ДЕТИ (BAMBINI)

I sogni ci aiutano a vivere facendoci dimenticare le asprezze della vita.
Dobbiamo essere sognatori: guardiamoci dentro per capire quali sono i nostri sogni e trovare una passione da coltivare per far sì che si avverino.
È importante capire qual’è il proprio sogno; ricordiamoci che
rappresenta però un obiettivo con una scadenza e, quindi, dobbiamo decidere cosa fare per realizzarlo.
La passione che ci muove in questo è fondamentale: sconfigge il cinismo e la rassegnazione e, soprattutto, il flagello della nostra epoca: l’indifferenza.
Ogni sogno a cui rinunciamo è
un pezzo del nostro futuro che smette di esistere.
Fabrizio Favini
“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni e nello spazio e nel tempo di un sogno è raccolta la nostra breve vita”.
William Shakespeare
NOVEMBRE 2024
Il marchio del Magazine rivoluzionepositiva riporta 3 parole che sintetizzano i 3 stadi evolutivi del sapere.
Prima parola: INFORMAZIONE. Troppe persone ormai si ritengono soddisfatte nella loro ricerca del sapere quando la loro fonte del sapere è la Rete. Peccato che l’Informazione attendibile si sia ormai estinta
avendo lasciato il posto alle fakenews. Fermarsi a questo stadio significa essere disinformati, superficiali, manipolabili, marginali, inaffidabili.
Seconda parola: CONOSCENZA. Per sconfiggere le fakenews dobbiamo sviluppare un adeguato livello di conoscenza, che si costruisce con lettura profonda, ricerca,
confronto, verifica. Un grande salto di qualità rispetto a INFORMAZIONE, non vi è dubbio. Ma non basta. Ognuno di noi, con un passo ulteriore, può dare un personale contributo alla soluzione dei tanti problemi che stanno comprimendo la nostra esistenza.
Terza parola: SAGGEZZA. Significa saper essere consapevoli, ovvero dominare impulsi, emozioni, sentimenti negativi a favore
di una personale rivoluzionepositiva. Quindi adottare un comportamento responsabile, che discende dal latino res-pondus: farsi carico del peso delle cose!
Saper essere saggi, appunto, una saggezza che nulla ha a che fare con il logoro, millenario paradigma secondo il quale la saggezza apparteneva solo agli anziani del villaggio. Tutti noi possiamo/ dobbiamo tendere alla saggezza!
Il Magazine rivoluzionepositiva da oltre 6 anni contribuisce con continuità e determinazione ad alimentare un importante stimolo: la consapevolezza che abbiamo sempre più bisogno di comportamenti positivi e responsabili da parte di tutti noi!
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L’universo del comportamento umano è uno dei pochi settori in cui si continua ad operare sulla scorta di abitudini e di modelli culturali in buona parte obsoleti.
Veniamo educati a soffrire per conquistarci un posto nella vita; viceversa l’educazione al benessere interiore, all’autoconsapevolezza, alla percezione di sé e degli altri ce la dobbiamo costruire da soli.
E così noi molto spesso facciamo un uso sub-ottimale delle nostre risorse personali, influenzando in tal senso la vita di chi ci sta vicino: in famiglia, in società, sul lavoro. Spesso aderiamo alla cultura della negatività, della lamentela, della critica, del rinvio, dell’immobilismo.
Altrettanto spesso siamo vittime di comportamenti autolimitanti. Sovente l’esperienza, consolidando un pregiudizio, ci
limita nella capacità di interpretare con lucidità la realtà circostante. Siamo in balìa di alibi, conformismi, abitudini consolidate e di false convinzioni.
Per rimuovere emozioni ed atteggiamenti negativi aprendo la nostra esistenza alle opportunità della vita, dobbiamo sviluppare energie costruttive e positive e un diverso approccio con noi stessi e col mondo che ci circonda.
rivoluzionepositiva ha lo scopo di aiutare, chi è interessato, a realizzare questi obiettivi.
Il Comitato di Redazione:
Fabrizio Favini
Edoardo Boncinelli
Roberto Cingolani
Enrico Giovannini
Gianni Ferrario
18 06 14 10
Esperto di innovazione del comportamento
Innoviamo il nostro
modo di pensare
Scienziato ricercatore sulla plasticità del cervello
Come il cervello
scolpisce la visione del mondo
Top Manager ed Imprenditore
Cosa serve all’Europa
Research Project Manager
Research Consultant
Diamo forma al lavoro del futuro
pg. 22 Autori
pg. 26 Manifesto
Per cambiare in meglio la nostra esistenza, per prima cosa è necessario che noi innoviamo il nostro modo di pensare e, quindi, di agire.
Spesso capiamo di dover innovare il nostro modo di pensare quando raggiungiamo l’apice del nostro malessere. Come smettere di crearci problemi e raggiungere finalmente la serenità? La soluzione è più semplice di quanto si creda. L’approccio è di ribaltare la prospettiva imparando a vedere difficoltà, ostacoli e problemi come opportunità di crescita, come stimoli al miglioramento –Non temete i momenti difficili, il meglio viene da lì. (Rita Levi Montalcini)
Solo così riusciremo a trasformare la sofferenza in una occasione per migliorarci
e prendere in mano la nostra vita, rivoluzionandola giorno dopo giorno.
Innanzitutto, partiamo dall’acquisire la consapevolezza di come il sistema nel quale viviamo ci condiziona in modo profondo.
Convinzioni, credenze, certezze, abitudini, comfort sono il risultato del nostro modo di pensare distorto, superficiale e, quindi, inconsapevole. Sono distorsioni che non ci permettono di vedere la realtà per quello che è, ma per come la vogliamo vedere noi. Inoltre, il modo di interpretare la realtà dipende in buona parte dalle nostre esperienze, in particolare se negative e deludenti.
Per superare il blocco della nostra resistenza
all’innovazione, è necessario modificare la nostra percezione di comfort, ossia prendere seriamente in considerazione l’alternativa, spostando l’attenzione sulle conseguenze negative che deriveranno dal rifiutarci di compiere una certa azione. E quando perdiamo tempo in queste situazioni di stallo, di incertezza, l’ansia si insinua in noi e ci mette le radici.
Molti sono convinti che la cosa più intelligente da fare sia di annullare del tutto le nostre emozioni mettendoci così al riparo dalla sofferenza: trasformarci in efficienti macchine, in umani autistici tipici del nostro tempo, in campioni di insensibilità ed indifferenza.
Ma se decidiamo di farci condizionare dalle situazioni dobbiamo anche essere consapevoli che così facendo abdichiamo al nostro vivere sereno e felice; rifiutare di accettare le cose per come stanno è l’origine della nostra sofferenza
Dato che distorsioni cognitive non ci permettono di vedere la realtà per quella che è, la nostra visione d’insieme è un montaggio di sensazioni ed esperienze sia oggettive ma, molto spesso, squisitamente soggettive. Le persone che si rifiutano di prenderne atto credono invece che la loro soggettività sia un oggettivo ed incontrovertibile dato di fatto.
Fin dall’infanzia ci hanno insegnato a modellare il nostro comportamento sulle aspettative altrui; spesso abbiamo costruito la nostra personalità sulla base dell’opinione degli altri. In tal caso, di fronte ad un nostro passo falso, ciò ci permette di crearci un alibi accollando la colpa ad un altro, sentendoci così liberi da ogni responsabilità.
Vediamo ora le nostre più frequenti distorsioni cognitive.
Estrapolazione
È quello che avviene quando isoliamo un singolo episodio e lo proiettiamo sulla nostra vita considerandolo una costante regola di vita, ricorrente e significativa. Ci autoconvinciamo che questa è e sarà la realtà immutabile che incontreremo nel nostro futuro. E se la riteniamo negativa, essa rappresenterà la nostra sofferenza rendendola perdurante nel tempo.
Proiezione
Facciamo esperienze del mondo unicamente attraverso la lente dei nostri sensi applicando preferenze, percezioni, certezze del tutto personali che condizioneranno la nostra vita. Oltre a ciò, diamo per scontato che gli altri
pensino esattamente come noi in quanto riconosciamo soltanto il nostro modo di raccontarci e di comprendere il mondo.
Negatività
Dedichiamo costante attenzione alle brutte notizie e ai fatti drammatici e devastanti degli altri. Ciò perché una notizia negativa fa più sensazione di una positiva e ci permette di esprimere opinioni più impattanti e sensazionali che gratificano il nostro protagonismo nei confronti di chi ci ascolta.
Ancoraggio
Tendiamo a rimanere aggrappati alle informazioni che riceviamo per prime e che, possibilmente, coincidono e confermano le nostre intime certezze. Infatti, rivedere le proprie opinioni è un esercizio che normalmente ci trova scarsamente disponibili e motivati, non tanto per la fatica di farlo quanto perché ci procura incertezza e disorientamento. E ciò cozza contro il nostro istinto di conservazione.
Immobilismo
Consiste nel continuare a credere che qualcosa sia vero solo perché all’inizio abbiamo creduto che lo fosse. Esempio eclatante: dopo tutte le recenti missioni spaziali – ampiamente documentate da foto e filmati - il 4,8% della popolazione adulta italiana è tuttora terrapiattista.
Ricerca di conferma
È una delle distorsioni cognitive più frequenti. Si verifica quando prendiamo in considerazione solo le informazioni che corroborano una nostra convinzione o che confermano un nostro pregiudizio. In questo modo ci chiudiamo in noi e non siamo disponibili a nessuna revisione del nostro pensiero. Ci diamo ragione da soli.
Ignorare un problema, cercare una scappatoia anziché affrontarlo, nasconderlo nell’angolo più recondito del nostro cervello vuol dire fargli mettere radici in modo che ci condizioni nel tempo e a nostra insaputa.
Reazione ad una scelta
Quando esprimiamo volontariamente una decisione, cerchiamo di vederne solo gli aspetti positivi e di ignorarne i difetti. Se invece qualcun altro ci impone quella stessa decisione dall’alto, il nostro atteggiamento si inverte: diventiamo critici e scettici.
Fabrizio Favini
Il cervello, in quanto substrato biologico della mente, guida ogni nostra azione, decisione e scelta nelle diverse fasi della vita. Il filosofo francese Edgar Morin, padre del pensiero complesso, ha scritto “è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena”.
Il regista François Truffaut diceva “un uomo si forma tra i 7 e i 16 anni, e dopo vivrà di quanto assimilato tra queste due età”. Certo, sono semplificazioni, ma sappiamo che molti tratti della personalità, così come molte capacità individuali, si stabiliscono durante le prime fasi della vita, in quella “giovinezza” spesa in gran parte - ma non solo - nell’andare a scuola. Negli ultimi decenni, le Neuroscienze ci hanno fornito molte informazioni su quanto avviene nel cervello dei giovani e dei giovanissimi, rivelando la natura dei cambiamenti strutturali che portano all’affinamento dei
circuiti nervosi, e quindi le opportunità o i pericoli per il corretto sviluppo cerebrale e la conseguente formazione dell’individuo.
Il processo biologico che sottende a tutto ciò si chiama plasticità cerebrale, ossia la capacità del cervello di cambiare la propria struttura anatomica nel tempo, continuando così a modificarsi dopo la nascita. Va da sé che alla nascita, come macchina progettata e assemblata per svolgere alcune funzionicapacità di movimento, visione, tatto, udito, percezione della temperatura, del dolore, e così via - il cervello “sa fare” tante cose, ma non altre. Non sa camminare, non sa parlare, non coordina i movimenti in modo preciso. E, soprattutto, non conosce il mondo. Imparerà tutto ciò dall’esperienza, intesa come interazione col mondo stesso, un processo che, visto dall’esterno, definiamo apprendimento. Ora però sappiamo che, mentre lo farà, i suoi circuiti nervosi
cambieranno considerevolmente, andando a scolpire un nuovo cervello - una specie di upgrade del precedente.
Data l’estrema complessità di questo organo, è difficile immaginare la plasticità. Citiamo solo i primi due livelli di tale complessità: il numero di neuroni (circa 90 miliardi in quello umano) e il numero di contatti (sinapsi) tra tutti quei neuroni (migliaia di miliardi), che dovranno organizzarsi in modo estremamente preciso. Viene da pensare a un congegno straordinariamente intricato e necessariamente statico. Eppure, i cambiamenti della plasticità avvengono, visto che il cervello passa da 250 grammi alla nascita a 1.300 nell’adulto.
Cosa è successo lì dentro?
La plasticità più semplice è quella sinaptica: la possibilità di creare nuovi contatti tra i neuroni - se lavorano molto, ad esempio quando impariamo a fare qualcosa di nuovo - e di eliminarne altri (se in disuso da tempo). Certo, è un fenomeno microscopico, ma tenendo conto dell’enorme numero di sinapsi il cambiamento sarà significativo.
Non cambia però il numero dei neuroni, che è abbastanza stabile poiché, diversamente da altri organi come la pelle o il sangue, il cervello non è in grado di rinnovare i propri elementi cellulari. In teoria, i 90 miliardi in dotazione alla nascita restano con noi fino alla fine. In realtà, questa regola è stata intaccata trent’anni fa dalla scoperta che alcune cellule staminali persistono in piccole zone del cervello, dove generano nuovi neuroni; un fenomeno più evidente nei topi di laboratorio (legato all’olfatto e a funzioni istintive), mentre nella specie umana si esaurirebbe molto presto, dai 2 ai 13 anni. Esistono infine “neuroni immaturi”: generati prima della nascita come gli altri 90 miliardi, ma che restano “dormienti” per lunghissimo tempo, per poi risvegliarsi e inserirsi come nuovi neuroni senza il bisogno di cellule staminali. Questi elementi dormienti sono molto più abbondanti nei primati e nell’uomo, dove costituiscono una riserva di cellule giovani in aree legate a funzioni cognitive sofisticate e alle emozioni (corteccia cerebrale e amigdala).
Risulta quindi chiaro che il cervello giovane è ancora incompleto e può essere ampiamente “scolpito” nella sua organizzazione strutturale grazie ai diversi tipi di plasticità. Il rimodellamento dei circuiti fornirà all’individuo in crescita una “visione del mondo”: la comprensione il più possibile completa e approfondita della complessità ambientale in cui dovrà vivere da adulto. Questo processo, che in molti animali dura pochi mesi ed è finalizzato alla sopravvivenza - ricerca del cibo, riproduzione, fuga dal predatore - nella specie umana si protrae per circa 20 anni, arricchendosi di valenze aggiuntive legate all’evoluzione culturale, alla complessità sociale, all’acquisizione di competenze e di valori.
La ricerca sta rivelando che la plasticità è rafforzata da una vita ricca di stimoli, attività fisica e impegno nel risolvere le
difficoltà; viene invece inibita da stress, vita sedentaria e appiattimento culturale. Per cui non sarà solo la scuola ad influenzare la “scultura cerebrale” del giovane, ma ogni aspetto della vita: famiglia, amici, Internet, introspezione.
Purtroppo, alcune realtà e stili di vita diffusi nel mondo contemporaneo vanno in direzione opposta. E c’è un altro aspetto importante: la plasticità del cervello non è come un elastico (in cui la modificazione di forma viene annullata nel momento in cui cessa la forza deformante) ma è come giocare col Pongo, dove la traccia di ogni deformazione si sommerà alle precedenti con effetto cumulativo. È chiaro quindi che dalle modificazioni strutturali non si torna indietro facilmente, anche perché, dopo l’età giovanile (al termine dell’accrescimento somatico), la plasticità si riduce, portando ad una sostanziale stabilizzazione dei circuiti nervosi.
In conclusione, solo una testa ben fatta - secondo Morin - ovvero un cervello ben scolpito dalla plasticità per ottenere la visione del mondo (secondo le Neuroscienze), consentirebbe alle persone di rispondere in modo adeguato alle sfide della complessità della vita quotidiana, sociale, politica, e della globalità. Le opportunità e i rischi legati alla plasticità cerebrale sono la chiave per progettare strategie nell’educazione, nel sociale, nel mondo del lavoro e, in ultima analisi, per decidere il futuro degli individui e di un intero Paese.
Luca Bonfanti
Il punto di svolta nella storia del progetto di integrazione europea è stato il voto contrario al trattato costituzionale da parte dei cittadini francesi e olandesi espresso nel 2005. Dopo l’esito fallimentare di questi 2 referendum, il Consiglio europeo avviò un periodo di riflessione di 2 anni per rivalutare il processo di integrazione europea e nel marzo del 2007 decise di organizzare una conferenza intergovernativa per rivedere il trattato costituzionale.
La conferenza concluse i lavori nell’ottobre 2007 con un testo di trattato che venne firmato dal Consiglio Europeo il 13 dicembre
dello stesso anno. Il trattato faceva un passo in avanti solo formale sostituendo il termine «comunità» con il termine «unione» ma evitava accuratamente di promuovere l’idea di un superamento degli Stati nazionali riportando al centro proprio il ruolo degli Stati stessi.
In pratica la narrazione politico-utopistica sull’Europa prese il sopravvento impedendo di ragionare senza pregiudizi sugli aspetti pratici della costruzione europea.
La modifica più importante introdotta dal Trattato di Lisbona del 2007 rispetto al precedente trattato costituzionale fu il potenziamento del ruolo del Consiglio Europeo con la nomina di un presidente, creando così un dualismo nella gestione dell’Unione Europea - di cui si sono visti esempi non particolarmente brillanti con la coppia Charles Michel - Ursula von der
Leyen - e conferendo al Consiglio Europeo un ruolo centrale nel definire la direzione politica dell’Unione Europea.
Prima del trattato di Lisbona il ruolo del Consiglio Europeo era meno definito mentre con il nuovo trattato il Consiglio è stato formalmente riconosciuto come un’istituzione dell’UE che ne indirizza le decisioni politiche. Il Consiglio Europeo secondo il trattato di Lisbona non esercita funzioni legislative ma definisce le priorità della costruzione europea e fornisce gli orientamenti che devono guidare le politiche europee.
Era chiaro a questo punto che l’ideale di una Unione Europea federale dotata di una sua Costituzione e di una piena legittimità democratica era definitivamente tramontato e occorreva ripensare in profondità la natura di una unione tra Stati che avevano rinunciato a una parte di sovranità in vista di un obiettivo molto ambizioso che non si era realizzato e che difficilmente si sarebbe realizzato in futuro.
Con il Trattato di Lisbona l’Unione aveva assunto una natura ibrida con caratteristiche di una federazione ma con meccanismi molto complessi di governo che avevano lo scopo di compensare il deficit democratico insito nel suo particolare assetto istituzionale.
Il Parlamento Europeo usciva rafforzato dal trattato di Lisbona essendo stato trasformato da organo puramente consultivo in organo partecipe al processo legislativo.
Al Parlamento venivano attribuite competenze in materia finanziaria per quanto riguarda tutte le categorie di spesa del bilancio dell’Unione. Per quanto riguarda invece l’attività legislativa, che ne dovrebbe rappresentare la missione fondamentale, il Parlamento ha un ruolo di co-decisore nelle aree in cui il Consiglio decide a maggioranza
qualificata, mentre la facoltà di iniziativa resta saldamente in capo alla Commissione
Si tratta evidentemente di un meccanismo complicato di cui i cittadini faticano a capire il funzionamento. Per rappresentare questo bizantino meccanismo legislativo ci si è perfino dovuti inventare un termine nuovo, «trilogo». In realtà, essendo il potere di iniziativa legislativa nelle mani della Commissione, gli altri partecipanti al trilogo hanno un ruolo importante ma complementare, un ruolo integrativo o moderatore. Possono cioè introdurre elementi correttivi nelle iniziative della Commissione, e questo viene rappresentato come un sistema estremamente efficiente per raggiungere il consenso. In realtà l’elemento più importante di questo meccanismo non è l’efficacia del processo ma il punto da cui il processo è partito e cioè il lavoro delle Direzioni Generali della Commissione.
Quando parte una iniziativa, essa può essere potenziata o depotenziata, difficilmente può essere fermata.
A sua volta la Commissione è fortemente influenzata dagli Stati che hanno un maggior peso politico nell’Unione dettandone in qualche modo l’agenda e che presidiano saldamente le Direzioni Generali. Da questo punto di vista la Germania ha un peso superiore a qualsiasi altro membro dell’Unione e questo fa sì che il metodo di lavoro della Commissione sia fortemente improntato alla ideologia ordoliberista che ha guidato fin dagli anni Trenta la formazione della politica economica tedesca.
L’ordoliberismo si differenzia dall’approccio
anglosassone alla gestione dell’economia perché, invece di affrontare i problemi in termini pragmatici, fa affidamento su regole rigide che hanno la funzione di limitare la discrezionalità dell’intervento politico. C’è l’ideologia ordoliberista all’origine del trattato di Maastricht che ha fissato parametri sul deficit e sul debito senza alcun fondamento scientifico.
È l’ordoliberismo che ha ispirato la catastrofica gestione della crisi del 20082011 da parte delle istituzioni europee.
Aggiungo inoltre che per costruire un vero mercato unico servono prezzi dell’energia equivalenti su tutti i mercati, normative tecniche comuni e sistemi fiscali e servizi finanziari omogenei; a questo riguardo oggi in EU operano 20 differenti Borse Valori.
Ciò era un obiettivo ambizioso già ai tempi dell’Europa a 6, diventato di enorme complessità con l’Europa a 27 – tra l’altro con prospettiva di ulteriore allargamento – con Stati che continueranno ad avere culture, aspirazioni e dinamiche profondamente diverse.
In buona sostanza l’ambizioso processo di unificazione si è scontrato con la inevitabile persistenza degli Stati nazionali con lingue, culture, tradizioni e sistemi legali diversi, una persistenza questa cresciuta esponenzialmente con l’aumento del numero degli Stati membri, aggravata dalla profonda diversità storica, culturale e sociale dei Paesi dell’Europa dell’Est rispetto a quelli dell’Europa occidentale.
Inoltre è anche mancata la spinta di successi economici che avrebbero potuto rappresentare una forte motivazione al
processo di integrazione. L’Europa, infatti ha perso importanti posizioni: prima della crisi del 2008 pesava sul PIL mondiale per il 24%, esattamente quanto gli Stati Uniti; oggi il suo peso è sceso attorno al 17%, un punto al di sotto della Cina.
Di cosa ha bisogno, adesso, l’Europa?
Ha bisogno di definire in campo energetico una strategia che le consenta di ridurne i costi che oggi sono il triplo di quelli americani.
Ha bisogno di pensare di meno a regolare ogni aspetto della sua vita economica e del comportamento delle imprese perché la burocrazia uccide la voglia di intraprendere.
All’interno della UE c’è una forte insofferenza per l’eccesso di regole e vincoli imposti dall’Unione.
Ha bisogno di pensare ad una politica industriale comune che favorisca concentrazioni tra Stati membri in grado di destinare risorse adeguate a ricerca e sviluppo. Negli anni 90 l’Europa aveva un terzo delle maggiori imprese mondiali; oggi ne ha meno di un quinto.
Ha bisogno di provvedere alla propria sicurezza in un contesto dove l’ombrello protettivo degli USA sul piano militare è destinato a ridursi consistentemente, mentre le tensioni internazionali sono destinate ad aumentare. A questo proposito, nel discorso tenuto a Bruxelles il 16 Aprile 2024, Mario Draghi ha detto: .. il mondo sta cambiando velocemente e noi siamo stati colti di sorpresa. Serve un cambiamento radicale.
Ha bisogno di investire in ricerca scientifica e tecnologica, nonché in formazione professionale: oggi nelle prime 10 università al mondo non ce n’è una sola della UE. E nelle prime 50 di europee ce ne sono solo 3.
Franco Bernabè
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Promuovere una cultura del lavoro capace di includere e valorizzare le nuove generazioni, in una società in costante evoluzione, è diventata una delle missioni delle organizzazioni che aspirano a un cambiamento tangibile nella società. Inoltre, è anche una necessità economica: il numero delle persone Baby Boomer che stanno uscendo e che usciranno dalla forza lavoro attiva è superiore rispetto al numero di giovani che entreranno nelle aziende.
In questo senso la sfida delle organizzazioni è quella di essere attrattive e di riuscire a fidelizzare le generazioni che si stanno affacciando al mercato del lavoro.
Parlare di sviluppo sostenibile significa parlare di inclusività, di strategie orientate al futuro e, soprattutto, di giovani - una generazione troppo spesso ai margini del mondo del lavoro. Significa ascoltare i giovani e coinvolgerli nella definizione di politiche, strategie e impegni fattuali.
Ed è per questo che nasce Diamo forma al lavoro del futuro, l’iniziativa di Valore D per dare voce ai giovani attraverso un “Patto”, una promessa di azione che le aziende possono sottoscrivere per affermare il loro impegno nei confronti di una cultura basata su leadership inclusiva, rappresentatività, equità, senso di appartenenza, benessere e protezione.
Questi sono solo alcuni dei temi individuati attraverso un processo di ascolto bottom-up coinvolgendo giovani studenti, impiegati, operai e NEET con una rappresentatività a livello di Paese per genere, età, zona di residenza e titolo di studio.
Con loro è stata condotta una prima indagine qualitativa basata su Web Focus Group e poi una seconda fase quantitativa che ha esplorato il concetto di lavoro inclusivo, portando un’eterogeneità di prospettive, oltreché un radicale cambio di prospettiva rispetto al mondo del lavoro.
Dalla ricerca emerge che solo una persona giovane su quattro (28%) si sente inclusa nella società, nonostante il 57% dei giovani mostri un forte interesse nei confronti delle tematiche dell’inclusione. I valori generazionali di fondo sono fortemente influenzati dalla fase storica che stiamo vivendo e sono segnati dall’incertezza, uno stato d’animo che accomuna sia giovani che adulti, anche se ciò che caratterizza i giovani, in particolare, è un deficit di speranza verso il futuro e una maggiore angoscia.
L’indagine mostra come le persone giovani danno più peso degli adulti a valori come la libertà, l’uguaglianza e il merito, mentre la retorica del successo non è più attrattiva. Infatti, per loro, fare un lavoro prestigioso o avere una carriera di successo sono aspetti secondari per la realizzazione personale. Molto più importante per “sentirsi sulla strada giusta” è fare un lavoro che piaccia e offra stimoli lasciando spazio alla vita privata, anche nell’ottica di riuscire a formare una famiglia. Un altro aspetto da tenere in considerazione, al primo posto tra gli ingredienti della realizzazione personale, è raggiungere una stabilità economica, un tema essenziale soprattutto tra le persone più giovani già inserite nel mondo del lavoro.
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Questa concezione di lavoro, dove più della carriera verticale viene attribuita importanza alla conciliazione vita-lavoro, sembra a ogni modo piuttosto condivisa anche da Baby Boomers e da Generazione X.
La ricerca ha portato all’individuazione di 9 punti su cui i giovani hanno avuto la possibilità di misurare la distanza tra desideri, bisogni e realtà, individuando così gli ambiti su cui ritengono sia più urgente lavorare. I punti si pongono l’obiettivo di affrontare le dimensioni e le declinazioni dell’inclusione sul lavoro, offrendo la visione e il contributo delle nuove generazioni nel definire una roadmap concreta per creare ambienti di lavoro più equi e accoglienti.
I 9 punti individuati, e le loro declinazioni, sono:
1. Apertura al dialogo e al confronto
“Il mio pensiero conta e sento incoraggiata la libertà di espressione.”
2. Valorizzazione
“Tutte le esperienze contano, tutte le sfide che ho affrontato raccontano le mie abilità.”
3. Partecipazione
“Il mio lavoro contribuisce ad un progetto comune e ciascuno si sente parte di un gruppo.”
4. Disponibilità di luoghi, informazioni, risorse e tecnologie
“Il luogo di lavoro diventa luogo di accoglienza, dove spazi, processi organizzativi, risorse e tecnologie sono disponibili e accessibili per supportare e sviluppare relazioni.”
5. Supporto a sviluppo delle competenze
“Ricevo supporto per lo sviluppo delle competenze necessarie per progredire nel mio lavoro.”
6. Equità e trasparenza
“Mi sono chiari i criteri di valutazione e gli obiettivi da raggiungere.”
7. Sviluppo del benessere individuale e collettivo
“La cultura organizzativa si fa sponsor del mio benessere e promuove o semplifica il bilanciamento vita/lavoro.”
8. Rispetto e protezione delle singole individualità
“Tutte le persone dell’organizzazione si impegnano attivamente per rimuovere pregiudizi e disuguaglianze. Manager e leader agiscono da modelli di ispirazione.”
9. Appartenenza
“Le connessioni sono aperte e raggiungibili. Nessuno è tagliato fuori dal sistema e le occasioni di stringere relazioni sono frequenti.”
Il risultato è che l’inclusione è un tema essenziale per le giovani generazioni: non si tratta solo di un valore astratto, ma di un meccanismo concreto di scambio equo, un dare e avere che permea ogni aspetto della vita quotidiana, dal lavoro alle relazioni personali, e che si intreccia profondamente con il senso di appartenenza a una comunità. Ma c’è ancora molto da fare.
È necessario un cambio di passo valoriale, che porti alla scomparsa di quei fattori che creano un ambiente in cui i giovani talenti faticano a emergere e a sentirsi valorizzati per le loro competenze.
Attraverso questo patto, Valore D si impegna a costruire un ponte tra le giovani generazioni e il mondo delle imprese, con la volontà di stimolare un dialogo aperto e costruttivo, basato sull’ascolto reciproco e sulla comprensione delle diverse prospettive. L’obiettivo finale è quello di
innescare un cambiamento nel mondo del lavoro rendendo gli ambienti lavorativi più inclusivi, sostenibili e al passo con le richieste degli stakeholder.
È per questo che risulta fondamentale che aziende e istituzioni siano consapevoli che investire nelle nuove generazioni significa investire nel futuro del Paese.
Nicole Gila e Melissa Crespi
Per approfondire il Patto “Diamo forma al lavoro del futuro” è possibile consultare questa pagina sul sito di Valore D e scaricare in fondo il report.
Nel mondo del management consulting da 50 anni, è consulente esperto di innovazione del comportamento, facilitatore e formatore per lo sviluppo del talento in Azienda. Migliora il rendimento del capitale umano
favorendo la crescita di soddisfazione, motivazione, selfengagement, produttività.
Utilizza le neuroscienze per favorire l’acquisizione delle competenze sociali indispensabili
a modificare i comportamenti non più funzionali alla crescita sia dell’Individuo che dell’Azienda.
Oltre a numerosi articoli, ha pubblicato i seguenti libri: La Vendita di Relazione
(Sole 24ORE); La vendita fa per te (Sole 24ORE); Scuotiamo l’Italia (Franco Angeli); Comportamenti aziendali ad elevata produttività –Integrazione tra stili di management e neuroscienze (gueriniNext).
Editore di rivoluzionepositiva. com, Magazine On Line orientato al nuovo Umanesimo d’Impresa per la sostenibilità sociale, economica ed ambientale dell’Impresa stessa.
in Neuroanatomia, un postdoc biennale all’Università di
Bordeaux e un soggiorno alla NorthEastern University di Boston. Insegna Anatomia all’Università di
Torino e studia la plasticità del cervello presso il centro di ricerca NICO (Neuroscience Institute Cavalieri
Ottolenghi). É direttore editoriale della rivista Frontiers in Neurogenesis (Losanna), autore di 90 pubblicazioni
scientifiche su riviste internazionali e di numerosi saggi divulgativi.
È stato CEO di ENI e Telecom. Ha fondato, con Renato Soru, Andala – oggi
H3G – e nel 2020
Tech-Visory per lo sviluppo di soluzioni di intelligenza
artificiale. Ha presieduto importanti società, tra cui Nexi e
Cellnex, ed è stato a lungo consigliere di amministrazione indipendente di PetroChina.
della conoscenzapresso l’Università degli Studi di Milano Bicocca - nel 2023. Nel suo percorso di studi ha potuto approfondire in particolar modo le tematiche legate al genere, la violenza, i diritti umani, la social mobility. Nel 2024 è entrata in Valore D, nel team Centro Studi, dove si occupa di attività di ricerca e knowledge management applicati al mondo del lavoro.
Ha conseguito una laurea magistrale in Sociologia - indirizzo sociologia economica e del lavoro – presso l’Università degli Studi di Milano
Bicocca nel 2018.
Dopo un’esperienza lavorativa nel mondo profit, nel 2020 è entrata in Valore D, la prima associazione italiana che
promuove l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva per la crescita delle aziende e del Paese, dove oggi ricopre la carica di Research
& Knowledge
Management
Project Manager. Qui coniuga la sua dedizione alla ricerca con il suo interesse per la diversità,
l’equità e l’inclusione nel mondo organizzativo.
Perché Rivoluzione Positiva?
Un nuovo Magazine On Line: informazione, conoscenza, saggezza.
Con l’enorme disponibilità di informazioni, resa possibile dalla tecnologia, la nostra vita è diventata molto più veloce e molto più distratta. Abbiamo creato i presupposti per cui il nostro cervello è meno preciso, fatica di più a concentrarsi. Perdiamo il focus attentivo sui problemi, divaghiamo mentalmente, siamo intermittenti e discontinui nel nostro modo di pensare e,
quindi, nel nostro comportamento.
Siamo passanti frettolosi e distratti la cui soglia di attenzione dura 8 secondi; siamo meno concentrati dei pesci rossi che arrivano a 9, ci dicono gli esperti. Siamo diventati bulimici di informazioni, emozioni, immagini, collegamenti, suoni. Divoriamo il tutto in superficie senza gustare, approfondire, riflettere.
Oggi chi non si ferma a
guardare non vede; chi non si ferma a pensare non pensa.
Riscopriamo allora il piacere - o la necessitàdi riflettere, di pensare, di soffermarci per capire meglio dove stiamo andando per essere più consapevoli del nostro tempo, complesso e complicato, e del nostro ruolo, umano, sociale e professionale.
Se condividete queste nostre riflessioni, siete invitati a partecipare ad
una iniziativa virtuosa resa possibile dalla combinazione dei saperi e delle esperienze umane e professionali di un manipolo di Pensatori Positivi, profondi, competenti e sensibili interpreti del nostro tempo, che hanno deciso di contribuire a questo Progetto. Ad essi si uniscono autorevoli Testimoni Positivi. A tutti loro il nostro grazie! di cuore.
Fabrizio Favini
Edoardo Boncinelli
Roberto Cingolani
Enrico Giovannini
Gianni Ferrario
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