Occhio all'arte (novembre 2016)

A cura dell’Associazione Arte Mediterranea - anno IX N° 98 novembre 2016

Mensile d’informazione d’arte

www.artemediterranea.org

nin mostra:

Antonio Mancini: genio ribelle Antonio Mancini, “Bambina con fazzoletto giallo”, 1876

ncinema: Blue velvet nin mostra: Edward Hopper

nocchio al libro: Fahrenheit 451

Per sponsorizzare “Occhio all’Arte”

Telefona al 347.1748542

Associazione ARTE MEDITERRANEA Aprilia - PROGRAMMA CORSI 2016-2017 CORSO FOTOGRAFIA ORGANIZZATO DA ASS.FOCUSFOTO MARTEDI’-MERCOLEDI’-GIOVEDI’VENERDI’ 20,30-22,30

CORSO DISEGNO 1° ANNO MARTEDI’-GIOVEDI’ 09,00-11,00 18,00-20,00 CORSO ACQUERELLO MARTEDI’-GIOVEDI’ 18,00-20,00 CORSO ACQUERELLO AVANZATO LUNEDI’-MERCOLEDI’ 18,00-20,00

CORSO DI DISEGNOFUMETTO-SCENEGGIATURA ORGANIZZATO DA SCHOOL COMIX APRILIA SABATO 10,30-18,45 CORSO DI YOGA DELLA RISATA MERCOLEDI’ 20,30-21,30

CORSO INTARSIO SU LEGNO MARTEDI’-GIOVEDI’ 18,00-20,00

CORSO DI ANATOMIA PER ARTISTI Ins. Antonio De Waure

CORSI IN ORARIO DA DEFINIRE

CORSO DI PROSPETTIVA Ins. Giuseppe Di Pasquale

Mensile culturale edito dalla Collaboratori Associazione Arte Mediterranea Patrizia Vaccaro, Laura Siconolfi, Via Muzio Clementi, 49 Aprilia Maurizio Montuschi, Greta Marchese, Tel.347/1748542 Giulia Gabiati, Valerio Lucantonio, occhioallarte@artemediterranea.org Martina Tedesch, Nicola Fasciano, www.artemediterranea.org Maria Centamore, Giuseppe Chitarrini Francesca Senna, Alex Baltag Aut. del Tribunale di Latina N.1056/06, del 13/02/2007 Responsabile Marketing Fondatori Cristina Simoncini Antonio De Waure, Maria Chiara Lorenti Composizione e Desktop Cristina Simoncini Publishing Giuseppe Di Pasquale Amministratore Antonio De Waure Stampa Direttore responsabile Rossana Gabrieli Responsabile di Redazione Maria Chiara Lorenti

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Associazione Arte Mediterranea via Dei Peri, 45 Aprilia

Tutti i diritti riservati.

E’ vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell’editore

INCONTRO CON L’ARTISTA 4 LEZIONI SU LA STORIA E LA TECNICA PITTORICA DI 4 ARTISTI PIU’ SIGNIFICATIVI Maestro Riccardo Parisi

WORKSHOP RICORDO…GRAZIE A QUESTA PENNA Incontro di scrittura creativa Domenica 13 novembre 2016 10,30-13,00 14,00-17,00 WORKSHOP IN ORARIO DA DEFINIRE ATMOSFERA DI UN PAESAGGIO Maestro Marco Rapone

CORSO DI CERAMICA Ins. Ivana Barsciglie’

Redazione Maria Chiara Lorenti, Cristina Simoncini, Giuseppe Di Pasquale, Stefania Servillo

CORSO DI CERAMICA BASE Maestra Ivana Basciglie’

4 INCONTRI DISEGNO E PITTURA PER BAMBINI Maestra Sabrina Carucci

CORSO OLIO LUNEDI’-VENERDI’ 18,00-20,00 20,00-22,00 MARTEDI’-GIOVEDI’ 09,00-11,00 18,00-20,00

CORSO DISEGNO PER BAMBINI LUNEDI’-MERCOLEDI’-VENERDI’ 18,30-20,00

CORSO MODELLAZIONE CERA SBALZO E CESELLO Maestro Rosario Luca Salvaggio

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Sommario “Il cappotto” Edward Hopper Luca Luce Antonio Mancini: genio ribelle Blue Velvet “Figure del mito” “L’avvelenatrice” Fahrenheit 451 Quattro passi tra i sipari Le catacombe di via Casilina dei ss. Pietro e Marcellino sul filo di china “Guerre stellari: Star wars. Play!”

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occhio al libro

“Il cappotto”

di Nikolaj Vasil’evič Gogol’ di Francesca Senna

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l Cappotto fa parte dei Racconti di Pietroburgo dello scrittore ucraino di lingua russa Nikolaj Vasil’evič Gogol’. Fu pubblicato nel 1842.

Ne Il cappotto si trova quella che può essere definita una summa della comicità irridente di Gogol’, maestro di tale importanza da dare impeto alle future produzioni e che è stato riconosciuto come modello per generazioni di autori.

L’autore irride i vari strati della società, rappresentandoli corrotti, viziosi e involontariamente ridicoli. Il brano ha poi dato spazio a numerose polemiche letterarie, in quanto molti hanno visto in esso una prima scintilla di quella che sarà la grande stagione della letteratura filantropica russa. Secondo quanto sostenuto dalla critica, Gogol’ ci propone “semplicemente” un enorme gioco letterario, una gigantesca apologia del grottesco creata al fine di far ridere attraverso le lacrime; da qui viene messo alla base del moderno realismo russo.

Il Cappotto racconta, per mezzo di un linguaggio molto vivace, la vicenda umana di Akakij A., impiegato di basso rango, che dai suoi colleghi non riceve alcuna forma di considerazione e rispetto anzi, è pesantemente preso in giro per la sua passione maniacale per il lavoro.

Il protagonista si trova in difficoltà nel momento in cui è costretto a comprarsi un nuovo cappotto, poiché il suo è talmente logoro e leggero da essere inutilizzabile tanto da essere definito “una vestaglia”.

Un nuovo acquisto dello stesso rappresenta – dopo varie vicissitudini - motivo di gioia e vanto per il protagonista, qualcosa per cui vale la pena impegnarsi con sacrifici vari e che gli dà ragione di vivere oltre il lavoro quotidiano.

Gli eventi mettono in luce un personaggio allo stesso tempo

comico e grottesco, anche se poi a ben vedere la comicità è solo apparente: il personaggio è in realtà l’emblema della tragicità: tragicità che raggiunge la sua apoteosi nel finale surreale del racconto.

L’opera risente del clima letterario che caratterizza la Russia di inizio secolo (XIX), in cui si era imposta una tradizione sviluppata intorno a due temi fondamentali: quello morale del «pover’uomo» dal destino offeso, umiliato; e quello satiricodidascalico del funzionario (impiegato) del tutto privo di importanza, senza valore.

Intento principale nel testo, non è la denuncia sociale, ma la descrizione di una situazione esistenziale tragica, che, attraverso la figura del protagonista, tematizza il disagio e il male del vivere umano. Personaggi che conducono esistenze inautentiche e povere, qualora privati dei lustrini e degli oggetti che possiedono o dei gradi che ricoprono, per i quali, qualsiasi imprevisto più o meno drammatico, si rivela pericolosamente destabilizzante. Ma non sono gli uomini cattivi, è l’ambiente e il ruolo sociale da essi ricoperto, il rapporto di gerarchia e di potere, che li rende tali.

La “debolezza” di Akakij A e la crudeltà degli altri servono a rappresentare una struttura sociale che è propria di ogni società, nella misura in cui una struttura sociale è anche una struttura di potere e lì dove il principio del «dominio» e del «potere» prevale sulla speranza o sulla fratellanza.

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Edward Hopper

L’artista americano e la settima arte di Laura Siconolfi e Maurizio Montuschi

Edward Hopper - 1925 - Casa vicino alla ferrovia

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latee e gallerie di cinema e di teatro, prima o durante lo spettacolo, col sipario ancora abbassato, durante l’ intervallo, con file di poltrone vuote o con avventori sparuti e d i s t a n t i , p o p o l a n o a l c u n e t e l e d i H o p p e r, a r t i s t a dalla pittura rigorosa, oggettiva e nello stesso tempo metafisica. Vissuto in un’epoca dominata dalle avanguardie, soprattutto dall’astrattismo, ha elaborato un suo stile inconfondibile, realista, con il quale è riuscito a trasmettere la vera essenza d e l l ’A m e r i c a m o d e r n a . L a t r i s t e z z a d e l p a e s a g g i o urbano di domenica, i luoghi anonimi come i d i n e r, l e c a m e r e d ’ a l b e r g o e d i m o t e l , l o s q u a l l o r e della vita quotidiana, l’alienazione, la solitudine anche in una sala cinematografica. Nei suoi quadri caratterizzati da architetture spigolose, da inquadrature foto o cinematografiche, compaiono

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pochissimi personaggi, sempre isolati e persi nel l o r o s i l e n z i o c o m e i n “ C i n e m a a N e w Yo r k ” d e l 1939. Chi osserva la tela coglie sia l’asimmetricità dell’insieme, sia la monumentalità della sala composta da un palco, da un soffitto decorato con stucchi rossi o dorati, colonne, tende, sontuosità che stride con il vuoto della stessa. A mala pena, infatti, si distinguono due sagome: un uomo e una donna seduti in file differenti. Il cinema di Hopper non è meno desolato di ”Gas” 1940, o del locale de “I nottambuli” del 1942. Il film proiettato sullo schermo è solo un’ombra confusa di colore grigio azzurro. A destra, la luce di un lampadario illumina la scala, che conduce alla galleria, chiusa da due tende rosse accostate, e una donna immobile, una mascherina in divisa, immersa nei suoi pensieri, indifferente al film che si proietta al di là della

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in mostra

Edward Hopper - 1939 - Cinema a New York parete laterale, che la isola dalla platea.

Ancora una donna al centro di un quadro: é sola all’interno di una sala di proiezione; il sipario chiuso non le permette di vedere; nella parte spoglia dietro di lei, s’ intravede un’uscita di sicurezza. Lei stessa dà l’impressione di abbandono; Il colore chiaro e freddo della parete e del soffitto domina la tela: solo le poltrone, il pavimento e il palco hanno colori più caldi e sottolineano la direzione dello sguardo sullo schermo, nonostante proprio a lei, durante la pausa, sia impossibile guardarlo, “Intervallo” 1963.

Il rapporto tra l’artista e la settima arte non si ferma ai soggetti dei suoi quadri; non è, infatti, una novità che molti registi hanno preso spunto dalle sue opere per definire gli scenari delle proprie p e l l i c o l e , s o p r a t t u t t o q u e l l e n o i r. H i t c h c o c k , a d esempio, nell’ immaginare il famoso”Bates Hotel” dove è ambientato il suo capolavoro “Psycho” si è ispirato al dipinto ”Casa vicino alla ferrovia” del 1925. La casa effigiata, di un ordine architettonico

anteriore alla ferrovia, sembra appartenere a una città fantasma, isolata su di una superficie estesa e priva di alberi. La torre, la facciata coperta dal tetto e la veranda laterale, pensate in origine, molto probabilmente, per godere di una natura libera, sono rivolte in direzione della linea f e r r o v i a r i a . L’ i m p r e s s i o n e d i d e s o l a z i o n e è t a n t a , anche perché il tratto di ferrovia che taglia la parte bassa del quadro, appare come un pezzo di natura distrutta. I forti colori dei binari arrugginiti e della carreggiata sono in evidente contrasto con i colori pallidi grigio-bluastri della casa. Spiccano i comignoli rosso fuoco, colore che diventa un simbolo ”per qualcosa che é perduto, un ultimo ricordo che ci rammenta che alle case si associano l a v i t a e g l i u o m i n i ”.

Al Complesso del Vittoriano è stata allestita una m o s t r a s u E d w a r d H o p p e r, v i s i t a b i l e f i n o a l 1 2 0 2 - 2 0 1 7.

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Luca Luce

Illusioni ottiche in palmo di mano di Cristina Simoncini

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ueste pitture tridimensionali altamente realistiche sono opera dell’artista italiano Luca Luce. Truccatore di professione, egli usa la sua vasta conoscenza di colori e sfumature per creare illusioni ottiche surreali sul palmo della sua mano. L’artista italiano ha lavorato come truccatore in televisione per 15 anni. Ha avuto la passione del disegno in 3D fin dall’infanzia, ma solo nel corso degli

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ultimi anni anni ha iniziato a dipingere le sue creazioni “trompe-l’oeil” su se stesso. I suoi disegni creativi sono realizzati con un normale kit per il trucco e Luca utilizza una matita per gli occhi per disegnare gli elementi di base.

Poi applica i colori con l’ombretto e aggiunge più ombre per creare l’effetto 3D. Per realizzare i disegni di solito impiega solo 30 minuti,

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ma completare il processo può richiedere fino a un’ora se ci sono un sacco di dettagli. Le opere che Luca dipinge sono immagini realistiche con una prospettiva distorta che può essere apprezzata solo da chi le indossa. Le sue illustrazioni ritraggono cose come piccoli animali che dormono nel palmo della sua mano, pelle sollevata per rivelare prese elettriche, personaggi animati come Jack Skellington, e altre combinazioni di fantasy e horror. Alcune delle sue immagini non sono per gli schizzinosi, con nastri che sembra si insinuino sotto la sua pelle

curiosArt

o quello che sembra essere una mano più piccola che striscia fino nel palmo della mano. Dato che il suo lavoro è impermanente fino a quando il trucco svanisce (o lui ha bisogno di usare la propria mano), Luce documenta la sua arte in selfie che inserisce nei messaggi sui suoi social media e con video sul suo canale Youtube.

Fonti: www.odditycentral.com www.youtube.com/user/LucaLuceArtist

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Antonio Mancini: genio ribelle “sono io lo scugnizzo!” di Maria Chiara Lorenti

Antonio Mancini, “Ragazzo povero con una statuetta”, 1875

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in mostra

Antonio Mancini, ““Ritratto di ragazzo”, 1878

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ra questi fanciulli imberbi ce n’era uno in particolare che attirava l’attenzione e la curiosità di Morelli.

Tredicenne appena, nell’ultimo banco, alto come un soldo di cacio, malvestito, capelli arruffati, mani sporche, taciturno, ma attentissimo alle spiegazioni ed ai richiami del maestro verso gli altri allievi. Il suo nome era Antonio Mancini...” Morelli racconta che Mancini era il primo ad entrare in classe, mai un ritardo anche se poi si accomodava sempre all’ultimo banco...Era particolarmente interessato allo studio della luce sulle stesure pittoriche ad impasto o monocromatiche. A volte abbandonava il pennello per schiacciare direttamente il colore con le dita.

Questo era l’unico momento in cui l’insegnante lo richiamava ad una più rigida osservanza della tecnica pittorica con gli strumenti, però, proseguiva nel suo racconto Morelli, anche quando si abbandonava a questi eccessi, la sua tavolozza non sfiorava la perfezione: era perfetta...sulle piccole prove di Mancini (Morelli) non azzardava a posare il suo pennello, tanto che un giorno, con un ironico sorriso, sbottò in strettissimo dialetto napoletano: “ Io a questo ragazzino non posso insegnare nulla perchè è un genio”. A riprova di ciò esiste un interessante episodio che la dice lunga sulla stima di Morelli verso il suo allievo. Mancini, abituato alla fame e agli stenti, portava a vendere le sue tavolette ad un paio di saponari strozzini di via Costantinopoli che le acquistavano per un piatto di lenticchie. Si trattava di piccole opere del raffinato e magistrale periodo napoletano. Venuto a conoscenza di questi episodi, Morelli, in gran segreto, mobilitava un paio di amministrativi dell’Accademia per l’acquisto delle tavolette cedute da Mancini per un tozzo di pane, con la preghiera, previe terribili ritorsioni, del riserbo più assoluto sull’acquirente finale di questi piccoli gioielli.

Tale tortuoso meccanismo perchè Morelli temeva che se Mancini fosse venuto a conoscenza di questo interesse per le sue opere, si sarebbe prodigato a donare all’amato maestro tele più grandi e significative, venendo così a mancare la spontaneità, l’immediatezza che erano il pregio di quei minuscoli capolavori che Mancini barattava per mangiare.” dal libro di Domenico Di Giacomo “Antonio Mancini la luce il colore”.

Ma non solo Domenico Morelli, valente pittore napoletano, si

Antonio Mancini, “Lo studio”, 1875 era accorto della maestria e genialità del giovane allievo, più tardi anche il grande artista americano John Singer Sargent, parlando di lui, disse:”Ho conosciuto in Italia il maggior pittore vivente”.

In questi giorni a Milano, presso la Galleria Bottegantica, fino al 18 dicembre, c’è la mostra personale “Antonio Mancini.

Genio ribelle”. Una rassegna sul maestro ottocentesco che consta su una quarantina di opere provenienti da collezioni private, molte delle quali non conosciute dalla maggior parte del pubblico. Curata da Stefano Bosi ed Enzo Savoia, l’esposizione è un escursus della sua lunga carriera artistica, che va dal primo periodo napoletano, famoso per i ritratti degli scugnizzi, laceri, sporchi ed emaciati, con quel velo di tristezza negli occhi, quell’aria sempre affamata, così simili a lui, gravati dalle stesse esperienze e sofferenze, ma purtroppo per loro non dello stesso estro pittorico.

Prosegue l’iter creativo con le tele dipinte negli anni passati a Roma, dove le tonalità cromatiche si stemperano e si chiarificano i contrasti chiaroscurali. La sua ricerca sulla tecnica del colore lo porta a sperimentare diverse stesure, non solo nella corposa matericità dell’impasto cromatico, ma anche nell’uso polimaterico dei materiali, in quanto, per un periodo, alla miscela cremosa e pastosa dei colori utilizzati aggiungeva elementi estranei quali piccoli pezzi di corallo, schegge vetrose ed altro materiale, a seconda dell’ispirazione. Seguono gli anni passati a Londra, ospite di Sargent, che lo introduce nel mercato inglese; continua con frequenti viaggi in Olanda e affinando sempre più gli effetti luce-ombra nei suoi ritratti, dovuti anche alle influenze impressionistiche degli anni passati a Parigi. Concludono questo lungo viaggio nella carriera artistica di Mancini, i quadri dell’ultimo periodo, passati a Frascati e a Roma, dove non pago continua a lavorare sulla plasticità della figura.

La mostra è un’occasione per riscoprire la sensibilità di questo prolifico pittore, che usava il colore per trasporre il proprio io nei ritratti eseguiti, fossero macilenti ragazzini dei sobborghi di Napoli o persone altolocate di nobili natali, imprimendo in ognuno di loro un pezzetto della sua anima.

P.S. L’esposizione è gratuita.

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Blue Velvet

Luci e ombre della nuova America di Valerio Lucantonio

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itenuto uno dei migliori film degli anni ‘80, Velluto Blu ha il merito non solo di essere un’opera di pregiata qualità audiovisiva, ma anche quello di riunire in sé un intero mondo esterno alla storia concreta, diventando un manifesto che offre uno scorcio su tutti i fattori che ne hanno determinato la creazione, quello che di solito viene definito un “film seminale”, che dopo essere esploso fragorosamente nel panorama cinematografico americano ha sparso le sue schegge in ogni direzione: basti pensare che si tratta della prima collaborazione con il compositore Angelo Badalamenti, che formerà con Lynch uno dei sodalizi più riusciti della storia del cinema grazie alla perfetta sintonia con il mondo interiore dell’autore; Velluto blu fu anche il trampolino di lancio per le carriere di Isabella Rossellini e Laura Dern (entrambe torneranno almeno una volta nella filmografia del regista di Missoula) e l’occasione di riscatto per Dennis Hopper (appena uscito da una fase critica del suo lungo rapporto con la droga) e per David Lynch stesso.

Infatti il regista era reduce dal clamoroso flop di Dune, esperienza che determinò la sua decisione di non farsi mai più soggiogare dalle necessità produttive con le quali il cinema Hollywoodiano ha sempre dovuto fare i conti; Blue Velvet costituisce per Lynch sia il ritorno alle origini (dopo il leggendario Eraserhead, questo è il primo film a far riemergere completamente la poetica personale del cineasta) sia lo slancio verso il futuro: le tematiche che in La mente che cancella erano solo abbozzate, più intuitive che ragionate, qui prendono per la prima volta una forma definita, che forza leggermente la struttura narrativa classica senza disintegrarla, come succederà in altri film come Lost Highway o Mulholland Dr..

L’idilliaca Lumberton è un prototipo della cittadina che diventerà famosa con Twin Peaks, il personaggio di Frank è il primo (e forse più riuscito, grazie a un Dennis Hopper in stato di grazia) personaggio di Lynch ad incarnare la figura paterna del potere autoritario e repressivo, la colonna sonora contaminata da una irrefrenabile nostalgia per la musica anni ‘50 e ‘60 detta il modello per quelle successive (soprattutto Wild at heart), e la regia sembra per la prima volta adottare soluzioni (come la celeberrima scena del carrello che entra dentro l’orecchio) che definiranno le atmosfere dell’intera opera del regista.

Aldilà dell’importanza che il film ha avuto come fenomeno, non se ne

cinema

deve perdere di vista la grandezza come opera cinematografica a sé, capace di sollecitare lo spettatore con ogni strumento che il cinema ha a disposizione, forzandone i limiti e arrivando a interessanti ed innovative soluzioni di regia e montaggio: in opposizione al cinema muscolare e spettacolare suo contemporaneo, Velluto Blu sposta la carica attrattiva dalla superficie allo strato più profondo del presente, rivelandone il marciume e la perversione: è un film voyeurista sul voyeurismo che, come il protagonista interpretato da Kyle MacLachlan (alter ego di Lynch), non sa se essere un detective o un pervertito, rimanendo a metà tra l’essere una critica sofisticata e l’inevitabile apprezzamento della violenza come potente forma di espressione dell’interiorità; forse è proprio questa la genialità della pellicola, che allo stesso modo presenta entrambi i lati di Lumberton (e della società contemporanea), quello paradisiaco e quello infernale, come due livelli di realtà paralleli e sovrapposti in cui le soglie (come in ogni film di Lynch) possono celarsi dove meno ce lo aspettiamo, e l’orrore è sempre presente.

Oltre al voyeurismo l’altro grande tema trattato esplicitamente è quello del complesso di Edipo, mai portato in scena a simili livelli grazie al trio MacLachlan-Rossellini-Hopper, anche se Lynch tira in causa Freud solo come strumento, infatti il fulcro del film è un altro: il nostro protagonista affronta un percorso di crescita che è messo a dura prova dalle sue pulsioni (incarnate dal personaggio iconico ed indimenticabile della Rossellini, qui nel suo primo ruolo importante), per poi riconciliarsi nel finale con la vita piatta e patinata dell’America provinciale.

Questo lieto fine geniale travalica i limiti del testo filmico grazie alla potenza delle immagini a cui abbiamo assistito: anche se la pellicola sembra dire altro, è qui che Lynch ci dimostra nel migliore dei modi uno dei tratti fondamentali del suo cinema, cioè la supremazia delle sensazioni e delle atmosfere sulle informazioni e sugli eventi concreti; per quanto la vita del personaggio sia tornata alla normalità, dopo ciò che abbiamo visto niente sarà più come prima.

Con il finale di Velluto Blu viene scardinato il principio di immedesimazione con il protagonista, che lascia il posto a un processo molto più simile alla sostituzione, e che Lynch approfondirà brillantemente nei suoi film successivi fino ad arrivare all’apoteosi di Lost Highway.

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occhio al libro

“Figure del mito” di James Hillman di Giuseppe Chitarrini

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redo sia cosa scontata e risaputa il fatto che il Mito svolga da sempre un’importante influenza –diretta o indiretta- sull’agire umano. Il materiale mitico sedimentato nel corso dei tempi nell’inconscio collettivo dell’uomo (anche nell’uomo che abita le nostre società ipertecnologiche, postmoderne e globalizzate); ispira, indirizza, informa, agisce in ogni ambito della produzione materiale, intellettuale-immaginativa e dell’azione quotidiana. Nell’arte poi occupa un posto privilegiato sia nel suo studio, nella critica e nella storia, sia nella sua fattiva produzione figurativo e no, nella musica, nella coreutica, nella letteratura, nel cinema ecc. Per questo lo studio e la riflessione sul Mito è importante, e questo libro, di un grande filosofo e psicoanalista da poco scomparso, offre un non trascurabile ‘tesoretto’ conoscitivo.

J.Hillman, filosofo e psicoanalista ad indirizzo junghiano ed esistenziale, traccia in questo denso e voluminoso saggio, un percorso iconografico e mitografico di esplorazione della narrazione archetipica: il repertorio mitico della classicità e dell’antica Grecia quale matrice psichica di tutto il nostro occidente; e lo fa da

psicologo, lambendo i margini della riflessione filologica classica, di certa filosofia e sfiorando alcuni aspetti dello studio antropologico culturale. Illustrando, man mano, come la poiesis del mito, sepolto in quello che viene definito l’inconscio collettivo, generi o plasmi quelli che sono le varie forme sociali odierne, contribuendo alla costruzione dei rapporti e dinamiche interpersonali, e alla formazione, elaborazione, sviluppo e deperimento di quasi tutte le istituzioni attuali informali e formali della vita pubblica e della vita del singolo. Lo studioso di miti J. Campbell – più volte citato in questo libro di Hillman-, definiva il mito come una permanenza di tutte le società e le epoche, anche le nostra contemporaneità desacralizzata e disincantata. Capace oggi come ieri, di sviluppare, tra le altre cose, diverse funzioni: di queste quattro principali che sono la funzione mistico-religiosa-cosmologica, la funzione educativa-pedagogica, quella della riproduzione e della morfogenesi sociale, e, non da ultima, quella concernente lo sviluppo delle doti creative, ludiche, immaginative, estetiche ed artistiche.

“L’avvelenatrice” Di Alexandre Dumas di Francesca Senna

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omanzo storico del grande scrittore francese, poco conosciuto, ma di grande intensità narrativa.

Tra il 1839 e il 1840, Alexandre Dumas, decise di lanciarsi, da grande sperimentatore qual era, in un genere letterario ancora nuovo, ma destinato a riscuotere un grande successo, quello del romanzoinchiesta su crimini efferati e storicamente celebri.

Il primo volume dei Crimes célèbres (Crimini celebri) fu dedicato ai Borgia e ai loro veleni, il successo fu tale che ben presto Dumas si trovò a scriverne uno dopo l’altro: uno di questi fu proprio La marquise de Brinvilliers o L’avvelenatrice, dedicato a MarieMadeleine d’Aubray, marchesa di Brinvilliers.

La marchesa fu definita come il serial-killer francese del XVII secolo, e il suo processo fu solo uno dei più noti del clamoroso “Affare dei veleni”, in cui risultarono coinvolti molti notabili di Francia, inclini a risolvere i problemi esattamente al modo dei Borgia, con una buona dose di pozioni fatali.

Marie-Madaleine d’Aubray -L’avvelenatrice tentò di avvelenare, il padre, i fratelli, la sorella, una cameriera e, secondo Dumas, anche diversi sconosciuti, che furono semplici cavie dei suoi mortali rimedi, il tutto allo scopo di ottenere una eredità più cospicua e la libertà di vivere in compagnia del suo demoniaco amante. Ed è da costui che

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apprende l’arte di maneggiare i veleni; con queste conoscenze i due avvelenano lentamente tutta la famiglia di lei.

La vicenda scosse profondamente la corte di Luigi XIV, rivelando una rete criminale che coinvolgeva la nobiltà parigina dell’epoca.

Dumas non si accontenta certo di presentare ai suoi lettori una storia morbosa, piena di dettagli truculenti e nemmeno di descrivere la contessa di Brinvilliers come una donna odiosa e repellente; ha tutta l’intenzione di farci amare la sua perfida marchesa, di farcela apparire crudele e senza coscienza in un primo momento, al limite stesso della follia, per poi farcela piangere e compatire nel momento della sua condanna, che coincide anche con un assoluto e contrito pentimento.

La parte più rilevante de “L’avvelenatrice” è infatti dedicata alla difficile conversione della fatale marchesa, tanto che alla fine del romanzo si è completamente partecipi del dolore di questa donna, che fino a qualche pagina prima progettava addirittura di uccidere i suoi carcerieri.

La lingua obsoleta potrebbe in un primo momento frenare, ma Dumas è sempre scorrevole e una volta addentrati nel racconto la prosa risulterà naturale.

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occhio al libro

Fahrenheit 451

“L’era in cui l’ignoranza è un vanto ed il pensiero una vergogna” di Alex Baltag

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n un futuro indefinito, e dominato dall’autoritarismo di un governo al tamente oppressivo, è stata fatta tabula rasa di ogni misera fonte cul turale trasformandola in cen ere, rendendo di conseguenza l’ intero pianeta un luogo popolato non più da persone aventi coscienza e raziocinio, ma da tediosi fantocci vuoti e senza identi tà, animati esclusivamente dai fili di un sistema che ovatta le loro menti incuranti privandole inesorabilmente dal l’assiduo desiderio di ri flettere ed apprendere. Immensi schermi televisivi, sul le pareti di casa, trasmettono incessantemente, senza cenno di tentennamento, imponenti cartel loni pubblici tari bril lano lungo le strade in modo accecante per essere certi che tutti li vedano, il lustrazioni, fumetti e vignette umoristiche ovunque per far assimilare sempre meno al le persone divertimenti continui, distrazioni il limi tate e svaghi di ogni genere per far smarrire il tempo e la volontà di conoscere.

Quel poco che si conosce basta e avanza per la vi ta passiva e control lata a cui viene abi tuata la mesta società distopica che viene descri tta, noncurante del fatto che questa propulsione verso la chiusura, questa assoluta censura estremizzata al l’ inverosimile, fa in mo do che la popolazione si annul li completamente, cancel lando defini tivamente il piacere di dare un’ opinione poiché il potere di sapere è stato annientato ed umiliato defini tivamente, o quasi. Fahrenhei t 451 è approssimativamente la temperatura al la quale brucia la carta, e quel lo stesso numero è applicato sul le divise di un gruppo di mili ti del fuoco incaricati dal governo per l’ intransigente distruzione dei libri che ancora sopravvivono grazie al l’ iniziativa di alcuni sovversivi; in particolare, quel funesto numero è applicato sul la divisa di un incendiario dissidente ed insubordinato, figura di spicco non sol amente del l’ opera di Ray B radbury, ma anche del la flebile speranza di una rivoluzione, di un progresso cul turale, di una rivol ta sociale, colui che potrebbe mettere la parola fine ad una col lettivi tà oppr imente

fatta di assoluto control lo mediatico da parte del lo Stato, colui che ha deciso di smettere di vivere adagiandosi nel l’ abisso del le proprie abi tudini, colui che ha voluto evi tare di seguire quel la linea magnetica che viene imposta di seguire inconsciamente, colui che ha voluto rivolgere lo sguardo ol tre il muro di casa propria dove sono evidenti i veri problemi, la tangibile decadenza ed il disfacimento di un’ intera evoluzione.

Questo breve romanzo viaggia toccando e descrivendo temi quali il conformismo, il totali tarismo, la di ttatura mentale, la mediocri tà e la chiusura cul turale trami te lo sviluppo ed il progressivo miglioramento di un protagonista, che intravede il fuoco sotto una nuova veste ai suoi occhi abi tuati a considerarlo un mezzo di devastazione: di fatti esso può anche riscaldare, ol tre che bruciare; scoprirà inol tre che i libri non sono armi nocive cariche di controversie e grattacapi per castrare le menti del l’ uomo, di conseguenza si renderà conto di non poter mai essere realmente felice e soddisfatto del la propria vi ta poiché sente di avere un vuoto che potrebbe essere colmato unicamente con la conoscenza. Il protagonista del romanzo è la personi ficazione del la cul tura: al l’ esterno non è che la copertina di un libro il cui unico signi ficato è proteggerlo dal la polvere; al l’ interno è qualcosa di immensamente prezioso da custodire e tramandare per evi tare che si dissipi irreparabilmente, racchiude il potere del sapere, il progresso che ci spinge a risvegliare la coscienza e pensare, simboleggia ciò che è il signi ficato del la libertà, dato che quando i libri vanno al rogo, insieme a loro si estingue ogni nostra possibili tà di essere veramente liberi.

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Quattro passi tra i sipari

Occhio al palcoscenico

di Rossana Gabrieli

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stagione pienamente iniziata, i teatri romani si riconfermano, anche quest’anno, vivaci e brillanti. Basta uno sguardo al cartellone di alcuni di essi, per scoprire che nelle prossime settimane andranno in scena spettacoli di notevole interesse. Cominciamo, in ordine scrupolosamente alfabetico, a curiosare tra i sipari dei Teatri De’Servi, Golden e Sala Umberto.

Nel centro storico di Roma, affacciato su via del Tritone, il Teatro De’ Servi ha inaugurato la stagione con “Separati”, lo scorso 27 settembre, storia tenera e divertente di due coinquilini (Francesco Bauco ed Emy Bergamo), che si innamorano, intrecciando la loro storia con quella di quattro amici inseparabili. In queste settimane, al Teatro De’ Servi, potremo goderci altre commedie brillanti: “La notte della Tosca”, “Coniugi”, “Amore non essere geloso” e “Il matrimonio nuoce gravemente alla salute”.

A San Giovanni sorge, invece, il Teatro Golden, che, dopo un lungo periodo di abbandono, é ora in grado di ospitare

spettacoli di tutti i tipi, anche grazie alla predispisizione di tecnologie che valorizzano la recitazione. La nuova stagione ha preso il via il 27 settembre con la commedia “L’inquilina del piano di sopra”, con Gaia De Laurentis e Ugo Dighero, un classico della comicità di Pierre Chesnot. Fino al 20 novembre andrà in scena : “L’amore migliora la vita” con Edy Angelillo, Eleonora Ivone e Giorgio Borghetti.

Il Teatro Sala Umberto, non lontano da Piazza Barberini, ha aperto la stagione, il 22 settembre, con “Le nostre donne”, assenti fisicamente dalla scena, ma incombenti nelle esistenze dei loro uomini, (Edoardo Siravo, Emanuele Salce e Manuele Morgese) che intorno a loro, alle loro manie ed al loro modo di essere, dedicano, in realtà, ogni pensiero. Dal 22 novembre andrà in scena Pino Caruso con “Il berretto a sonagli” e, a seguire, ”Sud and South” con Marisa Laurito.

Un autunno che offre serate all’insegna del buonumore. Come diceva il grande Alberto Sordi: “La nostra realtà é tragica solo per un quarto: il resto é comico. Si può ridere su quasi tutto”.

Le catacombe di via Casilina dei ss. Pietro e Marcellino

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La Roma insolita

di Nicola Fasciano

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isale all’estate del 2003 la riscoperta di quelle che si sono rivelate le terze catacombe per estensione di Roma con circa 18.00 mq di estensione. Parliamo di riscoperta, poiché queste catacombe furono trovate e studiate dall’Accademia romana già dal XVI secolo da Pomponio Leto e Antonio Bosio. Situate nel complesso archeologico «Ad duas lauros» sulla via Casilina a Roma, sono state aperte al pubblico nell’aprile del 2014, dopo un’opera di restauro degli ambienti, e qui emerge anche una curiosità, finanziata dalla Repubblica dell’Azerbaigian nazione musulmana sciita, che con questo gesto ha contribuito al dialogo interculturale con la religione cattolica. Anche a causa del fatto di essere piuttosto lontano dai classici percorsi turistici romani, non risultano essere molto

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conosciute, nonostante racchiudano grandi tesori, tra i quali pitture paleocristiane uniche al mondo. L’area archeologica è situata sul percorso della via Francigena, all’interno dell’attuale V Municipio, al terzo miglio dell’antica Via Labicana, nella zona dominata dal Mausoleo di Elena madre dell’Imperatore Costantino, risalente al IV Secolo d. C. Le catacombe dei ss. Pietro e Marcellino, chiamate anche catacombe di Sant’Elena o di San Tiburzio, sono sorte tra il 100 e 200 d.c. e abbandonate nel 410, dopo il sacco di Roma. Durante la loro funzione funeraria, hanno accolto i resti di più di 15.000 persone in sepolture sotterranee, oltre a una fossa comune con oltre 1200 persone risalente alla seconda metà del II-inizi III secolo, creata forse in occasione di una epidemia di peste. Inoltre i graffiti in lettere runiche ritrovati sulle pareti, testimoniano che le tombe dei martiri continuarono ad essere meta di un pellegrinaggio internazionale anche dopo la loro dismissione principale, seguitando ad accogliere devoti anche nel Medioevo. Nel febbraio di quest’anno, dai restauri della Pontificia commissione di archeologia sacra all’interno di quella straordinaria pinacoteca sotterranea che si snoda nelle catacombe, è stata svelata una ultima meraviglia d’arte tardoantica: una matrona dal capo velato con le braccia spalancate, che anticipa le immagini delle Madonne della Misericordia medievali, in un paradiso simboleggiato dai due alberi ai suoi fianchi. E’ stata ritratta sulla soglia di quella domus aeterna che ne avrebbe accolto l’intera famiglia, in 12 loculi, sotto la volta affrescata con il Buon Pastore, circondato dagli episodi biblici di Giona, di Daniele fra i leoni e di Noè nell’arca. E questo è solo l’ultimo dei capolavori che vi consigliamo di ammirare nelle visite guidate in queste estese e suggestive catacombe romane, che si snodano tra i cunicoli aperti al pubblico dei 17 km di gallerie non tutte ancora esplorate.

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Museo nazionale romano-grandi aule delle Terme di Diocleziano, fino al 15 gennaio 2017 Edward Hopper (articolo a pagg. 4-5) Complesso del Vittoriano, fino al 12 febbraio 2017 “Guerre stellari: Star wars. Play!”

Complesso del Vittoriano, fino al 29 gennaio 2017 “LOVE. L’arte contemporanea incontra l’amore” Chiostro del Bramante, fino al 19 febbraio 2017

Aprilia

“Ricordo...grazie a questa penna” Breve laboratorio di scrittura autobiografica, narrativa e poesia Arte Mediterranea, donenica 13 novembre, 10.30-13.00 - 14.00-17.00 “Atmosfera e paesaggio” Worhshop di pittura tenuto da Marco Rapone Arte Mediterranea,domenica 20 novembre, 9.00 - 15.00

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Roma

“Ai piedi della Piramide” Casa del museo di Goethe, fino al 13 novembre “A day in Italy” Sale del Bramante, piazza del Popolo, fino al 13 novembre “Il castello segreto” Museo di Castel Sant’Angelo, fino al 20 novembre “La Spina. Dall’agro vaticano a Via della Conciliazione” Musei Capitolini, fino al 20 novembre “Made in Roma. Marchi, loghi e firme nell’antica Roma” Mercati di Traiano- Museo dei Fori Imperiali, fino al 20 novembre “Mimì Quilici Buzzacchi” Galleria d’arte moderna di Roma capitale, fino al 27 novembre “La Misericordia nell’arte” Musei Capitolini, fino al 27 novembre “Roma Pop City 60-67” Macro, fino al 27 novembre “Antoine Jean-Baptiste Thomas e il popolo di Roma” Museo di Roma, Piazza Navona e Piazza san Pantaleo, fino al 4 dicembre “Le bambole del Giappone. Forma di preghiera, espressioni d’amore” Istituto giapponese di cultura, fino al 28 dicembre, ingresso gratuito “Bizhan Bassiri-Specchio solare” Museo Carlo Bilotti, fino al 31 dicembre “Minute visioni. Micromosaici romani del XVIII e XIX secolo dalla collezione Ars Antiqua Savelli” Museo Napoleonico, fino al 31 dicembre “Antonio Ligabue” Complesso del Vittoriano, fino all’8 gennaio 2017 “Piacere, Ettore Scola” Museo Carlo Bilotti, fino all’8 gennaio 2017. Ingresso gratuito “Lapidarium” Mercati Traianei, fino all’8 gennaio 2017 “Centrale Montemartini. Capolavori da scoprire” Centrale Montemartini, fino all’8 gennaio 2017 “16. Quadriennale d’arte. Altri tempi, altri miti” Palazzo delle esposizioni, fino all’8 gennaio 2017 “Andrea Viviani. Ritmi instabili” Casina delle civette, Villa Torlonia, fino al 15 gennaio 2017 “350 anni di creatività. Gli artisti dell’Accademia di Francia a Roma da Luigi XIV ai giorni nostri” Accademia di Francia a Roma- Villa Medici, fino al 15 gennaio 2017 “Jean Arp”

sul filo di china

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Eventi

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Ferrara

“L’arte per l’arte” Castello estense, fino al 4 giugno 2017

Firenze

“Ai Weiwei. Libero” Palazzo Strozzi, fino al 22 gennaio 2017 “Scoperte e massacri. Ardengo Soffici e le avanguardie a Firenze” Gallerie degli Uffizi, fino all’8 gennaio 2017 “La Divina Commedia di Venturino Venturi” Villa Bardini, fino al 6 febbraio 2017

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Genova

“Helmut Newton. Fotografie. White woman/sleepless nights/big nudes” Palazzo ducale, fino al 22 gennaio 2017

Milano

“Antonio Mancini. Genio ribelle” (articolo a pagg. 8-9) Galleria Bottegantica, fino al 18 dicembre “Escher” Palazzo reale, fino al 22 gennaio 2017

Napoli

“La suonatrice di liuto di Jan Vermeer” Pinacoteca di Capodimonte, dal 21 novembre 2016 al 9 febbraio 2017

Perugia

“I tesori della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e il Caravaggismo nelle collezioni di Perugia” Palazzo Lippi Alessandri, fino al 20 novembre

Rovigo

“I Nabis, Gauguin e la pittura italiana d’avanguardia” Palazzo Roverella, fino al 14 gennaio 2016

“Guerre stellari: Star wars. Play!�

Complesso del Vittoriano, fino al 29 gennaio 2017 16