Nova itinera
percorsi del diritto nel XXI secolo
L’EDITORIALE pIERO cALAMANdREI E LE pROSpETTIVE dELLA LEGALITà
ACCADE OGGI UMANO, MERAVIGLIOSAMENTE UMANO
OSSERVATORIO SULLA GIUSTIZIA
IL GIUdIcE E LA SEcOLARIzzAzIONE:
UN NUOVO pARAdIGMA dELLA SOVRANITà
ITALIANI NEL MONDO UN pROfILO dI GIOVANNI SpAdOLINI
Anno XIV - N° 3 - 2023
Quadrimestrale di legislazione, giurisprudenza,
giuridica
Sergio
Luigi
COMITATO
Francesco Coco
Mario De Ioris
Pietro De Leo
Vito Antonio De Palma
Andrea Giordano
Giuseppe Giove
Alessandra Ilari
Alberto Landolfi
Laura Morselli
Sandra Moselli
Enzo Proietti
Francesca Roseti
Lucia Spirito
Federico Tomassini
Nova Itinera
Quadrimestrale
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Sommario L’EDITORIALE PIERO CALAMANDREI E LE PROSPETTIVE DELLA LEGALITÀ 5 di Stefano Amore ACCADE OGGI UMANO, MERAVIGLIOSAMENTE UMANO 13 di Francesco Lotoro OSSERVATORIO SULLA GIUSTIZIA IL GIUDICE E LA SECOLARIZZAZIONE: UN NUOVO PARADIGMA DELLA SOVRANITÀ 17 di Massimiliano Siddi internet of things: qUALI RISChI PER L’UTENTE? 41 di Marco Impellizzeri GUELFI E GhIBELLINI 51 di Fausto Cardella IL RUOLO DELLA MAGISTRATURA NELLA GARANZIA E UNIVERSALIZZAZIONE DEI DIRITTI 55 di Antonio Balsamo PRESCRIZIONE E ASSEVERAZIONE NEI REATI AMBIENTALI 65 di Giuseppe Giove DIRITTO, ECONOMIA E AGRICOLTURA ThE COMMON EUROPEAN AGRICULTURAL DATA SPACE: AN OPPORTUNITy FOR FARMERS’DATA COOPERATIVES? 73 di Paul Bodenham COMUNITÀ E SVILUPPO IL CONSULENTE DEL LAVORO PROTAGONISTA NELLO SVILUPPO DEL PAESE 81 di Luca De Compadri IL CIELO DEGLI UOMINI 89 di Pierluigi Sanna
Anno XIV - N° 3 - 2023 Autorizzazione del Tribunale di Roma nr. 445 del 23 novembre 2010 DIRETTORE RESPONSABILE:
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I TEMPI DEL DIRITTO
ITALIANI NEL MONDO
IL SISTEMA DELLE MISURE DI POLIZIA E DI PREVENZIONE PRIMA DEL CODICE ANTIMAFIA (DAL 1956 AL 2011) 93 di Vittoria Drosi LE REGIONI E LE ALTRE AUTONOMIE TRA TEORIA E PRASSI 97 di Mario Ascheri
UN PROFILO DI GIOVANNI SPADOLINI 103 di Fabrizio Tomada
PIERO CALAMANDREI
Stefano Amore
Magistrato,
Direttore della rivista “Nova Itinera”
Piero Calamandrei e le prospettive della legalità
La riforma, forse la più profonda, sicuramente la più evidente, del ruolo della magistratura italiana nel XX secolo non è stata opera del legislatore.
È stata, piuttosto, conseguenza dell’azione dei mezzi di comunicazione, una delle grandi forze propulsive della storia contemporanea che, amplificando e trasformando radicalmente l’immagine dei magistrati, li hanno resi apparenti competitori della classe politica.
In questa prospettiva, può sostenersi che alla sistematica “politicizzazione” dell’attività giudiziaria abbia contribuito, in modo decisivo, la spettacolarizzazione da parte dei media di molte iniziative giudiziarie, trasformate in una sorta di agone tra colpevolisti e innocentisti, tra “amici” e “nemici” di una tesi.
Si tratta di un fenomeno che deriva non solo dalla tendenza dei mass media a fornire una rappresentazione semplificata della realtà, imponendo, come notava Umberto Eco, “simboli e miti dalla facile universalità”, ma anche e soprattutto dalla incapacità di rappresentare i fatti giudiziari in una ottica che non sia quella mutuata dallo scontro politico.
La vivacità delle “tribune politiche” degli anni 70, animate dalle grandi contrapposizioni ideologiche sembra, così, paradossalmente, rivivere nei dibattiti televisivi in cui si fronteggiano le ragioni dell’accusa e quelle della difesa ed in cui, comunque, si discute
di giustizia. In questa non larvata riconduzione da parte dei media dell’attività giurisdizionale al modello dell’attività politica, si coglie il senso profondo di un fenomeno di acculturazione, cioè di riduzione dei valori generali e delle culture particolari al modello di una cultura unica, dominata da paradigmi semplici, in cui non è possibile articolare alcun distinguo tra l’essere favorevole e l’essere contrario.
questa metamorfosi dell’immagine del magistrato trova però radici profonde nella stessa trasformazione della società italiana in un ambito sempre più disciplinato dal diritto in ogni suo aspetto, anche il più remoto, e in cui il giudice è divenuto (evidentemente non per sua scelta) l’interlocutore “permanente” dell’individuo.
Luigi Ferrajoli notava in proposito che nelle democrazie costituzionali «non è più il diritto ad essere subordinato alla politica quale suo strumento, ma è la politica che diventa strumento di attuazione del diritto, sottoposta ai vincoli ad essa imposti dai principi costituzionali: vincoli negativi, quali sono quelli generati dai diritti di libertà che non possono essere violati; vincoli positivi, quali sono quelli generati dai diritti sociali che devono essere soddisfatti»1.
La creazione di sempre più vasti ambiti compiutamente disciplinati dal diritto così, mentre da un lato ha enormemente implementato lo spazio dei diritti e delle pretese giustiziabili, dall’altro ha profondamente
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modificato il ruolo e la percezione sociale del giudice.
La stessa discrezionalità amministrativa, che in origine connotava l’azione della pubblica amministrazione non soggetta a vincoli, e che nello Stato liberale, in cui viene accolta la separazione dei poteri, trova il proprio fondamento e limite nella legge, ma comunque con ampi spazi riservati all’amministrazione, dopo l’adozione della Costituzione del 1948 si troverà ad essere conformata da sempre più penetranti vincoli costituzionali e legislativi, al punto che non sono mancati autori che, prendendo atto di questo imponente sviluppo, hanno considerata superata la stessa nozione di merito amministrativo2
A ben vedere, quindi, se la spettacolarizzazione dei media rende il giudice (spesso suo malgrado e, comunque, a prescindere dal reale rilievo delle vicende) protagonista sui mezzi di comunicazione, il vero trionfatore di questi ultimi 75 anni è in realtà, almeno in Italia, il diritto, che manifesta una tendenza a tal punto pervasiva da poter trovare compiuta spiegazione solo nella reazione alla profondissima crisi di legalità che ha accompagnato invece, nella prima metà del novecento, l’affermazione dei regimi totalitari.
Di questo tragico conflitto tra diritto e potere nel XX secolo3 e dei gravissimi rischi legati all’asservimento della magistratura al potere politico Piero Calamandrei è stato acuto osservatore, schierato sempre dalla parte della magistratura, di cui evidenziò il ruolo cruciale nel garantire la giustizia e nel difendere la legalità.
In un articolo del 2006, il Prof. Augusto Barbera, oggi Presidente della Corte costituzionale, ha analizzato la battaglia su più fronti combattuta da Calamandrei per l’ordinamento giudiziario, evidenziando la modernità della sua riflessione giuridica e politica4 e accogliendo, nelle conclusioni del
suo saggio, la considerazione di Vittorio Denti secondo cui «i problemi di Calamandrei sono in gran parte ancora i nostri problemi»5
Per comprendere senza equivoci e appieno questa affermazione, che a qualcuno potrebbe sembrare altrimenti quasi paradossale, bisogna muovere da una ricostruzione che, per quanto sommaria, ci dia effettiva contezza della cornice normativa e ordinamentale in cui operava la magistratura italiana nella seconda metà dell’Ottocento.
Chi sono i magistrati che rendono giustizia nelle aule di udienza dell’appena costituito Stato italiano? Come sono stati selezionati? Che ideali hanno e quale è il loro rapporto con la classe dirigente e politica in quel momento al potere?
La carta costituzionale dell’epoca, lo Statuto Albertino, e l’ordinamento giudiziario del 1865, che riprende in gran parte quello fatto approvare nel 1859 da Urbano Rattazzi, non stabiliscono particolari garanzie a favore della funzione giurisdizionale e dei magistrati chiamati ad esercitarla. Tutt’altro.
Lo Statuto, proclamando che la giustizia emana dal Re ed è amministrata in suo nome dai giudici che egli istituisce, nega ogni fondamento come autonomo potere alla giurisdizione, facendone, in sostanza, un settore specializzato della pubblica amministrazione e, pur stabilendo l’inamovibilità dei magistrati, la limita ai soli giudici di tribunale con almeno tre anni di esercizio delle funzioni. Inoltre, questa garanzia viene intesa in senso restrittivo, limitatamente al solo esercizio delle funzioni, e non assicura, quindi, la permanenza nella sede di servizio, da cui il magistrato può essere sempre trasferito dal Ministro della Giustizia. quanto poi alla selezione iniziale ed alla progressione in carriera i poteri conferiti al Guardasigilli appaiono ancora più incisivi.
Si entra in magistratura, infatti, per nomina diretta da parte del Ministro (che può
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scegliere, però, solo nell’ambito di alcune categorie qualificate) oppure con il superamento di un concorso pubblico a cui possono partecipare i laureati in giurisprudenza che abbiano già svolto la pratica di uditore per un anno (per i posti di pretore) o per tre anni (per i posti di giudice di tribunale e di sostituto procuratore)6
Pure di competenza del Ministro e sempre ampiamente discrezionali sono le promozioni e le nomine negli incarichi direttivi.
La situazione, a distanza di oltre trenta anni dall’entrata in vigore di quell’ordinamento giudiziario, è così efficacemente descritta da Giovanni Giolitti in un suo discorso elettorale del 1897: «al governo restano i seguenti poteri sulla magistratura. Dei pretori dispone liberamente, senza alcuna garanzia. i magistrati sono stati nominati dal governo; le promozioni loro dipendono per intero dal governo; il governo può negare loro qualsiasi trasferimento; è il governo che determina le funzioni a cui ciascun magistrato deve essere addetto»7.
Anche nel settore della giurisdizione, il giovane Regno d’Italia si è dovuto, evidentemente, confrontare con le difficoltà derivanti dal rapidissimo processo di unificazione.
È così accaduto che molti dei magistrati dei vecchi Stati preunitari fossero mantenuti nell’esercizio delle funzioni già svolte in precedenza e che si sia proceduto all’epurazione soltanto di quelli considerati inaffidabili per il nuovo ordine politico.
Complessivamente sono circa 1.000-1.200 i nuovi magistrati reclutati fra il 1859 e il 1865, ma solo la metà di questi vanno in realtà a coprire le vacanze determinate dalle epurazioni o dalle volontarie dimissioni di quelli non in linea con il nuovo ordine8
Nonostante queste premesse, sarebbe sbagliato immaginare, nell’Italia di quegli anni, una magistratura totalmente subordinata al potere esecutivo, composta solamente di burocrati interessati soprattutto, se non esclusi-
vamente, al felice progresso della propria carriera.
Pur senza esagerare il significato ed il valore di singoli episodi, non vanno infatti dimenticati i momenti di difficoltà che segnano periodicamente i rapporti tra il Governo e la Magistratura.
Emblematico il caso di Diego Tajani, un magistrato piemontese di origine calabrese, che, nominato Procuratore generale di Palermo, dopo aver chiesto il rinvio a giudizio del questore e di molti funzionari di polizia di quella città, accusati di essere conniventi con la malavita locale, si era visto costretto alle dimissioni, in conseguenza dei contrasti intervenuti con il Governo. Sebbene l’episodio non possa essere generalizzato ed abbia un significato che va circoscritto e compreso anche nell’ambito delle dinamiche politiche dell’epoca (Tajani diverrà Ministro Guardasigilli con l’avvento al governo della Sinistra)9, è indubbio che, in quegli anni, il senso di indipendenza e la consapevolezza del rilievo della funzione esercitata fosse molto vivo in una parte non trascurabile della magistratura italiana.
A impedire che le periodiche “frizioni” tra magistratura e potere esecutivo potessero scadere in veri e propri conflitti istituzionali vi era, però, oltre che una cornice normativa priva di alcuna specifica guarentigia costituzionale dell’indipendenza dei giudici, anche la sostanziale omogeneità sociale e culturale della magistratura con la classe dirigente del paese (la metà dei ministri della giustizia nominati fra il 1861 e il 1900 proviene dai ranghi della magistratura e nel 1866, ben 27 su 43 alti magistrati in servizio fanno anche parte del Parlamento)10. Il che non impediva, anzi forse talvolta alimentava, episodi di evidente dissonanza, in cui il ruolo della magistratura sembrava assumere un rilievo ulteriore rispetto a quello strettamente giurisdizionale e, quindi, una specifica valenza politica.
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A questo proposito non può non essere rammentata la decisione con cui il 20 febbraio 1900 la Corte di Cassazione di Roma giudicò nullo il cd. decreto Pelloux, che aveva introdotto alcune significative limitazioni delle libertà di associazione, di riunione e di stampa.
Aldilà dell’atteggiamento prudente tenuto dalla Suprema Corte nella motivazione della sentenza, con cui ci si limitava a rilevare l’incostituzionalità del decreto legge sotto un profilo meramente formale, legato alla violazione della norma dello Statuto che richiedeva l’approvazione di entrambe le Camere per il perfezionamento e l’esistenza delle leggi dello Stato, è innegabile il ruolo con ciò assunto dal potere giudiziario nella soluzione della complessa crisi politico-istituzionale di fine secolo11.
questi episodi consentono anche di chiarire come, per tratteggiare efficacemente la situazione della magistratura italiana di quegli anni, non ci si possa limitare solo alla considerazione del dato normativo, da cui emergerebbe il disegno di una categoria fortemente gerarchizzata, in cui l’avanzamento in carriera, il trasferimento nelle sedi desiderate e le iniziative disciplinari dipendono esclusivamente dalle decisioni del Ministro. In realtà non mancano, invece, chiare tendenze in senso opposto e la burocratizzazione dell’apparato giudiziario viene già avvertita da molti giuristi, tra cui lo stesso Calamandrei, come un disvalore ed un concreto rischio per il paese.
In un famoso articolo del 1894, Lodovico Mortara, celebrato docente universitario destinato a divenire Presidente della Corte di Cassazione e, successivamente, Ministro della Giustizia, tratteggia con sarcasmo e commiserazione la regressione a mero burocrate del magistrato, facendola percepire al lettore, al di là dei limiti della normativa e della temperie culturale del -
l’epoca, come il vero peccato mortale della giurisdizione.
“Vedeteli”, scrive Mortara, “i nostri magistrati, nelle preture, nei tribunali, nelle corti d’appello. Li sorprenderete più di una volta chini e cogitabondi su di un libro. Pensate che meditino il codice, o un qualche famosissimo commentario? Vi ingannate. Quel libro, l’unico libro che non manca mai alla biblioteca del magistrato italiano, è la graduatoria, stupenda trovata della ignoranza ufficiale che regna sovrana nell’italica amministrazione. e il magistrato che studia quel libro, si assorbe in calcoli e combinazioni che a noi profani, quando udiamo esporli, ricordano esattamente la cabala del lotto”12 .
La situazione evocata da Mortara, riflette, peraltro, uno stadio già avanzato dell’ordinamento giudiziario, caratterizzato dalle modifiche introdotte in materia dalla legge 8 giugno 1890, n. 6878 (la cd. legge Zanardelli), che aveva reso obbligatorio il superamento di un concorso pubblico per accedere alla magistratura. La costituzione in Italia, alla fine dell’ottocento, di un corpo professionale di magistrati, con i caratteri di un’organizzazione burocratica, fortemente gerarchizzata, ma anche gelosa custode di alcune sue prerogative, si può forse datare proprio da quel provvedimento legislativo e potrebbe essere comprovata anche dalla scarsissima frequenza con cui, successivamente al 1890, i Ministri della Giustizia esercitarono la facoltà, che la legge Zanardelli non aveva intaccato e di cui in passato si erano, invece, molto frequentemente avvalsi, di nominare direttamente in Corte di Appello o in Corte di Cassazione professori universitari e avvocati con una certa anzianità professionale.
In questo medesimo senso, di costituzione della magistratura italiana come vero e proprio gruppo di pressione, in grado di condizionare (almeno in parte) le scelte della politica, può essere interpretato anche il rafforzamento delle garanzie della magistratura
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attuato da Vittorio Emanuele Orlando con le leggi n. 511 del 1907 e n. 438 del 1908 ed il quasi contemporaneo costituirsi a Milano, nel 1909, dell’Associazione Generale dei Magistrati Italiani (A.G.M.I.)13.
La riforma voluta da Orlando, ministro della Giustizia di Giolitti, estendeva la garanzia dell’inamovibilità dei giudici anche alla sede dove prestavano servizio e, soprattutto, istituiva un nuovo organismo, il Consiglio Superiore della magistratura che, composto per la metà dei suoi membri da magistrati delle cinque Corti di Cassazione del Regno, veniva chiamato a rendere un parere, sia pure non vincolante, sulle promozioni e sui trasferimenti dei magistrati, allo scopo di orientare la discrezionalità del Ministro in materia, precostituendo dei criteri interni alla categoria per lo svolgimento delle carriere.
L’istituzione di questo organismo consultivo del Ministro, profondamente diverso da quello che sarà poi previsto dalla Costituzione repubblicana, raccoglieva, peraltro, una suggestione del già ricordato Lodovico Mortara che, in un famoso saggio del 1885, “Lo Stato moderno e la giustizia”, denunciando la situazione di dipendenza della magistratura nei confronti dell’esecutivo, aveva auspicato la creazione di un “Consiglio superiore di giustizia composto, al principio di ogni legislatura, di deputati, senatori, consiglieri di cassazione civile e cassazione penale, in numero uguale per ciascheduna delle tre categorie, cui il ministro presiederebbe senza voto”14 .
questa, in sommi capi, la situazione complessiva della giustizia che suscitava in quegli anni, come visto, critiche e preoccupazioni tra i giuristi più avvertiti, tra cui, appunto, Calamandrei che, anzi, dopo aver assistito al congresso dei magistrati italiani a Firenze, tenne nel novembre del 1921, in piena e profondissima crisi dello Stato liberale, un famoso discorso sul tema “Governo e magistratura”, in occasione dell’inaugura-
zione dell’anno accademico dell’Università di Siena.
In quell’occasione Calamandrei si sofferma, in particolare, sulle « tortuose vie ...che la politica segue per far sentire il suo influsso sull’amministrazione della giustizia» e denuncia pubblicamente che solo “la magistratura, continua a battersi quotidianamente per la legalità, simile a un eroico esercito di veterani fedeli, che mentre nel paese le congiure politiche depongono il vecchio sovrano, continuano lungo il confine, fronte al nemico, ad immolarsi in nome di un re che più non regna»15
È evidente il ruolo che Calamandrei attribuisce alla magistratura e alla giurisdizione, individuati, a poco meno di un anno dalla Marcia su Roma, come indispensabili garanti della legalità e dell’individuo, in una prospettiva che non appare troppo dissimile da quella di Simone Weil, che descriveva la Giustizia come un’«eterna fuggitiva dal campo dei vincitori», e da quanto notava, in tempi più recenti, Luigi Ferrajoli, secondo cui: «la giurisdizione è sempre applicazione sostanziale di un diritto pre-esistente, argomentabile come legittima e giusta solo se in base a tale diritto ne sia predicabile la “verità” processuale sia pure in senso intrinsecamente relativo. Di qui il suo carattere anti-maggioritario: nessun consenso di maggioranza può rendere vero ciò che è falso o falso ciò che è vero»16
Proprio sotto il profilo della legalità il pensiero di Calamandrei conoscerà, però, una significativa evoluzione, segnata dall’esperienza personale durante il fascismo e dalle nuove prospettive che al diritto apre l’entrata in vigore della Costituzione nel 1948.
Nel recensire nel 1942 il saggio di Lopez de Oñate su “La certezza del diritto” Calamandrei aveva, infatti, rimarcato che «la scienza giuridica deve mirare soltanto “a sapere qual è il diritto”», evidenziando che il giurista, avvocato o giudice che sia, chiamato ad applicare una legge che moralmente gli ripugna: «sarà
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portato, pur senza potersi apertamente ribellare ad essa, ad attenuarla, ad aggirarla, a introdurvi distinzioni e riserve, volte a farle impaccio e ad impedirle di nuocere» e che, però, così facendo «cesserà di essere un interprete della legge», agendo da politico e non più da giurista.
Il giurista, prosegue Calamandrei in quel saggio, «anche quando il contenuto della legge gli fa orrore, sa che nel rispettarla e nel farla rispettare quale essa è, anche se iniqua, si riafferma quell’ideale di uguaglianza e di reciprocità umana che vivifica e riscalda l’apparente rigidezza del sistema della legalità. e forse questo culto della legalità a tutti i costi, questo sconsolato ossequio delle leggi solo perché sono tali ed anche se il cuore le maledice e ne affretta col desiderio l’abolizione, ha una sua grandezza morale che raggiunge spesso, senza slanci apparenti, il freddo e meditato eroismo»17.
questo rispetto appassionato di Calamandrei nei confronti della legalità formale andrà però incontro, alla luce degli eventi storici, a un significativo ripensamento che lo condurrà al culto di una ben diversa legalità, quella legalità costituzionale a cui tanto contributo dette in prima persona, che non può essere incrinata, nei suoi princìpi fondamentali, neppure dal legislatore.
Nella sua arringa dinanzi al Tribunale penale di Palermo nel processo a carico di Danilo Dolci, arrestato il 2 febbraio 1956 per aver promosso e capeggiato, insieme con alcuni suoi compagni, una manifestazione di protesta contro le autorità che non avevano provveduto a dar lavoro ai disoccupati della zona, Calamandrei affermerà che: «Le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo […] altrimenti, le leggi non restano che formule vuote», aggiungendo che «la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione» 18 .
Nella nuova prospettiva della legalità
promessa dalla Costituzione risulteranno comprese anche alcune delle proposte avanzate da Calamandrei, ma non accolte all’esito del dibattito svoltosi in seno all’Assemblea Costituente, tra cui va rammentata quella relativa alla esplicita ammissione delle donne in magistratura.
Solo nel 1965, quasi dieci anni dopo la morte di Calamandrei, otto donne prenderanno, finalmente, servizio in magistratura.
A rendere possibile la partecipazione al concorso era stata l’entrata in vigore della legge 9 febbraio 1963, n. 66 che consentiva l’accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, e c h e dava attuazione alla sentenza n. 33 del 1960 della Corte costituzionale, con cui era stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicassero l’esercizio di diritti e di potestà politiche.
«non può essere dubbio», aveva affermato la Corte costituzionale in quella sentenza, «che una norma che consiste nello escludere le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per l’irrimediabile contrasto in cui si pone con l’art. 51, il quale proclama l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all’uno e all’altro sesso in condizioni di eguaglianza. Questo principio è stato già interpretato dalla Corte nel senso che la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa, non può comportare, cioè, un trattamento diverso degli appartenenti all’uno o all’altro sesso davanti alla legge. Una norma che questo facesse violerebbe un principio fondamentale della Costituzione, quello posto dall’art. 3, del quale la norma dell’art. 51 è non soltanto una specificazione, ma anche una conferma».
Sul ruolo di Calamandrei nell’attuazione
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della Costituzione italiana si è scritto e si potrebbe, ancora, scrivere moltissimo.
Concludiamo queste brevi riflessioni notando che a Lui dobbiamo soprattutto questo: averci insegnato il rispetto della legalità, anche nei frangenti più difficili, avendo però sempre di mira i valori profondi che la animano, nella consapevolezza che il giurista deve essere sì un «osservatore umile ed attentissimo», ma anche il soggetto a cui spetta «dare agli uomini la tormentosa, ma stimolante consapevolezza che il diritto è perpetuamente in pericolo, e che solo dalla loro volontà di prenderlo sul serio e di difenderlo a tutti i costi dipende la loro sorte terrena, ed anche la sorte della civiltà»19
NOTE
1 L. Ferrajoli, “Poteri selvaggi. La crisi della democrazia italiana”, Laterza, Roma-Bari 2011, p. 11.
2 Sul superamento della nozione di merito amministrativo come conseguenza dell’assoggettamento della pubblica amministrazione al principio di legalità si possono consultare B. Gilberti, “Il merito amministrativo”, Padova, 2013 e L. Benvenuti, “Breve divagazione in tema di merito amministrativo. A proposito di un libro recente”, in Diritto pubblico, 2016, fasc. 2, 795 ss.
3 T. Greco “Una lotta (quasi) mortale. Diritto e potere nel Novecento giuridico” in Novecento del diritto, a cura di Adriano Ballarini, 2019, Giappichelli, Torino.
4 A. Barbera “Calamandrei e l’ordinamento giudiziario: una battaglia su più fronti”, Relazione al Convegno «Piero Calamandrei e la ricostruzione dello Stato democratico» Aula Magna dell’Università di Firenze, 18 febbraio 2006, quindi in «Rassegna parlamentare», 2006, p. 359 ss.
5 V. Denti, “Calamandrei e la Costituente: il progetto e il dibattito sul potere giudiziario”, p. 416.
6 C. Guarnieri “Magistratura e sistema politico nella storia d’Italia” in Raffaele Romanelli (a cura di), “Magistratura e potere nella storia europea”, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 264 e ss.
7 G. Giolitti, Discorsi parlamentari, vol. II, Roma 1953, p. 1175 (discorso di Caraglio agli elettori del 7 marzo 1897).
8 C. Guarnieri op. ult. cit., p. 242 ss.
9 Su Tajani si possono leggere, tra gli altri, i contributi di P. Saraceno, Diego Tajani, in AA.VV., Il Parlamento italiano, Milano, 1988, p. 391 ss. e F. Grispo, Vincenzo Calenda di Tavani magistrato e ministro del Regno d’Italia, in P. Saraceno (a cura di), I magistrati italiani dall’Unità al fascismo, pp. 71-120.
10 C. Guarnieri op. ult. cit., p. 246.
11 M. Meccarelli, La questione dei decreti-legge tra dimensione fattuale e teorica, in historia Constitucional (revista electrónica), n. 6, 2005.
12 L. Mortara “Un pericolo sociale: la decadenza della magistratura”, in “Riforma sociale”, 1894, vol. 2, p. 625. Citato da F. Venturini in La magistratura nel primo dopoguerra: alla ricerca del «modello italiano», «Le carte e la storia», 13 (2007), n. 2, p. 157.
13 F. Venturini, “Un sindacato di giudici da Giolitti a Mussolini. L’Associazione generale fra i magistrati italiani 1909-1926”, Bologna, Il Mulino, 1987.
14 L. Mortara, “Lo stato moderno e la giustizia. Altri saggi”, Edizioni Scientifiche Italiane, Biblioteca di diritto processuale, 1992.
15 P. Calamandrei, “Governo e magistratura”, in Opere giuridiche, a cura di Mauro Cappelletti, vol. II, Morano, Napoli, 1966, p. 195. Ampiamente analizzato da A. Barbera in op. ult. cit.
16 L. Ferrajoli,“Contro la giurisprudenza creativa”, p. 25, in questione Giustizia, n. 4 del 2016, numero monografico dedicato a “Il giudice e la legge”
17 P. Calamandrei “La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina”, pubblicato originariamente nella Rivista di diritto commerciale, 1942, I, 341, ripubblicato in Studi sul processo civile, V, Padova, 1947, ora in F. Lopez de Onãte, “La certezza del diritto”, Milano, Giuffré, 1968, p. 175 ss.
18 Riportato da G. Zagrebelsky, “Una travagliata apologia della legge”, in P. Calamandrei, Fede nel diritto, Roma-Bari, Laterza, 2008. Sul tema importanti le riflessioni di P. Grossi, “Calamandrei e l’assillo della legalità”, in Stile fiorentino. Gli studi giuridici nella Firenze italiana (1859-1950), Milano, Giuffrè, 1986.
19 P. Calamandrei “La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina”, op. cit., p. 190. Per un complessivo quadro di insieme sul tema dell'evoluzione del diritto e sul suo ruolo nelle società moderne e contemporanee si veda M. Ascheri “Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo”, Seconda edizione riveduta, Giappichelli, 2023.
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PIETRO FELETTI, pagina iniziale del 1° degli 8 Pezzi per il Libro di Fullen
Francesco Lotoro
Umano, meravigliosamente umano
Chiamasi concentrazionaria la musica di qualsiasi genere creata nei Campi e subCampi di prigionia, transito, internamento civile, lavori forzati, concentramento, sterminio, penitenziari per la detenzione civile o destinati all’internamento militare, POW Camps, Stalag, Oflag, Campi di detenzione della NKVD e Gulag aperti dal 1933 (apertura del Lager di Dachau) al 1953 (morte di Josif Stalin e amnistia concessa a civili e militari) da musicisti di qualsiasi estrazione artistico-professionale provenienti da qualsiasi contesto nazionale, sociale e religioso che abbiano subìto limitazioni totali o parziali della libertà individuale, discriminazioni su basi pseudo-razziali o ideologiche o sociali o inerenti scelte sessuali o riguardanti disabilità fisiche, persecuzioni, ingiusta detenzione e che siano stati trasferiti contro la propria volontà in tali siti, deportati, uccisi o che siano sopravvissuti.
Trattasi di ebrei, cristiani di qualsiasi confessione, Sinti e Roma e altri gruppi sociali del popolo Romanò, Euskaldunak o del popolo basco, sorabi inquadrati nella Wermacht o nella Resistenza serba a seconda della loro collocazione geografica, Sufi presenti in territorio metropolitano italiano, Bahá’í presenti in territorio polacco e di lingua esperanto, Bibelforscher residenti nel territorio metropolitano del Reich ossia Testimoni di Geova residenti in Paesi occupati dal Reich, mon-
goli o tatari o baschiri e altri gruppi sociali dell’Unione Sovietica, comunisti e attivisti politici, prigionieri civili, militari di ogni grado e membri di organizzazioni militari impegnati in operazioni belliche.
In breve, chiamasi concentrazionaria la musica creata in cattività o in condizioni parziali ed estreme di privazione dei diritti fondamentali dell’uomo; essa è tra le più importanti eredità della Storia universale di incommensurabile valore storico e artistico, Letteratura dotata di pertinenti prerogative.
Nel periodo più tragico della Storia del sec. XX il genere umano avviò i meccanismi più evoluti della conservazione del pensiero e dell’immaginario scatenando una esplosione di creatività e producendo un Testamento dell’intelletto e del cuore.
Tale musica è definita concentrazionaria ai fini di una ricerca storica e geografica attualmente a uno stadio molto avanzato, ma lontana da una esauriente perimetrazione dell’intera fenomenologia musicale dal 1933 al 1953; un giorno occorrerà riferirsi ad essa unicamente come musica, non più necessitando di elementi di veicolazione storica e geopolitica inerente Seconda Guerra Mondiale, deportazioni civili e militari, catastrofi umanitarie dalla Shoah al Porrajmos sino allo holodomor.
Presso Lager e Gulag, siti del Paleolitico contemporaneo nei quali la Storia ha cono-
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Pianista e docente di pianoforte presso il Conservatorio di Musica N. Piccinni di Bari
sciuto il suo baratro umanitario e si è letteralmente annichilita, i musicisti cementarono con la loro creazione artistica una nuova letteratura; questa musica gettava le fondamenta di una nuova Europa che sarebbe andata oltre la resa dei conti storica e militare di Norimberga consegnando alle future generazioni una nuova Fenice di Venezia, un modo nuovo di pensare la Scala di Milano.
In linea generale il musicista trasformava la perdita di libertà accusata con la deportazione in enorme potenzialità e risorsa di perfezionamento delle proprie attitudini musicali e ciò è unicamente spiegabile alla luce delle intrinseche capacità dell’artista di adattarsi all’ambiente circostante, attingere linfa vitale laddove sembrava prosciugata ogni goccia esistenziale, lasciarsi ispirare dai limiti spaziali e nell’immaginario trasformare in giardini pensili una landa desolata oppure – usando un’immagine del musicologo Piero Rattalino – in garçonnière una antica abbazia medioevale e ciò non è romanticismo dell’anima bensì reale, razionale attitudine che in numerosi Campi si è solidificata, ottimizzata attribuendo un senso a se stessa e al luogo di prigionia.
L’attività musicale nei Campi produsse percorsi della mente e dello spirito che aiutarono a meglio sopportare oggettive situazioni di disagio e sofferenza, non di rado divennero veicolo di umana solidarietà; più pragmaticamente, divenne fonte di approvvigionamento alimentare o fonte di reddito per i musicisti, lo sbigliettamento dei concerti creò un utile economico per acquisto di materiali e strumenti musicali, carta-musica, spartiti, partiture e parti staccate oppure – nel caso di numerosi Stalag e Oflag – alla copertura dei costi per il giornale del Campo a uso dei prigionieri di guerra.
Combattenti repubblicani baschi in fuga da Franco e riparati nel Campo profughi di
Gurs rimodulato in Campo di internamento sotto Vichy; Bibelforscher tedeschi che si opposero sia alla leva militare obbligatoria che ai principii dottrinali del nazionalsocialismo; civili internati per aver espresso idee ostili al Reich o al regime fascista italiano; olandesi e cittadini di altri Paesi europei a Singapore e nelle Indie Orientali Olandesi sotto occupazione militare giapponese; civili residenti in territori coloniali nei quali fosse subentrata autorità occupante; militari di ogni ordine e grado appartenenti ai Paesi in conflitto catturati e trasferiti in Oflag, Stalag, PoW Camp e altri siti di cattività militare.
In virtù della trasversalità del linguaggio musicale nonché della sua capacità di coinvolgere uomini e contesti storico-geografici distanti tra loro, chiunque di essi abbia creato musica in cattività ha pieno diritto di cittadinanza nella letteratura musicale concentrazionaria.
Dal punto di vista strettamente demografico e nel periodo di maggior flusso, i Campi somigliavano a insediamenti urbani in scala ridotta; prigionieri civili non di rado insieme a prigionieri di guerra sovietici dopo il 1941 (il Reich non applicò loro le Convenzioni di Ginevra) e deportati di varia tipologia a pochi Block di distanza l’uno dall’altro.
Musicisti ebrei nei Lager scrissero opere destinate alla preghiera o a momenti topici del calendario religioso ebraico, in un periodo storico nel quale l’ebraico non era lingua corrente come lo divenne dopo la nascita dello Stato d’Israele; a Bergen-Belsen, Józef Z’vi Pinkhof stese canti con testo ebraico trasliterrato in caratteri latini in calce alla linea musicale, il testo riproduceva la pronuncia ebraica tipicamente askenazita con “Surò” in luogo di “Torà”, “Umain” in luogo di “Amen” e così via.
A Theresienstadt il compositore tedesco Zigmund Schul scrisse Cantata Judaica op.13
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per coro maschile (pervenuto il Finale) e lo struggente Mogen owaus per coro misto, soprano, baritono e organo; l’organo suonato durante lo Shabbath nonché cantanti solisti e coro misto (uomini e donne che cantano fianco a fianco) ritornano in altre partiture religiose, accondiscendendo alle aperture dell’ebraismo riformato e al gusto operistico dell’epoca.
Nel Campo di transito aperto dal Reich a Westerbork (Paesi Bassi), hans Krieg scrisse canti per la festa di Channukkà mentre, presso la colonia penale del medesimo Campo, l’ebreo olandese hans van Collem compose Psalm 100 sul terriccio del campo di patate dove svolgeva i lavori forzati e poi lo stese su carta igienica; la domenica successiva, approfittando dell’assenza delle guardie per il turno di riposo, lo eseguì con un coro maschile nelle latrine della colonia.
Presso il Campo di internamento australiano di Tatura il rabbino della sinagoga Brunenstrasse di Berlino, Boaz Bischofswerder (emigrato nel 1933 in Gran Bretagna, internato allo scoppio della Guerra poiché classificato enemy alien) scrisse shevà Berachot per baritono e pianoforte; nel 1943 presso il Campo di internamento civile slesiano VIIIZ di Kreuzburg (oggi Kluczbork, Polonia), su richiesta degli internati cattolici, il pianista e compositore quacchero britannico William hilsley scrisse una Missa in festo nativitatis per coro maschile a cappella (dopo la guerra hilsley affermò in una intervista di essere di origine ebraica e che il suo vero nome era Josef ben Mendel hallevi).
Dachau fu l’epicentro della musica religiosa cristiana, ivi entrarono 2.579 sacerdoti, vescovi e monaci, 109 pastori evangelici, 22 prelati greco-ortodossi e altri della Chiesa riformata e veterocattolica; di essi, 1.034 morirono per inedia, malattia, impiccagione, fucilazione o crocifissi a testa in giù, 300 di
essi subirono esperimenti medici o perirono sotto tortura.
Il benedettino Gregor Schwake scrisse la Dachauer Messe per coro maschile, quartetto d’ottoni e organo eseguendola clandestinamente presso il Block 26 con il solo accompagnamento di harmonium; il coro di sacerdoti era diretto dal boemo Karl Schrammel in seguito accusato di spionaggio, trasferito a Buchenwald e colà impiccato.
Nell’aprile 1939 presso il Campo pirenaico di Gurs il compositore ebreo franco-tedesco Kurt Levy creò una revue in 22 quadri con l’accompagnamento dell’orchestra tommy green und seine Camping Boys (il termine inglese Camping giocava con il significato di Campo) mentre il compositore basco Regino Sorozábal scrisse pezzi e diresse la sua orchestra basca.
Nato a Bologna dallo scrittore afg h ano Jusuf Roberto Mandel e della scrittrice ebrea Carlotta Rimini, Gabriele Mandel abbracciò il sufismo ed era altresì flautista e violinista, pubblicò novelle sufi sul Corriere dei Piccoli ma nel 1940 fu espulso dall’Albo dei giornalisti poic h é figlio di madre ebrea; verso la fine della Guerra fu imprigionato insieme a suo padre e torturato dai tedeschi a San Vittore, nella cella 8 del quinto raggio scrisse un meraviglioso Ca nto per tenore e pianoforte.
Nell’estate 1940 l’ebreo austriaco Charles Abeles fu internato presso la Casa Rossa di Alberobello ma, grazie alla famiglia Nardone che gli mise a disposizione un pianoforte, scrisse il Valzer Rondo felicità op.282 per pianoforte; oggi il manoscritto si trova presso la fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria a Barletta insieme ad altre 10.000 opere tuttora in fase catalogazione.
In un viaggio metastorico dal primo Lager nel 1933 all’ultimo Gulag nel 1953 con diramazioni nella Jugoslavia di Tito, nell’Albania
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di hoxha, nella Spagna di Franco e nella Cina di Mao, questa letteratura musicale ha sviluppato profili di transdisciplinarietà; uno tsunami di creazione musicale e teatrale che rende l’idea della forza incrollabile dell’ingegno umano.
Scrisse Emile Goué, compositore francese prigioniero di guerra nell’Oflag XA Nienburg/Weser deceduto nel 1946 per una malattia contratta nel Campo: “La musica non era un intrattenimento o un gioco ma la stessa espressione della nostra vita interiore. facevamo musica molto seriamente, senza alcuna ironia. era impossibile fare grandi cose senza convinzione e questa convinzione che l’artista deve portare al suo lavoro non è altro che credere nella necessità di ciò che scrive ” .
Buchi neri capaci di divorare carne e civiltà riportando la clessidra della Storia alla barbarie, i Campi divennero fabbrica di sogni, industrie di arte e scienza musicale ca-
paci di riavviare l’orologio della vita dell’intelletto e il tempo collassato in Ghetti, Lager e Gulag.
Chi salva una vita salva il mondo intero, è scritto nel Talmud Bavli; non abbiamo potuto salvare la vita di gran parte di questi musicisti ma abbiamo salvato la loro musica e questo equivale ad avergli salvato la vita nel suo significato, universale, metastorico e metafisico.
Sulle ceneri della ex Distilleria di Barletta nascerà nei prossimi anni la Cittadella della Musica Concentrazionaria; oceani di musiche, pensieri, storie e sofferenze di interi popoli confluiranno in quello che sarà l’hub mondiale della musica più geniale del Novecento.
Recuperare musica scritta da uomini perseguitati, imprigionati e deportati non è soltanto agire da musicisti: tutto ciò è umano, meravigliosamente umano.
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ALEX TAMIR suona al pianoforte il suo celebre Shtiler, scritto nel Ghetto di Vilnius
Massimiliano Siddi Magistrato
Il giudice e la secolarizzazione: un nuovo paradigma della sovranità
Forse per prima, ma con minor clamore rispetto ad altre scienze dello spirito, la dimensione del giuridico è stata investita dal processo di secolarizzazione che dalla modernità ha preso le mosse e che, sempre nella modernità, cerca il suo compimento.
Si tratta di un processo che, a ben vedere, ha sostanzialmente a che fare con la verità e con la coscienza storica e che, nella misura in cui punta a trasferire sul sovrano (auctoritas) la responsabilità della decisione, sottraendola all’esclusiva degli interpreti della verità rivelata (veritas), sancisce il passaggio allo Stato moderno secolarizzato (auctoritas non veritas facit legem)1.
I temi della verità e della coscienza storica, nel contesto della dimensione del giuridico che attiene specificamente alla funzione della giurisdizione, sono stati spesso condensati nel confronto tra la figura del giudice e quella dello storico. Un confronto classico, che ha sempre affascinato gli intellettuali ed i cultori della filosofia del diritto, primo tra tutti Piero Calamandrei2, per taluni innegabili punti di contatto che le rispettive discipline, quanto meno ad un vaglio molto superficiale, evidenziano. Il nucleo dell’affinità, come notava lo stesso Calamandrei, è costituito dal fatto che entrambi sono chiamati “a indagare su fatti del passato e ad accertarne la verità”. Se si tralasciano determinate analogie operative le distinzioni epistemologiche sono, tuttavia, marcate e tendono nettamente a prevalere.
Ma l’individuazione di tali tratti distintivi tra la figura dello storico e quella del giudice - tratti distintivi che hanno, appunto, come elemento qualificante il rispettivo e differente rapporto con la verità, con le tecniche di accertamento, con gli effetti del suo disvelamento e con i suoi fini – non presenta particolari difficoltà ermeneutiche e riempie un dibattito culturale già ampiamente esplorato. Assai più problematico, e nel contempo affascinante, risulta invece inquadrare le pulsioni che lacerano intrinsecamente la stessa figura del giudice, in particolare in relazione alla progressiva deriva burocratizzante dell’esercizio della funzione, che tende sempre più ad affermarsi come cifra antropologica relativa all’autocomprensione della logica del giudicare, piuttosto che come mero carattere oggettivo ed operativo dell’attività giurisdizionale nel suo complesso. Tale deriva burocratizzante, che ad un osservatore poco attento e superficiale potrebbe addirittura sembrare una qualificazione concettuale del tutto inutile, se non addirittura intrinsecamente ossimorica, laddove riferita ad una funzione, come quella giurisdizionale, il cui concreto atteggiarsi costituisce manifestazione del principio di legalità, incide invece direttamente proprio sull’essenza della funzione stessa, perché mette in discussione non la legalità, ma la legittimità del giudizio. Ciò in quanto un giudizio può dirsi davvero legittimo solo nella misura in cui non sia
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espressione di un’autonomizzazione così radicale da risolvere l’atto decisorio nel rispecchiamento avalutativo della pura architettura formale delle norme, in quanto ritenute suppostamente dotate di validità immanente e prive di quella ulteriorità che conferisce loro vitalità.
Ebbene, seguendo questa prospettiva, il giudice che si burocratizza, non è altri che quel giudice che “funzionarizza” il giudizio, pretendendo ed ingenuamente illudendosi di isolare ermeticamente il diritto, mediante una decisione impermeabile ad istanze politiche, valoriali e sociali che trascendano la pura logica ed i limiti sintattico - semantici della norma fine a se stessa inserita in un compendio architettonico gerarchicamente ordinato.
È del tutto evidente come per il giurista, soprattutto per il giurista pratico, immerso in una trama reticolare di linguaggi e di lessici storicamente sclerotizzati, sia estremamente arduo dipanare questa trama, affrancandosi e riemergendo dal solco profondo, ma rassicurante, inciso da quel linguaggio e da quei lessici. Solo ponendosi all’esterno dell’orizzonte di pensiero e delle specifiche categorie concettuali che nel giurista precondizionano l’interpretazione della propria funzione, è possibile sfuggire alle insidie nichilistiche del normativismo puro.
Occorre, infatti, “igienizzare” la teoria del diritto, anche nella dimensione applicativa dell’esercizio della funzione giurisdizionale, da quelle incrostazioni positivistiche che, per eterogenesi dei fini, trasformano la purezza della dottrina del diritto in vuota ideologia assolutistica della norma, finendo per esaltare proprio quell’approccio sovrastrutturale che, invece, quasi tutti, almeno nelle intenzioni, proclamano di aborrire.
Per conseguire efficacemente questo risultato è tuttavia necessario, come si è detto, estraniarsi dalla circolarità e dall’incomple-
tezza delle liturgie e delle formule del linguaggio giuridico corrente risalendo alla genealogia dei concetti e restituendo al diritto, in tutte le sue declinazioni, e quindi anche in quella giurisdizionale, quella forza propulsiva e vivificante che gli appartiene e lo rende condizione imprescindibile della convivenza e del progresso umani.
Il tema, in realtà, non è originale e specifico di questa regione del pensiero, ma si inserisce nel più ampio e cruciale dibattito filosofico c h e si è sviluppato intorno al concetto di secolarizzazione ed alla sua influenza sul mondo moderno. Anche il diritto, anzi, forse per primo il diritto è stato investito in pieno dalle trasformazioni che il processo di secolarizzazione ha impresso alla storia dei concetti. Non è questa la sede per stabilire se, o in quale precisa misura, lo stesso concetto di secolarizzazione sia un concetto legittimo, rimandando, sotto questo peculiare profilo, alle fondamentali speculazioni ed ai vigorosi contrasti intellettuali dei protagonisti del cennato dibattito – hans Blumenberg 3 , Karl L ö wit h 4 , Carl Sc h mit 5 , solo per ricordare i principali - e dando comunque per assodato, avuto riguardo alla storia dei suoi effetti (Wirkungsgeschichte), c h e si tratti di un concetto c h e offre una chiave interpretativa privilegiata delle dinamic h e politic h e, istituzionali e sociali dell’epoca moderna. Meno scontato è, invece, che si tratti di un concetto che, essendo sorto in epoca illuminista, sottenda necessariamente un’idea di progresso, sul presupposto c h e si impernia sull’emancipazione del sapere umano, in primis del sapere filosofico, dalla teologia. questo processo di emancipazione, in contrasto con la reductio ad unum metafisica, caratteristica dell’epistemologia medievale, si sviluppa secondo schemi logici che le diverse interpretazioni del fenomeno hanno individuato, hegelianamente, nel “movimento di proiezione
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verso il quaggiù” di “rappresentazioni e di schemi situati fino ad allora al di là della storia mondana”, ovvero in un movimento d’emancipazione, insieme generale e particolare, per il quale i differenti campi della vita sociale si emancipano poco a poco dalla tutela ecclesiale o dall’eteronomia religiosa”6
Ma questo processo di affrancazione delle molteplici declinazioni del sapere umano dai condizionamenti teologico - ecclesiali trova il suo momento unificante, la sua κοινὴ operativa, nel progressivo manifestarsi, nei diversi contesti culturali, istituzionali e sociali, degli effetti di un concetto che Max Weber definisce di eigengesetzlichkeit, ovvero di “autonomizzazione delle differenti sfere sociali”7. Nella filosofia, nell’arte, nell’economia e nella politica, si è cominciato ad esprimere con forza sempre maggiore, da parte di molti di coloro che detenevano il sapere, l’esigenza di rivendicare la specificità della logica interna alle norme ed alle pratiche di riferimento dei rispettivi ambiti speculativi, rigettando il “dominio dell’eteronomia per eccellenza, ovvero il dominio della religione.”8 “silete, theologi, in munere alieno”, con questo perentorio e decisivo monito anche il giurista Alberico Gentili, nel XVI secolo, diffidava i teologi, che fino a quel momento si erano pesantemente ingeriti nel pensiero giuridico, conferendo ad esso il proprio orizzonte trascendente di senso, dal continuare ad occupare spazi non di loro competenza nell’incipiente modernità. In questo monito, che finanche nelle pieghe dell’etimologia manifesta una polivoca e sfaccettata compresenza di significati apparentemente eccentrici, traluce l’idea materiale di spazio fortificato (“munus” come mura cittadine), quella istituzionale (“munus” come ufficio) ed infine l’idea dolce di gratuità (“munus” come dono), quasi a voler indicare, in uno sfumato decrescere semantico di solidità che
non implica depotenziamento, il definitivo passaggio/dono del testimone tra due “élites dominanti”9
E l’efficacia di questo forte richiamo parenetico di Alberico Gentili è tale che Carl Schmitt la considerava, in relazione al processo di emancipazione del diritto dalla teologia e dalla subordinazione ecclesiale, un “grido di battaglia che, sotto il profilo della sociologia della conoscenza, può valere come il motto tipico dell’epoca”10.
Il fatto, dunque, che anche il diritto, al pari di qualunque altra espressione dello spirito sia stato ad un certo punto interessato dal processo di secolarizzazione non può essere persuasivamente contestato. Se, tuttavia, questo processo di secolarizzazione sia effettivamente riuscito nell’obiettivo di autonomizzare la dimensione giuridica da istanze eteronome e, soprattutto, se un diritto completamente autonomizzato costituisca, di per sé, un fattore di progresso e non, piuttosto, un mero fatto normativo vuoto, in quanto privo di spirito e di effettiva legittimazione, è questione che, ancora ai nostri giorni, non può ritenersi definitivamente risolta.
La secolarizzazione è, quindi, un processo che ogni manifestazione dello spirito umano ha sviluppato, o forse subito, ciascuna secondo i propri tempi e le proprie condizioni contingenti; un processo che acutamente J.C. Monod, seguendo un’impostazione logica della storia tipicamente weberiana, ha scandito in due grandi e precise fasi evolutive: la fase di trasferimento e la fase di liquidazione. Nella prima fase l’autonomizzazione si realizza attraverso un’operazione di sostituzione e trasferimento, da parte degli esponenti dei diversi settori di riferimento, delle prerogative sacrali tipiche della prospettiva teologico – ecclesiale del mondo. In altri termini, il carattere della sacralità tende a trasferirsi sulla disciplina che si vuole emancipare: “un settore sociale o un’istanza particolare, se deve
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emanciparsi da una tutela religiosa, ecclesiale va tendenzialmente a prendere a prestito dalla religione, dalla Chiesa e dalla teologia le loro armi, va a trasferire all’istanza interessata dei tratti sacralizzanti, degli attributi teologici, delle proprietà ecclesiali”11. Prerogative come la sovranità, o l’ispirazione (la pneumaticità dell’uomo di cui parla San paolo in molti luoghi, ma soprattutto nella lettera ai romani12, con implicazioni rilevantissime per la sua critica al legalismo farisaico) cessano di essere ad esclusivo appannaggio della divinità e di chi in terra, secondo una linea di continuità che risale alla traditio apostolica, la rappresenta, per trasferirsi sull’intellettuale e/o sull’artista emancipato. Ma questa operazione cede presto il passo, nell’evolversi del processo di secolarizzazione, ad una fase, come si è detto, di disincanto e di liquidazione di quei residui di sacralità c h e ancora contaminavano e, in un certo senso, legittimavano la prima fase. L’opera d’arte, ad esempio, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, per utilizzare la felice espressione di uno dei capolavori di Walter Benjamin, completa il suo processo di secolarizzazione, perdendo nella replicabilità tutta la sua aura sacrale13
Posto, dunque, che per la filosofia, per l’arte e per molte altre espressioni dello spirito, la secolarizzazione, nella duplice fase di sviluppo evidenziata, sia un punto di approdo che ha quasi il sapore di un destino, di un ἔσχατον laico al quale, in nome di una certa idea di progresso, non sia più possibile sottrarsi, possiamo legittimamente affermare che anche la dimensione del giuridico sia caratterizzata da questo evento destinale? E soprattutto, al precipuo fine che in questa sede più interessa, si tratta di un destino che abbraccia il diritto nella sola dimensione ordinamentale politica, o riguarda anche l’esercizio della giurisdizione in quanto concreta applicazione della norma? È un fatto che il
grande tema della secolarizzazione in rapporto all’ambito giuridico sia sorto storicamente con esclusivo riguardo alla prospettiva ordinamentale e politica. È, infatti, molto importante sottolineare come il processo di emancipazione dei giuristi, il ricordato richiamo al silenzio di Alberico Gentili rivolto ai teologi, si situasse nel contesto del predominio che il sistema di pensiero giuridico –statale contendeva al sistema di pensiero ecclesiastico – teologico14. Non veniva, quindi, in rilievo il problema dei condizionamenti ermeneutici eteronomi che l’universo religioso pretendeva di esercitare nel momento dell’applicazione concreta della norma ad una specifica situazione di vita, ma esclusivamente quello concernente “il contrasto profondo tra due ordinamenti e autorità concrete fondamentalmente differenti dal punto di vista istituzionale e organizzativo”15. Il cennato contrasto, dal XVI secolo in poi, si è sempre attestato sul piano esterno dei limiti reciproci alla sovranità dei rispettivi ordinamenti e non su quello, tutto interno alla logica delle norme e della loro applicazione, delle influenze sulla decisione giurisdizionale da parte di sistemi ideologici e concettualità politiche estranee alla dimensione puramente giuridica. Per quanto concerne il primo dei cennati interrogativi, il grande dibattito intorno al tema della teologia – politica, razionalizzato da Carl Schmitt nei primi anni ‘20 del ‘900, e proseguito con accenti diversi sino ai giorni nostri, sta chiaramente a dimostrare che lo stesso concetto di teologia – politica costituisce, nel senso sopra indicato, il primo stadio della secolarizzazione, e quindi dell’autonomizzazione del diritto dall’eteronomia religiosa e teologica. È estremamente significativo c h e Sc h mitt incentri q uesta nozione su due presupposti apparentemente irrelati, ma in realtà strettamente connessi sotto il profilo della dinamica operativa del concetto. Da un lato l’indicazione dei caratteri
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individualizzanti della figura del sovrano e della sovranità: “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”16. Dall’altro, la strutturazione dell’isomorfismo concettuale che, per via analogica, accomuna la dimensione teologica a quella giuridico – statuale: “Tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”17. Come tutti i concetti duali18, quello di teologia - politica è un concetto sfuggente che, proprio per questa sua natura duale, verrebbe quasi da definire come un concetto di derivazione gnostica19, in relazione al quale il ruolo del demiurgo creatore, malvagio e vendicatore, è rappresentato dall’ordinamento giuridico - politico, mentre quello del “deus ignotus”, buono e misericordioso, è interpretato dalla teologia, sia pure in un’intri-
cata indistinzione che non sempre lascia trasparire i margini delle rispettive sfere di influenza sul mondo20. Proprio perché sfuggente, quello di teologia – politica è anche un concetto molto controverso la cui storia, a prescindere dalla razionalizzazione fattane da Schmitt, risale al mondo antico e tardoantico, almeno a quello omogeneo al nostro immaginario culturale, come quello grecoromano e cristiano21. E la sua valenza va ben oltre l’isomorfismo strutturale, delineato dallo stesso Schmitt, tra i concetti teologici e quelli politici, atteso che questo isomorfismo è stato interpretato come perfettamente reversibile: “Tutti i concetti teologici più pregnanti sono concetti politici teologizzati”22 Se la secolarizzazione dei concetti teologici è perfettamente reversibile nella teologizza-
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zione dei concetti politici, come teorizza Jan Assmann per il mondo antico, è perché il problema della teologia politica non è un problema di descrizione di una categoria storica, ma è sostanzialmente un problema di legittimazione. Con questa categoria del pensiero, in altri termini, si è sempre inteso conferire legittimazione, più o meno strumentalmente, al fatto politico23.
Il passaggio, nel corso dei secoli, da un processo di politicizzazione (Politisierung) del reale in epoca antica, secondo l’isomorfismo concettuale “dal basso” indicato da Assmann, ad un processo di spoliticizzazione del reale (Entpolitisierung) nella modernità secolarizzata, secondo quello “dall’alto” indicato da Sc h mitt, implica comun q ue un ruolo attivo legittimante della teologia politica24. Ruolo attivo militante che Assmann, nella sua analisi, ha denunciato sia con riguardo alla posizione di coloro che, sulla scia di Schmitt, hanno inteso legittimare determinate istanze ed istituzioni storiche (nel suo caso, in particolare, il Sacro Romano Impero), sia di coloro che hanno invece avversato il concetto, prendendo posizione contro di esso. La giustapposizione dell’aggettivo “politica” al sostantivo “teologia” costituisce, infatti nella prospettiva di Assmann25, lo smascheramento della teologia “nel suo uso politicamente funzionale di strumento d’oppressione”. Uso c h e, invece, Sc h mitt avrebbe surrettiziamente legittimato interpretando il concetto in un’accezione positiva. Ma anche quanti, come Erik Peterson26, hanno risolutamente avversato questa categoria della legittimazione del fatto politico, sostenendone, dal versante squisitamente teologico, l’infondatezza, avrebbero comunque assunto, per Assmann, una posizione militante, anche se in senso negativo. È noto l’argomento liquidatorio della teologia politica in virtù del quale Peterson ne ha inferito l’impossibilità: il principio trinitario, sistemato dogmatica-
mente da Gregorio di Nazianzo27 e da Agostino d’Ippona28, impedirebbe teologicamente e logicamente di sostenere la corrispondenza isomorfica tra concetti teologici e concetti giuridico – politici. È del tutto evidente come la liquidazione petersoniana della teologia politica si situi su un piano meramente teologico, essendo suo precipuo intendimento –intendimento pienamente comprensibile e giustificato nella congerie politica del tempo in cui Peterson scriveva (1935) – dimostrare che il carattere misterico del dogma trinitario non poteva conferire legittimazione, al contrario del principio monoteistico assoluto, ad alcuna contingenza politica. Nessuna forma istituzionale umana è neanche lontanamente comparabile alla sostanza teologica della Trinità, che non può trovare alcuna corrispondenza e/o rappresentazione di tipo politico29. Coglie, dunque, nel segno Carl Schmitt quando, tornando sull’argomento mai definitivamente accantonato e superato, definisce leggendaria la pretesa di liquidare la teologia politica mediante il ricorso ad un’argomentazione tutta intrinseca al discorso teologico30. Se è ben vero che nell’uso politicamente funzionale del dispositivo teologico – politico si cela, come sostiene Assmann, uno strumento di oppressione, o comunque di legittimazione del fatto politico, anche il più criminale, è altrettanto vero che la tesi liquidatoria di Peterson si muove nello stesso orizzonte teologico – politico. L’assunto per il q uale la struttura ontologica trinitaria della divinità cristiano – cattolica inibisce suggestioni analogiche concettuali che la colleghino alla figura terrena del sovrano, non esclude, infatti, la sua validità come categoria interpretativa delle dinamiche storico – istituzionali, sebbene Peterson, come si è detto, in quel frangente politico avesse tutte le ragioni per contestare radicalmente Schmitt e per scagliargli contro il suo salutare dardo amicale31. Del resto, il successo di questa categoria interpre-
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tativa si è spinto ben oltre i limiti del perimetro politico - culturale all’interno del quale è sorta la polemica tra Schmitt e Peterson. Persino all’interno del sapere teologico, a partire dagli anni ‘60 del ‘900, si è sviluppato un intenso dibattito intellettuale, promosso da J.B. Metz32 e J. Moltmann33, in merito al significato della teologia politica come espressione dell’impegno militante e della necessità, per il pensiero teologico stesso, di “maturare un’autocoscienza della propria situatività storica e dunque della propria – e con ciò di tutta la Chiesa – ineliminabile politicità”34. La teologia non può disimpegnarsi in quanto “il rapporto tra fede e mondo va determinato mediante il concetto di una escatologia critica creatrice, una teologia siffatta del mondo deve essere nello stesso tempo teologia politica”35.
Anche sul versante della “salvezza” la teologia politica svolge una fondamentale funzione militante, giacchè, nella visione di Metz:
“Una teologia del mondo, la quale si lascia guidare da questa escatologia creativa e produttiva, non può essere elaborata nello stile e nelle categorie della vecchia cosmologia teologica. Nè può svolgere il suo compito nello stile e nelle categorie di una teologia puramente trascendentale – esistenziale –personalista, in rapporto a questo compito appare troppo privata. La fede infatti non dice in rapporto al mondo in senso cosmologico, bensì sociale – politico. La teologia del mondo perciò non è né pura teologia oggettivistica del cosmo, né teologia puramente trascendentale della persona e dell’esistenza, bensì soprattutto teologia politica”36.
Con buona pace di Peterson, dunque, ma anche di hans Blumenberg, la teologia politica è tutt’altro che liquidata per effetto dell’arroccamento nello specifico teologico, ed è anzi una categoria ermeneutica più che mai attuale cui commisurare gli equilibri del dif-
ficile rapporto tra il potere terreno e la salvezza trascendente, come dimostra il suo successo anche nell’ambito ecclesiale contemporaneo.
Sinteticamente delineati i tratti principali di questo dibattito, in quale misura – per tentare di dare una risposta al secondo degli interrogativi sopra posti – l’esercizio concreto della giurisdizione può dirsi da esso implicato o anche solo interrogato? La pregnanza dei concetti della dottrina dello Stato come secolarizzazione dei principali concetti teologici, secondo l’isomorfismo indicato da Schmitt, è un fenomeno che concerne solo ed esclusivamente la dimensione pubblica del diritto politico o riguarda da vicino anche la decisione giurisdizionale?
La teologia politica nell’accezione di Schmitt, sopravvissuta al “dardo amicale” scagliato da Peterson ne “Il monoteismo come problema politico” del 1935, ed anzi rivitalizzata e rilanciata nel dibattito teologico degli anni ‘60 del ‘900, a prescindere da qualunque critica ontologica ad essa si voglia muovere, ha lasciato un retaggio avvelenato non contestabile ed assai difficilmente superabile. Interpretata come momento interlocutorio di transfert e sostituzione dell’universo simbolico teologico nella prima fase del processo di secolarizzazione del diritto, ha comunque costretto il pensiero giuridico a confrontarsi con le sue suggestioni e, in un certo modo, condizionato anc h e le forme della successiva fase di liquidazione, che si è sviluppata nei termini assoluti di un positivismo radicale. Come acutamente rileva Monod, Schmitt con la teologia politica “ha prestato attenzione al transfert; ma con la sua riflessione sulla depoliticizzazione e la morte dello Stato, egli ha previsto e temuto la liquidazione”37
È stato, in un certo senso, l’horror vacui della depoliticizzazione, in quanto esiziale per l’ordine e per lo Stato, che ha impresso
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l’impulso alla radicalizzazione tanto della concezione teologico - politica quanto, per converso ed in opposizione, del positivismo asettico e formalistico della dottrina pura del diritto38, avvinghiandoli in una compenetrazione dialettica che nessuna sintesi ha ancora efficacemente permesso di trascendere.
Laddove alla mistica teologica del Dio onnipotente e sovrano si è surrogata q uella dello Stato assoluto, rivestito di analoghe prerogative e metaforizzato da hobbes nella figura mostruosa del Leviatano, il Dio mortale terreno, le spinte alla autonomizzazione del diritto si sono tradotte nella necessità di secolarizzare lo stesso Stato, ipostatizzandolo, secondo la sistemazione kelseniana, nel suo ordinamento normativo, ovvero in un compendio formale di norme gerarchicamente organizzate. Se lo Stato non è più un’entità spirituale trascendente, ma coincide senza resti con il suo ordinamento giuridico, ovvero con l’insieme organico del suo apparato normativo, è inevitabile che esso rimanga privo di quegli attributi di ulteriorità politica che Schmitt, in feroce dissenso con il positivismo legalistico di Kelsen, riteneva fondamentali per il mantenimento della sua stessa legittimità. Nel coacervo normativo fine a se stesso, nell’insieme puramente architettonico di disposizioni imperative il Leviatano, lentamente ma inesorabilmente, muore, perché perde la possibilità della decisione politica nello stato d’eccezione. E se lo Stato secolarizzato si immanentizza nella pura dimensione normativa, nessun fattore d’ordine frenante, nessun κατέχον39 - inteso nel senso in cui l’interpretazione teologico - politica ha descritto questo misterioso concetto espresso da San Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi40 - può intervenire per scongiurare, o anche solo per ritardare, il suo ineluttabile declino. Il diritto depoliticizzato, ridotto a pura norma oggettiva, conoscibile e descrivibile secondo schemi logici classici o, al più,
logico – retorici, si affranca anche dalla “finzione della sovranità”, in quanto “residuo metafisico – teologico”41.
La prima conseguenza, immediata e diretta, della secolarizzazione positivistica e neo – kantiana del diritto è quella descritta dal cosiddetto teorema – ma sarebbe meglio definirlo paradosso – di Böckenförde: “lo Stato liberale secolarizzato vive sulla base di presupposti che non è capace, esso stesso, di garantire” 42 . Sebbene non vi sia consenso unanime sulla fondatezza analitica di questo paradosso nichilistico, e per quanto il suo stesso autore abbia cercato di mitigarne gli effetti ricorrendo hegelianamente al sostegno legittimante di un ἦθος comunitario in una società pluralistica ed aperta in cui il diritto media tra etica e politica43, non si può certamente negare che, svanita l’illusione ottocentesca e primo - novecentesca degli Stati – nazione, in quanto garanti di una nuova forza unificante, un diritto secolarizzato e privatizzato nel contesto di uno Stato liberale non può cercare di garantire le libertà che riconosce ai propri cittadini solo con i mezzi interni della coercizione normativa. E non si tratta di unirsi alla schiera dei detrattori e dei diffamatori della concezione positivistica del diritto44, ma di rilevare obbiettivamente che tutti i tentativi di fondare una solida unità legittimante, nell’epoca del diritto depoliticizzato e secolarizzato, si scontrano quanto meno col rigore logico – politico del paradosso di Böckenförde che non può essere superficialmente liquidato, se non mettendo in discussione la stessa categoria della secolarizzazione45
Ma ciò che più rileva, ai fini di questo lavoro, è il fatto che l’ipostatizzazione dello Stato e del diritto politico nella sua pura espressione formale giuridico - ordinamentale, secondo la tesi di Kelsen, comporta anche un’altra conseguenza, che si riverbera indirettamente sul ruolo e sulla funzione della
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giurisdizione. Se il diritto si riduce all’ordinamento giuridico, alla pura legalità formale ed astratta, il decisore per eccellenza di questo diritto mondanizzato e secolarizzato non è più il sovrano politico, che si limita ad intervenire nella fase genetica e statica della produzione del νόμος, ma diventa il giudice, che invece governa la fase dinamica dell’applicazione della norma e ne rende vivo e concreto il dispositivo. Si tratta di una conseguenza alla q uale il dibattito filosofico, politico e teologico sulla teologia politica è rimasto estraneo, giacchè questa categoria si è sempre situata a livello di diritto politico e l’istanza decisionale ultima, presa in considerazione, è sempre stata q uella appartenente al sovrano classico. quando la Stato, dall’incarnazione nel sovrano, passa tuttavia ad identificarsi con un sistema di norme –dal sein del puro fatto politico al sollen della disciplina astratta, per seguire il dualismo di Kelsen – a ciò consegue inevitabilmente che anche l’attributo della sovranità muta referente. Forse proprio per questo Schmitt, da giurista raffinato ed intrinsecamente “politico” qual era, intravedeva nel positivismo radicale e nella legalità formale una minaccia esiziale per lo Stato come lui lo intendeva e, soprattutto, per quel tipo particolare di Stato storico che il suo discorso mirava a legittimare. Considerando, poi, i cardini del principio teologico – politico schmittiano, gli indicatori di sovranità in rapporto al fenomeno della secolarizzazione come analogia strutturale di concetti pregnanti, il passaggio alla figura del giudice non risente minimamente del cambio di paradigma. Se sovrano è colui che decide nello stato d’eccezione, questa prerogativa si attaglia perfettamente alla funzione di mediazione tra istanze plurali e contrapposte che il giudice svolge nelle moderne democrazie liberali. Nel momento in cui il giudice esercita il potere giurisdizionale mediante la decisione (jus dicit), etimologica-
mente separando (de – caedens) e nel contempo consacrando l’istanza meritevole rispetto a quella soggiacente, e nella misura in cui questa decisione costituisce piena attuazione dell’ordinamento giuridico, lo Stato, in virtù dell’equivalenza kelseniana, si invera attraverso il suo atto sovrano, in quanto neminem superiorem recognoscens. Né, in questa prospettiva, risulta particolarmente problematico il fatto che l’oggetto della decisione, per incidere sull’attribuzione della sovranità, debba concernere necessariamente lo stato d’eccezione, giacchè il rapporto logico regola – eccezione, rispetto alla disciplina del mondo della vita, non è un rapporto c h e possa ritenersi esclusivo del diritto politico pubblico, ma può concernere anche le situazioni di vita implicate dalla decisione giurisdizionale. Peraltro, la proprietà della completezza dell’ordinamento giuridico, intesa in senso relativo come tautologica46 coesistenza, al suo interno, di tutte le possibilità logiche che esauriscono l’insieme dei fatti umani qualificabili normativamente, induce a svalutare la rilevanza dell’eccezione in quanto tale, se interpretata come situazione non prevista o hors la loi. Il giudice non decide mai sullo stato d’eccezione, perché nessuna situazione di fatto può ritenersi davvero eccezionale in quanto tautologicamente non contemplata, anche solo in negativo, dall’ordinamento giuridico. Con lessico filosofico assai più seducente di quello logico classico, Giorgio Agamben ha ben definito questa ambivalenza dell’eccezione, che non è mai ganz andere rispetto all’ordinamento giuridico:
“In verità lo stato di eccezione non è né esterno né interno all’ordinamento giuridico e il problema della sua definizione concerne appunto una soglia, o una zona di indifferenza, in cui dentro e fuori non si escludono, ma si indeterminano. La sospensione della norma non significa la sua abolizione e la zona di anomia che essa instaura non è (o,
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almeno, pretende di non essere) senza relazione con l’ordine giuridico”47.
Il giudice, quando prende una decisione, è sempre al limite di una soglia che non trascende mai, perché ciò che in ipotesi si trova al di fuori è in realtà interno ad essa, in un rapporto di inclusione esclusiva. Non si tratta di un gioco di parole, ma di un concetto limite ben preciso che denota l’impossibilità di considerare l’eccezione come un fattore alieno ed escludente, in quanto:
“è, nel diritto, un elemento che trascende il diritto positivo, nella forma della sua sospensione. Essa sta al diritto positivo, come la teologia negativa sta a q uella positiva. Mentre questa, infatti, predica e afferma di Dio determinate qualità, la teologia negativa (o mistica), col suo né…, né…, nega e sospende l’attribuzione di qualsiasi predicazione. Essa non è, tuttavia, al di fuori della teologia, ma funziona, a ben guardare, come il principio che fonda la possibilità in generale di qualcosa come una teologia. Solo perché la divinità è stata presupposta negativamente come ciò che sussiste al di fuori di ogni possibile predicato, essa può diventare soggetto di una predicazione. In modo analogo, solo perché la validità del diritto positivo è sospesa nello stato di eccezione, esso può definire il caso normale come l’ambito della propria validità.”
Nel linguaggio e nella prassi dei giuristi questa inclusione esclusiva, rispetto alla potestà decisionale del giudice nello stato d’eccezione, è espressa dall’antico principio, precettivo e tirannico, del divieto di pronunciare un “non liquet”, che lo condanna a decidere qualunque sia la questione sottoposta al suo vaglio e quale che sia lo stato di validità o di tassatività qualificativa dell’ordinamento giuridico che, applicando, invera. Ed anzi, proprio lo stare del giudice sulla soglia, nel margine dell’eccezione, è ciò che presuppone e definisce la sua sovranità:
“Essere-fuori e, tuttavia, appartenere: questa è la struttura topologica dello stato di eccezione, e solo perché il sovrano, che decide sull’eccezione, è, in verità, logicamente definito nel suo essere da questa, può anch’esso essere definito dall’ossimoro estasi-appartenenza”48.
L’errore, o forse sarebbe meglio dire l’illusione consapevole, di Carl Schmitt è stata quella di pensare che gli elementi fondamentali della sovranità, il potere di decidere nello stato d’eccezione, fossero elementi propri della figura del sovrano classico, immaginando c h e q uesta prerogativa si esprima esclusivamente nella situazione limite della sospensione dell’ordinamento giuridico, e pertanto in un contesto politico – istituzionale estremo 49 . Dalle pieg h e della sua opera emerge, invece chiaramente come egli fosse perfettamente consapevole del rischio che l’attributo della sovranità potesse prescindere dalla dimensione del politico e perdere, conseguentemente, rilevanza, almeno nell’ottica legittimante che gli interessava. Dopo aver enunciato il principio cardine della sovranità, egli afferma infatti esplicitamente che la decisione nello stato d’eccezione che lo sostanzia è decisione che concerne un caso che “può al massimo essere indicato come caso di emergenza esterna, come pericolo per l’esistenza dello Stato o qualcosa di simile, ma non può essere descritto con riferimento alla situazione di fatto”50. E, ancora più lucidamente, afferma:
“La costituzione può al più indicare chi deve agire in un caso siffatto. Se quest’azione non è sottoposta a nessun controllo, se essa non è ripartita in qualche modo, secondo la prassi della costituzione dello stato di diritto, fra diverse istanze che si controllano e si bilanciano a vicenda, allora diventa automaticamente chiaro chi è il sovrano. Egli decide tanto sul fatto se sussista il caso estremo d’emergenza, quanto sul fatto di che cosa si
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debba fare per superarlo. Egli sta al di fuori dell’ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia appartiene ad esso poiché a lui tocca la competenza di decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa. Tutte le tendenze del moderno sviluppo dello Stato di diritto concorrono ad escludere un sovrano in questo senso”51
Due passaggi meritano, soprattutto, di essere evidenziati in questo brano: il concetto per il quale il sovrano sta al di fuori dell’ordinamento giuridico normalmente vigente ma tuttavia gli appartiene, ed il fatto che le moderne concezioni dello Stato di diritto tendano ad escludere un modello di sovrano di questo tipo. Dunque, già all’epoca, Schmitt si rendeva perfettamente conto, da un lato, del fatto che la figura del sovrano è una figura che si trova “sulla soglia” e che non può essere completamente estraniata dalla sua
appartenenza all’ordinamento giuridico, mentre, dall’altro, del fatto che questo modello di sovranità è un modello che stride con i principi dello Stato di diritto moderno, kelsenianamente improntati sulla piena intraneità del “sovrano” all’ordinamento giuridico Stato. E in tutto questo la teologia politica, caposaldo catecontico teorizzato da Schmitt per frenare il dilagare del disordine positivistico nella fase ultimativa di liquidazione nell’ambito del processo di secolarizzazione, fallisce miseramente nel suo tentativo, limitandosi ad attrezzare un mero isomorfismo strutturale di concetti disomogenei53, buono per tutte le stagioni giuridico – politiche e del tutto inidoneo ad impedire che, con la sovrapposizione dello Stato all’ordinamento giuridico normativo in quanto tale, la sovranità si trasferisca, o quanto meno concorra con altre istanze decisionali ultime,
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come ad esempio quella giudiziaria54.
Posto, allora, che nello Stato moderno di diritto la sovranità si trasferisce su istanze decisionali diverse dal “sovrano” politico classico, e posto che la teologia politica, come fase intermedia di “transfert” analogico –simbolico nel processo di secolarizzazione, non costituisce un argine solido ed adeguato per evitare che la fase di liquidazione sfoci in un positivismo radicale avalutativo, deteologicizzato e depoliticizzato, si può tranquillamente ritenere che si tratti di un punto di approdo soddisfacente?
Se, per un verso, ciò costituisce un indubbio risarcimento per le “diffamazioni”55 subite da Kelsen in riferimento alle potenzialità politicamente criminogene di cui il suo sistema è stato ritenuto portatore a causa del normativismo astratto che lo caratterizza, per altro verso la preoccupazione in parte strumentale, manifestata da Schmitt in ordine ai pericoli che una depoliticizzazione selvaggia comporta in termini di sostanziale legittimità dell’istanza decidente non appaiono del tutto peregrini. Schmitt è rimasto, senza dubbio, vittima, egli stesso, del paradosso di Böckenförde, al punto che anche per la sua concezione teologico – politica si possa affermare che lo Stato il cui sovrano replica simboli e concetti propri della teologia vive sulla base di presupposti che non riesce a giustificare ed è fatalmente destinato a secolarizzarsi nel positivismo radicale, nomistico e depoliticizzato. Tuttavia, la sua preoccupazione scaturisce dalla giusta esigenza di evitare un’assolutizzazione del νόμος che lo renda punto di riferimento autoreferenziale della decisione. In questa prospettiva, il nuovo sovrano del moderno Stato di diritto, il giudice, si pone come istanza decisionale ultima cui compete optare per il νόμος in quanto tale (lex gratia legis), ovvero per una mediazione vivificante del fatto umano in rapporto al νόμος stesso, innervando di senso l’ordina-
mento giuridico Stato. Agamben coglie al meglio la valenza di questa opzione cui il “sovrano” si trova di fronte, quando individua il fine precipuo della decisione:
“La politicizzazione della nuda vita è il compito metafisico per eccellenza, in cui si decide dell’umanità del vivente uomo, e, assumendo questo compito, la modernità non fa che dichiarare la propria fedeltà alla struttura essenziale della tradizione metafisica”56. Da come esercita questa facoltà d’opzione, ne va, per il giudice, della sua stessa sovranità, nel senso che questo concetto assume nel moderno Stato di diritto: egli si trova, quindi, ad un bivio, in prossimità del quale è gravato dalla scelta se optare per una sovranità consapevole e vitalizzante, oppure interpretare burocraticamente il proprio ruolo sovrano, decidendosi e decidendo per un’affermazione legalistica, depoliticizzata e completamente autonomizzata dell’ordinamento giuridico. Scegliendo questa seconda opzione di tipo burocratico, imperniata su un esercizio della giurisdizione del tutto secolarizzato, il giudice incorre nello stesso paradosso di Böckenförde nel quale sono caduti i suoi mentori positivistici - il sistema puro kelseniano in primis – in quanto incapaci di giustificare gli stessi presupposti sui quali si fondano i diritti c h e riconoscono, e fatalmente destinati a sottomettersi alle declinazioni epigonali contemporanee del “sovrano” classico, teologicizzato e politicizzato, e comunque molto più avvezzo, a differenza sua, alla figurazione di un immaginario simbolico e di senso cui improntare la propria decisione.
La radice di questa lacerazione, che vulnera la giurisdizione moderna molto più profondamente di quanto si possa pensare, oltre ad innegabili pulsioni di carattere antropologico e psicologico, risiede senza dubbio nel distorto ed irrisolto rapporto con la stessa idea di νόμος, che anche gli interpreti quali-
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ficati tendono spesso ad equivocare, talora a banalizzare o addirittura a misconoscere nei suoi giusti margini. E gli effetti di questo fraintendimento, nell’ottica di quello che si è definito un esercizio consapevole, da parte del giudice, della propria sovranità, sono assai deleteri, atteso che il νόμος, se interpretato in chiave di positivismo radicale depoliticizzato, risc h ia di attrarre molto più facilmente la giurisdizione in una dinamica autoritaria. È stato sottilmente osservato57 come l’impero romano “abbia potuto integrare nelle sue strutture, sia pure con conflittualità ricorrenti, il nomismo alternativo e particolarista giudaico, mentre la crisi sia stata determinata dalle difficoltà di integrazione di un fenomeno universalistico e a nomismo del tutto limitato, prevalentemente negativo, quale il cristianesimo del II e III secolo.” Da questo paradigma storico, con le cautele e le specificità del caso, emerge tuttavia chiaramente come sistemi la cui impronta legalistica è molto marcata - persino un nomismo particolarissimo e sofisticato come quello giudaico - siano tra loro molto più compatibili ed integrabili rispetto ad un sistema a basso tasso di nomismo formalistico, ma animato da una fortissima tensione kerigmatica58. Ancora una volta, di fronte ad una contraddizione più apparente che reale come questa, è la subtilitas intelligendi di Carl Schmitt - subtilitas che lui per primo non sempre ha saputo portare alle estreme conseguenze – a venirci in soccorso. Pochi, come Schmitt, hanno però compreso l’essenza profonda, polivoca e sfuggente del νόμος e, soprattutto, hanno inteso dare all’interrogativo paolino “Τί οὖν ὁ νόμος;”59 una risposta non banale e superficiale, poichè impostata sulla sola componente normativo – precettiva.
Carl Schmitt60 non errava nel lamentare la perdita del significato originario del termine νόμος, dai sofisti in poi, nel linguaggio ordinario; ma la sua lamentela atteneva spe-
cificamente alla trasformazione di questo termine da referente semantico per designare la misura della terra occupata, il criterio di divisione e di ripartizione del quantum di terra oggetto di appropriazione, ad espressione per designare una generica ed astratta definizione di norma regolamentare positiva, buona per qualsiasi tipo di oggetto da disciplinare. Solo in Aristotele61 Schmitt intravedeva un pallido retaggio dell’originario significato di misurazione che aveva in origine il concetto, pensato in stretta correlazione alla dimensione spaziale di ripartizione della terra occupata. A prescindere dal fatto che la ricostruzione etimo - genealogica del concetto proposta da Schmitt (νόμος da νέμειν, che significa dividere, pascolare), per quanto rigorosa e seducente, sia o meno storicamente corretta, è molto illuminante un’altra sua grande intuizione.
Ma sul punto, per non disperdere e svilire nella parafrasi la pregnanza di questa intuizione, è meglio lasciare parlare lo stesso Schmitt62: “È particolarmente difficile, nella lingua tedesca, chiarire il significato della parola gesetz. Il tedesco attuale è in gran parte lingua di teologi (in quanto lingua della traduzione luterana della Bibbia), e al tempo stesso lingua di tecnici e di artigiani (come già aveva osservato Leibnitz). A differenza del francese, non è lingua di giuristi e di moralisti. Essa conosce un significato potenziato ed elevato, anzi sublime, della parola gesetz. Poeti e filosofi amano questa parola che, attraverso la traduzione luterana della Bibbia, possiede un suono sacrale ed una forza numinosa. A questa fonte perfino gli Urworte –orphisch di Goethe attingono ancora: «nach dem gesetz, nach dem du angetreten». Malgrado ciò, la parola tedesca gesetz, a differenza di quella greca νόμος, non è un termine originario. È un termine non poi così antico della lingua tedesca scritta. Tale parola si trova profondamente avviluppata nelle opposi -
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zioni teologiche tra il concetto (ebraico) di legge e il concetto (cristiano) di grazia, tra il concetto (ebraico) di legge e il concetto (cristiano) di Vangelo, e ha infine avuto la sfortuna di perdere, proprio presso i giuristi, i quali avrebbero dovuto invece ritenerla sacra, la possibilità di mantenere il proprio senso sostanziale.”
Non è il caso di soffermarsi troppo su quanto il nazionalismo tedesco e la volontà di legittimazione di determinate esperienze storico – politic h e abbiano influenzato Schmitt anche in questa analisi, ma non si può fare a meno di notare come egli individui, in modo decisivo, q uel sovrappiù di senso63 che il concetto di νόμος esprime rispetto alla semplice accezione legal – positivistica. quello di νόμος non è, pertanto, un concetto astratto e funzionale che denota la posizione dell’atto imperativo puro, ma un concetto originario che implica la necessità di non perdere, nel significato del termine, “il suo collegamento con un processo storico, con un atto costitutivo dell’ordinamento dello spazio”.
Il νόμος che ha mantenuto questo collegamento è il νόμος che si è mantenuto nella pienezza del suo orizzonte di senso originario, senza subire quel “processo di funzionalizzazione” alla legge - sempre per usare un’efficace espressione di Schmitt - che lo depaupera della sua natura più autentica, degradandolo a mera normatività astratta. L’assolutizzazione del concetto di νόμος, il fatto di renderlo quasi un “a priori” della ordinamentalità in quanto tale, lo ammanta pericolosamente di quell’attributo della regalità che già Pindaro gli riconosceva nel famosissimo frammento 169 (νόμος βαςιλεύς), in quanto potente fattore regolativo capace di giustificare, nel senso di rendere conforme al diritto e non di mero scriminare, anche l’atto più violento, mediante un “atto di posizione di un’imposizione”. Il νόμος – legge è, tuttavia, un sovrano senza regno, una cuspide dispotica che positivizza il fatto arbitrario, disancorandolo totalmente da qualunque presupposto di legittimità sostanziale. Esso, invece, indica – come puntualmente rilevava Schmitt - “la piena immediatezza di
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una forza giuridica non mediata da leggi; è un evento storico costitutivo, un atto della legittimità che solo conferisce senso alla legalità della mera legge”64.
Ma quanto è davvero consapevole, oggi, chi esercita la funzione giurisdizionale di questa ulteriorità di senso? E quanto il pregiudizio e la precomprensione di matrice positivistica condizionano il giudice nel momento di inveramento dell’ordinamento giuridico, stimolando suggestioni comportamentali di tipo tecnocratico ed inducendo un’autocomprensione del momento decisionale come fase puramente esecutiva di una volontà eteronoma e non come una legittima e doverosa espressione di sovranità?
Se, come sostiene Kelsen, lo Stato, ovviamente inteso in senso giuridico e non sociologico, si confonde con l’ordinamento normativo puro, ed in particolare con la sua legge fondamentale, la Costituzione, che ne rappresenta il vertice gerarchico, allora anche il richiamo ai principi costituzionali quale ratio fondante e legittimante non sfugge di per sè agli effetti depoliticizzanti della secolarizzazione, trattandosi di principi positivi che ben possono sclerotizzarsi in una dinamica legalistico – imperativa, peraltro politicamente molto rischiosa, considerato l’altissimo tasso di genericità che spesso caratterizza le moderne Carte costituzionali.
A meno, naturalmente, di non incorrere nell’opposta pulsione, propria della concezione teologico - politica illuministica che informa ancora molto di sè il pensiero giuridico attuale, di assolutizzare i valori costituzionali, ponendoli come pilastri precettivi di un’etica materiale assiologica oggettiva65.
La sfida di fronte alla quale si trova la giurisdizione, nello Stato di diritto moderno, è, dunque, quella di riuscire ad esprimere la sovranità intrinseca alle proprie decisioni, nel senso che le deriva dal processo di secolarizzazione, percorrendo una via alternativa
sia al positivismo nomistico, radicale e depoliticizzato, molto esposto al rischio di interferenze eteronome, sia ad una dinamica teologico – politica che da tali istanze eteronome tragga direttamente la propria fonte di legittimazione.
Non essendo agevole individuare questa terza via alternativa nelle concettualità astratte, la ricerca del senso ulteriore che si cela nel νόμος e che deve affiorare nella decisione non resta che sperimentarla nella dimensione antropologica del giudice che deve rendere effettiva, evidente ed incontroversa, la propria sovranità che trascende il nudo fatto normativo.
Solo recuperando il significato ulteriore del νόμος, attraverso la dimensione antropologica che entra a pieno titolo nel giudizio come autocoscienza della sovranità gettata nel contesto storico, la giurisdizione può contrastare gli effetti deleteri e nichilistici della secolarizzazione.
h.G. Gadamer66, nel richiamare la tradizione più antica, ci ricorda che il problema ermeneutico si compendia e si articola in tre distinti, ma indissolubili, momenti costitutivi di ogni atto di comprensione ermeneutica: alla subtilitas intelligendi ed alla subtilitas explicandi il pietismo ha aggiunto la subtitlitas applicandi. Comprendere e spiegare un testo sono un tutt’uno che non può, tuttavia, essere disgiunto dall’applicazione ad una data situazione storica concreta. questa evidenza epistemologica è particolarmente vera per l’ermeneutica giuridica, scienza dello spirito così come l’ermeneutica teologica, nella misura in cui entrambe si riferiscono al comprendere non tanto come “un metodo mediante il q uale la coscienza si mette in rapporto con un oggetto da essa scelto, per raggiungere una conoscenza obiettiva”, avendo “come presupposto l’appartenere a un vivente processo di trasmissione storica in atto. La comprensione si è rivelata essa
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stessa come un accadere storico, e il compito dell’ermeneutica, dal punto di vista filosofico, consiste nel chiedersi di che tipo sia questo comprendere, che si presenta come scientifico, e c h e in sé stesso è in un continuo movimento storico”67.
Laddove gran parte della classe dei giuristi, accademici e pratici, rimane sempre ancorata ad una concezione romantica dell’ermeneutica giuridica, c h e si estrinseca nel confronto tra la coscienza soggettiva ed un oggetto testuale, finalizzato alla decodificazione del suo significato, un non giurista ha, invece, pienamente compreso che la decisione giurisdizionale, in quanto frutto di subtilitas applicandi, è essa stessa un accadere che innova ogni volta il mondo della vita e si inserisce in un processo storico. Il modello ermeneutico normativistico, di matrice positivistica e neo – kantiana, oltre che fortemente venato da suggestioni scientistiche, optando invece per l’inquadramento dell’ermeneutica giuridica in un ambito più simile a quello delle scienze della natura, incorre pertanto nell’errore di scindere il processo di comprensione in un momento soggettivo ed in un momento oggettivo che non può comporsi e trascendere né in una sintesi dialettica, nè nella “congenialità” dell’interprete con l’autore del testo68. Piuttosto che come un oggetto di cui appropriarsi e disporre epistemologicamente, il testo normativo, analogamente a quello in cui si manifesta l’annuncio divino, il κήρυγμα, costituiscono, al contrario, un punto di riferimento al cui servizio l’interprete si pone per valorizzarne il significato69.
La decisione, in virtù di ciò, è il momento in cui la norma si invera come accadimento unico, destinato ad inserirsi in un processo storico all’interno del quale non è mai uguale ad ogni altra decisione che si inserisce nello stesso processo. In questo senso la decisione è espressione di sovranità in quanto, in senso
schmittiano, non disciplina mai secondo una regola precostituita, stereotipata ed aprioristica, ma costituisce ogni volta un accadimento unico, e pertanto eccezionale. Neppure la norma astratta può di per sé determinare la regolarità dell’oggetto della decisione, perché essa si limita a lasciarsi passivamente interrogare dall’interprete c h e, fondendo nel momento applicativo il suo orizzonte di senso con quello che il testo lascia trasparire, le conferisce vita e valore. Il momento applicativo, quello in cui la decisione si fa accadimento storico e regola di vita, è il momento in cui il νόμος acquista e rivela quella sua ulteriorità che, nel suo porsi astratto, possiede solo in via mediata e nascosta.
L’accadimento storico della decisione è, dunque, il momento costitutivo oggettivo della sovranità della giurisdizione, ma, perché tale sovranità sia pienamente legittimata, manca un altro pilastro fondamentale: la responsabilità soggettiva, personale, del decisore, del giudice che prende su di sé il fardello (il munus come compito doveroso) della decisione e la offre in dono (munus come disinteressata elargizione) alla dinamica della storia. Nessuna decisione, se priva di assunzione di responsabilità da parte di c h i la prende, può comportare l’attributo della sovranità, poiché la natura di accadimento storico in cui si sostanzia implica una diretta presa di coscienza di questa processualità. Non può essere certamente un caso se un grandissimo giurista, letterato e filosofo, come Salvatore Satta, meditando sull’esoterismo del processo ed evidentemente rendendosi conto della sua natura ancipite di processus come ordinato percorso giurisdizionale e come vettore storico, abbia incentrato proprio sulla responsabilità di chi decide questa natura misteriosa. Solo perché in esso vi impegna tutta la propria responsabilità il giudizio del giudice assume una va-
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lenza evenemenziale che lo immette, a pieno titolo, nel processo storico: “La decisione giudiziaria manifesta al massimo grado questa realtà, poiché, essendo destinata ad operare sul futuro, presenta l’essere come un dover essere ed è quindi in certo qual modo l’esperienza del futuro. Ci si potrebbe chiedere da che cosa deriva questo valore alla sentenza del giudice. In verità, a guardar bene, il giudizio in essa contenuto non differisce in alcun modo dal giudizio che, in ordine allo stesso fatto può dare la dottrina, e anzi spesso accade che, come la dottrina assume e fa proprio il giudizio del giudice, così il giudice assume e fa proprio il giudizio della dottrina. La risposta che di solito si dà è in relazione all’autorità del giudice, ma io non credo sia pienamente esatto. L’autorità è anzi della dottrina, quando ce l’ha, e non vedo come un umile pretore possa dirsi più autorevole di Carnelutti. La ragione del valore che riconosciamo al giudizio del giudice è piuttosto nella responsabilità (che è poi la sola cosa che dà valore all’azione umana), e si intende nella immediatezza della responsabilità, poiché una responsabilità mediata ce l’abbiamo e dobbiamo aspirare ad averla anche noi, se vogliamo essere autorevoli”70. L’impegno immediato della responsabilità di chi prende, nel giudizio, la decisione è in funzione, pertanto, del suo porsi come accadimento storico.
E il νόμος, inteso come atto puramente imperativo, che ruolo svolge in questo contesto? In quale misura la decisione deve presupporlo senza esaurire in esso il proprio potenziale vivificante? Lo stesso Satta, in una logica tutta interna al processo, riporta 71 un’antica cronaca del 1792 del periodo del terrore rivoluzionario, inerente alla celebrazione del processo, da parte del Tribunale speciale, nei confronti del comandante della guardia svizzera del re (il compimento plastico e cruento della liquidazione desacraliz-
zante della teologia politica, verrebbe quasi da dire!). Ad un manipolo di sanculotti che avevano fatto irruzione nell’aula del Processo, reclamando ipso facto la persona dell’imputato per farne “giustizia”, il presidente del Tribunale, con gesto plateale, intimava di ritirarsi, dicendo loro “di rispettare la legge e l’accusato che è sotto la sua spada”. L’amara riflessione di Satta è che l’esito omicida era del tutto scontato ed inevitabile, sia che vi si pervenisse per mano della soldataglia sanculotta, sia che la sentenza di morte fosse ammantata del crisma della legge e del processo. quindi la legge, il νόμος, sarebbe irrilevante? Satta non si spinge ad affermare questo, ma confina la legge nel suo effettivo e limitato alveo precettivo provvisorio:
“la legge è indubbiamente un dato che si impone al giudice, e del quale egli non può non tenere conto: ma non è più che un elemento”72. Ciò che davvero rileva è il momento in cui la decisione, all’esito del processo, non importa se rivoluzionario, forma una nuova realtà storica:
“Onde il processo si pone con una sua totale autonomia di fronte alla legge e al comando, un’autonomia nella quale e per la quale il comando, come atto arbitrario d’imperio, si dissolve, e imponendosi tanto al comandato quanto a colui che ha formulato il comando trova, al di fuori di ogni contenuto rivoluzionario, il suo “momento eterno”73. Impossibile non sottolineare la portata esplosiva, per il positivista radicale che vive nella mitologia dell’atto di imperio in quanto tale, di q ueste riflessioni. Se addirittura il comando rivoluzionario, il positum per eccellenza quanto ad efficacia imperativa, patisce un potente contro – limite “dissolvente” nell’autonomia della decisione giurisdizionale di un organo creato ad hoc per dare cieca esecuzione a quello stesso comando, è evidente che il νόμος, di per sé, non è potenza idonea né a fondare la propria legittimazione,
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né ad incidere direttamente sul processo storico come accadimento vivificante74.
Non è, dunque, il νόμος in sè, nell’accezione legalistico – imperativa, che possa conferire legittimazione alla giurisdizione, ma solo ed esclusivamente la sovranità che deriva da un esercizio responsabile del potere di decisione in q uanto tale. Nel moderno Stato di diritto questo nuovo paradigma della sovranità è, per certi versi, addirittura più efficace di quello tradizionalmente incarnato dal legislatore. quest’ultimo, come si è in precedenza accennato, si limita infatti ad intervenire nella fase genetica della immissione statica della norma nel panorama ordinamentale e non si pone più come esclusiva forza propulsiva di un accadimento storico che costituisce l’inveramento di istanze politiche, sociali e culturali che trovano espressione e vita solo nella mediazione della decisione giurisdizionale responsabile. Proprio
per questo, il contrasto di vecchi e nuovi paradigmi è foriero di fortissimi ed irrisolti contrasti politico – istituzionali, in un’epoca secolarizzata in cui il dispositivo teologico –politico non funge più da strumento di legittimazione, come per il sovrano politico classico.
E forse - con un po’ d’orgoglio e di consapevolezza, non disgiunti da grande senso di responsabilità individuale e comunque di rispetto sostanziale del principio di separazione dei poteri, interpretato nella reale prospettiva del rispetto delle reciproche ed equiordinate sovranità – è la giurisdizione che oggi, di fronte alle sempre più frequenti ed improprie interferenze, avrebbe il preciso diritto - dovere di fare proprio il cennato monito di Alberico Gentili, opportunamente adattato all’orizzonte storicopolitico attuale: “silete legis auctores in munere alieno!”
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FRANCISCO GOYA, I disastri della guerra
NOTE
1 T. hobbes, “Leviatano”, Milano 2011, pag. 448
2 P. Calamandrei, Il Giudice e lo Storico, in Rivista di Diritto Processuale Civile, Vol. 16, Parte I, anno 1939, pagg. 105 ss.
3 h. Blumenberg, “La legittimità dell'età moderna”, Genova 1992
4 K. Lӧwith, “Significato e fine della storia”, Milano 1963
5 C. Schmitt, “Teologia Politica”, in “Le categorie del politico”, Bologna 1972 - “Teologia Politica II - La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica”, Milano 1992
6 J.C. Monod, “La secolarizzazione e i suoi limiti. Tra teologia politica e positivismo giuridico”, in “La modernità in questione”, Napoli 2022, pagg. 338 ss.. Monod attribuisce la ricostruzione del primo schema a Karl Lӧwith, mentre riconduce il secondo al concetto di “valore – programma”, espresso da hans Blumenberg
7 J.C. Monod, “La secolarizzazione e i suoi limiti. Tra teologia politica e positivismo giuridico”, in “La modernità in questione”, Napoli 2022, pag. 340
8 J.C. Monod, “La secolarizzazione e i suoi limiti. Tra teologia politica e positivismo giuridico”, in “La modernità in questione”, Napoli 2022, ibidem
9 C. Schmitt, “Il Nomos della Terra – Nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum”, Milano 1991, pag. 134
10 C. Schmitt, “Il Nomos della Terra – Nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum”, Milano 1991, ibidem
11 J.C. Monod, “La secolarizzazione e i suoi limiti. Tra teologia politica e positivismo giuridico”, in “La modernità in questione”, Napoli 2022, pagg. 342 ss.
12 San Paolo, Romani, 8, 1 - 39
13 J.C. Monod, “La secolarizzazione e i suoi limiti. Tra teologia politica e positivismo giuridico”, in “La modernità in questione”, Napoli 2022, pag. 345
14 C. Schmitt, “Il Nomos della Terra – Nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum”, Milano 1991, pag. 134
15 C. Schmitt, “Il Nomos della Terra – Nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum”, Milano 1991, ibidem
16 C. Schmitt, “Teologia Politica”, in “Le categorie del politico”, Bologna 1972, pag. 33 ss.
17 C. Schmitt, “Teologia Politica”, in “Le categorie del politico”, Bologna 1972, pag. 61 ss.
18 R. Esposito, “Due – La macchina della teologia politica e il posto del pensiero”, Torino 2013
19 h. Jonas, “Lo gnosticismo”, Torino 1991
20 G. Filoramo, “Problemi di teologia politica nei testi gnostici”, in “Il Dio mortale – Teologie politiche tra antico e contemporaneo”, Brescia 2002, pagg. 193 ss.
21 Il primo riferimento esplicito al fenomeno teologico – politico, risale alla celeberrima definizione di Marco Terenzio Varrone, che suddivideva la teologia in tre parti (theologia tripartita): theologia civilis, theologia fabularis e theologia naturalis
22 J. Assmann, “Potere e Salvezza – Teologia politica nell'antico egitto, in Israele e in Europa”, Torino 2002, pag. 20
23 J. Assmann, “Potere e Salvezza – Teologia politica nell'antico egitto, in Israele e in Europa”, Torino 2002, pag. 6, distingue il modo di presentarsi della teologia politica in “descrittivo”, per coloro che “si interessano alla storia del problema” e“militante”, per coloro che “assumono in questi contesti una determinata posizione”
24 M. Rizzi, “Teologia politica: la rappresentazione del potere e il potere della rappresentazione”, in “Il Dio mortale – Teologie politiche tra antico e contemporaneo”, Brescia 2002, pag. 269
25 J. Assmann, “Potere e Salvezza – Teologia politica nell'antico egitto, in Israele e in Europa”, Torino 2002, pag. 10
26 E. Peterson, “Il monoteismo come problema politico”, Brescia 1983
27 Gregorio di Nazianzo, “Orationes”, in “Migne – Patrologia Graeca”, Vol. XXXVI, col. 9 ss.
28 Agostino d'Ippona, “De Trinitate”, in “Migne – Patrologia Latina”, Vol. XLII col. 819 ss.
29 J. Assmann, “Potere e Salvezza – Teologia politica nell'antico egitto, in Israele e in Europa”, Torino 2002, pag. 12
30 C. Schmitt, “Teologia Politica II – La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica”, Milano 1992
31 L'espressione è ripresa, in una lettera a Carl Schmitt di Jacob Taubes, da una citazione della Bibbia: “Sono leali le ferite inflitte dalla freccia di un amico” (Libro dei Proverbi 27,6). Lo stesso Carl Schmitt in “Teologia Politica II - La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica”, Milano 1992, pag. 4) aveva stigmatizzato il comportamento proditorio di Peterson che, nell'ultima nota dell'ultima pagina del suo “Il monoteismo come problema politico” aveva liquidato la sua concezione teologico – politica, metaforizzando il fatto con il riferimento al guerriero parto che, nell'atto di fuggire, si volta all'improvviso e scocca il suo dardo. Taubes, in risposta all'affermazione di Schmitt, leggeva questo gesto in chiave diametralmente opposta, considerando il gesto di Peterson non come la freccia del parto, ma
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come la freccia del cristiano. Per una compiuta ricostruzione del contesto di questa espressione si veda E. Stimilli, “Il concetto di teologia politica in Jacob Taubes”, in “Il Dio mortale – Teologie politiche tra antico e contemporaneo”, Brescia 2002, pagg. 438 ss.
32 J. B. Metz, “Sulla teologia del mondo”, Brescia 1969
33 J. Moltmann, “Teologia della speranza”, Brescia 1970
34 M. Nicoletti, “Sul concetto di teologia politica in Carl Schmitt” in “Il Dio mortale – Teologie politiche tra antico e contemporaneo”, Brescia 2002, pag. 328
35 M. Borghesi, “Critica della teologia politica – Da Agostino a Peterson: la fine dell'era costantiniana”, Genova – Milano 2013, pag. 208
36 J. B. Metz, “Sulla teologia del mondo”, Brescia 1969, pag. 88
37 J.C. Monod, “La secolarizzazione e i suoi limiti. Tra teologia politica e positivismo giuridico”, in “La modernità in questione”, Napoli 2022, pag. 346
38 h. Kelsen, “La dottrina pura del diritto”, Torino 1991
39 Il κατέχον è una figura concettuale cruciale per la teologia, per la filosofia della storia e per la teologia della storia. Nella sua dimensione teologica è l’uomo, nell’espressione declinata al genere maschile nel testo biblico, o l’entità, in quella declinata al neutro, che trattiene e/o ritarda l’avvento dell’ἄνομος, il soggetto privo di norma, di regola, che è stato individuato nell’anticristo giovanneo. La tesi prevalente, assurta quasi a livello di canone anche nell’ermeneutica teologica, ha sempre identificato il κατέχον con l’impero romano, inteso come fattore storico d’ordine, capace di ritardare il dilagare dell’ἀνομία M. Cacciari (“Il potere che frena”, Milano 2013) sostiene che esso opera nella logica del nomos, della legge in quanto tale, giacchè nulla, più della legge, raffrena il dilagare del disordine. Ma è chiaro che Cacciari interpreta il termine νόμος in senso tradizionale, normativo e Il fatto che il κατέχον operi nella logica del νόμος implica inevitabilmente una sua interpretazione in chiave teologico – politica. Se il νόμος è la legge, pur con le complesse sfumature del pensiero paolino in merito a questo concetto, è evidente che ciò che contrasta l’affermarsi della sua negazione, dell’ ἀνομία, non può che essere una forza politicamente rilevante. La qualificazione in termini teologico – politici, al punto, quasi, di determinare un vero e proprio pregiudizio teologico – politico rispetto al concetto di κατέχον, è comune, e non poteva essere diversamente, anche a Carl Schmitt, che in esso ravvisava la sola ragione perché la storia, cristianamente, abbia un senso. L’ottica di Schmitt (C. Schmitt, “Il Nomos della terra”, Milano 1998, pagg. 43 ss.) è un’ottica, comunque, di legittimazione, nella misura in cui introduce la figura del κατέχον all'interno della dimensione
strettamente storico - politica, individuando in essa l'Impero, ovvero quella "forza frenante (Aufhalter), normativa ed etica, che va dalla Roma imperiale all'Impero cristiano medievale dei re germanici. Se, fin dai primi esegeti cristiani, l'interpretazione in forma politica imperiale del κατέχον costituiva, più che altro, una necessità teologica ed escatologica, con la positivizzazione schmittiana la visuale teologico - politica si impone come la sola chiave di lettura che, anche retrospettivamente, sia in grado di irradiare la coscienza storica. In un certo senso è proprio il κατέχον che giustifica la coscienza storica, nella misura in cui istituisce quel nesso transattivo che collega la storia con l'escatologia. Se il presente, in prospettiva escatologica, non ha senso e non ha pregio, essendo l'uomo proteso verso un obiettivo che si situa in una dimensione ultimativa, la sussistenza di un fattore ritardante legittima il significato della storia, in quanto ciò che si interpone non è un inutile ed astratto rimando temporale, ma l'essenza stessa di questa attesa. Per Carl Schmitt, come si è detto, il κατέχον rappresentava l’unico appiglio scritturale che potesse dare un senso ed una giustificazione allo sviluppo storico, altrimenti confinato, per il cristiano, nell’irrilevanza della pura attesa escatologica. Non sarebbe ammissibile, quindi, altra chiave di lettura, perché nessuna riuscirebbe a spiegare e, soprattutto, a giustificare "il sussistere dell'eone e il suo mantenersi saldo contro lo schiacciante potere del male." Il κατέχον, in quest'ottica, rappresenta la cifra unificante e qualificante del Medioevo cristiano, che in tanto sussiste in quanto lo spirito catecontico, frenante, ritardante, innerva il suo tempo. E sebbene Schmitt, preoccupato quasi esclusivamente dei profili legittimanti, non lo dica espressamente, si può addirittura dedurre che l'evo medio sia solo un segmento, una metafora della storia universale, giacche' il κατέχον costituisce, in realtà, la κοινή di ogni evo come evo dell'attesa, che non potrà essere trasceso fino a quando il Signore non tornerà nella sua seconda ed ultima παρουσία.
40 San Paolo, II lettera ai Tessalonicesi, 2,6
41 J.C. Monod, “La secolarizzazione e i suoi limiti. Tra teologia politica e positivismo giuridico”, in “La modernità in questione”, Napoli 2022, pag. 351
42 E.W. Böckenförde, “La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione”, Brescia 2023
43 Böckenförde, rendendosi evidentemente conto degli esiti nichilistici del suo paradosso, tenta il recupero di una funzione legittimante del diritto nello Stato liberale: “Il diritto può sì sostenere e proteggere normativamente regole di vita e atteggiamenti etici preesistenti, ed è anche in grado, grazie alle sue norme, di mantenere fino a un certo punto desta una coscienza etica
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della società, ma non può creare dal nulla, con una disposizione normativa, una coscienza etica (ancora) mancante o salvaguardare regole etiche in via di disgregazione – è questo il perpetuo punto di disaccordo fra il giurista e il teologo o il moralista. Le norme giuridiche devono trovare nei loro destinatari – dunque nella società stessa – il fondamento che le sostenga, non possono voler vivere unicamente della loro coattività.” (“La scuola storica e il problema della storicità del diritto”, in M. Borghesi, “Critica della teologia politica – Da Agostino a Peterson: la fine dell'era costantiniana”, Genova – Milano 2013, pag. 289)
44 J.C. Monod, (“La secolarizzazione e i suoi limiti. Tra teologia politica e positivismo giuridico”, in “La modernità in questione”, Napoli 2022, pag. 359 ss.) rileva l’esistenza di una tendenza diffamatoria nei confronti del positivismo ad opera dagli allievi “democratici” di Schmitt dopo la guerra. Di aperta diffamazione del positivismo giuridico, e quindi anche di Kelsen, suo massimo interprete moderno, scrive R. Gross, “Carl Schmitt und die Juden. Eine deutsche Rechtslehere”, Francoforte sul Meno 2000. Secondo questo autore, vi è stato un sistematico sforzo “d’imputare al positivismo la paralisi del giudizio politico, la neutralizzazione del contenuto del diritto, che avrebbe facilitato l’accettazione dello Stato nazista, in particolare da parte del corpo dei giuristi e dei funzionari. Kelsen, ebreo austriaco, difensore di Weimar e promotore della Società delle Nazioni, bestia nera degli ideologi nazisti, avversario dichiarato del nazismo, ha sempre distinto la sua lotta etico – politica dalla comprensione pura del diritto che egli voleva costruire. Un problema scientifico che doveva portarlo a distinguere il diritto dalla morale, e considerare che ogni misura giuridica presa da uno Stato, giusta o meno, fosse ben di diritto. questo rigore ha scatenato l’indignazione morale di molti dei filosofi del diritto contemporanei. Nel campo intellettuale tedesco si è imposto un vero e proprio luogo comune, secondo il quale il positivismo e più generalmente la secolarizzazione moderna avrebbero costruito il sostrato del nazismo.” (J.C. Monod, “La secolarizzazione e i suoi limiti. Tra teologia politica e positivismo giuridico”, in “La modernità in questione”, Napoli 2022, pag. 360). Del resto ciò corrisponde perfettamente al pensiero negativo di Schmitt in merito (“Il nomos della terra”, Milano 1998, pag.67: “Il moderno positivismo <dell'atto di posizione> fu la creazione di giuristi disillusi, il cui atteggiamento spirituale – dopo le delusioni politiche del 1848 – tradiva la completa sottomissione alle pretese egemoniche delle scienze naturali, alla pretesa di progresso dello sviluppo tecnico – industriale e della nuova pretesa di legittimità della ri-
voluzione. I giuristi non si erano accorti, nel quadro nichilistico del loro tempo, che gli atti di posizione <Setzungen> finivano per diventare disgregazioni <Zersetzungen>, e non avevano nemmeno notato –malgrado l'ammonimento di Savigny – fino a che punto il loro preteso positivismo legale li avrebbe condotti a porre in dubbio le loro stesse premesse storiche, intellettuali e professionali. La legge si riduceva, di conseguenza, ad atto di posizione rivolto all'apparato statale che lo applica con <possibilità di costrizione all'obbedienza>, <legge> e <provvedimento> non si potevano più distinguere tra loro. Ogni comando pubblico o segreto, purchè eseguito all'interno dell'apparato statale, poteva essere chiamato legge; la sua possibilità di costringere all'obbedienza non era minore, ed anzi era forse maggiore di quella delle statuizioni acclamate e proclamate dopo lunghi dibattiti del tutto pubblici. Da una simile filosofia del diritto non venne alcun aiuto terminologico o concettuale al fine di tradurre adeguatamente il termine nomos.”
45 E' questa la tesi espressa da h.Blumenberg nell'opera “La legittimità dell'età moderna” in cui prende posizione contro il concetto di secolarizzazione, definendolo categoria dell’illegittimità storica, e contro la categoria della teologia politica nell'accezione schmittiana: “La questione più importante che si presenta in occasione di questa ripresa di un tema che risale a mezzo secolo fa, è quella dell'identità o mutazione della comprensione del termine secolarizzazione. A questo proposito l'auto asserzione forse più istruttiva si trova in nota: Tutto ciò che ho espresso sul tema della teologia politica sono asserzioni di un giurista su una sistematica parentela strutturale tra concetti teologici e giuridici che si impone sul piano della teoria e su quello della pratica del diritto.
questa formulazione riduce il teorema della secolarizzazione al concetto dell'analogia strutturale; rende visibile qualcosa, e in questo senso non è affatto priva di valore, - ma non implica più alcuna affermazione sull'origine di una struttura dall'altra o di entrambe da una forma anteriore comune. Se, ad esempio, si afferma che la monopolizzazione della violenza nello Stato o in un'istanza politica determinata è strutturalmente paragonabile all'attributo teologico dell'onnipotenza, ciò si riferisce ancora solo alla correlazione in un contesto sistematico di luoghi caratterizzati dalla comunanza del quantificatore generalizzante: ogni potere. Ma tutto ciò autorizza forse a parlare, per la parte della teoria dello Stato, di una teologia politica?”
E', in estrema sintesi, il difetto di un comune denominatore sostanziale rispetto all'analogia di struttura logico – concettuale ciò che impedisce, per Blumenberg,
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di considerare legittimo il trapasso nell'eone secolarizzato.
46 L. Wittgenstein, “Tractatus logico – philosophicus”, Torino 1998, pag. 61
47 G. Agamben, “homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita”, Torino 1995, pag. 34
48 G. Agamben, , Stato di eccezione (homo sacer, II,1), Torino 2003, pag. 48
49 L'esempio addotto da Schmitt di esercizio della sovranità nello stato d'eccezione è quello contemplato dall'art. 48 della Costituzione tedesca di Weimar in merito ai poteri, in quel particolare frangente, del presidente dell'Impero. C. Schmitt, “Definizione della sovranità”, in “Le categorie del politico”, Bologna 1972, pag. 38
50 C. Schmitt, “Definizione della sovranità”, in “Le categorie del politico”, Bologna 1972, pag. 34
51 C. Schmitt, “Definizione della sovranità”, in “Le categorie del politico”, Bologna 1972, ibidem
52 supra, nota 42, per la critica di h. Blumenberg al concetto di teologia politica in quanto fondato su un'analogia logico – strutturale priva di una “forma anteriore comune”.
53 L'isomorfismo di concetti teologici e concetti politici è specularmente riproponibile anche con riferimento ai concetti giurisdizionali. Anche senza troppo enfatizzare la scontata analogia tra la figura di Dio e quella del giudice, uno dei principali attributi divini presente in moltissimi luoghi delle Sacre Scritture, è la stessa essenza della decisione giurisdizionale come “taglio”, “separazione” di opzioni giuridiche contrapposte che si rispecchia metaforicamente nelle manifestazioni della giustizia divina: “quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.” (Matteo 25, 31 –34). Ma le analogie potrebbero moltiplicarsi a dismisura.
54 Lo stesso Schmitt, in altro luogo (“Legalità e legittimità”, in “Le categorie del politico”, Bologna 1972, pag. 211 ss.), riconosce la possibilità dell'esistenza di altri modelli di sovranità in relazione al concetto positivistico di legalità, includendo tra essi quello che definisce lo Stato giurisdizionale: “Espressione tipica dello Stato giurisdizionale è la decisione concreta di un caso, nella quale diritto, giustizia e ragione si manifestano immediatamente, senza essere mediate da normazioni generali prestabilite, e che di conseguenza non si esaurisce nel normativismo della mera legalità. Espressione tipica dello Stato legislativo è la norma prestabilita, misura-
bile e determinabile nel suo contenuto, durevole e generale: la decisione giudiziale si presenta come mera applicazione di essa, allo stesso modo come tutta la vita dello Stato deve essere vista partendo da un sistema di legalità chiuso e capace di consentire l'applicazione di norme a fattispecie concrete. Lo Stato giurisdizionale sembra essere uno Stato di diritto, nella misura in cui in esso il giudice pronuncia direttamente il diritto e fa valere questo diritto anche contro il legislatore che produce le norme e contro la sua legge.”
55 Si veda sopra, nota 44
56 G. Agamben, “homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita”, Torino 1995, p. 121
57 M. Rizzi, “Teologia politica: la rappresentazione del potere e il potere della rappresentazione”, in “Il Dio mortale – Teologie politiche tra antico e contemporaneo”, Brescia 2002, pag. 270
58 Iacob Taubes (“La teologia politica dell'apostolo Paolo”, Milano 1997), con la sua mal celata ammirazione per San Paolo, ha perfettamente colto questa contraddizione, evidenziando, in modo solo apparentemente paradossale, la potente carica eversiva che un annuncio trascendente ed universale come il suo, sempre ritenuto antinomistico, porta invece con sè. E si tratta di una carica di portata rivoluzionaria proprio nei confronti, e soprattutto ai danni, dell’impero romano e del suo πάνθεον che, stagliandosi come elemento politico - teologico unificante di un universo centralistico che tollera le diversità religiose, compresa la riottosa ed ostile religione nazionale ebraica, riconosce tuttavia uno status di liceità (religio licita) che legittima la loro sottomissione, ma consente, pur a questo prezzo, la loro sopravvivenza. Tale carica si estrinseca, per Taubes, in una “trasvalutazione dei valori” dell’immaginario romano - ellenistico - ebraico in virtù della quale non è il νόμος, qualunque cosa ciò effettivamente significhi, che funge da strumento compromissorio della supremazia teologico - politica imperiale, ma è colui che dal νόμος e’ stato condannato, umiliato e letteralmente appeso ad un legno a forma di croce, che assume il tratto autenticamente imperiale attraverso un’intronizzazione che passa proprio per il mistero universalizzante di quella croce lignea. E va da se’che questo messaggio, che San Paolo imprudentemente, ma consapevolmente, indirizza e trasmette alla comunità cristiana di Roma, una comunità non fondata da lui ed in gran parte sconosciuta, e’ un messaggio politicamente esplosivo, molto più pericoloso, per l’ordine imperiale, di qualunque rivolta sociale o militare che la supremazia delle legioni romane non avrebbe avuto alcuna difficoltà a sedare.
59 San Paolo, Lettera ai Galati, 3,19
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60 C. Schmitt, “Il Nomos della Terra”, Milano 1998, pagg. 54 ss.
61 Aristotele, Politica, IV, 4, 1920a - 1292b
62 C. Schmitt, Il Nomos della Terra, Milano 1998, pagg. 58 ss.
63 Anche G. Agamben, “Il tempo che resta”, Torino 2000, pag. 88 ss. intuisce l'esistenza di un residuo nel νόμος , di un aspetto “che eccede costitutivamente la norma ed è irriducibile ad essa”. Con riferimento alla dicotomia di San Paolo tra legge delle opere e legge della fede egli afferma che queste polarità non costituiscono un’antinomia di due principi irrelati ed eterogenei, ma un’opposizione interna allo stesso νόμος. Dunque, il νόμος non può essere ridotto alla sola dimensione formale legalistica, come lo intendevano gli ebrei, in quanto gli appartiene un resto, una componente non normativa. Agamben, tuttavia, interpreta questo resto come parte integrante e compresente nello stesso νόμος, il quale conterrebbe in sè l’opposizione tra un elemento normativo ed un elemento promissivo.”
64 C. Schmitt, Il Nomos della Terra, Milano 1998, pag.
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65 M. Scheler, “Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valori”, Milano 1996
66 h.G. Gadamer, “Verità e metodo”, Milano 2001, pag. 358
67 h.G. Gadamer, “Verità e metodo”, Milano 2001, pag. 360
68 h.G. Gadamer, “Verità e metodo”, Milano 2001, pag. 362
69 Gadamer esprime questo concetto in un passaggio molto bello ed incisivo: “L’interpretazione della volontà della legge e dell’annuncio divino non sono palesemente forme di dominio, ma forme di servizio. Le interpretazioni che implicano una forma di applicazione stanno al servizio di ciò che in esse deve farsi valere.”
(h.G. Gadamer, “Verità e metodo”, Milano 2001, pag. 362)
70 S. Satta, “Il mistero del processo”, Milano 1994, pag. 50
71 S. Satta, “Il mistero del processo”, Milano 1994, pagg. 12 ss.
72 S. Satta, “Il mistero del processo”, Milano 1994, pag. 17
73 S. Satta, “Il mistero del processo”, Milano 1994, pagg. 17ss.
74 L'efficacia mediata del νόμος viene valorizzata da M. Rizzi (“Teologia politica: la rappresentazione del potere e il potere della rappresentazione”, in “Il Dio mortale – Teologie politiche tra antico e contemporaneo”, Brescia 2002, pag. 270) proprio con riferimento all'applicazione della categoria della teologia politica nel mondo antico: “Forse non si è colto a sufficienza come, nella determinazione dell'analogia teologico –politica canonica tra Zeus e l'imperatore, gli autori antichi abbiano dovuto mediare sovranità divina e sovranità politica proprio nella figura del νόμος, e non semplicemente della βασίλεια, della sovranità, o del comando, della μία ảρχή, come invece già in Aristotele, per il quale si può parlare esplicitamente di una analogia teologico – politica, o meglio di una opzione politica su basi teologiche, per cui dall'unico sovrano cosmico discende l'unico sovrano terreno, come indicato dal celebre verso omerico, posto anche da Peterson ad apertura del suo Monotheismus.” Il νόμος, questa la tesi di Rizzi, nel mondo greco mediava l'analogia teologico – politica quanto meno in modo concorrente con la sovranità, la βασίλεια. Il solo Aristotele (“Metafisica, Λ10, 1076A), ha definito maligno il carattere della poliarchia, privilegiando un solo signore per il governo dell'esistente, sebbene resti da vedere se si tratti di un principio esclusivamente ontologico o sia mutuabile anche nel contesto teologico – politico.
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O sservatorio sulla giustizia
PHILIPPE DE CHAMPAIGNE, Ritratto di Jean-Baptiste Colbert
Marco Impellizzeri
Direttore Tecnico Capo della Polizia di Stato
Internet of things: quali rischi per l’utente?
Il termine internet of things (IoT) è un neologismo, nato negli ultimi anni all’interno della comunità di addetti ai lavori quale lessico tecnico, oggi è divenuto di uso comune per indicare l’insieme delle tecnologie che permettono il collegamento ad internet di qualunque tipo di apparato. Tale definizione è stata ufficialmente coniata nel 2009 da Kevin Ashton in un articolo pubblicato1 dal “rfiD Journal”, ma viene fatta risalire ad una presentazione dallo stesso predisposta nel 1999.
Ebbene, è di tutta evidenza che l’avvento e l’espansione di un siffatto modello tecnologico ha portato nella nostra quotidianità l’esigenza di avere a disposizione sistemi di domotica sempre connessi, la possibilità di accedere da remoto a telecamere per i sistemi di videosorveglianza, non solo domestici, e a dispositivi utilizzati per mere finalità anche ludico-ricreativi quali network Attached storage (NAS) o device intelligenti.
In aggiunta al contesto testé descritto, è da registrare una esponenziale accresciuta esigenza dell’utente di accedere ad internet, da ogni luogo ed a qualsiasi ora anche attraverso dispositivi mobili, per consultare la propria pagina facebook, per creare una “storia instagram”, o semplicemente per condividere un contenuto multimediale per mezzo dell’applicazione WhatsApp. Ciò ha determinato la nascita di quella che è stata definita da Jan Van Dijk la network society2 “una forma di società che organizza sempre più le sue
relazioni a partire da reti di media destinate gradualmente a integrare le reti sociali della comunicazione faccia a faccia” e forse anche a sostituirle.
Tale quadro ha determinato la creazione di contenitori eterogenei di informazioni con il valore aggiunto che i dati sono spesso georeferenziati e quindi contengono dettagli sulle abitudini di vita quotidiana degli utenti quali, ad esempio, il luogo dove la foto da condividere è stata scattata oppure la località dalla quale si accede ad internet (ed un correlato aumento di esposizione al rischio per l’utente). L’analisi di queste informazioni (conosciute con il termine Big Data) da parte di un utente malevolo che a qualsivoglia motivo (siano essi dati raccolti per meri fini commerciali o per la consumazione di un reato) ha interesse ad acquisire dettagli della vita privata dell’utente è una analisi strutturata per la quale è possibile impiegare strumenti di business intelligence, che consentono di gestire la vastità e la diversità dei dati da analizzare ma anche di farlo in maniera rapida, efficiente ed efficace.
Prima di analizzare i principali scenari di rischio e le contromisure che è possibile adottare in tema di riservatezza e vulnerabilità dei dati personali, è di tutta evidenza che due anni di pandemia hanno determinato un mutamento della abitudini di vita quotidiana3, ciò ha indotto la popolazione a rimanere molto più tempo a casa (e conseguentemente ad accedere ancor di più ad internet così
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come evidenziato nello studio4 indicato che ha delineato l’impatto del Covid-19 sul traffico in rete) e di utilizzare le nuove modalità di accesso al lavoro secondo il paradigma dello smart working che presuppone l’utilizzo di piattaforme di videoconference o di strumenti di condivisione delle informazioni quali cloud repository
D’altro canto l’incremento di connessioni è accompagnato da una sempre maggiore diffusione delle aree dove sono presenti i servizi della banda ultralarga che, nelle previsioni del Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, porterà entro il 2026 la connettività a 1 Gbps su tutto il territorio nazionale, colmando così il gap digitale con gli altri Paesi europei attraverso l’attivazione di servizi ultraveloci.
È stato già brevemente posto l’accento sui rischi legati alla geolocalizzazione dei dati disponibili attraverso i social media, nello specifico X (ex twitter) e facebook, infatti, sono in grado di acquisire e rendere successivamente disponibili le coordinate Gps dell’utente che ha inviato o scritto il post5, allo stesso tempo la riservatezza dei dati personali è a rischio tutte le volte che sono tracciate le attività di navigazione web degli utenti al fine di offrire servizi personalizzati e costruiti ad hoc sulla scorta delle abitudini digitali personali.
La geolocalizzazione dei devices è possibile grazie all’uso della tecnologia GPS, attraverso la disponibilità di funzionalità wi-fi, sebbene in quest’ultimo caso con una minore precisione, ma anche per mezzo dell’indirizzo IP del dispositivo connesso alla rete.
In quest’ultimo caso infatti sono rese disponibili informazioni con un numero minore di dettagli ma che consentono comunque di identificare la città da dove proviene la connessione, il codice postale, i dati sul provider internet utilizzato, etc…
La possibilità di rendere disponibili alla rete i dati dell’utente è indipendente dal device utilizzato, sia esso uno smartphone, un laptop o una postazione di lavoro desktop.
Come difendersi in questo caso?
L’utente è in grado di disabilitare la geolocalizzazione effettuata dal sito web per mezzo di specifiche funzionalità offerte dai vari browser utilizzati per la navigazione, si può comunque rendere nota indirettamente la geolocalizzazione del dispositivo, ad esempio, nel caso in cui si utilizzi il device per postare una foto, in questo caso infatti la stessa immagine potrebbe contenere particolari o riferimenti per una sua successiva georeferenziazione.
Per mitigare il rischio correlato alle vulnerabilità descritte ed evitare la tracciabilità della posizione, è auspicabile disattivare la funzionalità connessa al GPS ma anche la connessione wi-fi del device utilizzato.
Sono state sviluppate e sono fruibili, anche gratuitamente, molte applicazioni sia per sistema operativo Android che iOS, per gestire la posizione del proprio smartphone e fornire una posizione fake dei dati GPS del dispositivo stesso. Infatti è possibile mascherare la propria posizione falsificandola, all’utente è lasciata la libertà di impostare una località a proprio piacimento, da quel momento in poi tutte le applicazioni che utilizzano la geolocalizzazione saranno ingannate e renderanno disponibili i dati con la localizzazione fake. Per un corretto funzionamento è necessario disabilitare l’utilizzo di reti wireless
Per l’accesso ad internet, comunemente, l’utente si affida ai servizi commercialmente offerti dai provider nazionali, tale modalità consente ai gestori di siti web di tracciare l’attività dell’utente nella rete e di offrirgli dei servizi personalizzati in ragione delle informazioni che si possono ricavare dall’indirizzo IP utilizzato per la navigazione.
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Una delle informazioni che i siti web possono di norma tracciare è la nazione da cui l’utente si connette, ad eccezione dei casi in cui si faccia uso di connessioni TOR mediante le quale l’utente può elevare i meccanismi di protezione attraverso la cosiddetta navigazione “anonima”.
La disponibilità anche solo della nazione di provenienza dell’indirizzo IP di connessione consente al sito di web di discriminare se offrire un dato servizio o meno; è il caso di alcuni siti USA i quali forniscono i loro servizi esclusivamente agli utenti provenienti dal proprio territorio nazionale.
Location guard è una estensione open source di browser come firefox o Chrome, per intercettare l’acquisizione delle coordinate da parte dei siti web ed inserire un livello di disturbo valorizzabile discrezionalmente dall’utente (noto come livello di riservatezza dell’utente) oppure impostando una falsa località. Location guard, sfruttando il fatto che ogni applicazione web viene eseguita separatamente, può accedere ad una serie di informazioni previlegiate quali appunto la posizione dell’utente e in quanto estensione del browser ha la possibilità di eseguire uno script (un piccolo programma informatico che esegue delle azioni specifiche) con un livello di privilegio maggiore di quello posseduto da una normale pagina visualizzata dal browser.
Grazie a questa possibilità, una volta caricata la pagina del sito web che vuole acquisire la posizione, Location guard inserisce nella pagina stessa uno script che ridefinisce la funzione Geolocation.getCurrentPosition (la funzione che viene invocata dalla pagina web per acquisire la geolocalizzazione). quando lo script per acquisire la posizione presente nella pagina viene eseguito, questi chiamerà la funzione Geolocation.getCurrentPosition che però sarà quella ridefinita da Location guard. La funzione di Location guard
in sintesi è quella di ottenere la posizione corretta dal browser, ridefinirla aggiungendo un certo livello di incertezza (basso, medio, alto) o sostituirla con una diversa impostata dall’utente e di restituire la falsa posizione allo script della pagina web del sito web che l’ha richiesta.
Se quelle appena descritte possono essere definite tecniche di mascheramento utilizzabili dagli utenti che vogliono aumentare il livello di protezione dei propri dati personali, l’organizzazione non-profit C4ADS e l’Università del Texas hanno effettuato uno studio6 analitico con il quale sono state documentato tecniche di spoofing7 del segnale GPS (global Positioning system) e GNSS (global navigation satellite system) attuate da soggetti istituzionali russi sia sul territorio della Repubblica Federale Russa che in Siria a protezione di siti sensibili e di vip. Tale attività di spoofing ha determinato il mancato funzionamento dei servizi di localizzazione GPS utilizzati dagli utenti.
In particolare è stato dimostrato come in prossimità di siti istituzionali russi, quali ad esempio il Cremlino, il segnale GPS collocava il dispositivo target (in molti casi sono stati utilizzati dei semplici sportwatch dotati di GPS che i runner usano per il tracciamento delle attività podistiche) che si trovava nei pressi delle predette sedi, a centinaia di chilometri di distanza dalla reale localizzazione; sono stati anche riportati casi di spoofing GNSS che hanno colpito imbarcazioni che navigavano in prossimità della costa russa. Tale tecniche sono state impiegate anche nel corso del conflitto in Siria che ha visto il dispiegamento di truppe russe in territorio siriano e non possiamo escludere siano attualmente in uso anche nel corso del conflitto russo-ucraino.
Proseguendo nell’analisi dei rischi di violazione dei dati personali correlati all’utilizzo di internet, una delle tecniche molto diffuse
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per mascherare il reale indirizzo IP con cui si accede ad internet e garantire un alto grado di riservatezza delle comunicazioni, consiste nell’utilizzo di reti private virtuali Virtual Private network (VPN)). Una VPN consente8 di “sovrapporre delle reti sopra le reti pubbliche ma senza abbandonare le proprietà di sicurezza tipiche delle reti private”. Impiegando una coppia di firewall, ad esempio, è possibile implementare una VPN e creare un tunnel sicuro per la gestione delle comunicazioni. Le VPN possono essere di tipo trusted, secure o hybrid a seconda delle tecnologie utilizzate, in particolare nel caso delle secure si impiegano IPSec e protocolli di crittografia quali secure sockets Layer (SSL) e transport Layer security (TLS).
Sono disponibili dei server su internet che offrono gratuitamente i servizi VPN, in questo caso l’utente dopo essersi connesso a tali server può sceglie un indirizzo IP di una nazione a suo piacimento. Ogni qual volta un sito web registrerà l’indirizzo IP con cui l’utente si presenta per accedere ai suoi servizi, vedrà l’indirizzo IP che l’utente ha scelto in fase di impostazione della VPN. Tale meccanismo consente, ad esempio, ad un utente italiano di mascherare il fatto che il suo indirizzo IP sia italiano presentandosi con uno statunitense e connettersi anche a quei siti web USA che erogano servizi esclusivamente a indirizzi IP provenienti dal proprio territorio nazionale. Tutto ciò è possibile in quanto il sito web crederà di comunicare con un utente geolocalizzato sul territorio americano, visto che l’indirizzo IP appartiene al range degli indirizzi riservati agli Stati Uniti.
Accade purtroppo sovente che i servizi VPN free, ma non solo, nascondano delle insidie per l’utilizzatore, a tal proposito l’Australia’s Commonwealth scientific and industrial research organisation (CSIRO) insieme all’Università del Galles del Sud e alla UC Ber-
kley, ha pubblicato9 uno studio10 condotto su 234 app disponibili su Google Store. È stato dimostrato che molte di queste applicazioni tracciano l’attività dell’utente attraverso malware11 (un programma che si comporta in maniera imprevista a causa delle intenzioni di un programmatore malevolo che lo ha creato) e che il 18 % di esse non criptava il traffico internet, mentre otto su dieci accedevano a dati sensibili inclusi l’account dell’utente e messaggi di testo. Lo studio evidenzia come l’utilizzo di applicazioni per realizzare VPN da parte di utenti di dispositivi mobili in tutto il mondo ha un impatto rilevante sulla riservatezza dei dati dell’utente e sulla sicurezza rimanendo nel perimetro della “terra incognita” anche per quegli utenti con una conoscenza tecnologia avanzata.
Al fine di scongiurare violazioni della riservatezza, l’utente dovrebbe affidarsi a servizi di VPN che non solo garantiscano elevati livelli di protezione e di affidabilità ma che assicurino allo stesso tempo che non siano effettuati operazioni di tracking e di logging delle attività dell’utente.
La riservatezza dei dati personali dell’utente nel dominio digitale è in alcuni casi seriamente compromessa dall’utilizzo di metodi per tracciare le abitudini dell’utente sul web a causa dell’impiego di cookie da parte dei siti (quante volte distrattamente o semplicemente per velocizzare la navigazione abbiamo dato il consenso all’uso di cookie da parte del sito che stiamo visitando senza dar peso al settaggio delle impostazioni di default?).
Oggi assistiamo ad una maggiore consapevolezza da parte dell’utente sulle vulnerabilità legate all’utilizzo dei cookie e pertanto, anche se con qualche difficoltà, sono più diffuse politiche che mitigano il rischio di vedere compromessa la propria riservatezza. Infatti i browser ad esempio impediscono, anche con impostazioni di default, l’utilizzo
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di cookie di terze parti ovvero inviati da un sito diverso da quello che si sta visitando ed inoltre consentono di configurare il browser bloccando i cookie anche di prima parte.
Per quanto attiene il funzionamento dei motori di ricerca, una delle loro più interessanti caratteristiche è legata all’utilizzo di cookie e web beacon per la personalizzazione delle ricerche. Infatti proprio tali tecniche costituiscono gli strumenti automatizzati per conoscere informazioni sulle abitudini digitali degli utenti della rete quali le azioni intraprese nel corso della navigazione ma anche il monitoraggio dell’efficacia dell’offerta pubblicitaria visualizzata.
Sul tema, d’altro canto, si è espresso12 anche il Garante per la Protezione dei Dati Personali stabilendo che “…quando si accede alla home page o ad un´altra pagina di un sito web che usa cookie per finalità di profilazione e marketing deve immediatamente comparire un
banner ben visibile ” .
Il “Washington Post” nel dicembre 2013 ha pubblicato un articolo13 nel quale imputava alla national security Agency l’utilizzo di uno specifico meccanismo di tracciatura denominato “google Pref” mediante il quale, sfruttando il metodo di trasmissione dei cookie, l’Agenzia era in grado di inviare software malevolo ai device utilizzati per la navigazione al fine di acquisire informazioni personali sull’utente. Nell’articolo si evidenzia come tale tracciatura si verifichi allorquando l’utente utilizzi servizi come google maps, un’applicazione notoriamente molto diffusa tra gli utenti della rete, non è però altrettanto noto che google è in grado non solo di geolocalizzare il dispositivo utilizzato ma anche di conservare la cronologia delle posizioni e delle ricerche effettuate dall’utente.
Un approccio difensivo attuabile da parte degli utenti è rappresentato dall’utilizzo di
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GIORGIO GHISI,Allegoria della vita
sulla giustizia
macchine virtuali o distribuzioni Linux live su dispositivi esterni, con tale tecnica l’acquisizione dei dati è possibile solo fino allo spegnimento della macchina virtuale o della distribuzione live utilizzata.
È possibile dotarsi di sistemi operativi che attraverso il concetto di macchina virtuale sono in grado di creare delle cosiddette “aree di lavoro” al fine di garantire una maggiore sicurezza sfruttando l’idea di compartimentare le sessioni di lavoro digitale, qubes OS ad esempio sfrutta proprio questa tecnica.
qubes OS è un sistema operativo opensource disponibile per svariate piattaforme e orientato al tema della sicurezza; infatti partendo dall’assunto che una violazione del proprio sistema o una compromissione del proprio software è già in atto, è necessario focalizzarsi sulla riduzione del danno o mitigazione. L’idea di fondo su cui poggia il sistema è la sicurezza per isolamento o compartimentazione. questo approccio consiste nel creare diverse macchine virtuali a cui assegnare una differente attività, così da costruire ambienti il più possibile sicuri ed isolati.
Sfruttando tale potenzialità è possibile ad esempio utilizzare una certa virtual machine per accedere ad internet in modo indiscriminato senza porre particolare attenzione ai siti da visitare, un’altra virtual machine invece è dedicata all’accesso a siti contenti dati sensibili.
quebes OS gestisce la comunicazione tra le macchine virtuali in modi sicuro ed utilizza inoltre un dominio distinto (e quindi una virtual machine distinta) per accedere al disco.
Sono stati son qui affrontati alcuni dei metodi di tracking che il mondo digitale ha elaborato e che espongono l’utente a vulnerabilità durante la navigazione tra i siti web, per completezza d’informazione è necessario introdurre un ulteriore meccanismo
presente conosciuto con il nome di browser fingerprinting. Si tratta sostanzialmente di uno strumento che consente di identificare univocamente il browser utilizzato per la navigazione attraverso appunto un’impronta.
È noto, infatti, come molti utenti effettuino operazioni di personalizzazione del proprio browser, ad esempio impostando la lingua di utilizzo, i font ed anche installando alcune componenti opzionali. queste impostazioni consentono di creare quella che abbiamo definito impronta o browser fingerprint, mentre appare evidente che al crescere delle impostazioni di personalizzazione aumenta anche la possibilità per il browser di essere identificato univocamente in relazione comunque agli strumenti che il sito web utilizza per collezionare dati.
Nello studio in nota14 è stato stimato che solo per un browser ogni 286.777 è possibile risalire alla stessa fingerprint. È importante sottolineare che i cookie si basano sull’utilizzo di dati persistenti, mentre la tecnica del browser fingerprinting non ha la necessità di salvare dati sulla postazione dell’utente.
Per completezza d’analisi è necessario sottolineare che il metodo descritto non sempre ha risvolti negativi legati alla perdita di riservatezza dei dati personali, ma può essere utilizzato anche per offrire servizi aggiuntivi di protezione dell’utente. Pensiamo ad esempio ad una banca che consente ai propri clienti di utilizzare gli strumenti tipici dell’home Banking, in questo caso l’identificazione del browser attraverso l’impiego della tecnica di fingeriprint permette alla banca di rilevare se l’account utilizzato per l’accesso al conto on line è stato visitato da postazioni diverse in un intervallo di tempo ristretto, ciò produce un indicatore di rischio con conseguente invio di un alert all’utente.
Per tutti gli utenti, con uno skill tecnologico avanzato, che hanno bisogno per la propria attività di sfruttare le caratteristiche di
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un potente motore di ricerca full text, è possibile utilizzare la tecnologia open source di elasticsearch in luogo di Google o di altri analoghi strumenti. elasticsearch è un motore di ricerca real-time distribuito, contraddistinto da rapidità e completezza, caratteristiche che gli consentono di effettuare ricerche full-text, strutturate, analitiche o combinando le tre modalità. È stato scritto nel linguaggio orientato ad oggetti java e sfrutta le capacità di effettuare ricerche ed indicizzazione nascondendone, allo stesso tempo, la complessità, è in grado di analizzare un elevato numero di dati strutturati e non strutturati.
elasticsearch, oltre ad essere un sistema distribuito in grado di gestire più nodi, nasconde la complessità di tale architettura alle applicazioni che lo utilizzano, è scalabile sia verticalmente con l’aggiunta di server più grandi sia orizzontalmente con l’aggiunta di altri server. Oltre alla scalabilità, elasticsearch è caratterizzato anche dalla affidabilità, infatti gestisce autonomamente il problema del malfunzionamento di un qualsiasi nodo migrando dati e promuovendo dati replica a dati primari.
Rimanendo ancora la nostra disamina sulle possibilità di reperire informazioni sulla rete e richiamando ancora una volta l’ampia diffusione di oggetti che possono essere collegati ad internet nell’ambito di quel processo che abbiamo già indicato come internet of things, da alcuni anni si registra una elevata esposizione degli utenti a vulnerabilità laddove tali collegamenti non siano opportunamente configurati dopo la loro installazione.
Infatti, se da un lato sono in rapida crescita i dispositivi per i quali l’utente richiede l’accessibilità da remoto (sistemi di videosorveglianza, centrali d’allarme, apparecchiature tipiche della domotica, nas, router, etc..), non è altrettanto elevata la cura che si dedica alla corretta configurazione dei menzionati
device. È quanto può accadere utilizzando un motore di ricerca IoT denominato shodan. Esso, infatti, sfruttando le vulnerabilità di sicurezza, ricerca i dispositivi connessi alla rete per i quali non sono necessarie credenziali di accesso o che non sono state cambiate rispetto a quelle predefinite (ad esempio quei dispositivi che mantengono i valori di default per user e password di solito impostati ad “admin”). In questo scenario fatto di nuove opportunità, un utente malevolo che è intenzionato a carpire informazioni personali potrà esplorare fonti di informazioni sterminate accedendo ad esempio alle immagini live delle webcam di impianti domestici o pubblici.
Per superare tale fragilità oggi sempre più si sostiene lo sviluppo di prodotti che soddisfino i principi di security by design e security by default. Nel primo caso i produttori dovrebbero sin dalla progettazione di un prodotto ICT attuare tutte le misure tali da renderlo sicuro già dall’origine del prodotto stesso. Con il termine security by default o sicurezza predefinita si definiscono invece i processi che impongono sin dalla progettazione che gli oggetti ICT abbiano una configurazione, per default, delle impostazioni del prodotto sicure anche senza l’intervento dell’utente finale il quale potrebbe non essere in possesso delle conoscenze di base per intervenire in tal senso.
Cosa succede in altri Paesi?
Per rappresentare lo scenario extra-UE in tema di riservatezza dei dati personali, presentiamo il caso dell’applicazione cinese WeChat che ha suscitato molte perplessità nel mondo occidentale in tema di controllo della vita digitale (e non solo) dell’utente.
Si tratta di una applicazione molto diffusa in Cina (WeChat è installato su oltre l’83% degli smartphone presenti in Cina, una cifra che arriva al 92% nelle grandi città di prima fascia. Ricerche recenti indicano che oltre un
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terzo degli utenti di WeChat trascorre sulla app almeno quattro ore al giorno15), ma non solo, è stata definita una “super app” per la sua capacità integrarsi con le diverse funzionalità offerte da terze parti. WeChat è un social media che consente agli utenti di scambiarsi messaggi e contenuti multimediali attraverso comunicazioni veloci e dirette, il suo utilizzo si è esteso rapidamente divenendo un sistema di pagamento senza l’utilizzo di carte di credito (è sufficiente scansionare il QrCode dell’esercente da pagare) ed una piattaforma per il commercio elettronico.
Ciò che da più parti si sospetta è che WeChat sia uno dei mattoni che costituiscono il sistema di sorveglianza digitale cinese rafforzato anche in seguito alla diffusione del contagio da Covid-19, infatti è noto come l’utilizzo di alcuni termini sia proibito dalle autorità cinesi che riescono a filtrare i contenuti scambiati attraverso l’applicazione bloccandone la condivisione. Recentemente anche il New york Times16 si è occupato di WeChat definendolo “un canale globale di propaganda, sorveglianza e intimidazione statale cinese”.
Possiamo quindi ritenere che le opportunità legate allo sviluppo e commercializzazione di nuove tecnologie sempre più performanti e innovative è da ritenersi vantaggioso per la società, in termini di miglioramento della qualità della vita attraverso la fruizione di contenuti che aiutano l’individuo nell’agire quotidiano e gli consentono, ad esempio, di cambiare il suo itinerario nel tragitto casa-lavoro in funzione del traffico noto in tempo reale. Tale mutamento deve però essere accompagnato dalla crescente consapevolezza che è indispensabile attuare alcune semplici regole che devono accompagnarci nel percorso digitale al fine di mitigare l’esposizione al rischio a cui l’uso della tecnologia inevitabilmente ci espone.
L’utente deve seguire un percorso di awarenes che gli consenta di raggiungere una adeguata maturità digitale in tema di protezione dei dati personali e contenimento dell’esposizione al rischio. Tale processo oggi è reso più semplice anche in ragione di alcune funzionalità comunemente disponibili; si pensi ad esempio alla possibilità di dare o negare il consenso all’uso dei cookie ogni volta che visitiamo un sito web. La domanda che dobbiamo porci a questo punto è: a che punto è il processo di consapevolezza? È sufficientemente maturo o serve uno sforzo aggiuntivo? E ancora, ad esempio, quanti utenti hanno mai utilizzato il sito “haveibeendpwned” per verificare se il proprio account di posta elettronica è stato compromesso? (… con conseguente urgente necessità di cambiare la password!!).
Probabilmente, ancora molto deve essere elaborato sul tema per raggiungere un adeguato livello di “igiene informatica” che consenta diffusamente di attuare tutte quelle misure di contenimento del rischio per l’utente; per raggiungere tale ambizioso obiettivo è però necessario uno sforzo comune che coinvolga attori istituzionali e non, in quanto essi sono i nodi che compongono una vasta rete di comunicazione, nella quale per raggiungere un livello di protezione più che soddisfacente serve l’apporto positivo di tutti così da salvaguardare la sicurezza della rete stessa attuando una strategia di resilienza condivisa.
NOTE
1 Kevin Ashton, "That 'Internet of Things’ Thing", RFID Journal, 22 June 2009
2 Jan Van Dijk, The Network Society: Social Aspects of New Media, Routdledge, 2012
3 h ttps://www.istat.it/storage/rapportoannuale/2022/Rapporto_Annuale_2022.pdf
4 A. Feldmann,O. Gasser, F. Lichtblau, E. Pujol, I. Poese, C. Dietzel, D. Wagner, M. Wichtlhuber et altri “The
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Lockdown Effect: Implications of the COVID-19 Pandemic on Internet Traffic”. IMC ’20: Proceeding of the ACM Internet Measurement Conference – October 2020.
5 In un recente lavoro che chi scrive ha condotto in collaborazione con l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata e l’Osservatorio sulla Sicurezza e Difesa CBRNe, attraverso l’utilizzo di una configurazione del motore di ricerca open source Elasticsearch all’interno di una piattaforma per l’analisi delle fonti aperte, è stato documentato che la geolocalizzaione dei post degli utenti che riportano di essere colpiti dai sintomi del Covid-19 consente di ottenere gli early warning indicators per individuare nuovi focali, a condizione che tale attività sia avviata prima della diffusione su larga scala del virus.
6 https://static1.squarespace.com/static/566ef8b4d8af1 07232d5358a/t/5c99488beb39314c45e782da/155354949 2554/ Above+Us+Only+Stars.pdf;
7 La trasmissione deliberata di segnali costruiti per emulare autentici sistemi satellitari così da confondere i sistemi di navigazione e localizzare un erroneo posizionamento del target obiettivo di spoofing che si distingue dal jamming che è definito come la capacità di attutire i segnali satellitari evitando che gli stessi pos-
sano essere utilizzati dai ricevitori.
8 Andrew S. Tanenbaum “Reti di calcolatori”, ed. Pearson – Prentice hall.
9 Muhammad Ikram, Narseo Vallina-Rodriguez, Suranga Seneviratne, Mohamed Ali Kaafar, Vern Paxson “An Analysis of the Privacy and Security Risks of Android VPN Permission-enabled Apps”.
10 h ttps://www.wired.co.uk/article/android-vpnapps-malware;
11 Charles P. Pfleeger, Shari Lawrence Pfleeger “Sicurezza in informatica”, ed. Pearson – Prentice hall.
12 “Individuazione delle modalità semplificate per l’informativa e l’acquisizione del consenso per l’uso di cookie”, Garante per la Protezione dei Dati Personali – 8 maggio 2014.
13 h ttps://www.was h ingtonpost.com/news/t h eswitch/wp/2013/12/10/nsa-uses-googlecookies-topinpoint-targets-for-hacking
14 Peter Eckersley “how Unique is your Web Browser”, Electronic Frontier Foundation.
15 Garante per la protezione dei dati personali “I confini del digitale – Nuovi scenari per la protezione dei dati” – Atti del convegno 29 gennaio 2019.
16 h ttps://www.n y times.com/2020/09/04/tec h nology/wechat-china-united-states.html
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HIERONYMOUS BOSCH, L'INFERNO
Fausto Cardella
Guelfi e Ghibellini
Il fatto è questo, siamo rimasti un Paese di Guelfi e Ghibellini, di fazioni, di tifoserie, un Paese nel quale un discorso ragionato, un modo equilibrato di affrontare le questioni più controverse fa fatica a farsi strada.
Ora, finché si tratta di calcio poco male, anzi un certo spirito di parte dà sale alle nostre domeniche; il problema è quando con lo stesso spirito si pretenderebbe di affrontare questioni annose e gravi, questioni che riguardano tutti, per esempio, quando si tratta di Giustizia.
Prendiamo il caso della separazione delle carriere di giudice rispetto a quella di pubblico ministero: per quelli di una parte sarebbe la soluzione di tutti i problemi che affliggono l’amministrazione della nostra giustizia, non solo, ma addirittura un fatto di civiltà. Per quelli dell’altra parte (il lettore avvertito saprà ben riconoscere queste parti) si tratta di un attentato all’indipendenza della magistratura, un modo di porre il pubblico ministero alla dipendenza del potere politico-esecutivo, con vulnus della tripartizione dei poteri, giacché controllando il pubblico ministero, ossia l’inquirente, si controllerebbe, indirettamente ma efficacemente, il giudice, il quale potrebbe essere chiamato a giudicare solo di certi casi piuttosto che di altri.
Ebbene, non vale proprio nulla che l’esperienza -mondiale, direi- non asseveri questa lettura semplicistica e manichea del problema.
In Portogallo c’è la separazione delle carriere, per esempio, ma si può chiedere ad Antonio Costa, premier portoghese, recentemente
posto sotto accusa (pare per errore), se tale regime consenta alla politica di controllare l’azione del pubblico ministero.
In Francia c’è la separazione delle carriere e analoga domanda può essere rivolta al presidente Sárközy
D’altra parte, in Paesi di indubbia tradizione democratica, come gli Stati Uniti d’America, non c’è la separazione delle carriere, né tra pubblici ministeri e giudici, né tra avvocati, pubblici ministeri e giudici, iniziando tutti da un percorso comune e potendo passare da un ruolo all’altro nel corso della loro carriera.
La nostra Costituzione, in un contesto di principi che estende al pubblico ministero le guarentigie di autonomia e indipendenza riservate al giudice, prevede uno stesso accesso alla comune carriera di giudici e pubblici ministeri, un’interscambiabilità di ruoli che però nel tempo è stata molto limitata e quasi annullata. Non è stato sempre così e non è detto che debba esserlo per sempre. Prima dell’entrata in vigore della Costituzione e, praticamente, fino alla concreta istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura, giudici e pubblici ministeri, appartenenti alla medesima categoria dei magistrati ordinari, erano amministrati del Ministero della Giustizia, che sovrintendeva alle loro carriere, ai trasferimenti, alle promozioni, alle sanzioni disciplinari.
È la Costituzione che ha voluto -come si notava- i giudici e i pubblici ministeri ugualmente autonomi e indipendenti. Ove si volesse cominciare ad armonizzare la nostra normativa con quella europea, la questione
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già Procuratore Generale di Perugia
sulla giustizia
potrebbe acquistare rilevanza, se si considera che la Procura europea, pubblico ministero con competenza sovranazionale, è retta da un procuratore di nomina governativa, che dirige il lavoro di alcuni nostri procuratori dotati di un’indipendenza, almeno formalmente, maggiore della sua.
Sfilare dalla nostra Costituzione una disposizione è cosa che si può fare, è persino prevista proprio un’apposita procedura, ma è un’operazione delicata, che va studiata soprattutto nel riflesso che può avere sugli altri principi costituzionali, sulla struttura di determinati organi. Andrebbero, dunque, abbandonate posizioni preconcette o di parte, affidando a esperti la ricerca di una soluzione tecnica, che salvaguardi il bilanciamento dei poteri, cioè quel sistema di pesi e contrappesi che è valore imprescindibile di ogni democrazia, e al tempo stesso non crei contraddizioni con gli altri istituti costituzionali, primo tra tutti il Presidente della Repubblica, posto al vertice del Consiglio Superiore della Magistratura, ma immaginato come organo di garanzia super partes.
Soprattutto, valutando se ne valga la pena, ossia se lo strumento sia idoneo a raggiungere l’obiettivo che ci si prefigge.
Le carenze del sistema giustizia sono note e drammatiche.
Insufficienza delle strutture, il blocco ultraventennale delle assunzioni di personale giudiziario, falcidiato dai pensionamenti; il mancato o ritardato adeguamento professionale del medesimo personale, volenteroso ma spesso non preparato alle esigenze di una giustizia moderna e tecnologica; per non dire della frenetica produzione normativa, specie nell’ambito processual-penale, che non consente nemmeno di verificare gli effetti di una norma, presto modificata, senza che sia stato nemmeno possibile orientarne l’interpretazione. L’elenco potrebbe continuare ma fin d’ora sembra chiaro che a queste o a simili carenze la separazione delle carriere di certo non potrebbe giovare.
Diverso il caso dell’appiattimento. Con q uesto termine giornalistico, “appiatti -
mento”, si intende il comportamento del giudice, di quello delle indagini preliminari in genere ma non solo, prono, conforme, appiattito appunto, sulla prospettazione accusatoria del pubblico ministero; ma non basta, perché questo appiattimento non deriverebbe da pigrizia, mancanza di senso critico, comodità del copia-incolla, bensì dal fatto c h e, essendo giudici e pubblici ministeri provenienti da un medesimo concorso, appartenenti per così dire a una medesima famiglia professionale, il secondo sarebbe propenso a non smentire il primo. Il ragionamento, se portato alle sue più logic h e conseguenze, dovrebbe comprendere anche la separazione delle carriere dei giudici di tribunale da quelli d’appello e di entrambi da q uelli di cassazione. Francamente, di tutti gli argomenti a sostegno della separazione delle carriere q uesto è il più debole, perché basta scorrere la cronaca per imbattersi nei casi di giudici, sia delle indagini preliminari che di primo o secondo grado, che non confermano la tesi accusatoria del pubblico ministero o le decisioni dei colleghi dei gradi precedenti. Per converso, si distoglierebbe il Pubblico Ministero dal culto della giurisdizione, della terzietà, dell’indifferenza verso la propria tesi, la quale va sostenuta con convinzione ma non con ostinazione, relegandolo ad una funzione di accusatore, nobilissima ma diversa da quella concepita dalla Costituzione e dalla normativa c h e, invece, lo individua come un Promotore di giustizia, come parte pubblica che collabora alla ricerca della verità, non come un implacabile accusatore.
Più efficace l’argomento della specializzazione, che resta un obiettivo auspicato, cui però non contraddice l’attuale regime di carriera unica. La specializzazione, come in tutte le discipline, va raggiunta sulla base di una robusta cultura generale di base che, appunto, va affinata, specializzata. La specializzazione del pubblico ministero, ma anche quella del giudice, va realizzata disciplinando in modo diverso da come si fa oggi i tempi e le modalità della progressione di car-
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riera. Con il che ci si avvicinerebbe davvero ad affrontare uno dei principali nodi della magistratura, senza rinunciare all’impostazione giurisdizionale, cioè di terzietà che deve caratterizzare il magistrato, giudice o pubblico ministero.
La rapida carrellata iniziale sui problemi che affliggono il sistema giudiziario, riguarda le gravi carenze del sistema che chiamano la responsabilità del Ministro della Giustizia, cui competerebbe provvedervi, e che sono sistematicamente denunciate dall’Associazione Nazionale Magistrati.
Ma esse non esauriscono i mali del sistema. Ci si riferisce proprio ai fatti che attengono più da vicino alla giurisdizione, all’organizzazione interna degli uffici e del lavoro, alla costante verifica della congruità -per così dire- del comportamento di colui che esercita un potere immenso, pubblico ministero o giudice, potere che va esercitato, senza ostentazione, quasi con umiltà.
Su questi aspetti probabilmente potrebbe giovare un diverso inquadramento del Pubblico Ministero, ove posto alle dirette dipendenze del potere Esecutivo, cioè del Governo, come in molti Paesi, un potere cioè in grado di dettare regole e di pretenderne tempestivamente il rispetto più efficacemente di quanto abbia garantito finora l’attuale sistema; ma questa soluzione che, oggettivamente, potrebbe giovare almeno a regolamentare le condotte e l’attività del pubblico ministero, proprio questa è tassati-
vamente esclusa, dal Legislatore-riformatore, fino al punto che si prevede addirittura una replica del CSM, tutto dedicato al Pubblico Ministero. Un secondo CSM del tutto identico all’attuale, riproponendone, raddoppiandone quindi le notevoli insufficienze, venute alla luce con i casi di ampia e persistente rilevanza mediatica; un secondo CSM che non abbia subito quella salutare “cura dimagrante” che secondo Sabino Cassese sarebbe indispensabile per migliorarne l’efficienza e non solo. È, dunque, escluso l’unico beneficio, per quanto fortemente osteggiato dalla magistratura, che potrebbe arrecare la separazione delle carriere.
La Costituzione ha liberato la Magistratura italiana dal controllo esterno, quello del potere politico e del potere esecutivo, ma la Magistratura si è illusa di poter limitare al massimo anche quello interno, ossia l’autocontrollo. Nel rispetto dell’art. 101 della Costituzione, scandendo meglio i tempi della professione, recuperando il valore dell’esperienza, ripristinando e snellendo il potere di direzione del lavoro dei capi di ufficio, oggi ridotti a inventare best practices di modestissima utilità, nonostante la retorica del manager, in altre parole valorizzando l’autocontrollo della stessa magistratura, che è il miglior antidoto alle ingerenze esterne, si potrebbero recuperare efficienza e modi consoni di esercizio del potere giudiziario, senza stravolgere la Costituzione e urtare Montesquieu.
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O sservatorio sulla giustizia
CARAVAGGIO, Ritratto di Alof De Wignacourt
Antonio Balsamo
sost. Procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione
Il ruolo della magistratura nella garanzia e universalizzazione dei diritti
Il Brasile e l’Italia, tra le molte cose che hanno in comune, ne hanno una, importantissima, che riguarda il ruolo della magistratura. Sono due paesi dove la magistratura ha svolto un ruolo di particolare rilievo per la difesa della democrazia.
Il Brasile e l’Italia sono anche i Paesi che, con una sinergia all’epoca davvero pioneristica, di una modernità straordinaria, hanno inaugurato una nuova era nella cooperazione giudiziaria internazionale. Un’era che si apre nel giugno 1984, quando il giudice istruttore del Tribunale di Palermo Giovanni Falcone raggiunge Brasilia per interrogare Tommaso Buscetta e riceve da lui quello che interpreta come “un segnale inequivocabile di pace e di apertura”. Poche settimane dopo, Buscetta inizierà la sua collaborazione con la magistratura italiana, la prima collaborazione con la giustizia nella storia della mafia, la cui importanza è stata così descritta da Giovanni Falcone: “ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue (…). Con Buscetta ci siamo accostati all’orlo del precipizio, dove nessuno si era voluto avventurare, perché ogni scusa era buona per rifiutare di vedere”1 .
È questo il punto di partenza che rende possibile il maxiprocesso: una attività giudiziaria che segna un profondo cambiamento non solo nella giustizia, ma anche nella società. Come ha evidenziato il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sul
banco degli accusati finirono non soltanto singoli associati, ma l’intero mondo della mafia2. In questa occasione, alla determinazione dei magistrati del pool antimafia di Palermo si accompagnò l’impegno corale di un intero Paese.
Le persone che la mafia aveva reso dipendenti da sé hanno cominciato ad acquistare coscienza della propria dignità, dei propri diritti. La giustizia ha acquistato una nuova capacità di dare voce a chi non ha voce.
Anche per questa via, si è sviluppato un ruolo essenziale della magistratura di garanzia dei diritti umani come “leggi del più debole”. Un ruolo di realizzazione di quello che un sacerdote di Palermo ucciso dalla mafia per il suo impegno religioso e civile, padre Pino Puglisi, chiamava “il diritto dei più poveri”3 .
Come ha sottolineato un giurista italiano le cui idee sono state fortemente condivise proprio nella realtà dell’America del Sud, Luigi Ferrajoli, i diritti fondamentali hanno rappresentato altrettante conquiste di soggetti deboli contro le leggi dei più forti ed hanno corrisposto, ogni volta, a un “mai più” stipulato contro la violenza e la prepotenza generate dall’assenza di limiti e di regole. I diritti umani, e con essi ogni progresso nell’uguaglianza, sono sempre nati «dal disvelarsi di una violazione della persona divenuta a un certo punto intollerabile»4.
Una parabola ancora tutt’altro che con-
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clusa, ma ricca di importanti significati, anche perché in essa si fondono la garanzia dei diritti e la loro internazionalizzazione.
I diritti fondamentali sono divenuti “il linguaggio comune dell’epoca attuale”5. Di fronte alla sfida della diversità e del multiculturalismo, che rende molto più complessa e magmatica la società civile rispetto al passato, la realtà istituzionale dispone di uno strumento importante per ricercare la propria indispensabile base culturale unitaria. questo strumento è dato da un impegno congiunto di tutte le istituzioni per la tutela dei diritti fondamentali, visti come la base su cui costruire il processo di integrazione e il dialogo tra le diverse identità6 proprio in una realtà polarizzata e con forte antagonismo.
La tutela dei diritti può così divenire uno strumento di inclusione, attraverso la valorizzazione della dignità di ogni essere umano.
Ciò che colpisce chi, come me, viene in Brasile per la prima volta è scoprire una società che rappresenta un modello di inclusione.
In questa società è sempre più essenziale il ruolo del giudice, per realizzare concretamente nella vita sociale, nei rapporti giuridici, quello spirito di fratellanza di cui ha parlato a Palermo il Presidente del Tribunale di Giustizia del Paranà, José Laurindo de Souza Netto. Una grande promessa del costituzionalismo moderno, che rappresenta il necessario strumento per una attuazione congiunta dei principi di libertà e di uguaglianza.
Il recente Simposio del Consiglio dei Presidenti dei Tribunali di Giustizia del Brasile rappresenta la dimostrazione tangibile di come il “dialogo tra le Corti” dei diversi Paesi possa svolgere un ruolo essenziale per rispondere a sfide che hanno una dimensione che oltrepassa di molto i confini dei singoli Stati.
A partire dalla seconda metà del ‘900, è stata registrata una profonda evoluzione, che ha portato non solo alla rivalutazione del momento giurisprudenziale di costruzione del diritto, ma anche alla reciproca integrazione tra le diverse giurisdizioni statali e le giurisdizioni internazionali.
I giudici dei singoli Stati operano ancora come organi della propria comunità, ma in prospettiva sono già portatori dei valori dell’intera comunità internazionale7.
A queste profonde trasformazioni del ruolo della giurisdizione, se ne accompagnano altre che coinvolgono i diritti fondamentali.
Prima della Dichiarazione universale del 1948, i diritti dell’uomo avevano finito per appiattirsi sui diritti del cittadino, e a trovare spazio in un “universo” giuridico-positivo che coincideva con quello dell’ordinamento interno dello Stato.
La consacrazione dei diritti umani nella Dichiarazione universale del 1948 e nei Patti internazionali del 1966 fa di questi dei diritti non solo costituzionali, ma sovrastatali, trasformandoli in limiti non più solo interni, ma anche esterni, alla sovranità dello Stato.
Attraverso una lunga evoluzione storica, si è tradotta in realtà la straordinaria intuizione di Francisco De Vitoria, che, nel teorizzare i fondamenti del diritto internazionale moderno, nel ‘500, aveva affermato la soggezione degli Stati al “diritto delle genti”, in cui venivano inclusi “diritti naturali” modernissimi come lo ius communicationis e lo ius migrandi
Si tratta di una prospettiva fortemente coerente con uno dei più significativi profili innovativi presenti nella Costituzione italiana, che è stata concepita in una fase storica – quella seguita alla conclusione della Seconda guerra mondiale – in cui maturava con forza l’idea di una “elevazione della libertà individuale dal piano interno al piano internazio-
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nale”8. Nei giuristi che stavano impegnandosi a riscrivere la Carta dei diritti fondamentali, era ben salda la consapevolezza che la salvaguardia delle libertà costituzionali dei cittadini – senza le quali non può esservi democrazia – sarebbe divenuta molto più efficace se, oltre ad essere assicurata da una Costituzione rigida, fosse stata portata su un piano internazionale9.
Alla base di norme come l’art. 11 della Costituzione italiana vi è, pertanto, lo sforzo di tradurre in termini giuridici quella che Calamandrei chiamava l’“appassionata speranza nel superamento dei nazionalismi verso più vasti aggregati supernazionali”; una speranza che ha portato ad inserire nella Carta fondamentale disposizioni che, in futuro, avrebbero potuto svolgere una funzione “di raccordo e di coordinamento con una più vasta costruzione internazionale”10 .
L’apertura verso l’orizzonte internazionale, e verso una tutela multilivello dei diritti umani, appare, oggi, come uno dei più importanti fattori di modernità e di dinamismo della Costituzione del 1948.
Un grande merito dei costituenti è stato quello di collocare l’Italia nella grande corrente del costituzionalismo europeo e mondiale. Infatti la nostra Costituzione non è un prodotto autarchico, ma piuttosto uno dei documenti che più felicemente sintetizza i contenuti essenziali di quella “koinè” che, a partire dal “crogiolo ardente” della seconda guerra mondiale, si è andata costituendo e ha concretizzato per la prima volta nella storia dell’umanità l’ideale universalistico dei diritti umani, che stava nell’ispirazione originaria del costituzionalismo11.
Nel pensiero giuridico contemporaneo, è da tempo maturata la consapevolezza che il processo di democratizzazione del sistema internazionale, e la ricerca di una soluzione pacifica dei conflitti, non possono svilup-
parsi senza una graduale estensione del riconoscimento e della protezione dei diritti dell’uomo al di sopra dei singoli Stati12
L’effettività del nuovo ruolo che, in questo contesto, il giudice sta assumendo per la tutela dei diritti fondamentali passa necessariamente attraverso una convinta valorizzazione delle garanzie insite nei principi costituzionali di indipendenza e autonomia della magistratura.
In questo momento storico, le ragioni che spinsero nel secolo XVIII i teorici dello Stato di diritto – da Montesquieu a Beccaria e a Kant – ad affermare il principio della separazione dei poteri sono attuali come non mai.
Alla base di tale principio vi è un quadro di valori oggi fortemente condiviso dall’opinione pubblica, a livello nazionale ed internazionale. L’autonoma legittimazione delle istituzioni di garanzia, soggette soltanto alle legge, trova il suo fondamento non solo nella necessità di una reciproca limitazione dei poteri pubblici - quale presupposto indispensabile per la conservazione della democraziama anche nella stessa natura della funzione giurisdizionale, finalizzata all’imparziale accertamento dei fatti giuridicamente rilevanti, alla tutela di diritti fondamentali aventi carattere universale, al controllo sulle illegalità riscontrate nell’esercizio degli altri poteri politici ed economici.
La lucida visione dell’essenza dello Stato costituzionale espressa nel pensiero di Montesquieu - secondo cui “non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere giudiziario e da quello esecutivo” - e nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 - che esplicita che “ogni società in cui non è assicurata la garanzia dei diritti né è stabilita la separazione dei poteri non ha Costituzione” - acquista un intenso significato in questa fase storica nella quale si profila con crescente energia il binomio inscindibile
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tra la salvaguardia dei diritti fondamentali e la posizione di indipendenza assegnata alla magistratura.
Ma – come avvertiva Giovanni Falconeautonomia e indipendenza non significano affatto separatezza della magistratura rispetto alle altre funzioni dello Stato. Occorre fare in modo che “l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, rispondano alle reali esigenze della società, siano funzionali alle esigenze della collettività e, come tali, vengano riconosciute come un valore da custodire e rafforzare da parte di tutta la società”, se si vuole rimanere fedeli in profondità al pensiero di quei giuristi che hanno scritto la costituzione italiana, come Piero Calamandrei, che diceva: “la giustizia è un bene comune, il più prezioso dei beni comuni. e le ansie che lo concernono sono ansie di tutti i cittadini”.
Io vedo una forte continuità tra questo pensiero e le idee espresse dai Presidenti dei Tribunali di Giustizia del Brasile sulla giustizia di prossimità, dal volto umano, capace di fornire una risposta unica dello Stato che venga incontro alle esigenze di giustizia sociale.
La universalizzazione dei diritti è oggi una grande opportunità per rafforzare la loro garanzia.
È questa la esperienza che scaturisce dal nuovo ruolo della magistratura nel contesto di una integrazione progressiva in un nuovo ordinamento giuridico multilivello in cui la “punta avanzata” del nostro sistema di protezione internazionale dei diritti fondamentali è rappresentata dalla garanzia giurisdizionale assicurata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo13.
La tutela internazionale dei diritti si colloca in uno sfondo completamente diverso rispetto a quello dello scontro di poteri e di ideologie che negli anni passati ha spesso contrassegnato il dibattito italiano sulla giustizia penale, stretto nelle morse di una inac-
cettabile polarizzazione tra opposte tifoserie. Il quadro dei valori sotteso alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo è, invece, quello di un “garantismo a 360 gradi”, che porta a “prendere sul serio” in uguale misura i diritti fondamentali di tutte le persone, a prescindere dalle loro condizioni socio-economiche e dalla loro nazionalità.
In questa prospettiva, i diritti fondamentali vengono ad operare anche come “motore di espansione” del diritto penale nelle situazioni nelle quali si riscontra una diffusa sottoprotezione di determinate categorie di soggetti, “deboli” anche in quanto vittime –per usare le parole di un giudice che per noi è anche un martire della fede, Rosario Livatino – di «quei reati che per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti»14.
Tutta questa tematica ha adesso un nuovo volto, di fronte alle sfide di amplissima dimensione tipiche di una fase storica che ha conosciuto una rapidissima evoluzione sia del sistema globale delle comunicazioni (sempre più spesso veicolate da sistemi informatici o telematici, tanto che ormai si riscontra un netto ridimensionamento delle distinzione tra telecomunicazioni e flussi informatici), sia delle modalità di azione degli ambienti criminali (sempre più caratterizzate dall’uso della tecnologia informatica, anche al di fuori dell’area del cybercrime in senso stretto: si pensi al ruolo-chiave che le comunicazioni via internet hanno assunto per lo sviluppo del terrorismo, dei traffici internazionali di stupefacenti, della tratta di esseri umani, del traffico illecito di beni culturali e di risorse ambientali, del riciclaggio anche attraverso lo strumento delle criptovalute, per noi ancora tutto da esplorare).
In questo contesto, sono a rischio i diritti di tantissime nuove fasce deboli di persone, a cominciare dai più giovani. Le nuove tecnologie hanno reso possibili anche forme
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brutali di sfruttamento di tantissimi bambini e bambine, della stessa età dei nostri figli, da parte di organizzazioni criminali internazionali senza scrupoli.
Per consentire alla magistratura di svolgere un ruolo adeguato alla realtà in intensa evoluzione, possono sicuramente essere utili nuovi strumenti internazionali. In particolare, potrà essere importante la nuova Convenzione ONU in avanzato stadio di elaborazione per contrastare l’uso delle tecnologie della informazione e della comunicazione per scopi criminali.
Ma sin da ora possono giocare un ruolo importantissimo le nuove potenzialità operative degli strumenti esistenti, e in particolare della Convenzione di Palermo, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, che per il numero estremamente elevato dei Paesi che vi aderiscono (ben 191) e per la ampiezza delle sue previsioni, rappresenta oggi uno degli strumenti più utilizzati a livello globale per la lotta a tutte le forme più gravi di cybercrime.
La Convenzione ONU di Palermo si presenta infatti come uno strumento di portata tendenzialmente generale, flessibile e capace di adattarsi alle dinamiche evolutive di tutti i più allarmanti fenomeni delittuosi, compresi quelli che non sono da essa espressamente contemplati ma, al contempo, non hanno formato neppure oggetto di analoghi trattati internazionali.
quella del cybercrime è una sfida che richiede un sistema penale di tipo postmoderno, capace di cogliere la dimensione collettiva della criminalità, di rinnovare tutto il complesso degli strumenti di indagine adeguandolo ai grandi cambiamenti che hanno investito il sistema delle comunicazioni e ogni aspetto della vita sociale, di rendere possibili interventi immediati di raccolta della prova e di reazione giudiziaria, sia re-
pressiva che preventiva, su scala globale.
In effetti, è proprio l’ampiezza della sfera di applicazione oggettiva e soggettiva della Convenzione di Palermo a farne lo strumento privilegiato per escludere ogni “zona franca”, ogni area di impunità, ogni “safe haven” rispetto alle condotte delittuose collettive di maggiore gravità, quale che sia la loro tipologia.
Oggi la Convenzione di Palermo appare sempre più come uno strumento progettato guardando al futuro. Un futuro le cui coordinate di fondo sono tracciate in una importante risoluzione che è stata adottata su proposta dell’Italia e con il forte sostegno del Brasile il 16 ottobre 2020, dalla Conferenza delle Parti della Convenzione di Palermo, e che i nostri Ministri della Giustizia, dell’Interno e degli Esteri hanno presentato come la “risoluzione Falcone” non solo perché con essa la comunità internazionale rende uno speciale tributo a Giovanni Falcone, ma anche perché le misure programmate in tale atto costituiscono la concretizzazione della visione anticipatrice di questo grande magistrato.
Una misura idonea a far compiere un salto di qualità all’azione di contrasto nei confronti della dimensione economica della criminalità organizzata transnazionale è indicata nel paragrafo operativo n. 7 della risoluzione, che incoraggia gli Stati parte a fare uso della Convenzione di Palermo come legal basis per un’efficace cooperazione internazionale ai fini della tempestiva esecuzione di tutti i provvedimenti di congelamento, sequestro, confisca e destinazione dei proventi di reato, anche nel caso dei procedimenti che prescindono da una condanna.
Diviene così possibile ottenere l’esecuzione all’estero della non-conviction based confiscation, del sequestro a essa funzionale, nonché delle relative indagini finanziarie e patrimoniali, in un ambito spaziale davvero
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universale, costituito dal territorio di 191 Stati (su 195 membri delle Nazioni Unite). Esattamente come sono universali l’ambiente virtuale e la dimensione del riciclaggio dei profitti illeciti nelle sue più avanzate forme tecnologiche.
Nella risoluzione Falcone viene programmato tutto un complesso di strumenti di speciale modernità per modernizzare i metodi di indagine e le forme della cooperazione giudiziaria internazionale.
In particolare, il paragrafo operativo n. 11 invita gli Stati parte ad istituire nuovi meccanismi che rendano più rapida ed efficace la cooperazione giudiziaria, come i magistrati di collegamento e gli organi investigativi comuni che facciano uso delle moderne tecnologie.
Si tratta di due strumenti che possono assumere una valenza strategica nella lotta ad una vasta gamma di fenomeni criminali, tra cui la tratta di esseri umani, il traffico illecito di droga e di armi, le più gravi attività delittuose connesse al terrorismo internazionale.
La nozione di “organi investigativi comuni”, già presente nel testo dell’art. 19 della Convenzione, può ricomprendere una pluralità di tipologie, delle quali alcune sono state già diffusamente sperimentate con importanti risultati – come nel caso delle squadre investigative comuni, che hanno prodotto risultati importanti proprio in indagini svolte congiuntamente dalla magistratura italiana e brasiliana – mentre altre sono ampiamente da esplorare e possono dare vita a sviluppi ordinamentali di straordinario interesse. Dal coordinamento delle indagini si potrebbe passare alla creazione di un soggetto giuridico ufficiale, dotato di funzioni investigative proprie, complementari con i compiti degli organismi inquirenti dei singoli Stati interessati15.
Di recente, nell’ambito dei Gruppi di Lavoro della Conferenza delle Parti della Con-
venzione di Palermo, si è sottolineata la possibilità di tracciare una distinzione tra le semplici “squadre investigative comuni” (joint investigative teams), formate per svolgere attività di indagine su specifici casi entro un periodo limitato di tempo, e gli “organi investigativi comuni” (joint investigative bodies), contrassegnati da una struttura permanente e competenti per le indagini su determinate tipologie di reato16.
Altrettanto importante è il paragrafo operativo n. 12 della risoluzione Falcone, che incoraggia gli Stati parte a utilizzare in modo efficace le tecniche investigative speciali, e a concludere accordi bilaterali o multilaterali appropriati per l’uso di tali tecniche nel contesto della cooperazione a livello internazionale.
Al riguardo, va sottolineato che tra le tecniche investigative speciali previste dalla Convenzione, di Palermo rientrano le operazioni sotto copertura e, soprattutto, la “sorveglianza elettronica”, che ricomprende tutte le forme più avanzate di raccolta della prova digitale e di intercettazione di comunicazioni rese possibili dall’evoluzione tecnologica, come il “captatore informatico” su cui occorre un intervento di armonizzazione a livello internazionale fondato sulle recenti legislazioni di alcuni paesi che possono costituire un vero e proprio modello di riferimento per gli altri paesi per la sua capacità di raggiungere un valido punto di equilibrio tra efficienza e garanzia dei diritti fondamentali17.
Anche i più semplici e diffusi sistemi di criptazione delle comunicazioni, utilizzati ogni giorno da moltissime persone, costituiscono un ostacolo difficilmente superabile per le intercettazioni di tipo tradizionale. Ciò rende indispensabile l’impiego di nuove tecniche speciali di indagine come il “captatore informatico”, che è capace di realizzare, attraverso un meccanismo tecnologico di sem-
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plice implementazione, l’insieme degli effetti di una pluralità di mezzi di ricerca della prova, sia tipici che atipici: le intercettazioni telefoniche, di conversazioni tra persone presenti, di comunicazioni informatiche o telematiche, la perquisizione di un sistema informatico o telematico, il sequestro di dati informatici, le videoriprese, ecc..
È chiaro tuttavia che, in mancanza di una base giuridica adeguata che ne consenta l’impiego su obiettivi situati all’estero, la sorveglianza elettronica rischia di divenire un’arma spuntata: i confini nazionali, che non riescono a frenare la estrema mobilità dei traffici illeciti, imbriglierebbero inflessibilmente la più moderna attività investigativa.
I nuovi strumenti di indagine resi possibili dagli sviluppi della tecnologia possono invece esprimere le loro potenzialità rispetto ai fenomeni criminali transnazionali se vengono inseriti nel quadro della cooperazione giudiziaria internazionale sulla base di una appropriata armonizzazione.
La prospettiva aperta dal paragrafo operativo n. 12 della risoluzione Falcone è particolarmente importante perché consente operare in sinergia con tutti i paesi situati in altri continenti, in vista del contrasto di fenomeni criminali aventi dimensione globale e radici sociali complesse, superando gli ostacoli che si frappongono alla raccolta delle prove anche nei luoghi dove vaste zone del territorio sono sotto il controllo di organizzazioni criminali.
La risoluzione Falcone si è immediatamente tradotta in una serie di fatti concreti. A seguito della sua adozione, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC), ha sviluppato alcuni strumenti che sono destinati alla diffusione in pressoché tutti i paesi del mondo e che potranno avere una notevole incidenza sulla cooperazione giudiziaria in-
ternazionale, dando impulso a quella intensa armonizzazione delle legislazioni che ne costituisce il principale presupposto operativo insieme alla fiducia reciproca tra i diversi Stati.
In particolare, nel 2021 è stata pubblicata dalle Nazioni Unite la nuova versione delle “Previsioni legislative modello contro la criminalità organizzata” (Model Legislative Provisions against organized Crime), destinate ad agevolare tutto il processo di revisione, modifica e adozione della legislazione nazionale occorrente per dare l’implementazione della Convenzione di Palermo nei 190 Paesi che vi hanno aderito. In tale testo, viene valorizzata in modo assai significativo la normativa italiana in tema di associazione di tipo mafioso, associazione per delinquere, responsabilità delle persone giuridiche, circostanze aggravanti e attenuanti applicabili ai reati di criminalità organizzata (con la riduzione di pena prevista per i collaboratori di giustizia), estensione dei termini di prescrizione, criteri di scelta delle misure cautelari personali, esame in videoconferenza per gli agenti sotto copertura e gli imputati in un procedimento connesso.
Nel 2022 è stata pubblicata dalle Nazioni Unite la nuova versione della “Legge modello sull’assistenza reciproca in materia penale” (Model Law on Mutual Assistance in Criminal Matters, as amended with provisions on electronic evidence and the use of special investigative techniques) che rappresenta un’opera di modernizzazione assolutamente essenziale, in considerazione degli sviluppi tecnologici intervenuti in questo campo negli ultimi anni. Non a caso, tra le nuove disposizioni in essa inserite ci sono quelle relative alla raccolta di prove elettroniche e all’uso di tecniche investigative speciali, in particolare della sorveglianza elettronica.
A queste innovazioni operanti sul versante del contrasto alla criminalità se ne pos-
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sono accompagnare altre che valorizzano le tecnologie come strumento di rafforzamento della tutela dei diritti, con la diffusione collettiva della conoscenza degli effetti concreti delle decisioni giudiziarie, dei “diritti in azione”, per tutti, cittadini e stranieri, in modo comprensibile a tutti anche sul piano linguistico. È un esperimento che contiamo di realizzare a Palermo già dalla settimana prossima, partendo da due diritti che hanno una forte dimensione europea e internazionale:
Il primo settore è quello della tutela della salute e della dignità dei lavoratori subordinati, anche di quelle nuove tipologie di lavoratori per i quali il potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro si attua esclusivamente mediante piattaforme informatiche: si pensi ai rider (il cui numero in Italia è raddoppiato per effetto della pandemia, tanto che oggi sono circa 1 milione e mezzo), per i quali si sono riscontrate forme di licenziamento mediante distacco dalla App, o situazioni di completa mancanza di cautele contro gli infortuni.
Il secondo settore è quello del “diritto alla verità” sulle più gravi violazioni dei diritti umani, che ha trovato riconoscimento da parte prima della Corte interamericana dei diritti umani e poi della Corte europea dei diritti dell’uomo, le quali ne hanno attribuito la titolarità non solo alle vittime e ai loro familiari, ma anche alla collettività nel suo insieme.
Un diritto che ha un significato speciale a Palermo, dove tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’90, sono stati commessi alcuni degli episodi delittuosi più gravi della storia del nostro paese, quelli che hanno caratterizzato la stagione del “terrorismo mafioso”. Non è un caso quindi che proprio dal Tribunale di Palermo siano state emesse la maggior parte delle sentenze adottate da giudizi del nostro Paese sul diritto alla verità.
Il lavoro giudiziario anche a Palermo ha prodotto effetti positivi sulla società. L’ultimo successo è stato l’arresto a Palermo uno dei più importanti esponenti mafiosi, Matteo Messina Denaro, che era latitante dal 1993 ed è stato riconosciuto responsabile delle stragi commesse in quell’anno a Firenze, Roma e Milano. Tutti siamo stati colpiti dall’applauso spontaneo tributato dalla popolazione ai carabinieri mentre lo arrestavano. Nei giorni immediatamente successivi, nel suo paese di origine, Castelvetrano, i ragazzi sono andati in corteo con cartelli dove c’era scritto “io vedo, io sento, io parlo”. Esattamente il contrario della legge del silenzio che in passato regnava nella mia terra.
Per questo, è importantissimo potenziare in nuove forme la comunicazione tra il mondo della giustizia e la società.
La posta in gioco in questo sviluppo tecnologico è duplice: da un lato, restituire quella dignità che le spetta a ogni persona che ha subito violazioni dei diritti umani; dall’altro, assicurare la conoscenza dei propri diritti anche ai soggetti più deboli, dando piena attuazione alla dimensione europea e internazionale del principio di legalità.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha fortemente valorizzato gli aspetti qualitativi di tale principio, che riguardano l’accessibilità e prevedibilità non solo delle fonti normative ma anche della giurisprudenza. Sul piano dei principi democratici, si tratta di rendere veramente effettiva l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e di accrescere la fiducia diffusa nella giustizia. E anche sul piano dell’efficienza del sistema giudiziario, si tratta di un fattore che può produrre effetti estremamente positivi.
L’uso avanzato delle tecnologie della informazione e della comunicazione può rivestire un ruolo chiave anche per dare attuazione concreta alle indicazioni scatu-
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renti da alcune importanti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo sugli obblighi di coordinamento tra uffici giudiziari in funzione della tutela dei diritti fondamentali (come, ad esempio, la sentenza del 15 dicembre 2009 nel caso Maiorano e altri c. Italia, relativa a un gravissimo caso di femminicidio, con la quale il dovere di adottare le appropriate misure con funzione preventiva di azioni criminose di terzi viene imposto all’apparato giudiziario e investigativo nel suo insieme, sulla base di una visione sistemica che si oppone ad ogni parcellizzazione atomistica delle sfere di competenza dei diversi organi).
È questo il quadro di idee e di valori su cui è oggi possibile costruire il futuro della lotta alla criminalità e della affermazione dei diritti, a livello interno come a livello internazionale, trasformando una crisi drammatica in una grande opportunità di rinnovamento delle nostre strutture giuridiche, sociali e culturali. Se «diffondere la speranza è il nostro compito» – come ha ricordato la Ministra della Giustizia Marta Cartabia nella sua dichiarazione nazionale in apertura del Congresso di Kyoto delle Nazioni Unite – allora non c’è dubbio che le fasi storiche più difficili sono quelle in cui un simile compito diviene più importante e fecondo.
Il metodo e i valori che insieme l’Italia e il Brasile hanno espresso nella lotta alla criminalità organizzata e nella tutela dei diritti dei più deboli costituiscono un grande fattore di speranza per tutti quei popoli e quelle persone che vogliono divenire protagonisti di un riscatto collettivo, di una nuova fase della loro Storia, libera dal peso opprimente di ogni forma di criminalità del potere.
Per queste ragioni appaiono sempre più importanti iniziative formative che diano continuità allo scambio di idee e di valori nel segno dell’innovazione, per rispondere alle nuove sfide poste alla giustizia attraverso l’apertura alla società e all’orizzonte internazionale di cui parlava un grande giurista francese, André Tunc18
Come evidenziato a Palermo anche dal Presidente José Laurindo, l’innovazione è frutto della conoscenza, della formazione, del mindset, della gestione delle risorse umane come funzione sociale finalizzata alla tutela dei diritti umani: è questa una sfida da raccogliere per la nostra giustizia. Si pensi al ruolo della intelligenza emotiva, dell’empatia. Si tratta di tradurre in fatti concreti la più bella, e profonda definizione della giustizia che nella mia vita mi è capitato di ascoltare. Il suo autore non era un tecnico del diritto, ma un sacerdote che ho conosciuto da giovane e di cui vi ho parlato poco fa, padre Pino Puglisi. Diceva: “giustizia significa porre al primo posto il valore della persona umana, di ogni persona”19 .
È questa sicuramente la via maestra per riattivare quella sinergia tra elaborazione scientifica, impegno giudiziario e passione civile che ha contrassegnato l’opera di giuristi come Cesare Beccaria, di avvocati come Piero Calamandrei, di magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che continuano a rappresentare l’identità più autentica e più forte del mondo giuridico italiano agli occhi della comunità internazionale.
testo tratto dalla relazione svolta nella conferenza conclusiva del simposio del Consiglio dei Presidenti dei tribunali di giustizia del Brasile (ConsePre) del 19 e 20 gennaio 2023.
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NOTE
1 G. Falcone, Cose di Cosa nostra, Milano, Rizzoli, 1991.
2 intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla cerimonia commemorativa in occasione del 25° anniversario delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, Palermo, 23/5/2017.
3 schemi delle relazioni preparate per gli esercizi spirituali del 20 agosto 1993, in Don Pino Puglisi, se ognuno fa qualcosa si può fare molto, a cura di F. Deliziosi, Rizzoli, Milano, 2018.
4 L. Ferrajoli, Principia iuris. teoria del diritto e della democrazia, Laterza, 2007.
5 V. Onida, i diritti umani in una comunità internazionale, in Il Mulino, 2006, p. 411.
6 F. Viola, Diritti fondamentali e multiculturalismo, in Aa.Vv., Multiculturalismo, diritti umani, pena, a cura di A. Bernardi, Milano, 2006, 38-41.
7 N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Giuffrè, Milano, 2007, p. 1p. 183-187.
8 Così P. Calamandrei nel suo intervento del settembre 1945 su Costituente italiana e federalismo europeo, ora in Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, Vallecchi, Firenze, p. 170.
9 P. Calamandrei, op. cit , p. 170.
10 P. Calamandrei, op. cit., p. 166-168.
11 V. Onida, op. cit., p. 1-2.
12 Così N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 1990, VII, il quale rileva che “diritti dell’uomo, democrazia
e pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico”.
13 N. Bobbio, op. cit , 37
14 R. Livatino, il ruolo del giudice nella società che cambia, relazione tenuta il 7 aprile 1984 presso il Rotary Club di Canicattì. Sul pensiero di Rosario Livatino, v. A. Mantovano – D. Airoma – M. Ronco, Un giudice come Dio comanda, Rosario Livatino, la toga e il martirio, Il timone, 2021.
15 Cfr. A. Balsamo – A. Mattarella - R. Tartaglia, La Convenzione di Palermo: il futuro della lotta alla criminalità organizzata transnazionale, Giappichelli, Torino, 2020, p. 360.
16 Sul punto v. il Background paper preparato dal Segretariato per il Working group on international Cooperation riunitosi a Vienna nei giorni 7-8 luglio 2020 sul tema: the use and role of joint investigative bodies in combating transnational organized crime
17 Sul tema v. G. Salvi, Conoscere il terrorismo Jihadista. strumenti e tecniche di indagine, in gli speciali di Questione giustizia – terrorismo internazionale. Politiche della sicurezza. Diritti fondamentali, 2016, p. 165.
18 A. Tunc, sortir du néolithique (recherche et enseignement dans les facultés de droit), in recueil Dalloz de doctrine, de jurisprudence et de législation, 1957, Chronìques, p. 71 ss.
19 relazioni sulle beatitudini, in Don Pino Puglisi, se ognuno fa qualcosa si può fare molto, cit.
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JAMES
ENSOR, Ensor circondato dalle maschere
Giuseppe Giove
Generale
Prescrizione e asseverazione nei reati ambientali
A seguito della entrata in vigore della legge 9 ottobre 2023, n. 137 (conversione del decreto “giustizia” 10 agosto 2023 n.105 recante disposizioni urgenti in materia di processo penale, civile, di contrasto agli incendi boschivi, di recupero delle tossicodipendenze, di salute e di cultura, nonché in materia di personale della magistratura e della pubblica amministrazione), l’abbandono dei rifiuti è diventato reato anche per i privati.
In particolare le disposizioni del Capo IV (articoli 6-6-ter) introducono norme concernenti reati in materia ambientale e altre disposizioni in materia di sanzioni penali e responsabilità delle persone giuridiche.
Nello specifico, l’articolo 6 apporta alcune modifiche al reato di incendio boschivo, di cui all’articolo 423-bis del codice penale, aumentando il minimo edittale della pena sia nel caso si integri la fattispecie colposa che quella dolosa e prevedendo un’aggravante ad effetto speciale nel caso in cui tale fattispecie sia commessa con abuso di poteri o violazione di propri doveri inerenti alla prevenzione e al contrasto degli incendi o per trarne profitto.
L’articolo 6-ter ha invece apportato modifiche al decreto legislativo n. 152 del 2006, al fine di trasformare in reati contravvenzionali taluni illeciti amministrativi in materia di rifiuti.
I privati, e non solo più le imprese, che abbandonano rifiuti potranno quindi essere puniti con un’ammenda che va da mille a
diecimila euro e se l’abbandono riguarda rifiuti pericolosi, la pena sarà aumentata fino al doppio.
quello che prima era sanzionato in via amministrativa dal Testo Unico Ambientale, Decreto Legislativo 3 aprile 2006 n.152, è dal 10 ottobre 2023 diventato un reato.
Lo stesso dispositivo lascia invariato quanto disposto dall’art.256 co 2, ovvero la conferma sanzionatoria per i titolari di imprese ed i responsabili di enti che abbandonano o depositano in modo incontrollato i rifiuti ovvero li immettono nelle acque superficiali o sotterranee in violazione del divieto di cui all’articolo 192, commi 1 e 2 dal 10 ottobre 2023.
Ciò significa che, per tale divieto, qualsiasi soggetto risponderà penalmente nel caso in cui abbandoni o depositi in maniera incontrollata qualsiasi genere di rifiuti sul suolo, nel suolo e nei corsi e specchi d’acqua.
È, altresì, vietato l’abbandono di mozziconi dei prodotti da fumo sul suolo, nelle acque e negli scarichi (articolo 232-bis, comma 3, D.Lgs. n. 152/2006).
L’articolo 6-ter ha invece lasciato invariato l’articolo 255, comma 1-bis del D.Lgs. n. 152/2006, che contiene la disciplina sanzionatoria amministrativa per l’abbandono di rifiuti di piccolissime dimensioni e dei rifiuti prodotti da fumo. Esso, infatti, stabilisce che chiunque viola il divieto di cui all’articolo 232-ter è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro trenta a euro cento-
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di Divisione dell’Arma dei Carabinieri (r.f.- ris.). Avvocato
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cinquanta. Se l’abbandono riguarda i rifiuti di prodotti da fumo di cui all’articolo 232-bis, la sanzione amministrativa è aumentata fino al doppio. E’ utile ricordare che l’art.232 ter citato statuisce che al fine di preservare il decoro urbano dei centri abitati e per limitare gli impatti negativi derivanti dalla dispersione incontrollata nell’ambiente di rifiuti di piccolissime dimensioni, quali anche scontrini, fazzoletti di carta e gomme da masticare, è vietato l’abbandono di tali rifiuti sul suolo, nelle acque, nelle caditoie e negli scarichi.
All’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dalla parte quarta del D.Lgs. n. 152/2006, comprese, quindi, quelle di cui all’articolo 255, comma 1-bis, provvede la Provincia nel cui territorio è stata commessa la violazione, ad eccezione delle sanzioni previste dall’articolo 261, comma 3, in relazione al divieto di cui all’articolo 226, comma 1, per le quali è competente il Comune (articolo 262, comma 1, D.Lgs. n. 152/2006).
Il decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare 15 febbraio 2017 (G.U. Serie Generale n. 54 del 0603-2017), disciplina la destinazione e l’impiego dei proventi derivanti dalle sanzioni amministrative pecuniarie irrogate in caso di abbandono dei rifiuti di prodotti da fumo ed in caso di abbandono dei rifiuti di piccolissime dimensioni quali anche scontrini, fazzoletti di carta, gomme da masticare.
Il privato che verrà individuato quale autore di abbandoni di rifiuti verrà quindi segnalato alla competente Procura della Repubblica e dovrà corrispondere una cifra di 2.500 euro, non rateizzabile (aumentata fino al doppio se si tratta di rifiuti pericolosi, come sono, ad esempio, i frigoriferi, i motori, i tubi al neon, rifiuti contenenti amianto, ecc.), se vorrà estinguere il reato senza subire
un processo, seguendo le indicazioni degli organi accertatori.
E’ quindi utile in tale nuovo contesto, ricordare la prescrizione quale atto tipico della polizia giudiziaria ripercorrendo il percorso normativo.
Con la legge n.68 del 2015 sui c.d. “ecoreati” viene inserito un sistema normativo finalizzato ad una risposta sanzionatoria a fenomeni criminali di aggressione all’ecosistema e vengono inseriti sette articoli che introducono nel Codice dell’Ambiente una “parte sesta-bis”, sugli aspetti sanzionatori degli illeciti amministrativi e penali in materia di tutela ambientale, prevedendo un meccanismo di estinzione delle contravvenzioni ambientali che non cagionano danno o pericolo concreto ed attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette. I menzionati concetti di danno e pericolo impongono alcune riflessioni sull’assetto normativo, sia per la modalità sia per il livello di offesa al bene giuridico protetto.
With the law n.68 of 2015 on the so-called «eco-crimes» a regulatory system is inserted aimed at a sanctioning response to criminal phenomena of aggression to the ecosystem and seven articles are inserted that introduce a «part sixbis» into the environmental Code, on the sanctioning aspects of administrative and criminal offenses in environmental protection, providing for a mechanism for extinguishing environmental fines that do not cause damage or concrete and current danger of damage to protected environmental, urban or landscape resources. the aforementioned concepts of damage and danger require some reflections on the regulatory framework, both for the modality and for the level of offense to the protected legal asset.
Keywords: illegal environmental protection, environmental damage, environmental danger, landscape crimes.
La norma – che inserisce al Codice del-
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l’ambiente una Parte VI-bis – introduce nell’ordinamento un meccanismo estintivo delle contravvenzioni in materia ambientale, sostanzialmente basato sul modello di cui al D.Lgs. 758/1994 recante modificazioni alla disciplina sanzionatoria in materia di lavoro.
È in ogni caso necessario che i comportamenti connessi alle ipotesi contravvenzionali di che trattasi non abbiano cagionato danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche.
L’organo accertatore (quindi qualsiasi soggetto in possesso della qualifica di polizia giudiziaria), in caso di constatazione di una contravvenzione ambientale deve iniziare a porre in essere una procedura estintiva del reato nel caso in cui l’azione disvaloriale del soggetto controllato non abbia provocato danno o pericolo concreto ed attuale di danno ad individuate matrici ambientali.
È quindi rimesso all’operatore, in sede di primo intervento consequenziale alla segnalazione o alla rilevazione dell’illecito contravvenzionale ambientale, l’obbligo di verificare la mancanza dei parametri citati (pericolo di danno e danno) onde attivare la procedura estintiva.
La necessità di esprimere un giudizio fattuale nei reati ambientali (e non solo) presenta difficoltà non lievi, in relazione sia alla varietà dei casi e delle matrici ambientali, sia alle valutazioni d’indole tecnica, che spesso incidono sulla rilevazione dell’illecito, anche per la difficoltà di dettare norme generali, regole fisse finalizzate a suggerire l’indirizzo da dare per i vari casi.
Il meccanismo estintivo, basato sul presupposto dell’assenza di pericolo concreto ed attuale di danno, consta di diversi passaggi sintetizzabili come segue:
1. accertamento della violazione ed imposizione da parte dell’organo di vigilanza (polizia giudiziaria) di una prescrizione,
asseverata tecnicamente dall’ente specializzato competente nella materia trattata volta alla regolarizzazione, fissando un termine massimo (termine tecnico prorogabile una sola volta di sei mesi) per l’adempimento (art. 318-ter Codice dell’Ambiente)
2. verifica dell’adempimento (con pagamento di una somma pari a un quarto del massimo dell’ammenda) ed informazione da parte dell’organo di vigilanza al Pubblico Ministero competente (art. 318-quater);
3. estinzione della contravvenzione a seguito dell’adempimento (e del pagamento) –archiviazione (art. 318-septies).
Ma anche su questa parte non mancano i dubbi interpretativi che hanno spinto alcune Procure territoriali ad emanare circolari esplicative ed alcune Procure Generali, di concerto con le Procure territoriali, a stabilire protocolli di intesa con gli organismi di controllo più interessati alla problematica1
L’intera questione è ben sintetizzata da una circolare della Procura di Trento2 quando sostiene la necessità di una interpretazione ragionevole della norma “a fronte di una formulazione eccessivamente generica”, onde evitare margini di opinabilità sul procedimento di estinzione delle contravvenzioni.
Utilissimo appare anc h e il protocollo d’intesa promosso dalla Procura Generale di Bologna c h e affronta i temi più delicati della questione al fine di perseguire un’applicazione omogenea della norma su tutto il territorio distrettuale per evitare che “i cittadini si trovino davanti ad applicazioni diverse della legge a seconda del circondario di Tribunale in cui il reato è stato commesso”.
I punti di crisi affrontati partono dalle norme per l’ammissione alla procedura di estinzione del reato che valgono solo per le contravvenzioni e purché l’illecito non abbia cagionato “danno o pericolo concreto di
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sulla giustizia
danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette” (art. 318 bis).
Tale concetto pone già problemi interpretativi poiché la stessa individuazione del pericolo o del danno reale o potenziale risulta problematica essendo il suo accertamento paradigmatico di uno stato di cose i cui effetti in campo ambientale, a volte, emergono dopo anni impedendo, in sede di primo riscontro dell’illecito da parte degli organismi di controllo, una visione fattuale prognostica attendibile ed inoppugnabile.
Ulteriori problematiche possono desumersi dalla eventuale presenza, non rara in caso di illeciti ambientali, di fattori disvaloriali concomitanti connessi ad una pluralità di condotte di soggetti diversi che porrebbero in discussione il nesso eziologico tra comportamento lesivo o pericoloso del soggetto nei cui confronti si procede ed effetti della condotta dello stesso3
Peraltro chi deve valutare “prima facie” l’esistenza o meno di danno o pericolo concreto e attuale di danno alle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche protette è proprio la polizia giudiziaria (e non solo quella specializzata) che, ove non ritenga di impartire la prescrizione finalizzata all’estinzione del reato, deve anche motivare la mancanza del presupposto.
Se si pensa che, potenzialmente, qualsiasi azione aggressiva contro l’ambiente (dall’abbandono del rifiuto allo scarico inquinante) può essere foriera di danno, si potrebbe desumere che l’istituto della prescrizione avrebbe una valenza tendenzialmente teorica.
Tale tesi appare alquanto spinta poiché il criterio che il legislatore ha voluto seguire non è solo quello “finalistico” (ovvero se l’illecito accertato possa essere rimosso negli effetti dal trasgressore), o non ostativo all’attivazione di una procedura di regolarizzazione per reati formali, ma si estende a fat-
tispecie residue minimali che, pur attuando una marginale modifica della realtà, possono non arrecare un danno o un pericolo concreto ed attuale per l’ambiente.
È noto che la differenza tra reati di danno e reati di pericolo è fondata sulla diversa modalità di offesa del bene giuridico. In caso di danno l’offesa consiste nella effettiva lesione del bene compromettendone la sua parziale o totale integrità, in caso di pericolo l’offesa consiste nella esposizione del bene stesso alla potenzialità del danno.
Però mentre per i reati di pericolo concreto il pericolo è un elemento costitutivo della fattispecie da accertare caso per caso, per i reati di pericolo astratto il pericolo costituisce la “ratio” dell’incriminazione e non elemento costitutivo della fattispecie e quindi il giudice deve “verificare soltanto la ricorrenza del comportamento materiale vietato in quanto è il legislatore che ha valutato, in via preventiva e una volta per tutte, la pericolosità di determinati comportamenti”4 È comunque importante sottolineare che l’organo accertatore deve subito trasmettere la verbalizzazione del suo operato al Procuratore della Repubblica, sempre deputato alla ricezione delle notizie di reato, il cui eventuale avviso contrario determina la esclusione o la ammissione del contravventore alla procedura, essendo questa, pur sempre, condizione negativa dell’azione penale costituzionalmente rimessa all’autorità giudiziaria.
Tale assunto è giurisprudenzialmente pacifico, poiché la prescrizione impartita dall’organo di vigilanza “non è un provvedimento amministrativo, ma un atto tipico di polizia giudiziaria, non connotato da alcuna discrezionalità, neppure tecnica, ed emesso sotto la direzione funzionale dell’autorità giudiziaria”5.
Ecco perché è fondamentale che l’organo
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accertatore riferisca a quest’ultima ogni elemento utile per la valutazione del danno o del pericolo di danno, al fine di permettere una oculata decisione sulla ammissibilità della procedura estintiva.
In estrema sintesi tale procedura, in presenza dei citati presupposti, sarà attuata attraverso la redazione dell’atto di prescrizione da parte dell’organo di vigilanza che interviene in loco, un atto di asseverazione tecnica da parte di un organismo preposto che deve confermare o stabilire il termine per adempiere che comunque non deve essere superiore al periodo di tempo tecnicamente necessario al ripristino, la verifica dell’adempimento ed in caso positivo l’irrogazione della sanzione pari ad ¼ del massimo dell’ammenda. Importante è sottolineare che l’atto asseverativo è condizione di validità delle prescrizioni.
L’invio degli atti all’Autorità Giudiziaria dovrà sempre essere effettuato nelle varie
fasi del procedimento, sia per la citata problematica relativa alla valutazione del pericolo astratto, sia per il rispetto degli adempimenti a cui il contravventore è tenuto ad adempiere e il cui mancato rispetto comporta automaticamente il prosieguo della procedura penale.
Il procedimento penale, eventualmente aperto con l’iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., rimane sospeso (salva la possibilità di archiviazione) fino a che al P.M. pervengano comunicazioni dell’organo di vigilanza ed il reato si estingue se il contravventore provvede all’adempimento della prescrizione ed al pagamento della sanzione pecuniaria.
Una riflessione sull’intera procedura è però necessaria data la presenza di vari organi istituzionali6.
La norma infatti attribuisce a ciascun organo competenze ben precise che però durante il procedimento si intersecano e
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Immagine tratta dal sito www.carabinieri.it
sservatorio sulla giustizia
potrebbero creare problemi sulla modalità di applicazione.
Ecco perché si ritiene razionale, laddove possibile, individuare preventivamente nei vari settori gli organi asseveratori, dando la possibilità alla polizia giudiziaria che interviene di avere anche preventivamente indicazioni dagli stessi sulle disposizioni da dare per far cessare l’illecito, considerata la valenza spesso fortemente tecnica delle stesse.
Un ulteriore elemento che potrebbe facilitare l’applicazione della norma è la stesura preliminare di prescrizioni standard che, rappresentando casi concreti concertati dall’intera trafila operante (polizia giudiziaria - ARPA o altri organismi tecnici – Autorità Giudiziaria), “disegni” modalità di intervento in cui in linea di principio si possano escludere ipotesi di danno e pericolo di danno.
Al fine di garantire l’omogeneità applicativa della norma sarebbe anche utile, nei limiti del possibile, che vengano preventivamente determinate “prescrizioni standard” dotate di “misure tecniche” (caratteristiche dimensionali, determinatezza nelle tipologie Codice Europeo dei rifiuti, Concentrazioni Soglie di Contaminazione, Concentrazioni Soglie di Rischio, determinatezza nella natura-pericolosità di rifiuti o scarichi, etc.), superate le quali non sarebbe possibile accedere alla procedura estintiva. La problematica può essere similarmente mutuata dal mondo dei rifiuti ove condotte apparentemente simili ma diverse per misura, quali ad esempio un mero abbandono di rifiuti chiaramente diverso dalla realizzazione di una discarica abusiva, comportano necessariamente valutazioni diverse del concetto di danno o di pericolo concreto.
La stessa utilizzazione di terreni la cui destinazione urbanistica sia diversa (ad es. agricola), a fini “industriali” (ad es., per deposito o abbandono o smaltimento di rifiuti non connessi all’attività agricola su tali terreni, salvi casi di mere e minori negligenze operative nel-
l’ambito dell’attività agricola), può integrare “l’attualità del pericolo” e quindi l’esclusione della procedura di estinzione del reato; e ciò in quanto il rischio di offesa alle risorse urbanistiche ed all’equilibrio ambientale, a prescindere dall’effettivo danno arrecato, sembrerebbe poter perdurare in stretta connessione con l’utilizzo dell’area in violazione di quanto consentito dalle norme urbanistiche ovvero paesaggistiche vigenti7.
L’adozione preliminare e concertata di prescrizioni standard, pur nelle difficoltà applicative della loro individuazione, può comunque fornire indicazioni che, pur non previste tassativamente dalla norma, possono aiutare gli organismi di controllo ad esercitare con meno incertezze le proprie funzioni.
Accanto alla problematica della individuazione del pericolo astratto necessario all’attivazione dell’istituto della prescrizione, la norma non chiarisce bene se la procedura di estinzione possa applicarsi alle sole contravvenzioni punite con la: 1) pena pecuniaria (ammenda) o alternativa (arresto o ammenda) ovvero 2) anche alle altre fattispecie sanzionate con sola pena detentiva (arresto) o con pena congiunta (arresto e ammenda).
L’orientamento prevalente sinora emerso ha escluso che l’estinzione del reato possa avvenire in caso di presenza di solo arresto o di pena congiunta8
Le ragioni addotte a suffragio di tale tesi si basano sul rilievo che la disposizione nulla dice per una eventuale conversione della pena detentiva in quella pecuniaria “di talchè la procedura, stando alla lettura della norma, non è applicabile alle contravvenzioni punite con la sola pena detentiva dell’arresto o con pena congiunta arresto-ammenda”9.
Razionali e convincenti a suffragio di tale tesi appaiono le seguenti motivazioni:
• la norma non prevede ragguaglio tra pene detentive e pene pecuniarie di cui all’art.
135 c.p. (Euro 250 per ogni giorno di pena
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detentiva) né è possibile applicare per via analogica o interpretativa una “clausola generale” del codice penale, atteso che il principio di legalità impone che sia il legislatore a definire i presupposti per l’applicazione della pena; nel caso in cui preveda il solo arresto non è applicabile;
• analogamente, nel caso di pena congiunta, atteso che talune contravvenzioni sono punite con arresto sino a tre anni ed ammenda, la procedura estintiva si attiverebbe previo pagamento di una somma pari a circa 65.000 euro a cui si dovrebbe aggiungere il pagamento di un quarto della pena pecuniaria che porterebbe a circa 95.000 euro l’esborso totale che il contravventore dovrebbe sostenere per l’estinzione del reato, cifra questa abbastanza esosa, tale sicuramente da non incoraggiare il ricorso alla suddetta procedura;
• convincente è infine la tesi della irragionevolezza di un’applicazione della disciplina alle contravvenzioni punite con pena congiunta poiché “sarebbero doppiamente favorite: non solo rispetto alle contravvenzioni punite col solo arresto (escluse dal beneficio), ma anche con riferimento a quelle punite con la sola ammenda o con pena alternativa”. In tal caso infatti si perderebbe ogni significato della pena detentiva in termine di sanzione da applicare per una condotta disvaloriale particolarmente significativa.
Altro problema interpretativo è il seguente: il puntuale adempimento di uno qualunque dei soggetti obbligati o da parte dell’ente o società da cui il contravventore dipende (dunque anche del legale rappresentante dell’ente), giova a tutti coloro che hanno avuto un ruolo nella violazione?
Anche su questo punto si ritiene condivisibile una risposta positiva in virtù delle interpretazioni vigenti nell’analogo campo
dell’estinzione delle violazioni in materia di sicurezza ed igiene del lavoro a cui la Parte sesta-bis del Testo Unico Ambientale, così come inserita dalla Legge n. 68/2015, si è ispirata. La giurisprudenza si è a riguardo già espressa sostenendo la necessità di privilegiare al massimo “l’ambito di operatività della speciale causa di estinzione del reato, chiaramente introdotta dal legislatore allo scopo di interrompere l’illegalità e di ricreare le condizioni di sicurezza previste. Cosicché il raggiungimento del risultato fa passare in secondo piano l’interesse dello Stato alla punizione dello specifico responsabile, seppure il pagamento provenga da altri”10.
Infine è importante soffermarsi sulle garanzie difensive da assicurare nell’intero procedimento.
Sebbene la procedura prescrittiva ex art. 318 ter T.U.A. possa esitare in un mero “incidente amministrativo”, va considerato che non v’è certezza dell’estinzione del reato, atteso che il procedimento penale potrebbe riprendere il suo corso in caso di inottemperanza alle prescrizioni o di omesso pagamento della sanzione.
Pertanto, al fine di assicurare che gli atti posti in essere dalla polizia giudiziaria assumano la necessaria valenza dibattimentale, converrebbe sottolineare come tali atti debbano essere redatti garantendo adeguate difensive.
In particolare:
1) fin dal primo accertamento (di verifica di violazione soggetta a prescrizione della polizia giudiziaria), ed anche all’atto del sopralluogo di verifica di ottemperanza alla prescrizione, il trasgressore (o il soggetto presente all’atto di accertamento) deve essere informato della possibilità di avvalersi dell’assistenza di persona, di un tecnico o di un difensore, purché prontamente disponibile;
2) il trasgressore deve essere identificato, non appena possibile, ex art. 161 c.p.p., con
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contestuale invito a nominare un difensore.
A riguardo è opportuno evidenziare ex art. 318 sexies, comma 3, che la sospensione del procedimento conseguente alla adozione della prescrizione non impedisce, “l’assunzione delle prove con incidente probatorio, né gli atti urgenti di indagine preliminare, né il sequestro preventivo ai sensi degli artt. 321 e ss. del c.p.p.”
Ma è consigliabile in questo delicato campo procedere di concerto con l’A. G. poiché secondo taluni autorevoli pareri “sono valutazioni rimesse all’insindacabile valutazione del P.M. Nel caso, gli organi di polizia giudiziaria che hanno accertato la violazione possono segnalare tale situazione al P.M., che, valutatala, potrà motivatamente astenersi dal provvedere in conformità, rimettendo gli atti per il più a praticarsi all’organo procedente”11.
Non risulta invece chiarito quale soggetto istituzionale debba essere indicato dalla polizia giudiziaria, al fine del versamento da parte del contravventore, del quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione connessa.
È quindi proprio la necessità di pervenire a soluzioni coerenti ed uniformi, a fronte di una norma per taluni versi potenzialmente foriera di dubbi interpretativi, che deve incoraggiare un rapporto sistematico tra Autorità Giudiziaria, polizia giudiziaria, specializzata e non, ed organi tecnici ed amministrativi coinvolti nella salvaguardia delle risorse ambientali, urbanistiche o paesaggistiche del nostro Paese.
Rimane comunque fondamentale una indispensabile sinergia tra tutti gli organi coinvolti nei controlli ambientali, al fine di monitorare con attenzione gli effetti di comportamenti disvaloriali nei confronti dell’ambiente e degli ecosistemi onde valutare, sin dal primo riscon-
tro delle violazioni, il pericolo connesso agli eventi dannosi consequenziali.
NOTE
1 v. in particolare l’importante protocollo di intesa del 18 maggio 2016 e vigente tra la Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Bologna – (Procuratore gen. I. DE FRANCISCI), le Procure presso il Tribunale di Bologna, Ferrara, Forlì, Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini, ARPAE Emilia Romagna, Capitaneria di Porto di Ravenna, NOE Bologna, Comando Regionale Corpo Forestale dello Stato. Il protocollo è stato firmato a seguito di riunioni operative presiedute e coordinate dall’avv. gen. Alberto CANDI.
2 Procura della Repubblica di Trento, circolare n.09/2015 del Procuratore Giuseppe AMATO
3 Nova Itinera – Percorsi del Diritto del XXI secolo – Direttore Stefano AMORE - “Il procedimento di estinzione dei reati ambientali” G. Giove.
4 “La prescrizione dei reati ambientali” in “Gestione Ambientale” tratto dal sito “Leggi d’Italia” di Vincenzo PAONE
5 “Giurisdizione del giudice ordinario”. Cass. Civ. Sez. Unite, Ordinanza n. 3694 del 9.3.2012. Sito “Leggi d’Italia”
6 Vedasi a riguardo il protocollo cit. al n. 43, promosso dalla Procura Generale di Bologna a cui si farà anche in seguito riferimento per le motivazioni addotte sulla interpretazione della norma
7 Cass. Pen. – Sez. III – n. 1484 del 15.1.2014 “…in tema di sequestro preventivo per reati paesaggistici, la sola esistenza di una struttura abusiva integra il requisito dell’attualità del pericolo indipendentemente dall’essere l’edificazione ultimata o meno, in quanto il rischio di offesa al territorio ed all’equilibrio ambientale, a prescindere dall’effettivo danno al paesaggio, perdura in stretta connessione con l’utilizzazione della struttura ultimata”.
8 Vedasi a riguardo il protocollo cit. al n. 43
9 V. Circolare AMATO cit. e Protocollo CANDI cit.
10 cfr. Cass., sez. 3, sent. 18914/2012. Sulla questione è particolarmente chiara la linea d’azione dettata dal Protocollo cit.
11 In tal senso Giuseppe AMATO, Procuratore della Repubblica Bologna - circolare cit. al n.42
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O
Paul Bodenham Avvocato
The Common European Agricultural Data Space: An opportunity for farmers’ data cooperatives?
nell’ambito della propria strategia europea sui dati, la Commissione europea mira a dare seguito ai vari regolamenti in materia di dati approvate negli ultimi anni, vale a dire il Data governance Act, il Digital Markets Act e, più recentemente, il Data Act, con una normativa settoriale da emanare in futuro con lo scopo precipuo di regolamentare, tra l'altro, uno spazio comune europeo dei dati agricoli (sCeDA), il cui scopo sarà quello di creare un quadro comune per la condivisione dei dati agricoli all'interno del mercato unico comunitario. il presente articolo esaminerà come la normativa settoriale che disciplinerà lo sCeDA potrebbe affrontare alcune delle questioni emerse in relazione al Data Act, al Data governance Act e al Digital Markets Act, quali la portabilità dei dati, i diritti collettivi e i tentativi finora non riusciti di identificare in maniera precisa i vari soggetti legittimati ad esercitare diritti sui dati, fornendo soluzioni su misura per il settore agricolo digitale. il presente articolo esaminerà, inoltre, come il diritto della concorrenza e la futura normativa settoriale che regolerà il CeADs potrebbero aiutarsi a vicenda per coprire in modo più efficace le loro debolezze, fornendo soluzioni più funzionali per coloro che hanno l’esigenza di accedere ai dati.
As part of its European Data Strategy, the European Commission aims to follow up the raft of legislation on data that has been passed in the last few years, namely the Data Governance Act, the Digital Markets Act, and most recently the Data Act, with sectoral
legislation that is to be enacted in the future for the purpose of regulating, among others, a Common European Agricultural Data Space (CEADS) whose aim will be that of creating a common framework for the sharing of agricultural data within the EU single market.
This article looks at how sectoral legislation regulating the CEADS could address some of the issues that have arisen in connection with the Data Act, Data Governance Act and Digital Markets Act, such as data portability, collective rights and the confusing manner in which rightsholders have been defined, providing solutions that are tailored to the Digital Agricultural Sector.
The article also looks at how future sectoral legislation regulating the CEADS and competition law could work together to more effectively cover each other's weaknesses, providing more functional solutions for various data access needs.
1. Introduction
Data is a crucial resource for societal advancement, competitiveness, innovation, job creation, and economic growth. The European Commission predicts that the data economy in Europe will be worth €829 billion by 2025.
To this effect, the European Commission published in 2020 the European Data
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Strategy, which aims to create a single market for data that will guarantee Europe’s global competitiveness and data sovereignty The Strategy entails enacting not only a raft of legislation, including the Data Governance Act (DGA)1, the Digital Markets Act (DMA)2, and the Data Act (DA)3, but also creating Common European Data Spaces that will aim to create a common framework for data sharing within the EU single market and unlock the full potential of data-driven innovation, making the EU a leader in a datadriven society and creating a single market for data that will flow freely within the EU4.
The Strategy calls, therefore, for the establishment of shared European data spaces in nine important fields, including an agricultural data space that meets the unique data sharing and access requirements of the agricultural sector5. Efforts to introduce follow-up sectoral legislation setting up the single common data spaces, including a Common European Agricultural Data Space, have, to this end, gathered pace. We shall look in this article at how farmers’ data cooperatives can take advantage of the opportunities offered by the upcoming sectoral legislation.
2. A Common European Agricultural Data Space
The road chosen by the European Union for regulating the Digital Agriculture Sector seems, therefore, to be that of adopting sectoral legislation (akin to the European health Data Space draft regulation), whereby a Common European Agricultural Data Space (CEADS) will be created that will offer the infrastructural and regulatory framework within which agricultural data can be voluntarily exchanged. Launched in Paris, on 4 October 2022, AgriDataSpace
(which is Funded by the European Union) will pave the way for the CEADS, focusing in particular on the coordination and harmonization of the technical architecture of data spaces for agriculture. AgriDataSpace is supposed to engage all key stakeholders in co-designing the roadmap and governance of the CEADS, tackling the key challenges of interoperability, the dominance of large platforms and farmers’ lack of trust in data sharing6.
Some are of the opinion that the CEADS should, in order to address the issues of farmers trust (which is engendered largely by the issue of data lock-in7), prioritise sectoral data standards and interoperability, with stakeholders having to align their data sharing formats with the infrastructure’s requirements in time8 (the CEADS could be an important infrastructural base for responding to various stakeholders’ data access needs9).
2.1. Data Portability
In order to address the issues of interoperability and farmers’ data lock-in, a proposal has been formulated for an inalienable data portability right to be included in appropriate agriculture-specific sectoral legislation. The first element of this proposal would, therefore, be inalienability. The farm data portability right would be designed in such a way that it could not be transferred or waived via contracts. This is, in part, a response to those who see firstly data property rights and then data access rights as the solution10.
The idea of designing a right to data ownership11 is not, in fact, unique to the Digital Agriculture Sector, given that data ownership as a legal concept has been mentioned in various documents released by the Commission12
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agricoltura
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Envisaging data ownership rights allows, however, for the possibility of farmers transferring/selling their data ownership rights to agricultural technology providers or agricultural machine producers via standard terms and conditions that reinforce those companies’ already powerful de facto control of data with de jure ownership rights. Farmers could experience harsher lock-in conditions and more dependence as a result of losing de jure rights to the data sets concerning them, especially in light of the fact that past data sets might be vital when switching service providers. Therefore, transferable ownership of agricultural data may present more challenges than advantages13. In the long term, the potential accumulation of data rights in the hands of a few vertically integrated agricultural giants, which would have more incentives and opportunities to acquire data entitlements, might frustrate farmers far more, and irreversibly. In the Digital Agriculture sector, this process might cancel out or even destroy any previously gained trust in digital technologies and data sharing and would be inconsistent with the EU policy goal of accelerating the use of digital technologies in the sector. Therefore, some legal scholars are of the opinion that any agricultural data regulation should, in the light of the aforementioned farmer trust-related issues, avoid data ownership-based solutions14.
In view of the aforementioned problems arising from the data ownership approach, numerous researchers, such as Drexl, have stated that a more appropriate approach might be, when tackling lock-in issues, to focus on data access rights15.
This solution has been adopted by European lawmakers in the Data Act, but it can be argued that the access right envisaged under the draft Data Act reinforces manufacturer’s de facto control over data
contained in connected devices. Recital 5 of the Data Act states, in fact, that: “starting point (is) the control that the data holder (defined as the legal or natural person who has, through control of the technical design of the product and related services, the ability to make certain data available) effectively enjoys, de facto or de jure, over data generated by products or related services.” This has, therefore, the potential, in the farming sector, of reinforcing Agricultural Technology Providers’ and Agricultural Machinery Manufacturers’ position, who usually have greater bargaining power and who usually ensure that contracts inure to their benefit. Some legal scholars are of the opinion, therefore, that, instead of designing a data access regime, it would be preferable to adopt a solution of establishing, in the upcoming sectoral legislation, a flexible and comprehensive mechanism that addresses all of the diverse data access needs of stakeholders by configuring an inalienable and non-waivable data portability right16.
It has also been proposed that the aforementioned inalienable data portability right should be attributed to “farm units”, defined on the basis on the geographical location of the farm or on the basis of a registration system that assigns a unique identification number. An active individual or company in charge of a unit in which data sets are collected would, thus, be able to enforce farm data (portability) rights without hindrance17.
It is suggested, however, that rather than attributing the inalienable data portability right on the basis of “who is in charge of the farm unit” it should be exercised by whomsoever “conducts farming operations”. In this way, exclusive rights to data would be divorced from the machinery or the owner of the farm, and instead attributed to whomsoever has given rise to the data in the
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D iritto, economia e agricoltura
framework of the operations that are being conducted on the farm.
2.2. Collective rights
however, interoperability of itself does not necessarily resolve the issues arising from data lock-in. An example is Salus, which is a data cooperative based in Catalonia. Even though its members exercise (in their capacity as data subjects) the right of data portability provided for under Article 20 of Regulation (EU) 2016/679 (hereafter called the General Data Protection Regulation or GDPR), they have joined the cooperative with a view to sharing their health data (for the purpose of health research innovation) while continuing to control their health records, thus incentivizing data sharing18.
In light of the foregoing, farmers’ rights could be best secured in upcoming sectoral legislation by configuring collective rights in aggregated data (to be exercised by the data cooperatives to which farmers belong19) in a way that is akin to the one envisaged (albeit implicitly) by the DMA, whereby business users of very large platforms (called gatekeepers) are provided with rights of access to their individual and aggregate data (albeit attributing such rights to a very limited set of actors, namely business users of gatekeeper platforms, with many platforms and other digital firms falling outside the definition of gatekeeper platforms)20.
2.3. Who are the rightsholders?
having concluded that data cooperatives are in the best position to exercise collective rights, the key question then arises of on
behalf of whom and in respect of whom should agricultural data cooperative exercise such collective rights? It is suggested, in fact, that the upcoming sectoral legislation, should, in attributing such farmer-centric rights, also look at the parties to whom such rights of access should be attributed.
The Data Act, in fact, only covers a part of farm data sets, namely those that are collected by IoT machinery, attributing rights of access to those who own, rent or lease a product (defined by the Data Act as the “user”) from an agricultural machinery manufacturer (defined as “data holder”, that is to say the legal or natural person who has the right or obligation, in accordance with Article 2(6) of the Data Act, to make data available). This means that the data rights envisaged under the Data Act only concern, in the farming sector, data generated as a result of the use of agricultural machines or connected services that make the machines functional21. It is suggested, in light of the foregoing, that the sectoral legislation should attribute rights of access to data to whomsoever “conducts farming operations”, defining them as “data originators”22 .
2.4. Data monetisation
Another issue that should be addressed in the sectoral legislation is that of monetisation: The narrow conception of data intermediary could potentially preclude the activities of cooperatives like Drivers’ Seat23 that add value (in a business sector that is not farming) to aggregated driver data for the purpose of selling it24.
It is especially pertinent to cooperatives and the cooperative movement as a whole since the DGA promotes a particular and maybe confusing understanding of data cooperatives. The DGA, in fact, defines data
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cooperatives as falling into one of three categories25, without offering a precise, allencompassing definition. Cooperatives that aim to aggregate and handle data, for instance, do not fall under one of the three categories. The task-based definition put forward by the DA envisages cooperatives negotiating individual terms on behalf of their members (prior to the latter giving consent to the use of their data), without envisaging the possibility of them negotiating with corporate data consumers transactions that generate value from their members’ data. While data intermediaries may have business models that “seek to enhance the agency of data subjects”26 and advise members on how their data is being used, this could potentially preclude cooperatives from engaging in activities that add value to aggregated driver data with the intention of selling it.
3. Sectoral legislation and competition law
In the event that the “refusal to deal” test is eased, competition law enforcement may become an essential tool that allows cooperatives to demand that agricultural machinery manufacturers and other agroindustrial enterprises grant access to the cooperative members’ data27. This is due to the fact that the Data Act’s user-centric approach prioritizes preventing the exploitation of IoT device users, whereas EU competition law focuses primarily on addressing exclusionary behaviour toward (possible) competitors. Due to its adaptive and case-specific structure, competition law can therefore address the unresolved situations of exclusionary refusals to grant access to agricultural data. Even if the European lawmakers were to set themselves
the goal of covering as many data access rights as possible in the farm to fork chain when designing sectoral rules, it would, in fact, be impractical to establish ex-ante provisions to account for all of the data access requirements made by new players. As aggrieved parties, cooperatives could till turn, therefore, to competition authorities and request that they be granted access to their members’ data held upstream28.
The EU “refusal to deal” case law may therefore, be useful in limiting the dominance of agricultural conglomerates in the digital agriculture sector. As we have seen above, it typically refers to upstream facility owners refusing downstream competitors’ requests to use an indispensable facility upstream (in the case at hand, this could refer to data cooperatives’ requests for access to farm data sets controlled by firstmovers because farm data sets, such as data about the performance of agricultural inputs, are crucial for training algorithms).
In order to grant access to an essential facility by finding the refusal to deal an abuse of a dominant position prohibited by Article 102 of the TFEU, there are three main criteria that need to be met: (i) the indispensability of the facility; (ii) the elimination of all effective competition in order to reserve the market for the facility holders’ downstream operations; and (iii) the lack of an objective justification for the refusal29.
The EU “refusal to deal” case law typically deals with situations in which upstream facility holders turn down requests from downstream competitors to use those facilities30.
however, the onus placed on competitors to show that the refusal to deal concerns a completely “new product” might prevent cooperatives from successfully availing
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themselves of the remedy afforded under Article 102 of the TFEU, given that input usage prescription services are, for example, already provided downstream by input producers’ smart farming operations. A more flexible interpretation of the “new product” requirement (as it was used in the Microsoft case) might be to some extent helpful: The Microsoft ruling indicated that proof of “limitation not only of production or markets, but also of technical development” would, in lieu of demanding a wholly “new product”, be sufficient31
In light of the foregoing, ex-ante regulation and ex-post competition law enforcement could work together to more effectively cover each other’s weaknesses, providing more functional solutions for various data access needs, and guaranteeing unrestricted innovation and undistorted competition in the developing digital agricultural services sector33.
Rather than favouring one strategy over the other and choosing one over the other, cooperatives can, therefore, use competition law and (sectoral) data remedies in tandem.
4. Conclusion
The EU is often identified as one of the most important actors in the field of digital regulation.
The concept of the “Brussels effect”, which primarily consists of the EU’s power to promote its rules and practices leading to the “europeanization” of legal frameworks of third countries, became particularly obvious with the GDPR.
It is of vital importance, therefore, that European lawmakers should, when drafting the sectoral legislation, take into account the need to design specific agricultural data rights for prominent access-seekers in the sector.
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CHARLES REMOND, Vista del Colosseo e dell’Arco di Costantino dal Palatino
Bearing the aforementioned considerations in mind, the cooperative movement should be represented in developing the technical standards and data sharing policies to which will be subject in the upcoming sectoral legislation. Room should also be made for cooperatives in the multistakeholder forums in which representatives from relevant data spaces and specific sectors are supposed to sit.
In so doing, cooperatives could go from being law-takers to law-makers who are involved with other stakeholders in crafting the legislative framework that affects the manner in which they can exercise their rights.
REFERENCES
1. Atik, Can, towards comprehensive european agricultural data governance: Moving beyond the ‘data ownership’ debate, International Review of Intellectual Property and Competition Law, Munich, 2022, 701-742 <https://link.springer.com/article/10.1007/s40319022-01191-w> (retrieved on 28.01.24).
2. Atik, Can, horizontal intervention, sectoral challenges: evaluating the data act’ s impact on agricultural data access puzzle in the emerging digital agriculture sector, Computer Law & Security Review, Volume 51, Amsterdam November 2023, 1-21 <https://www.sciencedirect.com /science/article/pii/S0267364923000717> (retrieved on 28.01.24).
3. Atik, Can, Addressing data access problems in the emerging digital agriculture sector: potential of the refusal to deal case law to complement ex-ante regulation, European Competition Journal, Volume 19, Abingdonon-Thames April 2023, 380-409, <https:/ /www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/17441056.2 023.2200618> (retrieved on 28.01.24).
4. Bietti, Elettra/Etxeberria Ander/Mannan Morshed/Wong, Janis, Data Cooperatives in europe: A Legal and empirical investigation, New york 2021, <https://cyber.harvard.edu/sites/default/files/202202/Data_Cooperatives_Europe-group2.pdf> (retrieved on 28.01.24).
5. Bodenham, Paul, Data Cooperatives in Agriculture: An opportunity for farmers?, Nova Itinera. Percorsi del diritto nel XXI Secolo, Rome 2023, 35-53.
6. European Data Protection Board/European Data Protection Supervisor, Joint Opinion 2/2022, <https://edpb.europa.eu/our-work-tools/ourdocuments/edpbedps-joint-opinion/edpb-edps-jointopinion-22022-proposal-european_en> (retrieved on 28.01.24)
7. European Policy Centre, Data Strategy 2.0, <https://www.epc.eu/en/Projects/Data-Strategy20~5075a8> (retrieved on 28.01.24).
8. Fraunhofer Institute for Experimental Software Engineering, new project “AgriDataspace” to create european data space for agriculture, Kaiserslautern 2022, 9.
<https://www.iese.fraunhofer.de/en/media/press/p m-2022-11-17-agridataspace.html> (retrieved on 28.01.24).
Jeet Singh, Parminder, it for Change ’ s feedback to the Draft Data governance Act, 2020, <https://itforchange.net/detailed-input-EU-DGA> (retrieved on 02.03.23).
NOTE
1 The Data Governance Act entered into force in June 2022.
2 The Digital Markets Act entered into force in November 2022.
3 The Data Act entered into force on 11 January 2024.
4 Bodenham, Paul, 2023, 48.
5 Atik, Can, 2022, 703.
6 Fraunhofer, 1.
7 Once farmers buy into a device in respect of which the manufacturer can also provide agronomic advisory services, they can, in fact, be locked into the device and the said agronomic advisory services, especially when non-compatible and non-interoperable data formats and software design are used.
8 Possible obligations regarding technical standards in the sectoral regulation could, therefore, be implemented via a central data access hub.
9 Atik, Can, 2022, 731.
10 Atik, Can, 2022, 719.
11 ‘‘Ownership” is a specific and distinct legal concept that dates back to property rights in Roman Law, conferring on the owner of a good three core rights:
(1) the right to use the good (usus);
(2) the right to encumber or transfer the good (abusus); and
(3) the right to the fruits of the good (fructus).
12 Atik, Can, 2022, 709.
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D iritto, economia e agricoltura
13 Atik, Can, 2022, 713.
14 Atik, Can, 2022, 714.
15 Atik, Can, 2022, 715.
16 Atik, Can, 2022, 720.
17 Atik, Can, 2022, 722.
18 Bietti, Elettra/Etxeberria Ander/Mannan Morshed/Wong, Janis, 9. The Data Act does not mention collective consent, permission or control.
19 Jeet Singh, Parminder, 8. T h e DGA does not recognize such collective rights, insofar as Article 9(1)(c) onl y mentions individuals or small businesses “confer(ing) the power to the cooperative to negotiate terms and conditions for data processing before they (apparently, individually) consent”.
20 Jeet Singh, Parminder, 11.
21 This excludes services provided by agricultural technology providers that are mostly independent of farm machine functionalities, and thus the data under their control. Recital 24 of Data Act seems to equate data holders (of non-personal data) with data controllers and users to data subjects provided for under the GDPR, whereas the Data Governance Act seems to equate in various places (see, by way of example, Article 21(1) of the Data Governance Act) data holders with data subjects. This has led the European Data Protection Board and the European Data Protection Supervisor to remark in their Joint Opinion 2/2022 on the Data Act that it “includes a different definition than the one found in the in the DGA for the term ‘data holder’, which may create legal uncertainty. Moreover, the definition of “data holder” in the Proposal should be further clarified.”
22 See point 2.1. above.
23 Bietti, Elettra/Etxeberria Ander/Mannan Morshed/ Wong, Janis, 17.
24 The European Data Protection Board and the European Data Protection Supervisor (EDPS) followed the same reasoning in their Joint Opinion 2/2022 on the Data Act proposal. Although data subjects can consent to the processing of their personal data, they still cannot waive their fundamental rights. In this respect, according to the EDPB and EDPS, the prospect of “commo-
ditization” of personal data would unacceptably undermine the very concept of human dignity and the human-centric approach underpinning the European legal order.
25 The Data Governance Act envisions Data Intermediation Services (DIS) being provided by:
(1) intermediaries who facilitate Business-to-business (B2B) data-sharing, so as to enable bilateral data exchanges or pooling that leads to the joint exploitation of data;
(2) intermediaries who facilitate Customer-to-business (C2B) data-sharing; and
(3) data cooperatives who facilitate Data Subjects or Micro, Small & Medium Enterprises to better realize their rights, specifically by negotiating terms and conditions on behalf of their members prior to the latter giving consent to the use of their data.
26 Recital 30 of the DGA.
27 Cf. Atik, Can, November 2023, 19.
28 Cf. Atik, Can, November 2023, 19.
29 Cf. Atik, Can, April 2023, 387.
30 The logic behind this is the same one underlying Article 5(2) of the DMA which excludes “gatekeepers” from being eligible third parties who can access data and also prohibits them from incentivising users to accumulate data. The concern here is that there is a risk that powerful players might “hoover up” all of the data by using various methods that would be contrary to the aim of the DMA. The same concern is valid for the Digital Agricultural Sector, as bigger companies have more incentives and abilities to accumulate agricultural data. however, the notion of “gatekeepers” refers to core platform services listed in Article 3.2 of the DMA. Agricultural technology providers and agricultural machinery manufacturers do not seem to fall within the scope of this definition. Therefore, a future sectoral intervention would have to address this problem.
31 Cf. Atik, Can, April 2023, 387.
32 Cf. Atik, Can, April 2023, 394.
33 Cf. Atik, Can, April 2023, 381.
Arturo Frondizi, Presidente della Repubblica Argentina 80
D iritto,
economia e agricoltura
Luca De Compadri
vice Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro
Il Consulente del Lavoro protagonista nello sviluppo del paese
1. Aspetti generali
Con la legge 11 gennaio 1979, n. 12 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 20 gennaio1979, n. 20), il Legislatore disciplina la normativa per l’ordinamento della professione di Consulente del Lavoro. Nel tempo molte altre norme h anno attribuito nuove funzioni e competenze sia al Consulente del Lavoro in quanto professionista, sia alle istituzioni di Categoria in regime di sussidiarietà positiva. Numerosi sono i dati normativi c h e confermano come la posizione originaria della Legge n. 12/79, c h e individua nello svolgimento di tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale dei lavoratori dipendenti, pur costituendo un momento essenziale della qualificazione del ruolo dei Consulenti del Lavoro, non ne esaurisce la sfera delle competenze. Diverse disposizioni , infatti , h anno introdotto nel tempo diversi e più ampi ambiti, altrettanto appartenenti alla categoria professionale, chiara indicazione del riconoscimento da parte dell’ordinamento della maggiore estensione effettiva del patrimonio di conoscenze, di formazione, di qualificazione, di expertise. Si può, q uindi, affermare c h e i Consulenti del Lavoro svolgono nel panorama delle professioni ordinistiche una funzione strategica di assistenza per l’impresa, non solo nell’ambito del diritto del lavoro e della legisla -
zione sociale, ma anche della fiscalità d’impresa e della gestione di situazione di crisi o di insolvenza.
2. Disciplina ed etica del Consulente del Lavoro
Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha approvato con delibera n. 101 del 14/07/2021 il nuovo codice deontologico della Categoria, di cui l’art. 1 rappresenta il “manifesto”:
1. il Consulente del Lavoro, in ogni sede, tutela la legalità e la dignità del lavoro, tenuto conto del rilievo costituzionale e sociale dei contenuti a fondamento della professione
2. il Consulente del Lavoro rispetta e promuove i principi per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
3. il Consulente del Lavoro favorisce ogni azione positiva finalizzata alla promozione del diritto al lavoro secondo i principi della Costituzione.
4. Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione e la tutela dell’affidamento della collettività, della clientela, della correttezza, della trasparenza dei comportamenti, della qualità ed efficacia della prestazione professionale e per la realizzazione del ruolo di sussidiarietà della professione di Consulente del Lavoro ” .
La sostanziale differenza dell’arte liberale rispetto all’attività produttiva si enuclea nel diverso livello di destinazione del risultato
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finale da raggiungersi, laddove l’arte liberale mira alla produzione di un reddito temperato in una logica caratterizzata dall’etica della reciprocità. questa si riferisce all’equilibrio in un sistema interattivo tale che ciascuna parte ha diritti e doveri; la norma secondaria della complementarietà afferma che i diritti di ciascuno sono un dovere per l’altro”1. Ma la reciprocità del professionista non si esaurisce in un asettico accordo perimetrale di aree di diritti, dovendosi permeare di un’aspirazione a un tempo solidaristica e pubblicistica.
La solidarietà etica di una categoria professionale raccoglie tutta una tradizione di pensiero classico, sia laica sia religiosa, che individua nella regola di rispetto solidale una base indispensabile nello sviluppo della pacifica convivenza degli individui. Il “non fare agli altri ciò che ti riempirebbe di ira se fatto a te dagli altri” di Isocrate va necessariamente coniugato con la convinzione che il rispetto di una regola, disegnata nell’interesse di una collettività, realizza una virtuosità di sistema, che attribuisce ai componenti di quella collettività un bene più importante di quello cui aspira l’individualistica ricerca del proprio successo. La professione non nasce nell’individualità anarchica della realizzazione di sé stessi, ma nell’esplicazione di sé stessi indentificati nella “Regola etica di sistema”. La deontologia, quindi, realizza in ambito professionale la “Regola” in cui tutti devono riconoscersi non per un semplice atto di dovere, ma per una seria convinzione di indispensabilità, realizzando il rispetto di tale “Regola” medesima una logica inconfutabile.
L’esercizio della professione intellettuale, cosi come definita dall’art. 2229 e ss. del codice civile, riveste un ruolo centrale nello sviluppo di una società democratica, essendo fuori di dubbio che il libero pensiero sia custodito nella tutela garantita dalla legge codicistica e costituzionale. La legge, riconoscendo il va-
lore sociale di determinate professioni, il cui svolgimento richiede una adeguata formazione culturale, scientifica e tecnica, favorisce l’autonomia decisionale del professionista a tutela degli interessi della collettività. L’iscrizione all’albo professionale, avendo carattere costitutivo di uno status professionale, imponendo a chiunque di prendere atto che il soggetto, cui essa si riferisce, ha il diritto di svolgere anche nei confronti dei terzi l’attività connessa con quello status, garantisce lo sviluppo autonomo del libero pensiero dell’individuo. Ovviamente, l’ordinamento, se da un lato attribuisce libertà di esplicazione della professione, dall’altro lato richiede a quest’ultima, sempre nell’interesse della collettività, di autoregolamentarsi attraverso la formazione di codici comportamentali contenenti precetti extragiuridici (corpus deontologico), ma obbligatori per gli iscritti all’Ordine. L’abolizione del sistema ordinistico creerebbe un pericoloso vuoto sociale, dilatando le distanze tra la “res pubblica” e il cittadino, sia in termini di funzionamento dello Stato sia in termini di rispetto delle norme, poiché la regolamentazione della funzione statale latu sensu richiede conoscenze culturali, tecniche e scientifiche, la cui acquisizione necessita di un percorso formativo riconosciuto dallo Stato. Ne deriva che il sistema ordinistico riveste la funzione irrinunciabile di diretto collaboratore dello Stato nella esplicazione della menzionata “res pubblica” a favore del cittadino2.
2.1 il ruolo sociale del professionista Consulente del Lavoro
Nell’ordinamento giuridico italiano la nascita di una carta costituzionale rigida genera uno Stato costituzionale di diritto. Orbene, la lettura e l’applicazione della norma di legge, considerata la neutralità dello Stato rispetto agli interessi privatistici, ha sviluppato in au-
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C omunità
e sviluppo
silio allo Stato stesso, le categorie professionali intellettuali, che, pur entrando direttamente nel tessuto sociale, hanno mantenuto una genetica pubblicistica in considerazione della importanza degli interessi tutelati.
L’ordinamento statale abbisogna di un necessario filtro interno, che funga da collante tra la norma di legge, lo Stato e il cittadino, stante il carattere autonomo e super partes della norma di legge medesima. Esiste, quindi, un cordone ombelicale tra la componente ordinistica e quella giuridica dello Stato: l’ordine professionale sviluppa la realizzazione della norma, divenendone a un tempo l’interprete principale e il primo garante di corretta applicazione.
Ma la semplice applicazione della norma di diritto non può esaurire il ruolo del professionista ordinistico. Esiste un diritto naturale, che deve essere applicato, in quanto composto di quelle regole proprie della coscienza di un popolo e dei singoli individui, di quelle regole innate nella natura dell’uomo, come il diritto alla vita, al rispetto della dignità umana e della libertà dell’individuo. Il professionista non può limitare il suo ambito intellettuale alla sola applicazione del diritto positivo, ma deve anche conformare il suo comportamento a quei valori propri della giusta e virtuosa convivenza.
L’uomo che lavora cresce nell’esercizio delle virtù, che rappresentano la c.d. attitudine morale: il lavoro sviluppa nella persona svariate virtù morali e qualità, tra cui, la capacità di sopportare la fatica, la pazienza, la laboriosità, la perseveranza, il senso del dovere, la responsabilità (cfr. Laborem Exercens 14 settembre 1981 Giovanni Paolo). Il professionista ordinistico nella sua attività deve, dunque, porsi come promotore di un miglioramento dei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, aiutando il dialogo sociale e la comprensione delle reciproche necessità, col-
tivando un pensiero giuridico che metta l’uomo al centro del lavoro stesso.
Ricordando ancora il pensiero del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II (cfr. Laborem Exercens 14 settembre 1981 Giovanni Paolo), è necessario conciliare i diritti reciproci, tra cui “il diritto di associarsi, cioè di formare associazioni o unioni, che abbiano come scopo la difesa degli interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni. Queste unioni hanno il nome di sindacati…. gli interessi vitali degli uomini del lavoro sono fino ad un certo punto comuni per tutti; nello stesso tempo, però, ogni tipo di lavoro, ogni professione possiede una propria specificità, che in queste organizzazioni dovrebbe trovare il suo proprio riflesso particolare”.
Il Consulente del Lavoro, in particolare, attesa la sua ontologia di professionista votato al “sociale”, assume un ruolo fondamentale nella composizione dei conflitti e delle dinamiche nascenti nei rapporti di lavoro, sviluppando spazi di tolleranza e di rispetto reciproco in una logica di legittimazione delle diverse parti sociali. Il Consulente del Lavoro si adopera affinché la c.d. lotta di classe si trasformi in una positiva dialettica per un bene più giusto, tenendo presente che il bene deve corrispondere alle necessità e ai meriti degli uomini del lavoro. La lotta per i propri diritti non deve mai diventare una lotta contro gli altri, in quanto il lavoro ha nella sua essenza l’unione degli uomini, per costruire una comunità.
Ebbene, il Consulente del Lavoro svolge la sua attività nel continuo rispetto di quell’equilibrio tra diritti soggettivi e interessi pubblicistici a tutela dell’ordine sociale menzionato. Al riguardo, corre l’obbligo di porre l’accento sulla genetica vocazione sociale del Consulente del Lavoro, vocazione sociale che sta sempre più affermandosi negli ultimi anni. Lo sviluppo del principio di sussidiarietà ha trovato nel Consulente del Lavoro l’interprete più at -
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tento e disponibile nell’affermazione della legalità e dell’impulso alla nuova economia. La certificazione dei contratti, delle conciliazioni, l’Asse.Co., lo sviluppo del microcredito, la diffusione dell’welfare aziendale, l’impulso a favore dell’occupazione giovanile attraverso l’incremento dei tirocini formativi, costituiscono un nuovo ambito culturale, un nuovo modo di essere professionisti essenziali alla società. Il Consulente del Lavoro si pone in un ruolo centrale nel cambiamento del paese, sviluppando gli impulsi di legalità e mediando, attraverso continue analisi di fattibilità, tra norme astratte ed esigenze concrete. La sfida del futuro nasce nelle azioni dell’oggi, nasce nella competenza e nella professionalità di una Categoria, che vede nello sviluppo del lavoro e nel servizio ai cittadini il proprio scopo ordinistico.
Pertanto, un ruolo così intensamente votato al sociale e al rispetto della legalità fa del Consulente del Lavoro il primo interprete della sussidiarietà propria delle grandi democrazie compiute. Ne deriva che ogni comportamento professionale e personale del Consulente del Lavoro non può prescindere dal rispetto di quelle regole che sono alla base del sistema democratico di cui il Consulente medesimo è espressione in virtù della delega ottenuta per lo svolgimento della professione.
3. I Consulenti del Lavoro e la riserva di legge di cui all’articolo 1, comma 1, legge n. 12/1979
Nella nutrita schiera dei professionisti nel nostro Paese, il Consulente del Lavoro riveste oggi un ruolo fondamentale, con specifiche funzioni e attribuzioni che il Legislatore ha inteso conferire alla Categoria in via del tutto esclusiva, alla luce della espressa ri-
serva di legge contenuta nel comma 1 dell’articolo 1 della Legge n. 12/1979.
Recita tale norma: “tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale dei lavoratori dipendenti, quando non sono curati dal datore di lavoro, direttamente od a mezzo di propri dipendenti, non possono essere assunti se non da coloro che siano iscritti nell’albo dei Consulenti del Lavoro […] nonché da coloro che siano iscritti negli albi degli avvocati e procuratori legali, dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali, i quali in tal caso sono tenuti a darne comunicazione agli ispettorati del lavoro delle province nel cui ambito territoriale intendono svolgere gli adempimenti di cui sopra”.
Dunque, quella dei Consulenti del Lavoro è una competenza generalizzata, senza eccezioni o condizioni di sorta, a differenza di altri soggetti e/o professionisti.
La disposizione in esame, nell’ultima parte del periodo, apre la possibilità a diverse categorie di professionisti di effettuare taluni adempimenti ma, si badi, non va certo a creare una equiparazione tout court delle diverse professioni con quella di Consulente del Lavoro.
Infatti, da una interpretazione letterale della norma, conforme al principio generale di cui all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale (cd. “Preleggi”), si evince che l’autorizzazione concessa agli “altri” professionisti sia subordinata a una duplice serie di limitazioni:
- da un punto di vista oggettivo, gli adempimenti possono essere solamente quelli in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale;
- da un punto di vista soggettivo, solo il professionista che effettui la comunicazione all’ITL, nel cui ambito i predetti adempimenti andranno ad essere svolti, potrà ritenersi autorizzato. Si vuole, insomma, evidenziare, come tale possibilità
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non scaturisce dalla sola appartenenza di un soggetto a un determinato Ordine Professionale (avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali), bensì anche dall’essenziale condizione di aver effettuato una comunicazione a un organismo competente.
L’autorizzazione ex articolo 1, comma 1 della Legge n. 12/1979 costituisce, dunque, una norma di carattere eccezionale, e, come tale non suscettibile di estensione in via analogica a differenti fattispecie. La competenza professionale degli iscritti all’Ordine dei Consulenti del Lavoro è, del resto, necessaria per garantire alla collettività, dei professionisti qualitativamente validi e sottoposti a un costante aggiornamento. La precisa differenziazione esistente tra soggetti che conseguono l’abilitazione alla professione di Consulente del Lavoro e soggetti meramente autorizzati allo svolgimento di taluni adempimenti trova la propria ragion d’essere nel diverso percorso formativo e qualificativo che si è tenuti a seguire per potersi legittimamente fregiare del titolo di Consulente del Lavoro
Deve, infatti, tenersi bene a mente che tra le diverse categorie di professionisti presenti nel nostro Paese vi siano delle differenze ontologiche profonde, e, che nessuna professione possa essere assimilata ex lege a quella di Consulente del Lavoro.
4. Ulteriori competenze dei Consulenti del Lavoro
È bene osservare come, proprio a partire dalla legge istitutiva, la professione di Consulente del Lavoro abbia iniziato a delinearsi nella propria specifica identità, tanto in materia giuslavoristica, previdenziale e assistenziale quanto in materia fiscale e tributaria.
Gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale di cui al comma 1 dell’articolo 1 della Legge 12/1979 costituiscono, infatti, solamente un aspetto della ben più ampia e complessa attività professionale di Consulente del Lavoro.
Con specifico riguardo alla materia economica, contabile fiscale, tributaria, e di assistenza dei contribuenti si riportano, di seguito, le principali disposizioni normative attualmente vigenti:
- il D.Lgs. n. 546/1992 all’art. 12 prevede per i Consulenti del Lavoro il patrocinio, la rappresentanza e assistenza piena in giudizio per il contenzioso davanti alle commissioni tributarie;
- l’art. 63 del D.P.R. n. 600/73 rubricato “assistenza e rappresentanza dei contribuenti” dispone che gli stessi possano farsi assistere da persone iscritte in albi professionali;
- la Legge 17 luglio 1975, n. 400, rubricata “norme intese ad uniformare ed accelerare la procedura di liquidazione coatta amministrativa degli enti cooperativi”, prevede che i commissari liquidatori devono essere scelti tra gli iscritti agli albi professionali dei Consulenti del Lavoro ovvero degli avvocati e procuratori legali, dei dottori commercialisti, dei ragionieri, nonché tra esperti in materia di lavoro e cooperazione;
- il D.Lgs. n. 241/1997 ha attribuito ai Consulenti del Lavoro la certificazione tributaria delle dichiarazioni dei redditi nei riguardi dei contribuenti titolari di redditi d’impresa in regime di contabilità ordinaria;
- la Legge n. 140/1997 e il D.M. 235/1998 hanno assegnato ai Consulenti del Lavoro, ai fini della concessione delle agevolazioni a sostegno della innovazione industriale, la verifica della sussistenza delle relative condizioni in capo alle aziende;
- il D.Lgs. n. 490/1998 ha ammesso i Consulenti al visto di conformità e asseve-
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razione dei dati contabili delle aziende;
- il D.M. 320/2004 è andato ad individuare le professionalità abilitate a comporre il collegio sindacale, ai sensi dell’articolo 2397, secondo comma, del codice civile. Tra i professionisti, figurano gli iscritti all’Albo dei Consulenti del Lavoro;
- la Legge n. 311/2004, art. 1, comma 347, ha stabilito che la certificazione dei costi sostenuti per il personale addetto alla ricerca e sviluppo, ivi compresi quelli sostenuti da consorzi tra imprese costituiti per la realizzazione di programmi comuni di ricerca e sviluppo, possa essere certificata da un Consulente de Lavoro;
- la Legge 296/2006, art. 1, comma 1091, dopo quanto già disposto dall’art. 4, c. 2, ultimo periodo, della Legge 18 ottobre 2001, n. 383 ha stabilito che “l’attestazione di effettività delle spese sostenute è rilasciata dal presidente del collegio sindacale ovvero, in mancanza, da un revisore dei conti o da un professionista iscritto nell’albo dei revisori dei conti, dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali o in quello dei Consulenti del Lavoro”;
- il D.Lgs. n. 231/2007 (così come modificato dal D.Lgs. n. 90/2017) annovera i Consulenti del Lavoro tra i professionisti abilitati alla lotta al riciclaggio;
- il D.M. 46/2013 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, contenente il Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione, da parte di un organo giurisdizionale, dei compensi spettanti agli iscritti all’albo dei Consulenti del Lavoro. Con questo provvedimento normativo il Legislatore ha inteso regolare i parametri per la liquidazione dei compensi spettanti ai Consulenti del Lavoro e ne ha, altresì, chiaramente riconosciuto e delineato gli ambiti operativi nel settore contabile, fiscale, tributario e societario;
- il D.Lgs. n. 14/2019, art. 358, comma 1, lett. a) che prevede possano essere chiamati
a svolgere le funzioni di curatore, commissario giudiziale e liquidatore, nelle procedure di cui al codice della crisi e dell’insolvenza, gli iscritti agli albi degli avvocati, dei dottori commercialisti e degli esperti contabili e dei Consulenti del Lavoro.
5. Ulteriori competenze specialistiche dei Consulenti del Lavoro
Sono poi affidate ai Consulenti del Lavoro numerose funzioni specialistiche e riservate le quali non formano oggetto di attività di altri professionisti.
Tra le più significative si ricordano:
- il D.Lgs. n. 276/2003, emanato in attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla Legge n. 30/2003 cd. “Legge Biagi”. L’articolo 6, comma 2 rubricato “Regimi particolari di autorizzazione” prevede che: “L’ordine nazionale dei Consulenti del Lavoro può chiedere l’iscrizione all’albo di cui all’articolo 4 di una apposita fondazione o di altro soggetto giuridico dotato di personalità giuridica costituito nell’ambito del consiglio nazionale dei Consulenti del Lavoro per lo svolgimento a livello nazionale di attività di intermediazione”. Gli articoli 75 e seguenti hanno previsto l’istituzione delle Commissioni di certificazione dei contratti e rapporti di lavoro presso i Consigli Provinciali dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro. L’istituto della certificazione dei contratti vede, dunque, nelle predette Commissioni di certificazione una sede privilegiata e protetta, anche per funzioni conciliative;
- il Protocollo d’intesa tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e i Consulenti del Lavoro (sottoscritto in data 15 gennaio 2014, della durata di due anni, poi rinnovato il 4 marzo 2016 con l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, della durata di cinque anni, rinnovabili), secondo il quale i
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Consulenti del Lavoro potranno asseverare la regolarità contributiva e retributiva delle imprese nella gestione dei rapporti di lavoro per il tramite della procedura Asse.Co. (Asseverazione Contributiva)”;
- il D.Lgs. n. 81/2015. Con questa normativa è stata introdotta la possibilità per il Consulente del Lavoro di effettuare:
• attività di certificazione della presenza dei requisiti di genuinità delle collaborazioni coordinate e continuative (articolo 2, comma 3);
• certificazione del patto di demansionamento del lavoratore (art. 3) e di clausole elastiche nel contratto part-time (art. 6, comma 6), nonché di funzione di sottoscrizione di atti di conciliazione per i collaboratori stabilizzati a decorrere dal 1° gennaio 2016 (art. 54, comma 1, lettera a). L’articolo 3 sopracitato riveste particolare importanza poiché, nel novare la disciplina di cui all’art. 2103 c.c. in materia di mansioni del lavoratore, ha previsto la possibilità per il lavoratore di farsi assistere da un Consulente del Lavoro oltre che da un Avvocato (senza ulteriori possibilità a favore di altri professionisti); - il D.Lgs. n. 151/2015 che all’articolo 26, comma 4, dispone che il Consulente del Lavoro diventi uno dei soggetti deputati alla trasmissione online della modulistica concer-
nente le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.
NOTE
1 Cfr. Marc h. Bornstein, handbook of Parenting, Lawrence Erlbaum Associates, 2002, p. 5.; vedi anche : William E. Paden, Interpreting the Sacred: Ways of Viewing Religion, Beacon Press, 2003, pp. 131-132.
2 ALICI L., Filosofia morale, La Scuola, 2011
AA. VV., Amore e verità. Commento e guida alla lettura dell’Enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI, Paoline, Milano, 2009
AA. VV., Carità globale. Commento alla Caritas in veritate, LEV-AVE, Roma, 2009
AA. VV., Dizionario dei monoteismi, sotto la direzione di J. Patin e V. Zuber, EDB, Bologna, 2005
AA.VV., Economia e concezione dell’uomo, Franco Angeli, Milano, 2007
AA. VV., Enciclopedia Filosofica, a cura di V. Melchiorre, 12 vol.,Bompiani, Milano, 2006
AA. VV., Enciclopedia dell’Economia, Garzanti, Milano, 2001
AA.VV., Nuovo Dizionario delle Religioni, Edizioni Paoline, Roma, 2004.
AA.VV., Riscoprire le radici e i valori comuni della civiltà occidentale: il concetto di legge in Tommaso d’Aquino, a cura di F. Di Blasi, Rubbettino, Palermo, 2007 COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, LEV, Città del Vaticano, 2009 CUNICO G., Lettura di habermas. Filosofia e religione nella società post-secolare, queriniana, Brescia, 2009
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COLLEFERRO NEGLI ANNI OTTANTA
Pierluigi Sanna
Sindaco di Colleferro, vice Sindaco della Città Metropolitana di Roma capitale
Il cielo degli uomini
Anche se le fantasie umane riguardo il cielo, appassionano gli uomini da sempre, è nel ‘900 che esse trovano concretezza.
Il ‘900 è il secolo dell’uomo sulla luna e delle grandi esplorazioni spaziali; l’uomo novecentesco non si dedica più solamente alla perlustrazione dei ghiacci polari o delle foreste pluviali ma inizia la sua “storia verticale” con la corsa allo spazio che tanto progresso scientifico ha sostenuto e tanto processo scientifico ha fatto sviluppare nel ‘900 e nel nuovo secolo.
Colleferro è città del ‘900, è città di fondazione. L’unica città di fondazione a vocazione operaia, anziché agricola, nasce nel 1935 proprio intorno alla fabbrica prima di zucchero e poi di esplosivi. E’ evidente che lo zucchero poco abbia a che fare con l’esplosivo ma potrebbe non essere altrettanto evidente, per chi non è colleferrino, quanto l’esplosivo del 1912 abbia a che fare con il nostro ruolo di Capitale Europea dello Spazio 2022, a cento anni di distanza.
La città fabbrica, che mi onoro di rappresentare, ha saputo riconvertirsi sempre nel corso di un secolo di lavoro passando appunto dallo zucchero al tritolo, alla balistite, alla chimica, ai saponi, al cemento, alle carrozze ferroviarie, ai filati tessili, agli anticrittogamici, ai concimi, ai propellenti fino ai razzi spaziali per il trasporto dei satelliti in orbita.
Il ruolo dell’Italia, dal progetto San Marco in poi, è un ruolo primario nella corsa ai cieli.
In questa corsa l’Italia, con Asi, è una vera e propria protagonista assieme alle altre nazioni europee riunite nell’ESA.
Colleferro ed AVIO, erede naturale della BPD, della SNIA, della FIAT, sono di fatto una cosa sola: una grande famiglia del lavoro. questa grande famiglia, questo esperimento sociale ultradecennale, questa realtà storica e futuristica assieme è il fulcro del ruolo italiano. Il cuore dello spazio italiano batte a Colleferro e senza Colleferro l’Italia non potrebbe solcare l’atmosfera.
La capacità produttiva di altre tecnologie, la ricerca sperimentale, lo sviluppo culturale e sociale che inevitabilmente genera dalle prime due, in un luogo ove le maestranze sono anche comunità, ci hanno consentito di avere un ruolo importante nella CVA, che negli anni è andato crescendo.
Insieme a CVA abbiamo organizzato a Colleferro i seminari interculturali sullo spazio, dedicati agli studenti delle scuole superiori di tutta Europa; abbiamo ospitato la Scuola Estiva dello Spazio per i giovani universitari europei e per ultimo siamo giunti a ricoprire la presidenza, proprio dopo 110 anni dalla nascita dei reparti esplosivistici. Nella prima decade del mese di gennaio 2022 è stata organizzata a Colleferro una grande cerimonia, durante la quale il Sindaco di Bordeaux ha passato a me e alla mia città le consegne ufficiali della presidenza.
Ringrazio sin da ora la Città Metropolitana di Bordeaux per il suo lavoro superla-
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tivo svolto durante la presidenza di turno, in un momento storico reso delicatissimo dalla pandemia.
Il passaggio di consegne e la presidenza di Colleferro non rappresentano solo il raggiungimento di un risultato localistico, seppure di rilevo assoluto, bensì un’affermazione italiana, nazionale; affermazione non necessaria sul piano industriale ove l’Italia ed Avio sono già ai primi posti ma sul piano culturale, sociale e di sviluppo.
Appare strana questa mia affermazione?
Lo sviluppo culturale e sociale non sembrano collimare con un argomento tanto tecnico e considerato di nicchia eppure è proprio questa la scommessa. Lo spazio può, vuole e deve uscire dalla fabbrica; lo spazio e la sua economia deve essere oggetto di divulgazione scolastica, scientifica, popolare e di comunità, persino turistica.
Lo spazio che esce dalla fabbrica genera curiosità ed attenzione: se un giovane delle scuole superiori incontra lo spazio e la narrazione che vi può essere di esso, può a pieno titolo innamorarsene e dedicarvi l’intera vita ma anche semplicemente interessarsene e comprendere di più su un settore così all’avanguardia dell’economia italiana, così importante per il nostro Pil, per la nostra occupazione qualificata e per gli effetti che porta dal punto di vista degli investimenti. Da uno studio condotto da Asi ed Università Roma Tre ogni euro investito in questo settore strategico ne produce ben undici.
Start up, scuole, università, aziende di indotto, produttori di energia e materie prime, ricercatori, forze armate possono nascere crescere e progredire intorno a questo mondo del cielo che non può rimanere chiuso nei confini industriali o della difesa. Sarebbe un peccato.
La testimonianza ce la dà anche la fama ed il prestigio raggiunto dagli astronauti italiani tra la nostra gente.
Guidoni o la Cristoforetti, solo per citarne alcuni, sono ormai arcinoti e conosciuti da tutti per la loro presenza sui media e per le loro missioni.
Nasce di fatto un nuovo periodo storico, nascono nuovi vettori, si studiano nuovi propellenti, si progettano nuove basi di lancio, si apre sempre di più alla presenza dei privati in un settore considerato in passato ad esclusivo appannaggio degli stati sovrani, nascono sfide che ci porteranno magari fra trent’anni direttamente su Marte. queste nascite vanno sostenute e salvaguardate, per farlo c’è bisogno di consapevolezza. I colleferrini come tutti gli italiani debbono sapere cosa si sta facendo e perché si sta facendo.
Solcare i cieli non è certo un passatempo per super ricchi o per scienziati sognatori bensì una necessità strategica civile e militare di grande rilevanza.
Si può dire, anzi, che oramai tutti i settori dell’economia mondiale si avvalgano a vario titolo della tecnologia satellitare: trasporti, telefonia, agricoltura, sicurezza, scuola e via di seguito. questo i nostri concittadini lo debbono sapere, lo debbono ascoltare, lo debbono capire.
La diffusione della cultura spaziale avverrà con maggiore facilità se le aziende genereranno indotto, se nasceranno nuove start up innovative territoriali, se si creeranno nuovi posti di lavoro, se si incentiverà l’intersettorialità, come stiamo facendo noi a Colleferro, cercando di collegare spazio e logistica in un progetto come q uello dell’Its: un istituto di formazione e studi post diploma in grado di formare i giovani cittadini al lavoro in fabbrica non solo però in un settore specifico bensì almeno in due e non in maniera separata ma coniugando i due sistemi produttivi e di lavoro nella convinzione c h e possa nascere così un nuovo settore di certo più innovativo ed all’avanguardia.
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Per lo stesso motivo il 2022 non è stato solo l’anno della Presidenza per Colleferro, ma anche quello del Museo dello Spazio.
Una sfida pensata a Tolosa e progettata in questi anni, una sfida finanziata dalla Regione Lazio che ci vede già impegnati in una grande opera di ristrutturazione dell’edificio morandiano e di architettura razionalista che ospitò i laboratori dell’allora istituto professionale. Un luogo simbolo quindi, un luogo che ha formato gli operai e che con la nascita
del museo innovativo, tecnologicamente avanzatissimo, multimediale e sensoriale potrà portare nello stesso posto turisti e studenti. Si studenti, nell’attigua scuola di alta formazione che stiamo allestendo assieme alla nuova biblioteca comunale: uno spazio dedicato appunto alla crescita culturale ed alla formazione professionale dei giovani in un luogo che per oltre un secolo ha saputo sempre guardare avanti, in una città che da sempre è pioniera in tutti i campi.
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ASTOLFO SULLA LUNA - Palazzo Besta
BERNARD VAN ORLEY,
e bambino con angeli
Vergine
Vittoria Drosi
dottoranda di ricerca in “Diritto e Impresa” alla Luiss Guido Carli di Roma
Il sistema delle misure di polizia e di prevenzione prima del Codice antimafia (dal 1956 al 2011)
Le misure di prevenzione nascono nella seconda metà del XIX secolo con l’emanazione della c.d. Legge Galvagno del 1852, contenente «Provvedimenti di pubblica sicurezza contro gli oziosi ed i vagabondi», che contemplava la possibilità di applicare la «sottomissione di darsi a stabile lavoro» e la «sorveglianza di polizia». Poco dopo, nello stesso periodo in cui si realizzava l’Unità d’Italia, si manifestò l’esigenza di contenere il fenomeno del brigantaggio, e ciò portò all’emanazione della temporanea Legge Pica del 1863 che prevedeva il cd. domicilio coatto. Già all’epoca, emerse la distinzione tra, da un lato, il diritto penale, fondato sulla colpevolezza per il fatto, e, dall’altro, il nuovo strumento espressione di un diritto di polizia, in quanto tale appartenente alla branca del diritto amministrativo. Successivamente, venne emanata la Legge di Pubblica Sicurezza, la cd. Legge Crispi del 1889, che ha “stabilizzato”, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano, le misure di prevenzione, e il cui Titolo III era dedicato alle «classi pericolose della società»
Con l’avvento del Fascismo si verifica una ulteriore valorizzazione delle misure di prevenzione, alle quali viene dedicata una parte Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza. Così, lo strumento originariamente denominato «domicilio coatto» venne trasformato nella misura del «confino di polizia» applicato agli avversari politici del regime, come i socialisti, i comunisti e gli
anarchici, ma anche agli omosessuali nonché, dopo le leggi razziali, agli ebrei.
Già nel 1956, solo otto anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la Consulta ha fissato dei principi, ancora oggi validi, sui presupposti di applicabilità delle misure di prevenzione. Tra questi, la necessità che i provvedimenti siano fondati su fatti, e non su meri sospetti; l’obbligo di motivazione; l’applicazione del diritto di difesa. La Corte già all’epoca ha cercato di rimarcare la distinzione tra, da un lato, misure limitative della libertà personale, e, dall’altro misure limitative della sola libertà di circolazione. Le prime devono sottostare al principio di riserva di legge e giurisdizione (art. 13 Cost.), e quindi sono applicabili solo nei casi previsti dalla legge, e solo dall’Autorità Giudiziaria (ma, in casi di necessità e urgenza, eventualmente anche dall’Autorità di Pubblica Sicurezza, salvo convalida da parte dell’Autorità Giudiziaria entro termini perentori molto rigorosi). Le seconde, invece, sono applicabili anche dall’Autorità Amministrativa nei casi previsti dalla legge, tra cui le esigenze di pubblica sicurezza.
Nello stesso anno venne emanata la Legge Generale che introduceva e disciplinava le misure di prevenzione personali con lo scopo di giurisdizionalizzarne l’applicazione per renderle conformi a Costituzione. Tuttavia, il presupposto che ne consentiva l’applicazione non era un fatto di reato, ma certi status, quale quello di ozioso o vagabondo
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(abituale e abile al lavoro), cioè persona senza fissa dimora che, magari per sostentarsi, avrebbe probabilmente commesso reati, e quindi pericolosa per la sicurezza pubblica. Ovviamente, il riferimento a certe tipologie d’autore rendeva le misure di prevenzione personali uno strumento di un diritto nel quale veniva valorizzata la colpevolezza per il modo di essere e per la condotta di vita. Oltre ad oziosi e vagabondi, erano previste altre tre ipotesi che consentivano l’applicazione delle misure di prevenzione1. Con la stessa legge del 1956 venne introdotto lo strumento del foglio di via obbligatorio per le persone pericolose per la sicurezza pubblica che si trovassero al di fuori dei luoghi di residenza, per rimandarle, su iniziativa del questore, al luogo di provenienza2.
Il perseguimento, attraverso questi strumenti, della tutela della sicurezza pubblica aveva suscitato dubbi di costituzionalità rispetto all’art. 13 della Costituzione, tuttavia, Legge del Generale del 1956 sembrava avere “eluso” i dettami dell’art. 13 Cost. in quanto il requisito della necessaria previsione legislativa poteva essere considerato rispettato (nonostante la estrema genericità delle fattispecie di pericolosità); inoltre si provveduto a giurisdizionalizzare le misure di prevenzione, quindi, era rispettato anche il secondo dei requisiti, consistente nell’atto motivato da parte dell’Autorità Giudiziaria.
Tuttavia, nonostante le ragionevoli diffidenze nei confronti delle misure di prevenzione, l’allarme causato dalla criminalità organizzata di stampo mafioso ha portato il Legislatore a emanare la cd. Legge Antimafia del 1965, che ha esteso l’applicabilità delle stesse anche ai soggetti indiziati di appartenere all’associazione mafiosa. La portata applicativa delle misure di prevenzione è stata quindi ampliata3: dalla tradizionale categoria
del disagio sociale e delle condotte derivanti da traffici o profitti delittuosi (cd. pericolosità generica), anche a categorie di soggetti sospettati di appartenere ad un’associazione criminale (cd. pericolosità qualificata). Ma l’appartenenza a un’associazione criminale non è stato a lungo l’unico presupposto della fattispecie di pericolosità qualificata. Infatti, a seguito dei primi episodi di terrorismo, la cd. Legge Reale del 1975, ha esteso le norme della Legge Antimafia anche a nuove categorie di persone al fine di prevenire fenomeni sovversivi4, quale forma di terrorismo interno.
Gli omicidi di mafia degli anni a seguire hanno indotto a contrastare le organizzazioni mafiose in modo più vigoroso anche attraverso l’aggressione ai patrimoni illecitamente realizzati, e il Legislatore del 1882 ha introdotto il sequestro e la confisca di prevenzione, diretti a sottrarre i beni illecitamente acquisiti dai soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali all’epoca previste dalla legge Antimafia. quindi, con una Legge del 1982, emanata appena dopo l’uccisione del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il Legislatore del 19825 ha dimostrato di essersi reso conto che, di fronte alla criminalità organizzata, la pena detentiva non avesse più un reale effetto di prevenzione perché era sufficiente che il coordinamento dell’associazione venisse affidato ad un altro soggetto affinché l’attività dell’associazione potesse proseguire. Ciò ha portato alla valorizzazione delle misure di prevenzione patrimoniali, con lo scopo di interrompere il flusso di denaro (realizzato attraverso la commissione di reati), ciò consente all’associazione di mantenersi in vita, di rafforzarsi, e di commettere altri reati. In questa prospettiva, l’avere mantenuto in vita la categoria delle misure di prevenzione personali ha permesso che negli anni successivi venissero
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introdotte quelle patrimoniali, in quanto queste ultime applicabili (all’epoca)6 solo ai soggetti rientrati in una fattispecie di pericolosità, e quindi già destinatari di una misura di prevenzione personale. Tuttavia, anche le misure di prevenzione patrimoniali presentano caratteristiche simili alle personali, anch’esse prive di un presupposto della previa commissione di un fatto di reato, e quindi anch’esse «pene del sospetto». Il carattere rivoluzionario della confisca di prevenzione è dovuto alla circostanza che la sottrazione non riguarda il bene utilizzato per la commissione del reato o il provento del reato stesso, ma riguarda tutto il patrimonio che si ritiene - attraverso dei meri indizi - di origine illecita. Così si rende il nesso tra bene e reato assolutamente irrilevante. Inoltre, la confisca di prevenzione non richiede la condanna, ed è disposta a seguito di un procedimento molto semplificato rispetto al procedimento penale. Comune è stata ratio della confisca di prevenzione degli anni ‘80, e della confisca (misura di prevenzione) allargata introdotta negli anni ‘907. Si ritiene che la sottrazione del patrimonio illecito consentirebbe di prevenire la commissione di reati, e quindi la pericolosità del soggetto, cioè il destinatario della misura di prevenzione, o del condannato. In entrambi i casi viene meno il nesso tra, da un lato, il bene confiscato, e, dall’altro, il reato commesso o l’attività illecita.
Sempre negli anni ’80 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la categoria dei «proclivi a delinquere» perché troppo evanescente. questa dichiarazione di illegittimità costituzionale ha anticipato di molti anni una sentenza dalla Corte EDU e costituzionale sulla necessità di una tassativizzazione legislativa dei presupposti applicativi della misura, come corollario della stretta legalità. Le istanze della dottrina più garantista degli anni ’80 sono state in parte recepite dal Legislatore del 1988, che ha aggiunto l’inciso
«sulla base di elementi di fatto» nella norma che individua i soggetti destinatari delle misure di prevenzione personali. Lo scopo dell’inciso sembra essere quello di volere avvicinare i presupposti delle misure di prevenzione a quelli delle misure di sicurezza, e più in generale al sistema penale.
Negli anni 2000 è stata prevista una nuova misura di prevenzione applicata dal questore a causa dell’uso di sostanze stupefacenti. Nel 2008 il Legislatore è intervenuto, ancora una volta, nel sistema delle misure di prevenzione prevedendo l’estensione delle misure patrimoniali anche alle principali fattispecie di pericolosità generica e l’applicabilità delle misure patrimoniali indipendentemente dalla misura personale8. L’anno successivo, il Legislatore attua un’integrazione del titolo della Legge Antimafia, esplicitando che le misure antimafia si applicano anche alle organizzazioni straniere. Nello stesso anno il Legislatore ha previsto l’applicabilità da parte del questore della misura di prevenzione dell’ammonimento su richiesta della persona che ritiene di essere vittima di stalking (art. 612-bis c.p.). questi interventi hanno reso evidente l’utilizzo delle misure prevenzione personali come strumento, ancora una volta, di controllo e contenimento di fenomeni sociali, compreso il fenomeno migratorio9
NOTE
1 Art. 1 della legge 1423 del 1956: «coloro che sono abitualmente e notoriamente dediti a traffici illeciti; coloro che, per la condotta e il tenore di vita, debba ritenersi che vivano abitualmente, anche in parte, con il provento di delitti o con il favoreggiamento o che, per le manifestazioni cui abbiano dato luogo, diano fondato motivo di ritenere che siano proclivi a delinquere; coloro che, per il loro comportamento siano ritenuti dediti a favorire o sfruttare la prostituzione o la tratta delle donne o la corruzione dei minori, ad esercitare il contrabbando, ov-
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vero ad esercitare il traffico illecito di sostanze tossiche o stupefacenti o ad agevolare dolosamente l'uso; coloro che svolgono abitualmente altre attività contrarie alla morale pubblica e al buon costume».
2 questo mezzo è stato usato prevalentemente per “combattere” la prostituzione.
3 È lo stesso momento storico in cui viene prevista la prima misura di prevenzione patrimoniale, cioè la cd. cauzione, a garanzia del rispetto delle prescrizioni imposte con la misura di prevenzione personale. Si tratta del versamento di una somma a garanzia del rispetto degli obblighi imposti dalla misura personale; somma che verrà trattenuta in caso di accertata violazione.
4 La stessa ha introdotto inoltre una nuova misura di prevenzione patrimoniale: la sospensione dell'amministrazione dei beni.
5 È la stessa legge del 1982 ad avere introdotto la fattispecie di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.): la norma non fa altro che riprendere la nozione già elaborata dalla giurisprudenza nell'applicazione della Legge Antimafia. Inoltre, la stessa legge del 1982 ha previsto, nello stesso art. 416-bis c.p. (comma VII) una specifica forma di confisca obbligatoria (misura di sicurezza) nei confronti di cose che conservano un diretto nesso di derivazione con reato commesso.
6 Oggi, grazie al d.l. n. 92/08, conv. dalla l. n. 125/08, le misure di prevenzione patrimoniali possono essere applicate anche autonomamente da precedenti misure per-
sonali; purché, però, sia stata previamente accertata, anche in via incidentale, la sussistenza dei presupposti della misura personale.
7 Il decreto-legge n. 399 del 1994, convertito in l. 501 dello stesso anno, inserisce nel decreto-legge n. 306 l'articolo 12-sexies che prevede una nuova forma di confisca allargata per sproporzione, oggi confluita nell’art. 240 bis c.p.
8 Definitivamente consacrato nell’art. 18 d. lg. 159/2011, sul principio di applicazione disgiunta di misure personali e patrimoniali. L’autonomia dell’azione di prevenzione reale comporta che essa possa applicarsi anche nei casi in cui non possa essere applicata la misura personale, sul presupposto di un «accertamento sia pure incidentale, della pericolosità del proposto» (F. MENDITTO, La sentenza De Tommaso c. Italia, in Diritto penale contemporaneo, p. 148), contribuendo così ad una espansione dell’aerea applicativa della misura patrimoniale.
9 Vengono classificate come misure di prevenzione anche le previsioni che disciplinano l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato italiano di cittadini extracomunitari (Decreto legislativo n. 286 del 1998) e l'allontanamento dei cittadini UE (decreto legislativo n. 30 del 2007). In entrambe gli impianti normativi le misure sono adottate dal Prefetto e dal questore, e si tratta di misure che presentano caratteristiche delle misure di prevenzione, nonostante facciano parte di un sistema diverso.
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I tempi del diritto
GIOVANNI BELLINI, La Madonna del prato
Le Regioni e le altre Autonomie tra teoria e prassi
Tra le speranze costituzionali e le eredità di questi lunghi decenni repubblicani, qualche riflessione recente può essere utile all’importante dibattito in corso.
Un libro del 1976, che si può a ragione ritenere un ‘classico’ per gli specialisti, tracciava «un bilancio obiettivo e disincantato» della prima legislatura regionale, del 19701975, cogliendo le nuove istituzioni in un momento di transizione, destinato a riproporsi ancora una volta oggi. Già allora da parte di Franco Bassanini1 si poteva ammettere che quella legislatura «non ha, a ben vedere, né realizzato né definitivamente distrutto le speranze di chi ha visto nell’istituzione delle Regioni l’innesco di un grande movimento di rinnovamento e riforma del nostro assetto istituzionale, capace di investire contemporaneamente l’amministrazione centrale ed il governo locale». quali i problemi e le speranze? l’Autore ne proponeva questa acuta sintesi2:
“Avviata cinque anni fa tra grandi speranze e grandi timori, la riforma regionale è giunta oggi ad una svolta decisiva. Il modello di Regione ‘politica’ delineato nella Costituzione e negli statuti regionali – come essenziale punto di snodo tra Stato e comunità locali – implica importanti riforme istituzionali: dal trasferimento alle Regioni e agli enti locali di rilevanti poteri e di ingenti risorse finanziarie ancora gestiti dalle burocrazie ministeriali, alla soppressione di gran parte degli enti pubblici funzionali che costi-
tuiscono la trama del pluralismo perverso e del clientelismo a sfondo corporativo su cui sono costruite, in buona misura, le fortune del sottogoverno nazionale: da una generale riforma del governo locale, ancora regolato da leggi fasciste o prefasciste, ad una radicale riorganizzazione delle amministrazioni centrali dello Stato, che si trasformi da organi di gestione burocratica e routinière di poteri di amministrazione attiva in strumenti efficienti di programmazione, indirizzo e coordinamento. Se queste riforme non saranno attuate o almeno avviate nel corso della seconda legislatura, finirà per consolidarsi il modello della ‘Regione amministrativa’ rendendo inevitabile la burocratizzazione degli apparati regionali e irresistibile la tendenza a ridurre il ruolo delle Regioni alla distribuzione di sovvenzioni contributi ed incentivi ed alla gestione di servizi locali in concorrenza con comuni e province (…)”.
La citazione è lunga, ma a distanza di quasi 50 anni quella riflessione, anche tenuto doverosamente conto di quanto sta emergendo dal dibattito in corso, il trend risultato prevalente, naturalmente con luci ed ombre, è per lo più quello che Bassanini paventava. I motivi sono molto complessi e ben noti ai giuspubblicisti e ai politici più attenti, tanto che i media hanno difficoltà a comunicarli al pubblico più largo senza semplificarli seguendo gli slogan degli schieramenti politici. E già questo è un problema se ci si vuole dare, come doveroso, una nuova prospettiva: positiva.
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Mario Ascheri
Professore emerito di Storia del Diritto medioevale e moderno
I tempi del diritto
La riforma del 2001, come si sa, all’art. 118 ultimo comma proclamava che “Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà”.
Si sa bene, anche, che tra i promotori culturali - per così dire - della riforma ci fu la onlus Cittadinanza Attiva fondata nel 19783 e radicata com’è naturale in modo diversificato nel Paese, ma con buona capacità di aggregare anche altri gruppi di partecipazione politica non inquadrati nei partiti.
Il suo animatore Antonio Gaudioso ha lasciato la segretaria generale a marzo del 2021, dopo aver assunto incarichi presso l’Istituto superiore di sanità e in commissioni governative (come la LEA, per i Livelli Essenziali di Assistenza) grazie alla fiducia del ministro Roberto Speranza4. Gli è succeduto Anna Lisa Mandorino, che nel suo discorso di insediamento (caricato nel web5) ha parlato molto dei problemi sanitari, ovviamente, ma anche dei temi tradizionali della partecipazione civica, del terzo settore, dei beni comuni, delle disuguaglianze cui porre argine ecc. ecc. Non però della sussidiarietà del 2001, pur essendo essa ben presente nell’utile sito dell’associazione. Il quale interpretava in modo articolato la riforma. Da un lato infatti ricordava “che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni necessarie per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello svolgimento della loro attività (corsivi miei, n.d.a.). L’intervento dell’entità di livello superiore, qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore”.
Insomma, qui il potere pubblico è auspicato sussidiario rispetto al privato, che come potere operativo può essere momentaneamente in difficoltà. Dall’altro lato si vedeva
sussidiarietà, come “un elevato potenziale di modernizzazione delle amministrazioni pubbliche, in quanto la partecipazione attiva dei cittadini alla vita collettiva può concorrere a migliorare la capacità delle istituzioni di dare risposte più efficaci ai bisogni delle persone e alla soddisfazione dei diritti sociali”, per cui sussidiario diviene il “cittadino, sia come singolo sia attraverso i corpi intermedi, (che) deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più vicine”.
Si esemplificava con la “cura dei beni comuni. Entrambi, volontari e cittadini attivi, sono ‘disinteressati’, in quanto entrambi esercitano una nuova forma di libertà, solidale e responsabile, che ha come obiettivo la realizzazione non di interessi privati, per quanto assolutamente rispettabili e legittimi, bensì dell’interesse generale incrociandosi nella propria opera, s’intende, per irrobustire l’intervento pubblico”.
sussidiarietà biunivoca per così dire, perché l’uno sussidia l’altro in situazioni diverse: i cittadini per essere più liberi; le istituzioni pubbliche per realizzare meglio gli interventi socialmente più rilevanti. Sono posizioni coerenti da un lato con la crisi dei partiti e con il variegato e disperso associazionismo civico che i partiti sussidiano (ecco altra situazione ancora di sussidiarietà) fino al punto di surrogarli addirittura. quanto sembra avvenuto con il Movimento 5 stelle, che inevitabilmente ha assunto i connotati del partito più o meno ‘tradizionale’ - se pur ancora esso esiste, altrimenti il Movimento fu, come sempre ho pensato, partito sin dall’esordio, mutato nomine pour cause. Dall’altro lato la coerenza è con la crescente difficoltà delle istituzioni pubbliche di soddisfare le aspettative dei cittadini, anche per contrastare una spesa crescente ma inefficiente.
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Tuttavia se andiamo a un testo accreditato come la Treccani leggiamo: “principio di s , il concetto per cui un’autorità centrale avrebbe una funzione essenzialmente sussidiaria, essendo ad essa attribuiti quei soli compiti che le autorità locali non siano in grado di svolgere da sé.
Con interpretazione più recente, con riferimento alla Comunità europea e, in particolare, alla successiva Unione degli Stati europei, il principio secondo il quale dovrebbe essere riservata alla Comunità, come organismo centrale, l’esecuzione di quei compiti che, per le loro dimensioni, per l’importanza degli effetti, o per l’efficacia a livello di attuazione, possono essere realizzati in modo più soddisfacente dalle istituzioni comunitarie che non dai singoli stati membri“.
qui i cittadini sono solo destinatari indiretti della sussidiarietà, che riguarda il rapporto migliore possibile tra il potere centrale e le articolazioni periferiche, per così dire. Ed è alla sussidiarietà che secondo un principio di astratta razionalità istituzionale dovrebbe attenersi lo Stato nazionale nel rapportarsi alle Regioni e agli enti locali. Tutto quel che è possibile, in altre parole, si dovrebbe poter fare a livello locale in coerenza con l’art. 5 Cost. per cui “La Repubblica (…) riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei suoi servizi il più ampio decentramento amministrativo e adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Sennonché, com’è ovvio, quelle comunità sono riconosciute come originarie, ma è tutt’altro che esplicitato cosa debba intendersi per esigenze delle autonomie e del decentramento, trovandoci di fronte a uno di quegli articoli che per la loro genericità sollecitarono la critica inesorabile di Arturo Carlo Jemolo6.
Peraltro, la vicenda sanitaria in corso ha mostrato la inevitabile elasticità interpretativa e applicativa della Costituzione (anche
quando è chiara) in base a criteri lato sensu politici, i quali erano ovviamente ispiratori della riforma del 2001 e della proposta cui Matteo Renzi ha affidato il suo nome.
Già, ma la polisemia di sussidiarietà, dal significato inter-istituzionale a quello partecipativo civico di Cittadinanza attiva, mette in guardia sulla sua inevitabile storicità. non esiste una sussidiarietà atemporale, ma solo quella nell’ hic et nunc della contingenza politica più o meno lunga e stressante, com’è la nostra.
Pertanto l’esperienza storica, non solo nostra, sembra indicare che la sussidiarietà risponda a un giudizio descrittivo di una realtà complessa cui si vuole dare ordine. Di fronte al pullulare più o meno pre-ordinato e/o sovraordinato di poteri, si cerca di dare loro una coesistenza ordinata ricorrendo a quella specie di mantra che è la sussidiarietà.
Con l’indebolirsi dei servizi pubblici, l’organizzazione privata dei cittadini legata a problemi specifici, e non politici generali, ha reso utile la recezione della sussidiarietà e ha motivato dall’alto livello costituzionale le normative ad essa ispirata a favore del terzo settore e del volontariato.
Che poi la soluzione più razionale sia quella così rafforzata dal superiore livello normativo, non sembra quesito astrattamente risolvibile. Un tempo si diceva per altre questioni entia non sunt multiplicanda al di là del necessario e il rasoio di Occam era uno strumento idoneo nel suo mondo. Oggi non solo si può parlare ancora di ‘enti inutili’ (per lo più intangibili, però), ma non sembra che si faccia nulla per evitarne la creazione di nuovi.
Un qualsiasi bisogno legittima un ente se supportato dalla giusta pressione politica e mediatica.
L’oratoria politica e la sua pervasività grazie a media compiacenti è fortissima a tutti i livelli. I
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Basta usare il mantra giusto. Le novità e la pluralità istituzionale concorrenziale in senso positivo che le Regioni dovevano attivare, nei propositi dei più ad esse favorevoli, non sembrano aver avuto luogo nel loro complesso. I vari livelli di potere, come avvenuto di regola nella storia delle istituzioni, si ritagliano spazi di potere che curano di salvaguardare con grande attenzione e nel nostro caso le molte cause motivate dai conflitti Stato-Regioni discusse dalla Consulta l’attestano chiaramente.
quella riforma politica e amministrativa che si era largamente condivisa si deve purtroppo riconoscere che è rimasta per lo più non realizzata nei termini largamente auspicati, mentre anche l’Unione europea ha dato prove assai deludenti contro ogni aspettativa. Nel caso italiano, la nostra cultura giuridica ha costruito come sempre belle dottrine, ma la loro applicazione ha lasciato desiderare, affidata inevitabilmente a un ceto dirigente in larga misura inaffidabile o inconcludente.
Il problema è grave perché è profondamente radicato nella nostra storia: codici e Costituzione non bastano a evitare intrecci perversi come quelli che si sono manifestati palesemente ad esempio nella magistratura.
Il più grande giurista italiano nel Seicento, il card. Giovanbattista De Luca, inutilmente fautore di riforme nello Stato pontificio, sintetizzò il nostro DNA in poche parole: “theoricae generales idealiter ac in abstracto sunt verae, sed difficultas est in earum reductione ad praxim”7
Sono tornato a lui – un grande “pratico”, che non fu mai professore - non a caso. Perché il vituperato tardo medioevo e l’età d’antico regime non ebbero in generale solo meno enti e livelli decisionali. Ci fu qualcosa di più: erano spesso anche meglio collegati tra loro, con la “rete” cui taluni oggi pensano. E proprio grazie al principio di sussidiarietà di cui
nessuno parlava perché non concettualizzato.
Eppure, senza per ovvi motivi proporsi i grandi mantra partecipativi con la pervasività attuale, allora i poteri eminenti, principe o città dominante o signore feudale, si riservavano i poteri politico-militari dell’ente, la giustizia maggiore, le strutture portuali e viarie fondamentali e lasciavano per lo più ai poteri comunali locali la gestione dei beni pubblici, della sanità, dell’istruzione, delle strutture essenziali dai mulini ai pozzi e alle fonti, alla polizia campestre, alla tutela di ospedali, ospizi e chiese locali. Chi poteva permettersele, chiamava addirittura delle super-star da fuori (come s. Bernardino, ad esempio) per la predicazione della quaresima e creava un “evento” di grande risonanza.
quello che viene bollato come particolarismo e frammentazione giuridico-politica precodicistica si resse in gran parte sulla abnegazione delle comunità grandi e piccole prive di libertà politica e sottoposte a balzelli più o meno gravi, ma per il resto dotati di una libertà (vigilata, s’intende) di autorganizzazione talora impressionante.
quel livello di governo locale, senza libertà politica sia chiaro, consentì però il radicamento di pratiche di partecipazione anche larga al governo della cosa pubblica con ampia rotazione nelle cariche e la loro sostanziale gratuità: nelle comunità minori demograficamente furono non infrequenti consigli comunali con un membro partecipante per nucleo famigliare. quando non formalmente contrattuale, come pure avveniva per le realtà più importanti e da ‘coccolare’ con attenzione perché poste sui confini (e quindi esposte alle lusinghe dello Stato confinante), il rapporto del potere centrale con le comunità locali era per lo più prudente.
Non era solo questione di sempre possi-
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I tempi
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del
bili ribellioni dei residenti locali con devastazione delle proprietà cittadine in loco, ma di riserve reclutabili per i servizi militari e di forza lavoro da utilizzare nel capoluogo.
La separatezza centro-periferia fu sicuramente dura, per lo più, ma la sussidiarietà era imposta dalla mancanza pressoché totale di burocrazia e dalla comodità di fare affidamento sulle forze locali fortemente interessate al buon funzionamento di una serie di servizi che avrebbero altrimenti richiesto un impegno pesantissimo per il potere centrale.
L’inefficienza se non l’egoismo e il semplice disinteresse del centro facilitò la sussidiarietà, sempre diversa nel tempo qua e là, ma prassi radicata, operante senza tanti proclami formali. La sudditanza non era servitù e le comunità più cospicue seppero conservare molte delle libertà di governo originarie.
Pensiamo alla identità delle città venete sotto Venezia, o a quelle pontificie da Bologna a Perugia a Orvieto, o lombarde sotto
Milano, alle piemontesi, alle toscane, o alle stesse città demaniali e feudali del sud.
Non c’era uniformità di disciplina, è ben vero, ma c’era la stessa tradizione di autogoverno che educava un ceto dirigente più o meno aperto ai bisogni della cittadinanza, e comunque dedito ad essi, in pura osservanza nei fatti della sussidiarietà. E il suo peso per i ceti locali poteva anche essere fatta valere con forza, come avvenne nei parlamenti dello Stato pontificio o in quelli più potenti: siciliani e sardi soprattutto8
La differenza delle normative locali significava disuguaglianza, non c’è dubbio. Ma aveva dei risvolti soggettivi, di formazione e rafforzamento dell’autocoscienza identitaria, e risvolti oggettivi di relativa semplicità amministrativa, tanto lontani dalla complessa gestione centralistica studiata per il reddito di cittadinanza. Possibile che non si sia pensato di ricorrere a sistemi di assistenza diretta locale come quella un tempo assicurata da
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I tempi del diritto
REMBRANDT VAN RIJN, Mulino a vento
enti comunali come quelli denominati Eca?
Non potevano ora essere potenziati? Perché ricorrere a strane categorie di intermediari risultati poi inutili – come era prevedibile?
Per tornare a quel passato dimenticato, è vero che non c’era un governo centrale solidale sul q uale poter contare nelle emergenze. Bisognava imparare a far da sé per lo più, sapendo imparare e creando comunità credibili. Ad esempio, favorire un’immigrazione qualificata era importante. La concorrenza dei centri locali non c’era proclamata apertis verbis, ancora una volta, ma c’era nei fatti, com’era nei fatti – anche con pesanti risvolti violenti tra vicini – la tutela dei confini per le proprie bestie, i coltivi, i frutti del bosco ecc.
E quella concorrenza inespressa era stimolo fortissimo al buongoverno locale.
Le cento e più città d’Italia, grandi e piccole, che tutti ammiriamo e sul cui passato costruiamo la nostra eccezionale realtà e potenzialità turistica, hanno secoli di autogoverno variegato alle spalle9. E persino regole deprecate poi, come il fedecommesso nobiliare, che poté però garantire la conservazione di strutture immobiliari importanti attraverso i secoli…
La discontinuità con quel mondo c’è eccome oggi, ma non sempre basta a connotare in modo positivo quello attuale10
D e d i ca to a g i a n Ma ri a Va r a nini , st ud ioso molto attento alla storia dei rapporti tra i capoluoghi e i territori dipendenti, che continuerà il s u o i mp egno d i ri c erca a n c he se h a or a ter m in a to la s ua d o c en za presso l’Uni v ersit à d i Verona.
NOTE
1 Nel suo Le regioni fra stato e comunità locali, Bologna 1976, p. 5. Entro la abbondante bibliografia recente si veda Autonomie speciali e regionalismo in Italia, a cura di L. Blanco, Bologna 2020. Utile tra i periodici “Le Carte & la Storia”.
2 Nella pagina quarta di copertina, laddove concentrava il progetto-motivazione del libro.
3 Si veda al link h ttps://www.cittadinanzattiva.it /chi-siamo.html (consultato il 10 settembre 2021).
5 http://congresso2021.cittadinanzattiva.it/candidature-nazionali/segretario-nazionale.html.
6 Desumo dal link h ttps://www.fortuneita.com /2021/03/28/nuovi-vertici-per-cittadinanzattiva/.
7 Nel suo classico Che cos’è la Costituzione, ora con Introduzione di G. ZAGREBELSKy, Donzelli, Roma 1996, in cui la IV di copertina sintetizza efficacemente: «È bene che gli italiani tutti discutano appassionatamente i problemi costituzionali, ciascuno quelli che più sente… Come in tutti gli albori di nuovi assetti politici liberi, vi è una inclinazione al vago, alle formule che possono coprire le soluzioni più diverse. Bisogna, per quanto è possibile, che ciascuno cerchi di precisare le sue idee».
8 G.B. DE LUCA, Theatrum veritatis et justitiae, Venetiis, Apud Paulum Balleonium, 1716, tomus V, pars I: De usuris et interesse, adnotatio ad disc. 1, p. 10, n. 2.
9 Un rapido sguardo d’assieme nelle mie istituzioni medievali, il Mulino, Bologna 1999, pp. 327-353. Sul problema discusso delle città-Stato h o messo una nota storiografica in https://ilpensierostorico.com/afeud-on-italian-city-states-again-on-lorenzettis-buongoverno/.
10 Si veda ad esempio A. DANI, Cittadinanze e appartenenze comunitarie. Appunti sui territori toscani e pontifici di Antico regime, historia et ius, Roma 2021 (con rinvii a precedenti lavori analitici).
11 Oggi molto discusso e incentrato, per aprire prospettive positive, sulla categoria delle ‘reti’, che dovrebbero appunto avviare alla soluzione dei problemi della complessità istituzionale; ricordo ad esempio il lavoro recente molto denso di L. CASINI, Lo stato nell’era di google. frontiere e sfide globali, Mondadori, Milano 2020.
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I tempi del diritto
Fabrizio Tomada
già Consigliere di Gabinetto al Ministero della Difesa e al Senato della Repubblica
Un profilo di Giovanni Spadolini
Giovanni Spadolini oltre le sue passioni per la storia e la politica aveva una vera e propria ammirazione verso i Carabinieri.
Il suo era un attaccamento profondo nato, fin dall’infanzia, all’epoca delle scuole elementari, quando nei suoi disegni si divertiva a rappresentarli con le loro uniformi.
E questo sentimento lo accompagnò in tutto il suo mandato da Ministro ed anche dopo, da Presidente del Senato.
Una volta salito al vertice di Palazzo Madama scelse i Carabinieri come sua scorta. E consentitemi di richiamare alcuni fra i motivi importanti per i quali Spadolini nutriva una grande simpatia per i Carabinieri.
Innanzitutto perché da illustre storico quale era, li aveva sempre visti e “sentiti” presenti, ma silenziosi testimoni, attori del travagliato percorso della storia italiana dall’epoca risorgimentale fino all’Unità di Italia, fino a quella che chiameremo la maturazione degli ideali di democrazia che guidano oggi la Nazione.
In quel cammino egli coglieva con lucidità puntuale, dagli occhi della gente, dal rispetto dei governanti, la loro grande dote: la loro indiscussa fedeltà! Non senza tralasciare la piena affidabilità, il grande coraggio, il forte equilibrio, il senso di solidarietà e la grande professionalità che alimenta i valori trainanti dell’Arma al servizio delle Istituzioni da oltre duecento anni.
Spadolini apprezzava, con particolare riconoscenza, i Carabinieri per quella fedeltà
nei secoli mai venuta meno ed espressa, senza enfasi, in ogni circostanza, nella salvaguardia delle Istituzioni e dei cittadini secondo uno stile di vita sobrio e generoso nel quale, come impone la scelta del giuramento, il bene altrui è sempre al di sopra del proprio
La vicinanza ai bisogni delle persone, la capacità di relazione e di ascolto, le attenzioni, piccole e grandi, con le quali i Carabinieri rispondono alla domanda di rassicurazione sociale propria di ogni comunità: nelle città, nei paesi, fino ai borghi più lontani.
E sono queste le caratteristiche che “entusiasmavano” lo Storico, il Professore, il Ministro, il Presidente.
Affascinato dalla storia dell’Arma, ricordava, fra i tanti, il glorioso episodio della battaglia di Pastrengo, svoltasi durante la prima guerra d’indipendenza italiana, la carica di cavalleria avvenuta il 30 aprile 1848 effettuata dagli «Squadroni da Guerra» del Corpo dei Carabinieri Reali.
Una pagina del Risorgimento italiano che lo storico riconosceva come atto di ardimento di altissima importanza morale e materiale per il risultato decisivo, travolgente, e soprattutto imprevisto, che determinò il crollo della resistenza avversaria.
Uno degli episodi sicuramente più ardimentosi e decisivi della nostra storia militare e della storia dell’Arma dei Carabinieri.
E quell’azione non ebbe soltanto un semplice valore tattico, ma anche un alto signifi-
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I taliani nel mondo
cato morale, perché impresse fin da allora ai Carabinieri quel carattere che fu, è e sempre sarà la loro tradizione, la loro forza ed il loro orgoglio.
E Spadolini, i d e alm ente attratto da q uel filo rosso che ha caratterizzato e caratterizza da sempre, da duecentodieci anni , l’Arma
dei Carabinieri, protagonista dei soccorsi dopo una calamità, della speranza dopo lo sconforto, dell’ordine dopo il caos, della giustizia dopo un torto, riconosceva a questo corpo dello Stato la gratitudine per l’opera costantemente svolta a salvaguardia delle istituzioni democratiche e della civile
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I taliani nel mondo
Stefano Amore
Stefano Amore è magistrato ordinario e, attualmente, svolge le funzioni di assistente di studio presso la Corte costituzionale.
Mario Ascheri è nato a Ventimiglia il 7 febbraio 1944.
Antonio Balsamo
Antonio Balsamo, magistrato ordinario, attualmente è sostituto Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione. Fa parte della lista dei Giudici ad hoc della
È direttore dell’Osservatorio per l’analisi normativa del Comando Unità per la Tutela Forestale, Ambientale e Agroalimentare dell’Arma dei Carabinieri (C.U.F.A.); direttore della rivista scientifica “Nova Itinera. Percorsi del diritto nel XXI secolo” e vice direttore della rivista “La Nuova Procedura Civile”. È Presidente del Comitato scientifico dell’associazione F.A.B.I.I.U.S. (Friendship Association Between Italy, Israel and United States).
Fa parte del comitato direttivo della Scuola di specializzazione per le professioni legali dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”. Nel 2018 ha curato la pubblicazione del libro “Ritratti del coraggio: lo Stato
È stato assistente alla Cattedra di Storia del diritto italiano Università di Siena 1968; professore incaricato di Storia delle istituzioni politiche Università di Siena 1971; professore incaricato di Storia delle istituzioni politiche Università di Sassari 1974; professore straordinario di Storia del diritto italiano Università di Sassari 1976; professore ordinario di Istituzioni medievali Università di Siena 1979, ivi di Storia del diritto medievale moderno 1990; visiting Professor University of California in Berkeley
Corte Europea dei diritti dell’uomo. È stato Presidente del Tribunale di Palermo, Presidente della Corte di Assise di Caltanissetta (dove ha trattato i nuovi processi sulla strage di Capaci e sulla strage di via D’Amelio, nelle quali furono uccisi i Giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino), Magistrato del Massimario della Corte di Cassazione, Giudice del Tribunale di Palermo e Pretore di Palermo. Oltre all’attività giudiziaria, ha svolto una intensa attività internazionale, con gli incarichi di Consigliere Giuridico della Rappresentanza permanente di Italia presso le Nazioni Unite, Giudice della Corte Costitu
italiano e i suoi magistrati” in cui, insieme ad altri colleghi, ha tratteggiato il profilo dei 28 magistrati uccisi in Italia tra il 1960 e il 2015.
Nel 2017 ha organizzato una cerimonia in Israele, in collaborazione con KKL, in cui è stata posta una stele in memoria dei magistrati italiani assassinati
È autore di numerose pubblicazioni, tra cui alcune voci del Digesto delle Discipline Pubblicistiche UTET. È stato docente di diritto dell’informatica e di diritto penale in corsi di formazione diretti a dirigenti e funzionari delle Forze di Polizia e relatore in numerosi incontri di studio e convegni. ◼
1976, 1980, Senior Fellow School of Law; visiting Professor Tulane University, New Orleans, 1986; Professore ordinario di Storia del diritto medievale e moderno, Università Roma 3, 2003.
È stato insignito della Laurea h. c. Université de l’Auvergne, Clermont Ferrand 2003. Gli è stato conferito il Mangia d’oro della Città di Siena e il San Segundin della Città di Ventimiglia, 2003. È Componente del Consiglio scientifico dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo. ◼
zionale delle Kosovo Specialist Chambers (Tribunale Speciale per il Kosovo, con sede all’Aja), e Presidente dell’Human Rights Review Panel di Eulex Kosovo dal 2010 al 2012. E’ autore di diverse pubblicazioni, tra cui i volumi Mafia. Fare memoria per combatterla (Vita e Pensiero, Milano, 2022), La Convenzione di Palermo: il futuro della lotta alla criminalità organizzata transnazionale (con A. Mattarella e R. Tartaglia; Giappichelli, Torino, 2020). ◼
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Mario Ascheri
G li autori
Fausto Cardella
Ha iniziato la carriera in magistratura come sostituto procuratore a Marsala, dove si è occupato del processo per il sequestro, in ambito mafioso, dell’esattore Luigi Corleo. Ha poi svolto funzioni di giudice, anche presso la Corte Suprema di Cassazione, scrivendo la sentenza con la quale è stata confermata la
Paul Bodenham è dal 2000 iscritto all’Albo degli Avvocati di Roma e Barrister presso l’Inner Temple di Londra. È autore di diversi articoli in materia di proprietà intellettuale, nonché “Lead Consultant” della guida dell’Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale sui diritti di proprietà intellettuale in campo agroalimentare intitolata “Intellectual Property for Agri food Small and Medium Enterprises”.
È stato General Counsel dell’Organizzazione Mondiale degli Agricoltori dal 2012 al 2017.
Ha conseguito nel 2022 presso l’Università Ludwig Maximilian di Monaco di Baviera un Master sulle istituzioni di diritto tedesco (“Aufbaustudium in den Grundzügen des deutschen Rechts”). Fa parte del network internazionale di avvocati “International Law and Contract Consulting”. ◼
condanna del terzo autore della strage di Bologna. Procuratore della Repubblica a Tortona, a Terni, a L’Aquila, ove ha svolto le indagini sulla ricostruzione post terremoto e su una associazione eversiva di estrema destra; ha concluso la carriera come procuratore generale della Repubblica dell’Umbria. Applicato alla Direzione Distrettuale Antimafia di Caltanissetta, nel novembre 1992, con Ilda Boccassini, magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, anch’essa applicata presso la procura siciliana, ha partecipato alle indagini sulle stragi in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e le loro scorte. In Umbria ha svolto le indagini sulla corruzione nella Pubblica Amministrazione, sul sequestro di persona
a scopo di estorsione di un ricco possidente, Augusto De Megni, e sull’omicidio del giornalista Carmine Pecorelli. Il 7 novembre 2015 gli è stato conferito il “PREMIO BORSELLINO”. Il 9 aprile 2019, la Città di Imola gli ha conferito un premio, quale “riconoscimento unito ai sentimenti di stima e profonda ammirazione e gratitudine per il lavoro e la dedizione di una vita nella lotta alla criminalità organizzata ed al perseguimento dei valori della legalità”. È Garante di Ateneo presso l’Università degli Studi di Perugia. È Presidente della Fondazione Umbria per la Prevenzione dell’Usura ETS. ◼
Luca De Compadri è iscritto all’Ordine dei Consulenti del Lavoro di Mantova dal 1991. Nel 1987 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, per poi diventare avvocato nel 1995. Ha rivestito il ruolo di Presidente del Consiglio Provinciale dell’Ordine di Mantova dal 1998 al 2014, anno in cui è entrato a fare parte del Consiglio Nazionale dell’Ordine. Il 7 novembre 2023 è stato nominato Vicepresidente del
Consiglio Nazionale dell’Ordine. E' coordinatore scientifico della rivista giuridica dell'Ordine "Leggi di Lavoro" e ha pubblicato i volumi “Il curatore fallimentare. Adempimenti tributari, previdenziali e del lavoro” (Giuffrè Editore, 1995) e “Il ruolo del Consulente del Lavoro nel processo civile. La gestione amministrativa e giudiziaria dell’opposizione ad ordinanza ingiunzione” (Teleconsul Editore, 2007). ◼
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Luca De Compadri
Paul Bodenham
Vittoria Drosi
Giuseppe Giove
Già Comandante Regione Carabinieri Forestale Emilia Romagna e Lombardia, ha espletato numerose
Marco Impellizzeri
Marco Impellizzeri nato a Caltanissetta il 15 maggio 1976, è dirigente del ruolo tecnicoscientifico della
Vittoria Drosi, è dottoranda di ricerca in “Diritto e Impresa” (profilo di diritto penale) alla Luiss Guido Carli di Roma, dove, precedentemente, ha conseguito il master in Diritto Penale e Impresa. È inoltre abilitata all’esercizio della Professione forense presso la Corte di Appello di Roma.
Ha svolto il tirocinio ex art 73 d.l. 69/2013 presso la Corte di Appello di Roma – Quarta sezione pe
nale e, attualmente, sta svolgendo uno stage in Corte costituzionale, avendo come affidatario il vice Presidente della Corte, Prof. Avv. Giulio Prosperetti. ◼
indagini di rilievo nazionale e internazionale con Procure territoriali ed antimafia. È Ingegnere ambientale e Avvocato.
Insignito del Premio Nazionale “Ambiente e Legalità” per la lotta alle Ecomafie nel 2016, autore di testi (“Gli Atti Polizia Giudiziaria”, “La Tutela dell’Ambiente nel Ciclo dei Rifiuti” Giuffrè, “Profili del Nuovo Diritto Agrario e dell’Ambiente”Giuffrè) e di numerose pubblicazioni in diritto ambientale e agroalimentare. Docente di diritto penale ambientale presso le Scuole dell’Arma dei Carabinieri e presso l’Università
degli Studi di San Marino (Master in Criminologia).
Ha fatto parte di importanti Commissioni nazionali di studio sulle ecomafie e sulle questioni ambientali. Attualmente presiede un Osservatorio Ambientale presso il Ministero dell’Ambiente ed è componente dell’Osservatorio per l’analisi normativa del C.U.F.A. dell’Arma dei Carabinieri. ◼
Polizia di Stato. Laureato in Scienze dell’informazione, ha conseguito i master di II livello in Sistemi e Tecnologie Elettroniche per la Sicurezza, la Difesa e l’Intelligence presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata ed in Ingegneria Gestionale presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. In servizio da un decennio presso la Direzione Centrale della Polizia Criminale si è occupato di progetti ICT in ambito interforze, attualmente collabora alla realizzazione del programma nazionale di attuazione dell’interoperabilità dei si
stemi informativi dell’U.E. in tema di visti, migrazione e sicurezza. È stato docente per il Master in Security Awareness presso l’Università degli Studi di Cagliari, in tema di interoperabilità, anche ai corsi di formazione per funzionari e ufficiali delle Forze di polizia. Collabora con l’Agenzia europea CEPOL in qualità di esperto.◼
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Francesco Lotoro
Pianista e docente di pianoforte presso il Conservatorio di Musica N. Piccinni di Bari, a partire dal 1988
Pierluigi Sanna
Sindaco di Colleferro dal 2015 e Vicesindaco della Città Metropolitana di Roma capitale dal 2021, grazie
Massimiliano Siddi
Massimiliano Siddi è magistrato ordinario, attualmente con funzioni di sostituto Procuratore della Repub
Francesco Lotoro ha intrapreso un progetto di recupero, esecuzione e promozione della Letteratura musicale creata dal 1933 al 1953 in Ghetti, Lager, Gulag, Campi di prigionia militare e altra tipologia. Con sua moglie Grazia Tiritiello ha fondato nel 2002 l’Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria di Barletta, oggi Fondazione. Autore dell’Enciclopedia in 24 CDvolumi KZ Musik, ha scritto Suite ebraica per cantore e orchestra, Requiem per soli, organo, pianoforte e orchestra, l’opera in due atti Misha e i Lupi e 12 Studi su un tema di Paganini per
pianoforte. Sulla sua vita e le sue ricerche Thomas Saintourens ha pubblicato nel 2011 il libro Le Maestro, nel 2017 è stato realizzato il documentario The Maestro, nel 2019 la CBS gli ha dedicato 30 minuti nella trasmissione 60 Minutes. Nel 2020 il Simon Wiesenthal Center di Los Angeles ha assegnato a lui e sua moglie la Medal of Valor già conferita a Ben Gurion, Yitzhak Rabin, Shimon Peres, Raoul Wallenberg, Winston Churchill, Giovanni Paolo II, Andrei Sakharov. Nel 2022 ha pubblicato per Feltrinelli il libro Un canto salverà il mondo ◼
agli studi in lettere ed alle numerose esperienze in ambiti associativi e di volontariato ha sviluppato capacità di ascolto, confronto e di risoluzione delle problematiche. Durante il primo mandato da sindaco di Colleferro ha ottenuto la chiusura della discarica, tra le più grandi della regione Lazio, riuscendo a trasformare e sviluppare la città, da sempre a vocazione industriale, nei settori riguardanti l’economia aerospaziale e la logistica, come ben rappresentato dalle aziende che hanno investito su tutto il territorio di Colleferro. Nel 2022 dopo un
blica di Viterbo dal 2008, dopo avere svolto dal 1998 le stesse funzioni presso la Procura della Repubblica di Macerata. Laureato anche in filosofia, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Diritto Ecclesiastico e Canonico. Nel corso della XVII legislatura parlamentare (2013 2018), ha svolto le funzioni di consulente della Commissione Parlamentare di inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, in seno alla quale si è occupato, in particolare, delle vicende relative all'agguato di Via Fani, dei rapporti delle Brigate Rosse con la R.A.F. tedesca e del
lungo ed importante lavoro, Colleferro è stata la prima capitale europea dello spazio italiana, con la presidenza all’interno di CVA (Community of Ariane Cities). Sempre attento ai bisogni ed alle necessità della comunità, nella sua azione amministrativa e politica sono centrali i temi riguardanti la scuola, l’am
biente e la cultura, fondamentali per lo sviluppo della società civile. ◼
ruolo di quest'ultima nell'agguato stesso, svolgendo, su delega della Commissione, specifiche indagini e formulando proposte investigative. Nel corso dell’anno 2008 è stato membro del Consiglio Giudiziario della Corte d’Appello di Ancona e dal 2016 al 2020 è stato membro del Consiglio Giudiziario della Corte d’Appello di Roma. È stato più volte relatore nell’ambito di convegni, di incontri di studio e di formazione. ◼
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Fabrizio Tomada
Fabrizio Tomada ha lavorato per molti anni presso primarie società energetiche a livello nazionale ed internazionale. Precedentemente ha avuto esperienze nel settore
dello spazio e delle telecomunicazioni, ricoprendo negli anni 90 posizioni di vertice presso la finanziaria delle telecomunicazioni IriStet. Successivamente ha svolto il ruolo di responsabile dei mercati internazionali presso l’Agenzia Industrie Difesa.
In precedenza è stato Consigliere di gabinetto dal 1983 al 1987 al Ministero della Difesa (Ministro Giovanni Spadolini) e, dal luglio 1987 al 1994, presso il Senato della Repubblica (Presidente Giovanni Spadolini). Nel 1995 è stato Consiglieresegretario presso il Ministero degli Affari Esteri (Ministro Susanna Agnelli).
Terminate le esperienze istituzionali è stato chiamato al GSE (Gestore dei Servizi Energetici, società capogruppo interamente posseduta dal Ministero dell’Economia e delle Finanze) a dirigere le attività istituzionali nel settore delle energie rinnovabili, con particolare attenzione allo sviluppo delle attività a livello nazionale ed internazionale. Ha poi diretto l’area vigilanza e tutela aziendale in qualità di Responsabile per la prevenzione della corruzione e trasparenza dell’intero gruppo GSE (società Acquirente Unico società Gestore Mercati Energetici; società Ricerca Sistema Ener
getico). ◼
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