Occhio all'arte web, febbraio 2022

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A cura dell’Associazione Arte Mediterranea - anno XV N° 152 febbraio 2022

Mensile d’informazione d’arte

www.artemediterranea.org

nDedicato a: Guido Reni

“La strage degli innocenti”, Guido Reni Art brut: Cinema: CuriosArt: La Roma insolita: Gli Horti n n n nTeatro: Museo n Scream 5 Ayumi Shibata Pasolini Lamiani a piazza Vittorio Filippo Bentivegna


Per sponsorizzare “Occhio all’Arte”

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dall’Associazione

Telefona al 347.1748542

Associazione ARTE MEDITERRANEA Aprilia - PROGRAMMA CORSI 2021-2022

Le attività didattiche, aperte dal primo di settembre, comprendono vari corsi suddivisi nei giorni della settimana: Lunedì e Venerdì Martedì e Giovedì Martedì e Giovedì Lunedì e mercoledì Mercoledì Sabato

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corso corso corso corso corso corso

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pittura ad olio pittura ad olio disegno e olio acquarello pastello fumetto

dalle dalle dalle dalle dalle dalle

18 alle 20 e dalle 20 alle 22 9 alle 11 18 alle 20 18 alle 20 20 alle 22,30 9 alle 15

Oltre alle lezioni, l’associazione, guidata dal suo presidente Antonio De Waure, supporterà gli allievi che vorranno fare delle esposizioni, organizzerà gite culturali e mostre estemporanee. Chi vorrà iscriversi potrà farlo negli orari di apertura della scuola.

Redazione Maria Chiara Lorenti, Cristina Simoncini, Giuseppe Di Pasquale, Collaboratori Mensile culturale edito dalla Patrizia Vaccaro, Valerio Lucantonio, Associazione Arte Mediterranea Nicola Fasciano, Giuseppe Chitarrini Via Muzio Clementi, 49 Aprilia Francesca Senna Tel.347/1748542 occhioallarte@artemediterranea.org Responsabile Marketing www.artemediterranea.org Cristina Simoncini Aut. del Tribunale di Latina N.1056/06, del 13/02/2007 Composizione e Desktop Publishing Fondatori Giuseppe Di Pasquale Antonio De Waure, Maria Chiara Lorenti Cristina Simoncini Tutti i diritti riservati. E’ vietata la riproduzione anche Amministratore parziale Antonio De Waure senza il consenso dell’editore Direttore responsabile Rossana Gabrieli Responsabile di Redazione Maria Chiara Lorenti

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Sommario

Gli Horti Lamiani a piazza Vittorio Filippo Bentivegna Le sculture di carta di Ayumi Shibata Il Sacro e la Natura “Sulla gratuità. Per il gusto di farlo” Scream 5 Museo Pasolini di Ascanio Celestini al Teatro Vittoria Sul filo di china Maurizio Gabbana. "Assenza"


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la Roma insolita

Gli Horti Lamiani a piazza Vittorio Il Museo Ninfeo di Nicola Fasciano

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a location è quella conosciuta da tutti i romani per essere il cuore multietnico della capitale. Più di dieci anni di scavi, migliaia di frammenti di ceramica, di marmo e di affreschi ritrovati e un team di decine di archeologi, restauratori, ingegneri, architetti, che ha lavorato per restituire ai contemporanei un’area degli Horti Lamiani, una splendida residenza privata di età romana circondata da giardini lussureggianti. Costruita dal console Lucio Elio Lamia all’inizio del I secolo d.C., ben presto divenne di proprietà imperiale: molti imperatori, tra cui Claudio, Caligola, Severo Alessandro abitarono e personalizzarono questi spazi imprimendo ciascuno il proprio segno alla residenza. L’intento era quello di costruire un circuito verde intorno al centro di Roma che consentisse all’imperatore di raggiungerne rapidamente il cuore politico, senza rinunciare ai vantaggi delle ville di campagna. All’interno degli Horti si alternavano edifici decorati da marmi pregiati e statue a spazi verdi, tempietti, giardini, piazze e boschetti. Il

lusso e la ricercatezza nelle decorazioni conferiva a questi luoghi un aspetto di magnificenza e sacralità, dove la presenza di animali selvatici e piante esotiche completava un paesaggio da sogno. La collaborazione tra la Soprintendenza Speciale di Roma e l’EMPAM, nasce proprio sul luogo del ritrovamento di questo eccezionale contesto archeologico, venuto alla luce proprio nell’area di Piazza Vittorio all’Esquilino, durante i lavori per la costruzione della sede dell’Ente. Il risultato è il nuovo Museo Ninfeo ( www. museoninfeo.it ) il cui percorso di visita si snoda intorno ai resti di una grande piazza con un ninfeo e mostra le decorazioni che la adornavano, gli oggetti allora utilizzati, le piante e gli animali che abbellivano i giardini. Il visitatore può godere di una esperienza culturale immersiva e coinvolgente dove, in prossimità dei punti più caratteristici, gli esperti che hanno lavorato al progetto, presentano i principali ritrovamenti. Aperto solo nei weekend, indispensabile la prenotazione.

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Filippo Bentivegna Un outsider

di Patrizia Vaccaro

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ai sentito parlare di Art brut? In italiano possiamo tradurlo con Arte grezza, termine inventato nel 1945 dal pittore francese Jean Dubuffet per indicare una produzione artistica spontanea realizzata da non professionisti, autodidatti o ricoverati in ospedali psichiatrici, da chi è completamente digiuno di cultura artistica, caratterizzati da una grande inventiva, ossessionati dalla stessa, spesso sono il frutto di un’esperienza

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traumatica come la guerra o l’emigrazione, vivono ai margini della società, quelli considerati appunto outsider. Un esponente di questa corrente può sicuramente considerarsi Filippo Bentivegna, nasce a Sciacca il 3 maggio del 1888, emigra nel 1913 negli Stati Uniti, seguendo i fratelli maggiori. In America subisce un grave trauma cranico a causa di una bastonata in testa, forse da un rivale in amore. Questo gli causa problemi di amnesia che gli impediscono di lavorare e causeranno il suo rimpatrio nel 1919. Ritornato in Italia viene considerato disertore e condannato a tre anni di carcere, viene sottoposto ad una visita psichiatrica, dalla quale viene considerato pazzo, ma senza essere un pericolo sociale. Inizia così a scolpire centinaia di teste umane nel suo terreno, tre ettari nei pressi di Sciacca, alle falde del mitico monte Kronio, grazie alle formazioni calcaree presenti, scaverà cunicoli per recuperare materiale. Sulle pareti delle cave che si vengono a formare, disegnerà soggetti con richiami al suo viaggio americano, come il grande pesce con il corpo composto da altri pesci a simbolizzare, forse, la nave carica di emigranti che lo aveva portato negli stati Uniti. Dai paesani viene chiamato, “mastru Filippu” per le sue abilità, ma anche “Filippo delle teste” e “Filippo il pazzo”, deriso dagli stessi per il suo bizzarro atteggiamento: in vita dirà di parlare con Mussolini attraverso una condotta d’acqua o che Picasso è venuto nel suo giardino per rubargli le idee, vorrà essere chiamato Eccellenza pensando di essere il re di un regno composto da sudditi rappresentati da quelle tante teste scolpite. Il pittore svedese Lilieström soggiorna a Sciacca negli anni Cinquanta, capisce di avere di fonte un artista puro, primitivo, gli organizza la prima e unica mostra, nell’ex Albergo Italia di Sciacca, con poco successo, ma che lo farà comunque conoscere. Filippo Bentivegna muore all’età di 79 anni il 1º marzo del 1967, il suo lavoro rimane abbandonato e incustodito, molte opere vengono distrutte,


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Art brut

perdute o rubate. Nel 1968 arriva, a Sciacca, Gabriele Stocchi un collaboratore di Jean Dubuffet,’artista e teorico dell’Art Brut, sopracitato, per verificare quell’ arte primitiva del “pazzo di Sciacca”, contatta i parenti dell’artista riuscendo a visitare il Giardino Incantato, porta due opere in dono a Dubuffet che faranno parte della sua collezione, oggi quelle stesse teste sono esposte al Museo dell’Art Brut di Losanna. Nel 1973 la Regione Sicilia acquista il fondo di Filippo,grazie a questo l ‘opera dell’artista ha il giusto riconoscimento: Il Castello incantato di Filippo Bentivegna, è inserito nel circuito turistico, come attrazione, è gestito da una cooperativa culturale ed è oggetto di studi critici come opera significativa del Novecento. «Cerco la Grande Madre... Dentro la terra è il seme dell’uomo» (Filippo Bentivegna) 5


Le sculture di carta di Ayumi Shibata

Eterei scenari e installazioni su larga scala giocano con luci e ombre di Cristina Simoncini

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’artista giapponese Ayumi Shibata disegna paesaggi intricati usando strati su strati di carta bianca. Alcune delle sue sculture sono in miniatura, mentre altre sono installazioni immersive, e tutte prendono vita con giochi di luci e ombre, che creano “movimento” attraverso i suoi pezzi. Le opere presentano cupole architettoniche, foreste simili a grotte e soli vorticosi che si librano su città alberate. Questi luoghi pittoreschi non si basano su un luogo particolare, ma su come l’artista “spera e crede che potrebbe essere il futuro del pianeta”. Shibata immagina un mondo in cui umani e forme naturali coesistono e descrive i suoi pezzi come aventi un elemento “Yin e Yang”. La carta rappresenta Yin, il materiale, e il modo in cui le opere emettono ombre è correlato a Yang, il mondo invisibile. “La luce rappresenta lo spirito e la vita, come il sole sorge e dà vita al mondo”, spiega. “Credo che le mie opere siano un mezzo per osservare il mondo materiale e quello visibile.” Anche gli elementi fisici hanno un significato più profondo per l’artista: in giapponese, Kami significa dio o spirito ma anche carta, materiale sacro nella religione shintoista. “Gli spiriti ‘Kami’ invisibili dimorano in vari oggetti ed eventi, luoghi, così come nelle nostre case e nei nostri corpi”, dice. “Uso la mia tecnica per esprimere la mia gratitudine agli spiriti Kami per essere nati in questa vita. Ogni pezzo di carta che taglio è una preghiera”. Shibata ha iniziato a costruire queste sculture quando

curiosArt

viveva a New York. Visitava una chiesa per meditare e sfuggire al rumore della città, ed è stato quando ha osservato la luce che illuminava le vetrate colorate che le è tornato in mente il suo amore per il lavoro con la carta. L’artista spiega: “La città era piena di rumore. Tutto, le persone, il tempo scorre veloce e si muove rapidamente, e avevo bisogno di uno spazio tranquillo per tornare in me stesso. Un giorno, dopo la meditazione, ho aperto gli occhi e ho visto una luce colorata che inondava il pavimento attraverso il vetro colorato. Era di una bellezza mozzafiato. Mi ha ricordato un ricordo dell’infanzia in cui tagliavo carta nera e attaccavo cellophan colorato dietro di essa per creare un pezzo di vetro colorato di “carta”. Ho preso gli strumenti mentre tornavo a casa e l’ho provato quella notte. Da quel momento, ho continuato a tagliare la carta.” Attualmente, Shibata sta lavorando a un’installazione chiamata “Inochino-uta, Poesia della Vita”, per una mostra entro la fine dell’anno. Il progetto su larga scala è composto da 108 pezzi di carta collegati da fili e sospesi al soffitto. Per vedere altri lavori dell’artista, visita il suo Instagram o il suo sito web. Fonti: www.thisiscolossal.com

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Il Sacro e la Natura Guido Reni a Roma di Maria Chiara Lorenti

“Hipómenes e Atalanta”, Guido reni

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el mese di marzo, precisamente il primo, si aprirà la mostra “Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura”. Ospitata presso la Galleria Borghese, dopo più di trent’anni dall’ultima grande esposizione, il maestro seicentesco sarà il protagonista di una serie di mostre dedicate al suo estro. “La danza campestre” sarà il dipinto su cui si incentrerà la mostra, perse le sue tracce dopo essere stato venduto nell’ottocento, questa tela apparteneva alla collezione originaria del cardinale Scipione Borghese, così come testimoniato dagli archivi dell’epoca. Dopo la sua alienazione, se ne persero le tracce, fino a quando ricomparve, non riconosciuto, nel mercato d’antiquariato londinese nel 2008, come olio di anonimo di area bolognese. Fatte le opportune ricerche e rivalutazioni, fu finalmente riattribuito a Guido Reni e riacquistato dalla Galleria Borghese che lo reintegrò nella sua pinacoteca. Questo quadro dà una chiave di lettura diversa ed integrativa al genere della produzione del grande 8

pittore, evidenziando come anche i soggetti a tema naturalistico, ritenuti a torto estranei ad essa, siano invece stati esaminati e studiati, non solo come sfondo, ma come protagonisti della composizione. Tra i quadri, oltre a quelli di ispirazione religiosa, in mostra troviamo anche “Atalanta e Ippomene”, tratto da “le Metamorfosi” di Ovidio. Qui viene raffigurata la storia di questa bellissima ninfa, aliena al matrimonio, imbattibile nella corsa, disposta a capitolare solo se battuta in gara. Molti sono gli spasimanti che tentano la sorte, ma la sconfitta determinerà la loro morte. Ippomene, innamorato e convinto di riuscire a convolare a nozze, con l’inganno, aiutato da Afrodite, riuscirà con uno stratagemma a distrarre Atalanta e a superarla, vincendo. Guido Reni congelerà, con la sua opera, il momento supremo in cui la ninfa attratta dai pomi d’oro di Afrodite, si chinerà per raccoglierli, facendo sì che l’uomo approfitti della sua curiosità per sorpassarla. La scena si svolge di notte, nell’oscurità i corpi diafani


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in mostra

“Lot e le filgie”, Guido reni suoi contemporanei che lo hanno influenzato. Come “Paesaggio con la caccia al cervo” di Niccolò dell’Abate e la “Festa campestre” di Agostino Carracci che idealmente si contrappongono alla sua “Danza campestre”. La mostra, che si protrarrà sino al 22 maggio, evidenzierà l’importanza del paesaggio nella pittura del Reni, esponente del Classicismo seicentesco che con le committenze romane farà decollare la sua fama, soprattutto grazie al suo rapporto con il cardinale Borghese. Curata da Francesca Cappelletti, metterà in risalto i lavori effettuati nei primi anni del suo soggiorno romano, dando risonanza al ritrovamento della “Danza campestre” … “un’importante integrazione storica del “Davide e Golia”, Guido reni patrimonio del museo, la sua presenza nelle sale della pinacoteca accanto agli altri dipinti della collezione sottolinea la fondamentale importanza della committenza dei due personaggi si stagliano, il panneggio dei veli Borghese per Guido Reni….” svolazzanti, che ne coprono appena le nudità, danno alle figure un’aura di danza, dove esse si contrappongono, disgiunte, eppure unite dallo sguardo di lui che la rimira girandosi durante il sorpasso. Tra le pale d’altare, site a piano terra, spicca la tela della “Strage degli innocenti”. Qui, sotto lo sguardo degli angeli assisi sulle nuvole, si svolge una scena crudele e cruenta, gli uomini di Erode, su suo ordine, strappano letteralmente dalle braccia materne i corpi urlanti dei bimbi innocenti, agguantando le fuggitive per i capelli e trafiggendo i piccoli con le lame insanguinate dei loro coltelli. In questo quadro, sviluppato verticalmente, Reni comprime le azioni caricandole di un pathos crescente di parossismo, le donne, ora oranti, ora disperate, cercano di opporsi alla cieca furia omicida degli sgherri, cercando di scappare da quell’orrore senza giustificazioni. Oltre alle opere del grande maestro, che si rifanno agli “Danza campestre”, Guido reni anni trascorsi a Roma, si affiancano quelle degli artisti 9


“Sulla gratuità. Per il gusto di farlo” Di Marc Augé

di Giuseppe Chitarrini

Probabilmente questo ‘leggero’ saggio è una delle ultime traduzioni editate in Italia del prolifero e intellettualmente ‘iperattivo’ M. Augé, uno dei più noti studiosi delle attuali società globalizzate. Antropologo, filosofo e sociologo in queste pagine esamina il tema della gratuità, del ‘bel gesto’, fatto ‘per il gusto di farlo’; un tema che trovo ricorrente negli studi antropologici francesi, infatti -oltre ad alcuni studi di C. Levi Strauss negli anni 50-60- già nella prima metà del novecento Marcel Mauss (antropologo) si era dedicato alla nozione di ‘Dono’ (Cfr. M. Mauss “Saggio sul dono”, Einaudi, Torino 2002), nel quale questo gesto tipicamente umano, veniva esaminato nelle sue caratteristiche – appunto- di gratuità, ma anche come 10

forma di consolidamento dei legami, di ampliamento delle relazioni e di scambio. Avvalendosi di alcuni ‘exempla’ letterari (la figura di Don Giovanni, Malraux, Gide, Breton e altri), Augé mostra come il ‘bel gesto’ sia un atto complesso, che va al di là della benevolenza o della carità, della tolleranza o del favore, “la nozione di gratuità si rifà a una gamma comportamentale che assume tratti… chiaroscurali” (Introduz. di F. Nodari, p. 5), ambivalenti ed ambigui. E’ difficile distinguerlo dall’ipocrisia, dall’eccesso di autocompiacimento e dall’arbitrarietà e richiede il riconoscimento da parte dell’Altro; senza la sua presenza ratificante il bel gesto non sempre può definirsi anche gratuito e diventa “un agire per il gusto di farlo…cedere all’estetica dell’istante,


n erigersi a spettatori di sé stessi…Il bel gesto può esprimere indifferentemente il suo carattere arbitrario o il suo carattere disinteressato”(pp. 19, 20). Il sentimento del ‘Dono’ e la sua libera gratuità devono necessariamente essere riconosciute come tali, devono interfacciarsi con l’Altro, pena il ricadere nella bonaria tolleranza, autosufficienza, nell’atto caritatevole. Altro è anche come destinatario dell’atto gratuito, il volontario, il no-profit non potrebbe estrinsecare il suo agire senza un Altro, in questo caso, un Altro fragile e deprivato. L’autore in questo saggio non ci parla di un Altro umano o un Altro non umano, se cioè la gratuità è tale in senso pieno anche quando si esercita su un animale: un gattino raccolto per strada, un cane salvato dal canile ecc. In questa dimensione antiutilitaristica l’arte trova spazio e ragione di essere a patto che le dinamiche dei mercati e il lucro non prendano del tutto il sopravvento sull’agire espressivocreativo. Estremizzando si potrebbe dire che l’arte fatta ‘per il gusto di farla’, disinteressatamente, rientra nel concetto e nel sentimento del ‘Dono’: la compagnia teatrale amatoriale, il concerto di beneficenza, il pittore sconosciuto, il ritrattista dilettante, il provetto musicista che però svolge un altro lavoro, l’appassionato di danza

occhio al libro

o scultura ecc. Tante sono le forme artistiche che esprimono –oltre a estro, capacità, creatività- l’esercizio e la disciplina del Dono e della gratuità. Una tematica antica, quella della libera e gratuita fruibilità e produzione artisticoespressiva, che percorre, con accenti e declinazioni diverse, tutta la storia dell’umanità. Il volumetto raccoglie poi un saggio di Francesca Nodari (autrice anche della Introduzione) su M. Augé dal titolo “Intuizioni ‘surmoderne’, per un mondo migliore”, (da p. 24 a 76). Nodari è la curatrice in Italia, di molte opere dell’antropologo francese, e in questo suo saggio ci parla di alcune sue parole-chiave – diventate vere e proprie categorie concettuali nell’ambito delle scienze umane sociali-, ‘Surmodernità’, ‘Non luoghi’, i dualismi Identità/alterità, relazione, spazio/tempo, e poi le concettualizzazioni di Internet come ‘affollato’ luogo di solitudini e ‘L’utopia dell’educazione’ in qualità di sapere come fine in sé (cfr. da p. 43 a 46), proposto come via d’uscita dalle paure: rimpiazzare le paure con la curiosità per la conoscenza, un ideale che risale all’Illuminismo. E forse è proprio di un nuovo Illuminismo che l’umanità ha bisogno.

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Scream 5

La resistenza del “requel” nel cinema contemporaneo di Valerio Lucantonio

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e il 2021 cinematografico si è concluso con Matrix Resurrections, revival punk che decostruisce e rifonda l’immaginario a cui appartiene (ne parlavamo nell’articolo del mese scorso), il 2022 si apre con il seguito di un’altra saga cult uscita a cavallo del ventunesimo secolo. Infatti, anche se è stato intitolato solamente “Scream”, il film sceneggiato da James Vanderbilt e Guy Busick per la regia di Matt BettinelliOlpin e Tyler Gillett è a tutti gli effetti un sequel del quarto capitolo della serie cinematografica ideata da Kevin Williamson e Wes Craven nel 1996. In realtà, come discusso esplicitamente dai suoi stessi personaggi, quello che d’ora in poi chiameremo “Scream 5” non è un semplice sequel, ma un “requel”. Questa definizione, quasi del tutto sovrapponibile un altro neologismo, “legacyquel”, indica la prassi relativamente recente nel cinema hollywoodiano contemporaneo con cui si tenta di rivitalizzare un franchise imprimendogli una nuova direzione ma cercando di mantenere comunque un legame diretto con i titoli precedenti. In poche parole, si tratta di un sequel che vuole funzionare anche come reboot tramite la presentazione di nuovi protagonisti e il ritorno di elementi narrativi preesistenti (un caso emblematico è quello di “Star Wars Episodio VII: Il Risveglio della Forza”). Seguendo l’approccio dissacrante e autoriflessivo dei film precedenti (essi mettevano alla berlina, rispettivamente: il prototipo del sottogenere slasher, i sequel, i capitoli conclusivi delle trilogie, il remake/revival), “Scream 5” non può esimersi da un’operazione meta-cinematografica analoga, prendendo di mira la propria natura di requel. La riflessione sulle dinamiche spesso forzate e ridicole di questo tipo di prosieguo si rivela abbastanza lucida, soprattutto nel mettere a fuoco il fenomeno del fandom tossico, ma su altri piani il discorso formulato dal film si dimostra anche ambiguo, a tratti contraddittorio, meno incisivo dei precedenti. È vero che non si può fare troppo una colpa al quinto capitolo per il suo concentrarsi più sull’immaginario della saga di riferimento che sul genere, e va comunque riconosciuto che non mancano battute e citazioni ad altri horror contemporanei, ma in generale nel film la riflessione/decostruzione rimane superficiale, seguendo un canovaccio di requisiti minimi per rispettare le aspettative del pubblico, mentre si ricalcano alcuni cliché dello slasher prendendoli eccessivamente sul serio, come mai era stato fatto in precedenza all’interno

cinema

della saga. La rappresentazione della violenza e della morte risulta enfatica, in alcuni passaggi addirittura epica, in totale contrasto con la concezione di pantomima macabra che emergeva nei film diretti da Craven (qui è proprio la regia a fare la differenza in negativo, rendendo esplicita l’estrema difficoltà del tenere insieme e alternare registro comico e thriller). Una naturale conseguenza è la riformulazione della figura di Ghostface, invariato nell’aspetto ma quasi irriconoscibile nell’aura mitica e a tratti soprannaturale che sembra circondarlo, rendendolo più simile a Michael Myers che alla caricatura di quest’ultimo. A dire il vero, tutti i personaggi risultano deboli o fuori fuoco, sia i nuovi che i vecchi. Il ritorno di Campbell, Arquette e Cox nei panni di Sidney Prescott, “Dewey” Riley e Gale Weathers si rivela quasi ininfluente (tranne che per la funzione promozionale), con dei ruoli tanto marginali quanto scontati nel panorama dei requel; le giovani leve che dovrebbero prendere il loro posto al centro della scena tentano invece di sovvertire gli stereotipi dei teen horror, ma nessun personaggio ha abbastanza spazio per potersi rendere originale o interessante. I dialoghi, uno dei principali punti di forza della saga, riescono a rimanere brillanti soltanto nei passaggi più metatestuali, dimostrandosi piuttosto didascalici e anonimi nei momenti in cui dovrebbero concorrere a tratteggiare legami e caratteri. Dopo il revival del quarto film il futuro di Scream sembrava risiedere nella possibilità di riapparire ciclicamente dopo lunghe pause, in modo da avere qualcosa da dire sui cambiamenti sociali avvenuti nel frattempo (ferma restando la necessità di basarsi su una trama e una messa in scena convincenti al di là dell’impianto concettuale), ma con il sorprendente successo commerciale di questo quinto capitolo e l’annuncio della produzione di un nuovo seguito la situazione è senza dubbio cambiata: il grande pubblico ha riscoperto questo filone horror ultimamente poco esplorato da autori e produttori, e probabilmente ora questi presteranno meno attenzione al preservare la complessa originalità della saga craveniana puntando su una riattualizzazione di “Scream 2” e avviando così un paradossale loop, in grado di rendere innocua la carica anticonvenzionale dei primi Scream e di dimostrare la resistenza del requel in un panorama cinematografico sempre più appiattito sul presente e sul ritorno dell’uguale. 13


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occhio al Teatro

Museo Pasolini di Ascanio Celestini al Teatro Vittoria di Rossana Gabrieli

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scanio Celestini non ha bisogno di essere presentato. Chi ama il teatro ed il cinema ne riconosce l’unicità di temi e di registri narrativi. Ascoltarlo raccontare le sue storie è come ascoltare uno di casa, che attinge ai ricordi di famiglia, agli aneddoti semidimenticati, ai “fatterelli” ripresi accanto ad un caminetto acceso e che non ci si stanca mai di ascoltare: la voce, i gesti, il gergo sono un biglietto da visita che aprono le porte del cuore e della mente. Radio clandestina, uno dei suoi cavalli di battaglia, dedicato ai fatti che condussero alla strage delle Fosse Ardeatine, è un capolavoro del teatro contemporaneo. Non si può, quindi, che salutare con entusiasmo l’ultimo lavoro di Ascanio Celestini, che sta già girando in diverse città italiane e che dal 15 al 20 marzo sarà presentato al Teatro Vittoria, a Roma. “Secondo l’ICOM (International Council of Museums) le 5 funzioni di un museo sono: ricerca, acquisizione, conservazione, comunicazione, esposizione. Come potrebbe essere un museo Pier Paolo Pasolini? In una teca potremmo mettere la sua prima poesia: di quei versi resta il ricordo di due parole “rosignolo” e “verzura”. È il 1929. Mentre Mussolini firma i Patti Lateranensi, 14

Antonio Gramsci ottiene carta e penna e comincia a scrivere i Quadreni dal Carcere. E così via, come dice Vincenzo Cerami: “Se noi prendiamo tutta l’opera di Pasolini dalla prima poesia che scrisse quando aveva 7 anni fino al film Salò, l’ultima sua opera, noi avremo il ritratto della storia italiana dalla fine degli anni del fascismo fino alla metà degni anni ’70. Pasolini ci ha raccontato cosa è successo nel nostro paese in tutti questi anni”. Ascanio Celestini ci guida in un ipotetico MUSEO PASOLINI che, attraverso le testimonianze di uno storico, uno psicanalista, uno scrittore, un lettore, un criminologo, un testimone che l’ha conosciuto, si compone partendo dalle domande: qual è il pezzo forte del Museo Pasolini? Quale oggetto dobbiamo cercare? Quale oggetto dovremmo impegnarci a acquisire da una collezione privata o pubblica, recuperarlo da qualche magazzino, discarica, biblioteca o ufficio degli oggetti smarriti? Cosa siamo tenuti a fare per conservarlo? Cosa possiamo comunicare attraverso di lui? E infine: in quale modo dobbiamo esporlo?” Pasolini rievocato da Celestini è uno spettacolo destinato a restare memorabile. Per info e prenotazioni: info@teatrovittoria.it


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Roma

“Prima, donna. Margaret Bourke-White” Museo di Roma in Trastevere, fino al 27 febbraio “Dante nelle sculture di Pietro Canonica” Museo Pietro Canonica, fino al 27 febbraio “Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura” (art. Pagg 8-9) Galleria Borghese, dal 1° marzo al 22 maggio “Thomas Hirschhorn. The Purple Line” MAXXI, fino al 6 marzo 2022 “Materia nova. Roma nuove generazioni a confronto” Galleria d’Arte Moderna di Roma, fino al 13 marzo “Sara Basta. La prima madre” Fondazione Pastificio Cerere e Spazio Molini, fino al 26 marzo “Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra cinquecento e seicento” PalazzoBarberini, fino al 27 marzo “Klimt. La secessione e l’Italia” Museo di Roma Palazzo Braschi, fino al 27 marzo 2022 “Una rivoluzione silenziosa. Plautilla Bricci pittrice e architettrice” Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Corsini, fino al 19 aprile 2022 “Supernova” di Cao Fei MAXXI, fino all’8 maggio

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Abano terme

“Robert Capa. Fotografie oltre la guerra” Museo Civico Villa Bassi Rathgeb, fino al 5 giugno

Alba

“Giovanni Boldini. Lo sguardo nell’anima” Palazzo Albergati, fino al 14 marzo

Bologna

“Giovanni Boldini. Lo sguardo nell’anima” Palazzo Albergati, fino al 14 marzo

Brescia

“Donne nell’arte da Tiziano a Boldini” Palazzo Martinengo, fino al 12 giugno

Catania

“Banksy&Warhol” Palazzo della Cultura, fino al 2 giugno

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Firenze

“Benozzo Gozzoli e la Cappella dei Magi” Museo di Palazzo Medici Riccardi, fino al 10 marzo “Galileo Chini e il Simbolismo Europeo” Villa Bardini, fino al 25 aprile “Leoncillo. l’antico” Museo Novecento, fino al 1° maggio

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Genova

“Hugo Pratt. Da Genova ai mari del sud” (Articolo a pagg. 10-11) Palazzo Ducale, fino al 20 marzo 2022

Milano

“Divisionismo. Due collezioni” GAM, fino al 6 marzo “Giorno per giorno nella pittura Federico Zeri e Milano” Museo Poldi Pezzoli, fino al 7 marzo “Saul Steinberg” Triennale Milano, fino al 13 marzo 2022 “The people I like” Triennale Milano, fino al 13 marzo “Gran Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei” Gallerie d’Italia, fino al 27 marzo 2022 “Realismo magico” Palazzo Reale, fino al 27 marzo “Piet Mondrian. Dalla figurazione all’astrazione” Mudoc, fino al 27 marzo

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Napoli

“David LaChapelle” Maschio Angioino, fino al 6 marzo “Rethinking Nature” MADRE, fino al 2 maggio

Torino

“Fattori. Capolavori e aperture sul ‘900” GAM, fino al 20 marzo. “Kakemoto. Cinque secoli di pittura giapponese” MAO, fino al 25 aprile.

Venezia

“Tapio Wirkkala e Toni Zuccheri alla Venini” Le stanze del vetro, fino al 13 marzo

Eventi


Maurizio Gabbana. "Assenza" Art. G.A.P. Roma Dal 5 al 25 Marzo

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