funzioni di rivelazione, redenzione e tramite fra l’umano e il divino. Il pensiero di rivedere Beatrice è la forza di Dante, è ciò che gli consente di andare avanti e affrontare il percorso aspro e impervio dell’Inferno e del Purgatorio. Ѐ un aspetto commovente come anche quello, e qui si tratta di un Amore ancora più grande, della misericordia di Dio. « […] La grazia di Dio, il quale ci ama assai più che non ci amiamo noi medesimi e sempre è alla nostra salute sollicito6», per dirla con le parole di Boccaccio. “Misericordia” è una parola-chiave del Purgatorio che sprigiona un’incredibile dolcezza rasserenante: è la certezza di poter essere perdonati, di raggiungere la salvezza eterna, se veramente pentiti, perché esiste un Amore più grande dei peccati dell’uomo, un Amore che ha sconfitto e vinto il male. Dante ci fa vedere che non c’è peccato che non possa essere perdonato da Dio e anche i peccatori infino a l’ultima ora, pur in extremis, si possono salvare (pensiamo alle parole di Manfredi: “Orribil furon li peccati miei;/ ma la bontà infinita ha sì gran braccia,/ che prende ciò che si rivolge a lei”; o a quelle che il demonio rivolge all’angelo di Dio quando salva l’anima di Buonconte da Montefeltro: “Tu te ne porti di costui l’etterno/ per una lagrimetta che ’l mi toglie”; grazie ad una sincera “lagrimetta” di pentimento in punto di morte Buonconte si guadagna la salvezza eterna).

Affascinate è anche notare l’uso del colore che Dante fa nella Commedia: il cromatismo con le sue diverse gradazioni e sfumature, oltre a tingere di bellezza le pagine del-

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l’opera, acquista un preciso valore simbolico e allegorico. Attraverso pennellate di parole, ora a tinte più fosche, ora più tenui, pastello o ancora accese, chiare e risplendenti della grazia divina, il poeta conferisce alle immagini evocate una straordinaria plasticità, ne amplifica la potenza visiva e pittorica, guidandoci con efficacia sinestetica in un viaggio dal sapore onirico che coinvolge tutti i nostri sensi.

Per concludere, molto attuale è anche una delle questioni decisive che Dante affronta proprio alla metà, nel cuore del suo poema, ovvero la natura dell’amore e il suo rapporto con la libertà. L’Alighieri prova a disvelarci come funziona l’uomo, quali sono le dinamiche con cui egli affronta le traversie della sua vita, come si rapporta agli altri, alle cose, alla

realtà, come vive i suoi desideri. L’amore per il bene, per la verità - che infatti ci ricongiunge al modello di vero Amore, ovvero Dio - determina la nostra capacità di realizzazione, di affermare la nostra essenza e di raggiungere pienamente la felicità. L’amore regola tutto l’universo, regge la vita dell’uomo e delinea il suo agire nella realtà; è quella tensione verso il compimento di noi stessi con la quale siamo venuti al mondo. Questa forza naturale, di per sé positiva, può però tradursi negativamente in peccato. Noi siamo completamente liberi di scegliere come esercitare e usare tale dono: se indirizzare il nostro amore a un desiderio di bene o meno. Tutto si gioca qui. Dante spiega bene tale meccanismo nella tripartizione che fa nel Purgatorio: amore per troppo di vigore, per

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THOMAS LAWRENCE, Lady Maria Conyngham

poco di vigore o per «malo obietto». Il problema è che l’amore ha bisogno di essere educato, altrimenti si confonde: ama male invece di amare bene, ama poco invece di amare molto o ama troppo invece di amare meno. Diventa sostanzialmente una questione soprattutto di sguardo. « Si dice in termini ascetici “convertire”, perché tendenzialmente l’anima si di-verte, si sposta: anziché guardare ciò cui deve guardare, è più facile che veda il piccolo e vi ci si attacchi . […] Allora bisogna non di-vertire lo sguardo e, se si è di-vertito, va con-vertito, rimesso al suo posto, costretto quasi (si chiama sacrificio, o mortificazione, o penitenza), magari con forza, a guardare dove deve guardare. Conversione significa prendere lo sguardo che aveva subìto una diversione o addirittura una inversione, e rimetterlo a posto, perché guardi il bene vero, dalla parte giusta»7.

“Liberi soggiacete”: in due parole Dante condensa una lezione profondissima che risponde, in maniera apparentemente contraddittoria, a come poter compiere il bene. “Liberi soggiacete” vuol dire che « non c’è libertà senza obbedienza e non c’è vera obbedienza senza libertà8». Sono necessarie delle regole e una guida valida che ci aiuti in modo che l’uomo, con il suo libero arbitrio e l’uso della sua ragione, possa realizzare il bene. “Puoi ben veder che la mala condotta/ è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,/ e non natura che ’n voi sia corrotta”. Risuonano quanto mai veri questi versi… Nodale è dunque usare quella luce della ragione, che agli uomini è stata elargita per discernere il bene

dal male, e la libera volontà, senza la quale l’uomo sarebbe privo di qualsiasi personalità e dignità. Il libero voler, coniugato inoltre all’amore proteso al bene, rende l’uomo capace di vincere tutte le cattive inclinazioni, insite magari nelle sue tendenze naturali o frutto di momenti di debolezza.

Leggendo i versi della Commedia sento infine di poter dire che essi, ancora oggi, hanno la capacità unica di riattivarci, rinvigorirci interiormente… Solo Dante, come pochi, poteva incoraggiarci, dirci con entusiasmo : “manda fuori la vampa del tuo disio” e aiutarci a “ levarci sì, ch’i’ son più ch’io”, in modo da avverare completamente il nostro desiderio ed essere parte con lui di quell’“amor che move il sole e l’altre stelle”.

NOTE

1 Il Trecento, la «Commedia di Dante», in La lingua italiana, profilo storico, Claudio Marazzini, ed. il Mulino, 2002.

2 Leggere Dante, un genio universale alla base della letteratura italiana, in Storia europea della letteratura italiana, Duecento e Trecento, di Alberto Asor Rosa, a cura di Lucinda Spera e Monica Cristina Storini, ed. Le Monnier, 2012.

3 Da Esposizione sopra la Comedia di Dante, G. Boccaccio, a cura di G. Padoan, Milano, Mondadori, 1965

4 Da Atti del Congresso internazionale di Studi danteschi (2027 aprile 1965), Firenze, Sansoni, 1966, vol. II.

5 Vita Nova, Dante Alighieri, a cura di Luca Carlo Rossi, ed. Mondadori, Milano, 2009.

6 Da Esposizione sopra la Comedia di Dante, G. Boccaccio, a cura di G. Padoan, Milano, Mondadori, 1965.

7 Alla ricerca dell’io perduto. L’umana avventura di Dante. Purgatorio. Di Franco Nembrini, ed. Itaca, 2004, pag.80.

8 Ibidem

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La doppia censura e la fine di Aldo Moro

A distanza di quarantasei anni dalla strage di Via Fani e dall’omicidio di Aldo Moro, rileggiamo le 86 lettere che lo Statista scrive dalla “prigione del popolo” e che solo in parte i brigatisti rossi consegneranno. Comprendiamo subito che Moro è sempre Moro e che la narrazione dei giorni immediatamente successivi all’eccidio di Via Fani –con l’immagine di un Moro spaventato, drogato, succube e manovrato dai brigatisti, non più lucido, colpito dalla sindrome di Stoccolma – non corrisponde a verità. Ma la stampa e l’opinione pubblica si conformano immediatamente alla tesi dei vari comitati insediati da Francesco Cossiga presso il Ministero degli Interni – con l’inserimento dell’”americano” Steve Pieczenik – di un Moro che non è più Moro. Il titolo de “la Repubblica” del 30 marzo 1978, dopo la prima lettera di Moro a Cossiga, lo testimonia: “Quelle parole non sono le sue”.

Fausto De Luca intitola il suo pezzo “Parole scritte sotto tortura”. Il 4 aprile Andreotti alla Camera definisce le lettere di Moro «non moralmente autentiche» e la nota che accompagna la lettera a Zaccagnini sul “Popolo”, il giornale politico della DC, dichiara, fra le altre cose, che la missiva non è «moralmente a lui ascrivibile», date «le condizioni di assoluta coercizione nella quale simili documenti vengono scritti». Politici, giornalisti e scrittori si affrettano a svalutare e a non dare alcuna credibilità alle lettere che partono dalla prigione. Il governo diffonde pareri medici secondo i

quali Moro non è lucido, è drogato, scrive sotto dettatura, è affetto dalla sindrome di Stoccolma. Eugenio Scalfari si spinge più in là: Moro ormai è solo “un fantoccio” nelle mani dei brigatisti.

Leonardo Sciascia, polemico con l’intellighenzia dell’epoca, amaramente commenta: «…una enorme pietra tombale scende sull’uomo vivo, combattivo e acuto che Moro è ancora nella “prigione del popolo”, mentre si ricorda e celebra il Moro già morto, il Moro da monumentare». Compiendo un’analisi lessicale completa, frase per frase, parola per parola, delle 86 lettere di Moro scritte nei 54 giorni di prigionia, riconoscendo gli stilemi della sua scrittura, si riesce – per la prima volta in più di quarant’anni – a far emergere da alcune frasi criptiche, fuori contesto, quei messaggi segreti dello Statista, evocati da Sciascia e mai finora svelati. Riuscendo in tal modo, sulla base di quelle lettere, a ricostruire un’intelaiatura di pensieri, di correlazioni, di fatti, per poter aggiungere “un atomo di verità” – come auspicava Moro – per avvicinarci a capire, per meglio illuminare un episodio orribile della nostra storia.

Le frasi analizzate non sono scelte a caso, ma sono proprio quelle più studiate, contenute nelle lettere consegnate dai suoi carcerieri, a riprova della intatta lucidità di Moro, della sua grande abilità a celare i messaggi, sfuggendo abilmente all’occhiuta censura brigatista. A partire dalla prima lettera a Cossiga, quella recapitata il 29 marzo 1978.

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Nella quale si trova la frase più celebre dell’intero epistolario Moro – già acutamente segnalata da Leonardo Sciascia – il celebre inciso di dieci parole: “che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato”. Nel quale si riesce ad individuare uno dei più raffinati anagrammi di Moro. Da quell’inciso, infatti, emerge il messaggio per Cossiga: “e io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto”. Indicando al Ministro degli Interni – in una lettera che Moro vorrebbe fosse secretata, ma che i brigatisti, del tutto ignari dei messaggi che vi sono celati, rendono pubblica – il luogo preciso della sua prigione. Con la speranza (forse in quei primi giorni certezza per Moro) che l’amico Francesco Cossiga l’avrebbe fatta studiare dagli organi di intelligence, che certo possedevano tutti i mezzi per interpretarla, per decrittarne il decisivo messaggio. Salvando così quel Moro “sciasciano”, recluso inerme che “mandava dalla prigione messaggi da decifrare secondo immedesimazione alle condizioni in cui si trovava”.

In tale prospettiva, dunque, è provato che Aldo Moro, nei 54 giorni di segregazione, rimane sempre – con gli alti e bassi di una situazione drammatica e complessa, tra minacce di morte e spiragli di liberazione – un uomo libero, lucido, coraggioso, il fine politico di sempre, il sapiente giurista, il dialogante mediatore per antonomasia. Subito dopo i primi giorni dal tragico agguato, infatti, Moro decide di reagire, di combattere. Con le armi più semplici, più innocue: una penna biro, dei fogli di carta. E lo fa scrivendo le sue lettere: un ricco epistolario, la cui verità – come in tante vicende oscure della storia nostra repubblicana e contrariamente ai proclami delle BR (“tutto sarà reso noto al popolo…”) –conosceremo solo a tappe: quelle recapitate dai brigatisti (una trentina), quelle ritrovare poi in Via Monte Nevoso nell’ottobre del 1978 ed infine quelle ritrovate nel medesimo

covo brigatista milanese dodici anni più tardi, nell’ottobre del 1990.

Nel primo gruppo di nove lettere, emerge un Moro vivo, combattivo, che urla la sua speranza di vivere, che lancia in mare i suoi messaggi nella bottiglia, che nessuno vorrà raccogliere. Un Moro lucidissimo, che in queste prime lettere riesce a sfuggire alla censura delle BR, inviando al Ministro degli Interni ed alla moglie il luogo esatto della sua prigione in messaggi sapientemente criptati, come avevano intuito Sciascia e il fratello dello Statista. Ed emerge anche l’uomo Moro, il pater familias, che si preoccupa delle cose grandi e piccole dei suoi cari, della salute della moglie, delle professioni e degli studi dei figli, dei rapporti familiari e, con particolare angoscia, del futuro del suo nipotino di due anni e mezzo, il piccolo Luca, che ama più di chiunque altro e che avrebbe tanto desiderato continuare a seguire e ad assistere nella fanciullezza ed oltre.

Ma l’urlo di Moro non viene ascoltato, i suoi messaggi di aiuto non vengono raccolti. Il fine pensatore politico aggira la censura brigatista, ma non vince la censura politica dei maggiori partiti italiani che, sconfessandone le lettere, compiono una spoliazione della sua intelligenza: Moro nelle mani delle BR non è più Moro, le lettere non sono sue, le frasi da egli scritte non sono a lui attribuibili. E così il grande politico, lo statista, rimane un uomo solo, abbandonato da tutti, come Carlo Bo, con incomparabile sensibilità, ricorderà nel primo anniversario di quel sacrificio («Delitto di abbandono», Corriere della Sera, 9 maggio 1979). Il “non Moro” che è sotto sequestro è dunque, per i maggiori partiti politici, un uomo come tutti gli altri, che rientra nella normalità, a cui il massimo di risposta da dare è di tipo umanitario o –come per un Cirillo qualsiasi – un riscatto. Senza l’assunzione di alcuna responsabilità

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politica, che non sia quella del rifiuto di ogni trattativa.

Una fermezza che si rivela presto un assoluto immobilismo: nessuno ricercherà realmente il Moro sequestrato, né mai si avvicinerà al luogo della sua prigione!

Ma, purtroppo, Moro è talmente lucido che comprende subito che i suoi “amici” di partito non vogliono dare ascolto al suo urlo, ai suoi messaggi di aiuto. E lo denuncia chiaramente in una delle due versioni della lettera a Zaccagnini, scritta intorno al 31 marzo 1978: “Il presente è che io sono sottoposto ad un difficile processo politico nel quale sono già condannato. Sono un ostaggio che la vostra brusca decisione di chiudere un qualsiasi discorso di scambio di prigionieri rende inutile ed ingombrante”.

Quali i motivi di questo abbandono? Da parte DC, qualche indizio ci viene offerto dalla penna del Presidente del Senato. Il 7 aprile 1978, Amintore Fanfani, uno dei pochi politici di rango – assieme a Leone, Saragat, Craxi, Signorile e Martelli – disponibile alla trattativa, annota nei suoi Diari (custoditi nell’Archivio Storico del Senato della Repubblica): “…Pisanu assicura contrasti con Andreotti che favorirebbe il seguente organigramma: lui al Quirinale, Zac[cagnini] alla presidenza DC, Galloni alla Segreteria e Forlani a Palazzo Chigi. In tutti questi calcoli – commenta Fanfani – nessuno si rende conto che la situazione difficilmente consentirà tante attese…”. Duole constatare che - a pochi giorni dall’eccidio di Via Fani e dal sequestro di Moro - già si disegnassero precisi organigrammi per spartirsi I

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tempi del diritto
Frondizi e Kennedy nel 1961

tutte le poltrone disponibili, persino quella occupata da Aldo Moro ancora vivo! (la Presidenza DC, destinata, secondo il piano favorito da Andreotti, a Zaccagnini). Moro, dunque, rimane solo, abbandonato da tutti, ma non dalle cinque persone, umili e valorose, che eroicamente sacrificano la vita per tentare di proteggerlo. Gli indimenticabili uomini della sua scorta: Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, cui andrebbero meritevolmente intitolate le strade scenario dell’eccidio e del sequestro, come ad Aldo Moro – e non così ad altri politici democristiani – sono state intitolate, in molti comuni d’Italia, piazze, strade, aule, università Desidero accennare infine anche ad un particolare poco noto, ma che va assolutamente rivalutato. Le polemiche su un Moro insensibile alla tragedia degli uomini della sua scorta. Maldicenze miserabili, tacitate da una testimonianza del giudice Imposimato:

«Non è vero: io a distanza di anni ho parlato con Gallinari…e lui ha detto che Moro ha avuto un comportamento coraggioso, dignitoso e che, appena entrato nella prigione di Via Montalcini 8, int. 1…ha chiesto notizie della scorta, perché non

aveva avuto la percezione della tragedia, perché è stato subito rapito. E il Gallinari, che era testimone diretto…ha detto che “Moro quando ha saputo da me che la scorta era stata sterminata si è messo a piangere ed ha pianto per 12 ore”. Poi ha chiesto a quel miserabile di Moretti, che era il capo delle BR, di poter scrivere delle lettere ai familiari. Ha scritto cinque lettere: la prima lettera l’ha scritta alla moglie di Oreste Leonardi. Bene, queste lettere erano scritte piene di amore, di solidarietà, di senso di colpa, perché lui sapeva che i suoi uomini correvano un rischio grande… E invece Moretti ha dato l’ordine di strappare quelle lettere…perché ha detto: “Non conviene dare agli Italiani l’immagine di un Moro che si preoccupa della vita dei suoi uomini…».

Lo statista disarmato, inerme, abbandonato, viene così sospinto di giorno in giorno, di ora in ora, verso le tenebre di una fine disperata, tragica, ma solenne. Con la cessazione progressiva dell’urlo, con la sommessa accettazione finale della volontà di Dio. La cui «luce bellissima» – che Moro, con profonda fede, delicatamente invoca –diraderà e sconfiggerà quelle tenebre, avvolgendolo, nudo alla meta, nella dimensione della Pace e dell’Eterno.

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I tempi del diritto

Avvocato,

Il profilo di un giurista

A Francesco Santoro Passarelli, tra i più noti giuristi italiani, è dedicata una piazza ad Altamura dove per anni ha avuto sede prima la Pretura, poi il Tribunale e, ora, l’Ufficio del Giudice di Pace.

L’associazione degli Avvocati di Altamura “F. Santoro Passarelli”, che si onora di essere intitolata al Maestro, periodicamente organizza, insieme alle istituzioni cittadine, seminari di studi sul suo pensiero.

Quella stessa associazione quando nacque nel 1988 poté vantarsi di annoverare tra i suoi soci onorari il Prof. Francesco Santoro Passarelli, nomina che accettò molto volentieri e con entusiasmo, non facendo mancare, in seno al Consiglio Direttivo, suoi interventi e suggerimenti, sempre cortesi e misurati e molto spesso risolutivi. Ma, coerentemente al suo carattere, rifiutò qualsivoglia cerimonia. Agli inizi degli anni ottanta del secolo scorso alcuni studenti altamurani di giurisprudenza stimolati dalle molteplici citazioni delle teorie del Prof. Francesco Santoro Passarelli nei loro libri di testo e, sapendo che il Maestro era un loro concittadino, si attivarono per poterlo incontrare. Incontro che rimarrà indelebile nella memoria di quei giovani di allora. Il Maestro, mostrandosi da subito disponibile, incominciò ad informarsi sul loro percorso di studi e su quali difficoltà stessero incontrando, quali fossero le loro ambizioni dopo la laurea. Quando arrivò il momento di salutarsi, il Maestro volle raccomandarsi di tenere bene a mente che qualsiasi professione

giuridica avessero scelto “di rammentare che al centro del diritto vi è sempre il bene e la tutela della persona”. Ora quei giovani degli anni ottanta si onorano di essere componenti del Direttivo di quell’associazione degli avvocati che porta il Suo nome.

Il Maestro nacque ad Altamura il 19 luglio 1902 da Maria Passarelli e da Giuseppe Santoro, colonnello medico, direttore dell’ospedale militare di Taranto, discendente di una delle famiglie nobili di Altamura; da loro ricevette un’educazione severa. Francesco Santoro Passarelli fu legato alla madre da un affetto e da un amore molto profondi a tal punto da voler aggiungere al cognome Santoro anche quello materno Passarelli per onorare la nobile famiglia di origine della vicina città di Matera.

Conseguita la maturità classica presso il locale Liceo “Cagnazzi” con il massimo dei voti, nel 1920, si trasferì a Roma per frequentare la facoltà di giurisprudenza laureandosi nel 1924. La Sua carriera di docente universitario iniziò nel 1928 quando ricevette il primo incarico di insegnamento di diritto civile all’Università di Urbino. Per poi proseguire in quelle di Catania e Padova. Nel 1936 sposò Angela Alberotanza, dalla quale ebbe tre figli (Maria, Lucrezia e Giuseppe). Nel 1942, fu chiamato all’università di Napoli dove prese parte al comitato di liberazione divenendo esponente della Democrazia Cristiana. In quegli anni scrisse “Dottrine generali del diritto civile” e “Nozioni di diritto del

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lavoro”, due manuali basilari per la storia della cultura giuridica. La sua carriera di professore si concluse alla facoltà di giurisprudenza dell’università La Sapienza di Roma, dove era stato chiamato sin dal 1947 per insegnare Istituzioni di diritto privato, Diritto civile e Diritto del lavoro.

Accanto all’attività di Maestro è stato presidente dell’Unione giuristi cattolici italiani, autore di numerose pubblicazioni. Ha partecipato a numerose commissioni ministeriali incaricate di redigere testi normativi in materia privatistica e membro di un comitato per il codice civile del 1942, occupandosi delle disposizioni sulle successioni. Nel 1945 lo ritroviamo tra i fondatori della rivista Diritto e giurisprudenza. Insignito della meda-

glia d’oro per i benemeriti della scuola, vicepresidente del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, accademico dei Lincei nel 1952. Dal 1948 al 1960 contribuisce a ricostruire su basi privatistiche il diritto sindacale, consentendo di riconoscere ai sindacati, il potere di autoregolare i loro interessi attraverso la stipula dei contratti collettivi.

La produzione di Santoro Passarelli, mosso dalla analisi della autenticità formale e del rigore logico, si estese lungo uno studio ricco e articolato che, a partire dal diritto civile e commerciale, si ampliò a settori del diritto che richiedevano una autonoma collocazione, come il diritto del lavoro.

Dal 1960 al 1972 è stato presidente dell’Istituto nazionale assicurazioni (INA). In

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Seminario in Onore di Francesco Santoro Passarelli – Altamura 8 giugno 2018

questa funzione Egli non abbandonò la sua città di nascita, sostenendo la realizzazione di un grande complesso di palazzine che incise notevolmente negli anni successivi anche sulle scelte urbanistiche dell’area. È stato uno dei principali ispiratori della riforma del diritto di famiglia del 1975 e membro del CNEL.

Nel 1986 si trasferisce ad Altamura per assistere la moglie malata, fino alla sua morte avvenuta nel 1988. In questo periodo di permanenza rivelò tutto il suo attaccamento alla sua città, pronto a mostrare la Sua umanità a chiunque si fosse rivolto a Lui. Lo si poteva vedere passeggiare quotidianamente per le strade del centro storico in compagnia dei suoi affezionati amici fraterni. L’anno successivo al suo rientro a Roma ricevette dalla facoltà di scienze politiche di Macerata la laurea honoris causa. Muore a Roma il 4 novembre 1995.

L’AIDLaSS (Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale), punto di riferimento per i giuslavoristi italiani, ha istituito il premio “Francesco Santoro-Passarelli”, per la miglior tesi di dottorato di ricerca in Diritto del lavoro e della Sicurezza Sociale. In sua memoria è

stato anche istituito, coinvolgendo le università italiane, il premio nazionale “Francesco Santoro Passarelli”, promosso dall’Accademia Nazionale dei Lincei, per i migliori studiosi del diritto civile o del lavoro, come voluto dalla Famiglia Santoro-Passarelli. Nel dicembre 2021 presso la facoltà di giurisprudenza di Bari è stata inaugurata e intitolata la sala “Francesco Santoro Passarelli”, alla presenza del figlio dell’insigne giurista, Prof. Giuseppe Santoro Passarelli, alla Prof.ssa Silvana Sciarra, presidente della Corte Costituzionale, del Rettore dell’Università di Bari e del Presidente del consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari.

Concludo questo ricordo del Maestro riportando quanto ha scritto di Lui un suo allievo, il professor Giuseppe Benedetti: “Egli ha avuto la forza di essere, fino alla fine, un uomo, con i suoi affetti, con i suoi dubbi, con i suoi timori, allontanando il castigo mitico di diventare la statua di se stesso”. Il rispetto è la vera impronta caratterizzante del genio.

Il Maestro che ribadisce al suo allievo “ricordati, prima viene l’uomo, poi il professore” regala un insegnamento che dovremmo portare inciso nelle nostre coscienze e nel nostro pensiero.

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taliani nel mondo
I

Stefano Amore è magistrato ordinario e, attualmente, svolge le funzioni di assistente di studio presso la Corte costituzionale.

È direttore dell’Osservatorio per l’analisi normativa del Comando Unità per la Tutela Forestale, Ambientale e Agroalimentare dell’Arma dei Carabinieri (C.U.F.A.); direttore della rivista scientifica “Nova Itinera. Percorsi del diritto nel XXI secolo” e vice direttore della rivista “La Nuova Procedura Civile”. È, inoltre, Presidente del Comitato scientifico dell’associazione

F.A.B.I.I.U.S. (Friendship Association Between Italy, Israel and United States). Fa parte del comitato direttivo della Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Nel 2018 ha curato la pubblicazione del libro “Ritratti del coraggio: lo Stato

opera prevalentemente nel settore penale.

Dal 2013 è titolare del proprio studio legale e dal 2019 insieme ad altri colleghi è socio dello studio PIAVE SLC. È componente del collegio didattico dell’I.P.A. – International Police Association e Presidente della Sezione di Roma di A.N.A.I. – Associazione Nazionale Avvocati Italiani.

È stato relatore in molti convegni ed autore di pubblicazioni su riviste scientifiche.

Nel 2024 ha organizzato e coordi­

Irma Conti è Avvocato cassazionista, iscritta all'albo di Roma, e Consigliere dell'Ordine degli Avvocati di Roma.

È, inoltre, componente del Collegio del Garante Nazionale per le persone private della libertà personale, Cavaliere della Repubblica per l'impegno profuso per la lotta alla violenza sulle donne e Presidente dell'Associazione Donne Giuriste Italia.

italiano e i suoi magistrati” in cui, insieme ad altri colleghi, ha descritto le vicende umane e professionali dei 28 magistrati uccisi in Italia tra il 1960 e il 2015. Nel 2017 ha organizzato una cerimonia in Israele, in collaborazione con KKL, in cui è stata posta una stele in memoria dei magistrati italiani assassinati. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche, tra cui alcune voci del Digesto delle Discipline Pubblicistiche UTET. È stato docente di diritto dell’informatica e di diritto penale in numerosi corsi di formazione diretti a dirigenti e funzionari delle Forze di Polizia e relatore in numerosi incontri di studio e convegni. ◼

nato un convegno svoltosi al Senato della Repubblica sul tema del D.Lgs. 231 del 2001.

Ha partecipato, come docente, al progetto “Freesooner”, finanziato con fondi della Regione Lazio, per la formazione dei detenuti all’interno del carcere.

È socio della Camera Penale di Roma ed opera in tre commissioni tra cui quella “linguistica giudiziaria” con la quale ha portato a termine di recente il ciclo di seminari sul tema delle trascrizioni forensi. ◼

È stata relatrice in numerosi convegni, autrice di numerose pubblicazioni scientifiche e docente in corsi di diritto penale e processuale penale, approfondendo in particolare i temi legati alla responsabilità amministrativa degli Enti ex d.lgs. 231 del 2001 e quelli della detenzione ed organizzazione carceraria. ◼

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Stefano Amore
li autori
Irma Conti
G
Roberto Staro è Avvocato cassazionista iscritto al Foro di Roma ed Roberto Staro

Gabriele Fava è avvocato, fondatore dello Studio legale Fava & Associati, e presidente dell’I.N.PS.

Vanta un’esperienza trentennale nell’ambito della consulenza e assistenza giudiziale e stragiudiziale in materia giuslavoristica, societaria e civile a società, ordini professionali ed enti pubblici in genere. Esperto di relazioni sindacali e industriali, ristrutturazioni e riorganizzazioni aziendali e di gestione dei negoziati

Antonio Santeramo è nato ad Altamura ed ha conseguito il diploma di maturità classica presso il Liceo Classico “Cagnazzi”. Successivamente, si è laureato in giurisprudenza presso l’Università di Bari. Svolge la professione di avvocato ed è iscritto all’albo degli avvocati dell’Ordine di Bari. È Presidente dell’ Associazione Avvocati di Altamura “F. Santoro Passarelli”. È stato membro della Commissione associazioni forensi periferiche del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari.

Grazia Marzo, laureata con lode in Filologia, Letterature e Storia del Mondo Antico, presso SapienzaUniversità di Roma, discutendo una tesi, dedicata alla "Semantica dei nomi di colore in un volgarizzamento della Pharsalia di Lucano", con il Prof. Luca Serianni in Linguistica italiana. Appassionata al mondo classico e alla letteratura, continua a coltivare gli studi nel campo della linguistica italiana. Docente di ruolo di italiano

con le rappresentanze sindacali. È inoltre specializzato in materia di corporate governance, con specifico riferimento alla responsabilità amministrativa degli enti ex. D.lgs. n. 231/2001.

È professore a contratto di Diritto del lavoro presso la Facoltà di Economia e Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Piacenza. È stato Commissario Straordinario di Alitalia Società Aerea Italiana S.p.A. e Alitalia Cityliner S.p.A e presidente della Società Autostrade Alto Adriatico Spa. Dal 2018 al 2023 è stato componente del Consiglio di presidenza della Corte dei conti, in cui ha ricoperto anche l’incarico di vicepresidente. Nel corso di questo incarico è stato anche presidente dell’Osservatorio per le risorse pubbliche della magistratura contabile. Nel quadriennio 2019­2023 è stato probiviro dell’Assemblea privata di

Dal 2013 al 2018 è stato direttore del Corso, per praticanti avvocati, di formazione all’esame di abilitazione all’esercizio di avvocato. Presidente del comitato scientifico dell’Associazione Avvocati di Altamura di programmazione di corsi formativi accreditati presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bari. Componente del comitato scientifico per la pianificazione di seminari in onore di Francesco Santoro Passarelli. ◼

e latino, attualmente insegna a Roma presso il Liceo “Vittorio Gassman”.

Ha fatto parte e collaborato attivamente con l'associazione dantesca "Cento Canti", fondata da Franco Nembrini. ◼

Confindustria. Membro di AIDLaSS, Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale è autore di diverse pubblicazioni in tema di diritto del lavoro. Svolge un’intensa attività di ricerca ed è autore di numerose pubblicazioni riguardanti prevalentemente la materia lavoristica, civile e della data protection. Ha preso parte, in qualità di membro e/o presidente, a collegi di probiviri, organismi di vigilanza e commissioni di studio di alto profilo. Ha altresì ricoperto diversi incarichi istituzionali, anche in qualità di consigliere giuridico in diverse legislature. Da diversi anni è consulente legale di Europa Donna Italia nonché partner del progetto TrasformAzione volto al reinserimento nel mondo del lavoro di donne con e dopo il tumore al seno; è da sempre impegnato a sostegno del Terzo settore. È appassionato di tennis, sport che pratica abitualmente. ◼

102 G li autori
Gabriele Fava Antonio Santeramo Grazia Marzo

Carlo Gaudio è Professore Ordinario e Primario di Cardiologia dell’Università “La Sapienza” di Roma ed è autore di oltre 400 pubblicazioni scientifiche e di 10 trattati e monografie.

Mario De Ioris, magistrato ordinario alla VII valutazione di professionalità, è attualmente in servizio presso

Maurizio Decastri è Professore Ordinario di “Organizzazione Aziendale” presso l’università di Roma Tor Vergata, dove è stato Prorettore al Personale,

È stato Direttore del Dipartimento Cuore e Grossi Vasi e Vice Preside Vicario della Facoltà di MedicinaOdontoiatria dell’Università La Sapienza di Roma negli anni 2005­2021. Presidente del CREA (Consiglio Nazionale per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) dal 2020 al 2023. Nel 2021 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Giornalista pubblicista e scrittore, ha pubblicato: la versione italiana della “Biografia di A. Vivaldi” (Ed. Leo S. Olschki, 1991); l’edizione critica della raccolta di poesie “Delirio Nottetempo” (Ed. Rubbettino, 2008);

l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione. È stato giudice presso il Tribunale di Roma, Area controversie di lavoro, previdenza ed assistenza sociale. È Giudice tributario presso la Corte di giustizia tributaria di Roma. È stato componente del Consiglio Direttivo della Scuola di specializzazione per le professioni legali presso l’Università di Roma Tre, in Roma; componente della Commissione del concorso per esami a 300 posti di notaio indetto con D.D. 2.10.2017; componente della Commissione d’esame per l’abilitazione alla pro­

all’Organizzazione e ai rapporti con le imprese. A Tor Vergata insegna Organizzazione aziendale, Cross culture management e Organizzazione e gestione delle risorse umane. Ha insegnato in Bocconi, in LUISS, a Reggio Calabria, a Catanzaro e a Modena. È stato Direttore dell’Area Organizzazione & Personale della SDA Bocconi. È stato Direttore dell’Area Management e innovazione digitale della SNA. È docente e responsabile dell’area Management della Scuola di Polizia Interforze. È coordinatore del Nucleo di Valutazione e Controllo di ARERA, membro dell’OIV del MASE e membro dell’Organismo di Valuta­

“L’Anello di Policrate. Il complesso di colpa nel cinema” (Ed. Sabinae, 2009); la commedia teatrale: “E l’Italia ritorna a sognare… Mille Lire al Mese” (Teatro Parioli di Roma, 2011); “Il Cinema Civile di Gian Maria Volontè” (Ed. Nuova Cultura, 2014); “Pietro Valdoni” (Ed. Nuova Cultura, 2016); “La Zattera. Regole per vivere in armonia” (Ed. Nuova Cultura, 2018); “I Centri del CREA” (Ed. Nuova Cultura, 2020); “I Tesori del CREA” (Ed. Nuova Cultura, 2022); “L’Urlo di Moro” (Ed. Rubbettino, 2022) insignito del Premio alla Saggistica 2022 “Mario Pannunzio”. ◼

fessione forense; componente della Commissione per le adozioni internazionali in qualità di esperto; Consigliere giuridico presso gli Uffici di diretta collaborazione del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, nonché del Ministro per le pari opportunità.

Ha svolto incarichi di docenza in corsi di formazione ed aggiornamento professionale per il personale della pubblica amministrazione, per avvocati e laureati in materie giuridiche.

È autore di numerose pubblicazioni in materie giuridiche. ◼

zione di CSEA. È responsabile del modulo di Management per i corsi dirigenziali del Dipartimento UEPE presso la Scuola Piersanti Mattarella. È Presidente del CdA di Bruno Euronics e membro del CdA di Notari spa. È sindaco di Air Dolomiti spa e di Sogesid spa. È Presidente e partner di EOS Management Consulting, società di consulenza specializzata in organizzazione, gestione del personale e gestione della trasformazione. È membro del Comitato Scientifico delle due principali riviste di management in Italia: “Studi Organizzativi” e “Sviluppo & Organizzazione” ◼

103 G li autori
Mario De Ioris Maurizio Decastri Carlo Gaudio

Alfonsina De Felice è Professore

Ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II” dal 2001. Nel 2016 è stata nominata Consigliere “per meriti insigni” presso la

Suprema Corte di Cassazione, dove ha svolto le sue funzioni presso la Sezione IV civile – Lavoro.

È Avvocato cassazionista e fa parte del Consiglio direttivo della Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università degli studi di Firenze.

Ha partecipato a numerosi convegni di Studio e seminari in qualità di relatrice. Ha svolto soggiorni di studio in molte Università estere tra le quali: Warwick, Londra L.S.E., Nanterre, Louvain la Neuve, Valladolid, Philadelphia; è stata “Visiting Professor” presso la cattedra di diritto del lavoro dell’Università Bordeaux IV, Montesquieu. È stata componente del Comitato

Stefano Rinauro, dottore di ricerca in ingegneria dell’informazione e della comunicazione, presta attualmente servizio presso l’Autorità garante per la protezione dei dati personali.

Dal 2014 al 2023 è stato prima funzionario tecnico direttivo e poi diri­

gente della Polizia di Stato; durante tale periodo, ha prestato servizio presso l’Ufficio Protezione Dati della Direzione Centrale della Polizia Criminale, occupandosi dell’indirizzo e del monitoraggio degli aspetti di protezione dei dati personali e di cybersicurezza dei sistemi informativi interforze. Dal 2018 al 2023 ha ricoperto il ruolo di Data Protection Officer nazionale per i sistemi Interpol ed è stato membro della Commissione permanente Interpol per il trattamento dei dati. Nel medesimo periodo, ha partecipato quale membro attivo del network Europol dei Data Protection Officer del settore Law Enforcement (EDEN) e di analogo foro in seno alla Commissione Europea. Nel 2021 è stato funziona­

Giuridico Nazionale di consulenza (Com.09) presso il CNR, nonché “Esperta” presso la Commissione di garanzia per l’attuazione della l. n. 146 del 1990 sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Dal 2015 al 2018 è stata membro del Consiglio di Direttivo dell’Associazione Italiana di Diritto del Lavoro e della Previdenza Sociale (AIDLASS). Fa parte del Comitato Scientifico della Rivista del mercato del Lavoro e della Rivista Giuridica del Lavoro e della Sicurezza sociale. È autrice di numerose pubblicazioni monografiche, saggi, note a sentenza e voci di aggiornamento del Digesto delle discipline privatistiche e dell’Enciclopedia del diritto. ◼

rio responsabile nazionale del processo di Valutazione Schengen per il settore relativo alla protezione dei dati personali e nel 2023 è stato designato quale membro del pool di valutatori Schengen per il medesimo settore.

Dal 2007 al 2013 ha svolto attività di ricerca accademica, prima quale studente di dottorato e poi quale assegnista di ricerca e ricercatore a tempo determinato, in tema di elaborazione statistica dei segnali e delle informazioni, di elaborazione delle immagini e di elaborazione dei segnali per le telecomunicazioni. È autore di oltre 40 pubblicazioni scientifiche su riviste e atti di congresso con comitato di revisione internazionale. ◼

104 G li autori
Alfonsina De Felice Stefano Rinauro

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