22 minute read

La cura dei civili

Next Article
Bibliografia

Bibliografia

pieni di feriti e moribondi. 82

La cura dei civili

Advertisement

Alla fine dell’inverno, quando ormai erano già passati due mesi dallo scoppio dell’epidemia e le vittime si contavano già a decine di migliaia, la situazione cominciò ad allarmare seriamente anche il pubblico europeo e americano. I quotidiani dei paesi alleati e neutrali riportarono i resoconti di chi aveva visto la drammaticità della situazione: «Se non si fa qualcosa per prevenire la diffusione della malattia, il paese perderà più della metà dei suoi abitanti», affermò il dottor Ryan, capo delle unità della Croce Rossa americana in Serbia.83

Una tale pestilenza non si era vista da moltissimo tempo, e anche in quei paesi che si ritenevano distanti dal pericolo cominciò ad aleggiare la paura che il tifo potesse propagarsi anche nel resto d’Europa. Ancora infatti non aveva varcato i confini della Serbia, ma qualora fosse accaduto difficilmente si sarebbe evitata una catastrofe generale:

Con buona parte dell’Europa continentale in uno stato altamente instabile; con campi e trincee imbevuti di sangue; con tombe poco profonde colme di migliaia di morti sparse in tutte le zone di guerra; con parassiti e sporcizia sulle mani di tutti; con centinaia di migliaia di feriti, molti dei quali con ferite infette, che vengono curati in una maniera pietosamente inadeguata; e con l’arrivo del clima caldo e l’attesa di mosche e zanzare, l’Europa può ben sentirsi in uno stato di grave apprensione – nella paura che una piaga senza precedenti si abbatterà sul Vecchio Continente.84

Lo stato di apprensione tuttavia non riguardava solo il Vecchio Continente, poiché già da tempo gli Stati Uniti avevano messo in atto della misure molto rigorose per evitare che chiunque fosse venuto in contatto con il tifo potesse veicolarne il germe anche oltre oceano.85

Fu questa paura uno dei motivi che probabilmente spinsero i paesi alleati e neutrali, e in particolare gli Stati Uniti, a impegnare serie energie per evitare

82 Earl Bishop Downer, op. cit., pp. 35-36.

83 Typhus threatens Serbia, says Lipton, The New York Times, 15 marzo 1915. 84 50.000 die of typhus, The New York Times, 26 marzo 1915; si riporta il testo dell’articolo The Scourge of War and Some American Heroism, The American Red Cross Magazine, aprile 1915. 85 Serbia’s plague of typhus, The New York Times, 28 marzo 1915.

107

un’epidemia «europea», i cui effetti non solo avrebbero potuto portare alla morte centinaia di migliaia di persone o seriamente compromettere l’andamento della guerra, ma avrebbero potuto infliggere un colpo molto grave agli stessi rapporti tra Europa e America.86 Il dottor Breck Trowbridge, presidente del «Serbian Agricoltural Relief Commission» di New York, per descrivere la pericolosità della malattia sostenne infatti che:

Il tifo si sta diffondendo con un’allarmante rapidità. Se gli Stati Uniti non intraprendono immediatamente delle misure enormi, il flagello si sposterà verso nord in Austria, e da lì in tutti i paesi europei coinvolti nella guerra. Allora il passo sarebbe breve anche per gli Stati Uniti. Con la gran parte dell’Europa affetta da questa piaga, questo paese dovrebbe affrontare un problema costante che si manifesterebbe per un’intera decade in ognuno dei suoi porti d’ingresso.87

La paura di una pandemia fu sottolineata anche chi, lontano dalle strategie e dai movimenti degli eserciti in guerra, ipotizzò che gli austro-ungheresi non si fossero ancora azzardati a tentare una nuova offensiva contro la Serbia proprio per la paura di un contagio di massa.88 Relazioni in cui si sosteneva che il tifo in Serbia stava assumendo «proporzioni violente» e che andavano prese misure immediate per «proteggere l’Europa da un’imminente e diffusa epidemia»,89 vennero prese in considerazione anche alla «Rockefeller War Relief Commission», che verso la fine di

86 La tesi più frequente della storiografia serba e riassunta da Andrej Mitrović, Srbija u Prvom..., cit., p. 162) è in questo molto diversa: «Vista nel complesso, si trattò di una disgrazia che in guerra inferse un ulteriore colpo alla Serbia, ma allo stesso tempo è anche una immisurabile e significativa azione di solidarietà umanitaria internazionale, il cui stimolo principale fu molto probabilmente il fatto che singoli, organizzazioni e governi sentirono il bisogno di aiutare un piccolo popolo di cui si era sentito nei mesi precedenti per la sua decisa difesa della libertà». Spinte umanitarie di singoli e di organizzazioni, come visto, ci furono certamente, come ad esempio quelle del «Serbian Relief Fund» e delle «Scottish Women»; più latenti furono le prese di posizione dei governi, fatta eccezione per quello francese (invio missione Jaubert), inglese (missione Hunter) e forse russo; in realtà, il reclutamento dei medici all’estero cui vennero garantiti notevoli privilegi e la paura di una pandemia in Europa con gravi conseguenze in America inducono a pensare che le motivazioni principali dell’intero movimento di personale medico in Serbia, non furono di carattere umanitario, bensì di «altro ordine». Si noti tra l’altro che anche nelle successive epidemie di tifo che flagellarono il fronte orientale l’idea di un intervento preventivo per evitare una pandemia europea ebbe un ruolo molto importante: Plotz says typhus menaces the world, The New York Times, 24 agosto 1920. 87 AS, MID-PO, 1915, XXII/43 e 44, A commencement testimonial to dr. Richard Pearson Strong, ’93 S, for his Serbian Relief Work, in Supplement to the Alumni Weekly, 18 giugno 1915. 88 Richard Strong, op. cit., p. 3. 89 AS, MID-PO, 1915, XXII/43 e 44, A commencement…., cit.

108

gennaio aveva già deciso di organizzare l’invio di una commissione speciale per verificare lo stato tra la popolazione non combattente in Serbia. Il suo compito prevedeva anche l’organizzazione di un aiuto alle zone colpite dai crimini austro-ungarici dell’agosto precedente;90 eppure, ciò che più impressionò i suoi membri nel viaggio (effettuato tra il 19 e il 26 febbraio nelle principali città serbe) fu la spaventosa condizione igienico-sanitaria generale. Quanto visto dai suoi membri non tardò a divenire di dominio pubblico, confermando quanto fino ad allora affermato da vari altri osservatori: diverse epidemie erano scoppiate in Serbia, ma tra queste il tifo stava letteralmente falciando le vite di moltissimi persone, tra cui diversi medici serbi e stranieri; alcune unità della Croce Rossa americana e di quellea inglese erano state per questo costrette perfino ad interrompere la propria attività. Gli stessi membri della commissione furono allora i primi a promuovere l’idea di una grande operazione sanitaria internazionale per affrontare l’epidemia.91

Gli appelli che il governo serbo aveva lanciato già alla fine del 1914 agli Stati Uniti per un maggior aiuto (quando ancora non era scoppiata l’epidemia), appoggiato dalle relazioni dei membri della Croce Rossa americana che già operavano in Serbia92 e forte della testimonianza della commissione Rockefeller, trovarono finalmente una risposta concreta.

La Croce Rossa americana, in collaborazione con la Fondazione Rockfeller, già ai primi di marzo affidò al generale Gorgas l’organizzazione di una missione sanitaria per aiutare nella lotta contro il tifo e le altre epidemie in Serbia. Come medico incaricato di guidare tale missione fu scelto il dottor Richard Strong, direttore presso l’università di Harvard della Scuola di medicina tropicale, i cui meriti erano già noti nella lotta contro la peste in Cina nel 1911. Al suo fianco sarebbero stati inviati esperti batteriologi e personale sanitario a cui disposizione sarebbero stati messi tutti i mezzi e i materiali necessari. La decisione suscitò immediatamente le speranze di molti, tanto che il 12 marzo

90 AS, MID-PO, 1915, XXII/112, telegramma da console serbo a Parigi Vesnić a presidente Pašić, 13/26 gennaio 1915. Nel telegramma si sottolinea il fatto che la commissione Rockefeller dispone di «enormi fondi per l’aiuto a feriti e popolazione non combattente»; e AS, MID-PO, 1915, XXII/149, da presidente Comitato parlamentare di soccorso ai profughi (Odbor narodnih poslanika za pomoć izbeglih građana) a presidente Pašić, 17 febbraio/2 marzo 1915. Nel comunicato si sottolinea come nonostante la commissione Rockefeller avesse tutti i lasciapassare necessari rilasciati dal Ministero degli Interni e dal Ministero della Guerra, nel suo viaggio ha incontrato difficoltà tali che non è riuscita a visitare i luoghi distrutti dagli austro-ungarici, giungendo quasi a ritenere che ciò fosse stato deliberatamente impedito. 91 Terrible conditions in Serbia, The New York Times, 19 marzo 1915; e Typhus in Serbia killed 100 doctors, 27 marzo 1915. 92 Mieczysłav B. Biskupski, op. cit., p. 39.

109

Mabel Grujić93 consigliò al governo serbo di concedere alla missione Rockfeller, come ormai veniva chiamata, la piena libertà d’azione, in quanto composta da scienziati di fama internazionale e dotata di fondi pressoché illimitati;94 contemporeneamente il console serbo a New York assicurò che la Fondazione Rockefeller «avrebbe fatto molto per la Serbia»;95 e al momento della sua partenza, il generale Gorgas la definì con un certo orgoglio «la più efficiente commissione mai organizzata nella storia della sanità moderna».96

In breve da Boston salpò una nave speciale il cui carico era composto da diciassette scorte di equipaggiamento sanitario,97 mentre il personale della missione sarebbe poi giunto in Serbia a gruppi: alcuni via Salonicco, altri attraversando l’Austria, la Romania e la Bulgaria.98

Intanto il 30 marzo venne tenuta a Parigi una conferenza preparatoria per l’organizzazione della lotta al tifo, presieduta dal capo del Servizio Sanitario del governo francese Georges Tusson, a cui parteciparono il direttore della Croce Rossa americana Ernest Bicknell (che già aveva fatto parte della commissione Rockefeller che aveva visitato la Serbia nel febbraio precedente), alcuni membri della Croce Rossa inglese e del Ministero della Guerra francese, e infine l’industriale Thomas Lipton. Fu deciso, tra l’altro, di coordinare gli sforzi delle missioni già presenti e di dividere la Serbia in tre zone sotto la responsabilità francese, inglese e americana.99

Allo scopo di agire nel modo più efficace possibile, Strong partì il 3 aprile e si recò dapprima in Gran Bretagna e Francia per confrontarsi con chi aveva fatto già parte di commissioni simili e aveva già visto la situazione in Serbia. Nel frattempo in Serbia l’arrivo della missione era seguito con particolare impazienza e fremevano i preparativi per garantire la massima disponibilità ai

93 Mabel Dunlop Grujić, moglie del diplomatico serbo Slavko Grujić, fu tra le personalità più attive nell’organizzazione di aiuti alla Serbia. 94 AS, MID-PO, 1915, XXII/2, nota di Mabel Grujić, 27 febbraio/12 marzo 1915. Alla nota il governo serbo rispose che non era possibile affidare alla missione americana la piena libertà d’azione –per altro richiesta anche al generale Gorgas- in tutto il paese, ma che comunque si sarebbe potuta garantire la totale autonomia in quindici dipartimenti, ovvero in tutti quelli meridionali ad eccezione di Niš e Skopje dove erano attive già altre missioni. AS, MID-PO, 1915, XXII/4, nota del Ministro degli Interni per il Presidente del Consiglio, 28 febbraio/13 marzo 1915; e XXII/6, nota del Presidente del Consiglio per il Consolato a New York, 3/16 marzo 1915. 95 AS, MID-PO, 1915, XXII/181, da console serbo New York a Ministero degli Esteri, 22 marzo/4 aprile 1915. 96 Americans to save people of Serbia, The New York Times, 3 aprile 1915. 97 AS, MID-PO, 1915, XXII/7, telegramma da console serbo a New York Pupin a Ministero Esteri, 4/17 marzo 1915. 98 AS, MID-PO, 1915, XXII/11, telegramma da console serbo a Parigi Vesnić a Ministero degli Esteri, 26 marzo/8 aprile 1915. 99 To combine forces for Serbian Relief, The New York Times, 31 marzo 1915.

110

suoi membri. I loro spostamenti vennero seguiti con molta attenzione,100 e lo stesso Pašić raccomandò che venissero inviati direttamente presso la capitale provvisoria Niš e che verso di loro si usasse una particolare premurosità.101

L’arrivo di Strong in Serbia fu seguito immediatamente dalla formazione di un comitato internazionale operativo per il debellamento delle malattie infettive, in cui come presidente fu simbolicamente nominato il principe Alessandro; vice presidente divenne sir Ralph Paget, supervisore delle missioni inglesi già presenti. Seguendo le direttive dell’incontro di Parigi vennero inoltre inclusi i membri delle missioni delle grandi potenze che già si trovavano impegnate in Serbia: per la Gran Bretagna tale compito fu affidato al colonnello William Hunter, per gli Stati Uniti a Strong, per la Russia a Sofoterov e per la Francia al colonnello Jaubert. Del comitato facevano infine parte i principali rappresentanti del settore sanitario serbo: Sima Karanović come capo della Sezione sanitaria del Ministero della Guerra, Đoka Nikolić come capo della stessa sezione del Ministero degli Interni e infine Roman Sondermajer come ispettore degli ospedali militari.102 Strong venne inoltre scelto come direttore medico: da allora gestì l’intero sistema del lavoro dei medici e delle infermiere francesi, inglesi e americani, nonché dei medici serbi rimasti ancora in vita.

L’aspetto più significativo della formazione del comitato internazionale e dunque del coordinamento dell’azione, fu che il lavoro dei medici e degli infermieri venne rivolto non più solo ai soldati, ma si allargò alla popolazione civile, che fino ad allora era rimasta praticamente esclusa dalla possibilità di cure. Il passo fu di estrema importanza dal momento che non ci si limitò alla cura della malattia ma si organizzò un sistema di prevenzione basato sul miglioramento delle condizioni igieniche, il cui obiettivo era impedire alla fonte la diffusione del tifo e delle altre epidemie, tra le quali il colera suscitava già forti apprensioni. Venne messa in atto una vera e propria «rivoluzione sanitaria», come la definì il generale Gorgas, «unico rimedio possibile per sconfiggere la piaga del tifo»103 .

Per il funzionamento del comitato il parlamento serbo approvò un budget di 5.500.000 dinari,104 mentre continuava l’afflusso di denaro e altri aiuti provenienti da diverse organizzazioni in Europa e America. Nonostante ciò il

100 AS, MID-PO, 1915, XXII/16, da ambasciatore americano a Bucarest a presidente Pašić, 8/21 aprile 1915; AS, MID-PO, 1915, XXII/18, da console serbo a Sofia a presidente Pašić, 9/22 aprile 1915. 101 AS, MID-PO, 1915, XXII/14, nota del presidente Pašić per il console a Salonicco, 4/17 aprile 1915. 102 Isidor Đuković, op. cit., pp. 161-162. 103 Gorgas would need free hand in Serbia, The New York Times, 14 aprile 1915. 104 Isidor Đukovic, op. cit., p. 59.

111

comitato rivolse degli appelli per l’ulteriore raccolta di fondi e soprattutto per l’invio di vestiario per i moltissimi profughi che ancora affollavano le città della Serbia centrale e meridionale, i più esposti alle epidemie.105

Uno dei primi passi intrapresi dal comitato fu la mappatura dell’intero paese, ovvero l’analisi della reale situazione e dello stato dell’epidemia non solo nelle città ma anche nei paesi più lontani. Questa sorta di «ispezione sanitaria generale»106 ebbe come risultato la pianificazione dell’azione e l’accertamento delle urgenze. Che cosa accadeva tra i soldati si sapeva bene, e l’intervento delle missioni straniere aveva in un certo senso già fornito un quadro generale della situazione; chiara era anche la situazione tra i civili ammassati nelle città e tra i prigionieri di guerra austro-ungarici; restava da capire quale fosse lo stato della popolazione rurale, di cui ancora si sapeva ben poco.

Le prime osservazioni fecero pensare che nei paesi, soprattutto in quelli più isolati, il tifo non fosse stato così violento come nel resto del paese o che addirittura non vi fosse arrivato. Nonostante le requisizioni per l’esercito che ormai erano in vigore da diversi mesi, nei paesi e nei villaggi l’autonomia alimentare aveva avuto un’importanza determinante nel garantire una maggiore resistenza degli organismi al tifo. Del resto, osservò in seguito il dottor May Berry, «l’alto tasso di mortalità nel corso dell’epidemia in Serbia, e ancor più in quella recente in Romania, è senza dubbio dovuto al fatto che la maggior parte delle persone contagiate erano debilitate a causa dalla condizione di semi-carestia»;107 una condizione questa che dominava tanto tra i prigionieri austro-ungarici quanto tra i profughi, ma che generalmente non coinvolgeva le zone rurali.

Qui la migliore situazione alimentare era affiancata anche da un (quasi) normale svolgimento della vita familiare e sociale, per cui chi cadeva ammalato riceveva se non altro le costanti cure dei familiari e dei vicini, che nel decorso della malattia erano di fondamentale importanza.108 Tuttavia, nonostante queste prime osservazioni positive, il personale del comitato internazionale dovette far fronte ad una situazione molto complessa in diverse zone della Serbia.

In tutto il paese venne intrapresa una campagna educativa di prevenzione, tesa a migliorare innanzitutto la consapevolezza dell’importanza dell’igiene personale, che spesso proprio nelle zone rurali era alla fonte di numerose infezioni;109 allo stesso tempo si introdussero misure anche per evitare tutte quelle

105 The frightful condition of Serbia, The New York Times, 25 aprile 1915. 106 Richard Strong, op. cit., p. 23. 107 V. Soubbotitch, op. cit., p. 39. 108 Richard Strong, op. cit., p. 7. 109 Ivi, p. 26.

112

situazioni di promiscuità nella vita di tutti i giorni, come la presenza di un letto condiviso da più persone, sane e ammalate, l’andirivieni della gente al cospetto dei moribondi e i rituali funebri a cui partecipavano più persone – dalla vestizione del defunto al suo trasporto verso il luogo di sepoltura -, o infine la scarsa areazione dei locali abitativi.110

Contemporaneamente si cercò di spostare almeno temporaneamente la gente dei villaggi infetti del sud della Serbia e della Macedonia, che pare fossero tra i più colpiti (erano i più poveri) mentre di cercò di favorire il ritorno dei profughi della Serbia del nord alle loro case.111 Le disinfestazioni, messe in pratica con l’ausilio di apparecchiature anche molto rudimentali, furono all’ordine del giorno e non riguardarono solo il vestiario e i luoghi pubblici, ma coinvolsero abitazioni e non di rado interi paesi.112 Nei paesi più colpiti, dove non si riusciva ad ottenere risultati significanti o dove la proliferazione dei pidocchi appariva inarrestabile, si misero in atto le misure più estreme: la popolazione fu evacuata e gli edifici dati alle fiamme.113 Nelle città, che apparivano come dei luoghi di morte, dove la promiscuità tra ammalati e sani era quotidiana sia nelle abitazioni che nei luoghi pubblici come caffè e teatri, si affrontò il problema dell’acqua potabile e delle fognature, poiché le malattie avevano trovato nelle terribili condizioni igieniche dell’acqua dei pozzi e dei bacini artificiali un luogo particolarmente fertile:114 per questo il comitato si adoperò per organizzare lo scavo di pozzi artesiani e per la regolazione dello scarico delle acque nere.115

La «rivoluzione sanitaria» coordinata da Strong diede presto i primi risultati, e complice probabilmente un calo naturale dell’epidemia, già verso la fine di aprile la situazione apparve molto migliore. Tra i soldati il numero degli ammalati diminuì notevolmente, mentre tra i civili non si registrarono nuovi focolai d’infezione; né fece la sua comparsa il tanto temuto colera, già presente sul fronte orientale, segno che l’opera di prevenzione stava funzionando.

Questa nuova situazione spinse l’attenzione di alcune missioni straniere verso la condizione generale della popolazione civile in Serbia, e finalmente, dopo che «nel primo periodo dell’epidemia non c’erano ospedali per donne e bambini»,116 la possibilità di cura venne estesa anche ai civili: diverse strutture

110 Caroline Matthews, Experiences of a woman doctor in Serbia, Mills & Bonn, London, 1916, pp. 53-54 e p. 56. 111 AS, MID-PO, 1915, XXII/43 e 44, A commencement…, cit. 112 Richard Strong, op. cit., p. 29. 113 Ivi, p. 25. 114 Ivi, p. 37; Edward Stuart, op. cit., p. 124. 115 Ubavka Ostojić-Fejić, op. cit., pp. 64-65. 116 Richard Strong, op. cit., p. 7.

113

sanitarie gestite da missioni straniere cominciarono infatti a svuotarsi dei soldati e ad aprire le loro porte ai civili. Fu questo ad esempio il caso della città di Bitola, dove già nel maggio quasi tutti gli ospedali militari erano stati smobilitati, mentre nei due ancora attivi si trovavano meno di 600 soldati ricoverati. Per questo motivo le autorità civili della città d’accordo con quelle militari proposero l’istituzione di un ospedale comunale per civili, con particolare attenzione ai più poveri, che avrebbe permesso di sanare l’intero distretto. La guida sarebbe stata affidata ad un medico americano, il dottor Josef Thomson.117 Contemporaneamente a Skopje il personale della «First British Field Hospital for Serbia», giunto da poco con l’intenzione di dedicarsi alla cura dei feriti, dedicò invece le proprie attenzioni ai civili prima di essere spostata in un’altra città. Per sei settimane il lavoro fu rivolto alla popolazione non combattente, soprattutto ai bambini ammalati e ai molti che, venuti a conoscenza della presenza della missione, vi si recavano anche dai paesi più distanti.118

L’opera tra i civili assunse una dimensione del tutto inaspettata quando nella Serbia centrale, grazie all’ iniziativa di St. Clair Stobart, dottoressa inglese giunta in precedenza alla guida di una missione interamente femminile, il concetto stesso di cura ai civili mutò il suo aspetto fondamentale.

La sua missione, terza delle cinque organizzate dal «Serbian Relief Fund», era partita il 20 marzo ed era composta da sette donne medico, quindici infermiere e altre venti persone;119 insieme al personale venne inviato molto materiale sanitario, tra cui 100.000 dosi di siero contro il tifo e 50.000 contro il colera.120 Lo Stato maggiore dell’esercito serbo, da cui dipendeva la dislocazione delle missioni straniere, destinò la «missione Stobart» ai reparti militari stanziati a Kragujevac.121

Giunta a Salonicco il 2 aprile, Lady Stobart insieme ad un primo gruppo di 12 persone si recò a Niš per presentarsi al presidente Pašić e proseguire poi

117 AS, MID-PO, 1915, XXII/63, senza ulteriori indicazioni. Nella stessa nota si dice che al finanziamento avrebbe probabilmente partecipato anche l’Urgent Fund for the Serbian Wounded diretto da Miss Thackara. Si veda anche: AS, MID-PO, 1915, XXII/57, da consolato serbo Londra a Ministero Esteri, 14/27 aprile 1915; AS, MID-PO, 1915, XXII/59, comunicazione da Ministero Interni a Ministero Esteri, 2/15 maggio 1915; e AS, MID-PO,1915, XXII/61, comunicazione da consolato serbo Londra a Ministero Esteri, senza data. 118 Alice e Claude Askew, The stricken land. Serbia as we saw it, Eveleigh Nash Company, London, 1916, p. 52. 119 AS, MID-PO, 1915, XXI/521, telegramma da ambasciatore Londra a Ministero degli Esteri, 12/25 marzo 1915. 120 AS, MID-PO, 1915, XXI/520, telegramma da ambasciatore Londra a Ministero degli Esteri, 4/17 marzo 1915; e Monica Stanley, My diary in Serbia. April I, 1915 – Nov. I, 1915, Simpkin, Marshall, Hamilton, Kenton & Co., London, 1916, p. 7. 121 AS, MID-PO, 1915, XXI/523, da Ministero della Guerra a Ministero degli Esteri, 13/26 marzo 1915.

114

verso la destinazione prestabilita, Kragujevac. Il resto della missione, in attesa a Salonicco, insieme alla grande quantità di materiale portato dalla Gran Bretagna, sarebbe partita due giorni dopo.122

Dopo nemmeno un mese d’attività, quando i casi di tifo tra l’esercito cominciarono drasticamente a diminuire, St. Clair Stobart decise di trovare un modo per poter impegnare le forze del proprio ospedale fino a che non fossero riprese le ostilità (il motivo per cui erano giunte, come quasi tutte le missioni straniere, era pur sempre un aiuto sanitario all’esercito). Il tutto partì da una semplice considerazione, come scrisse nelle sue memorie la stessa Stobart: «In un paese che come la Serbia soffre da anni, ci deve essere bisogno d’aiuto: ma in che direzione?». La risposta le giunse durante un colloquio con il sindaco di Kragujevac, quando emerse il fatto che i civili, soprattutto nelle zone rurali, non avevano personale medico. «In un attimo capii che cosa significasse», scrisse. primi di maggio cominciò così l’opera tra i civili.123

Nella città di Kragujevac venne istituito così, tra lo stupore generale, un ambulatorio aperto a tutti, poi divenuto ospedale civile: nel giro di poche settimane vi passarono 12.000 civili, molti dei quali ammalati di tifo e di altre malattie, provenienti anche dalle zone più remote della provincia. Particolarmente diffusa era la difterite, che stava causando numerosi morti soprattutto tra i bambini; ma frequenti erano anche le morti dovute al vaiolo, alla malaria e ad altre malattie. Le madri portavano sui carri i loro figli ammalati, mentre i padri li portavano in braccio. Intere famiglie vennero per questo vaccinate e molti bambini vennero salvati. Inoltre, i casi che non potevano essere risolti nell’ambulatorio venivano inviati negli ospedali da campo adattati alle esigenze oltre che di uomini anche di donne e bambini.124 La gente arrivava di continuo, e soprattutto nei giorni festivi l’ambulatorio era «sotto assedio». Chi arrivava, aspettava pazientemente in coda il proprio turno per essere visitato oppure per chiedere un aiuto per i propri familiari rimasti nei villaggi e ammalati spesso di tifo.125 A queste persone, che spesso ripartivano subito per tornare dai propri cari, come anche ai molti profughi che ancora affollavano le vie della città, le volontarie dell’ospedale si occuparono anche di distribuire cibo, vestiario e generi di prima necessità.126

122 AS, MID-PO, 1915, XXI/528, telegramma da console serbo a Salonicco a Ministero degli Esteri, 5/18 aprile 1915. 123 St. Clair Stobart, The flaming sword in Serbia and elsewhere, Hodder and Stoughton, London-New York-Toronto, 1916, pp. 66-67. 124 Ivi, pp. 68-69. Sull’opera della missione Stobart tra i civili si veda anche: Monica Stanley, op. cit. 125 St. Clair Stobart, op. cit., p. 70; e Monica Stanley, op. cit., pp. 33-34. 126 St. Clair Stobart, op. cit., p. 70.

115

La massa di persone che si recava a Kragujevac in cerca di cure mise allora in evidenza un altro aspetto della condizione dei civili, in parte già osservato da altri medici stranieri, estremamente drammatico. Almeno la metà delle persone che si presentava al nuovo ambulatorio della città, così come probabilmente la metà di quelli che non vi andarono, sottolineò la stessa Stobart, pativa di una forma avanzata di tubercolosi causata dall’abbandono degli ultimi anni contrassegnati dalla presenza costante della guerra.127

Il gran numero di persone che si rivolse all’ambulatorio di Kragujevac, la lontananza dei luoghi da cui provenivano e soprattutto i racconti che molti portavano con sé in cui loro familiari erano morti o giacevano in gravi condizioni senza possibilità di aiuto medico, spinsero la dottoressa Stobart a istituire una serie di ambulatori sparsi nei paesi principali della provincia. Con l’approvazione della autorità militari e grazie ai fondi raccolti dal «Serbian Relief Fund» vennero aperti quindi sei ambulatori composti ognuno da una dottoressa, due infermiere e un cuoco. In ogni ambulatorio era prevista anche la presenza di autista alla guida di un’automobile che avrebbe dovuto mantenere il collegamento con l’ospedale centrale di Kragujevac,128 così come il trasporto degli ammalati più gravi e il trasporto dei materiali e dei rifornimenti.129

Il primo di questi ambulatori venne aperto il 14 luglio nel paese di Natalinci, 30 chilometri a nord di Kragujevac, nello spazio adiacente la chiesa, tra la gioia della autorità comunali e religiose e soprattutto degli stessi abitanti,130 che per la prima volta potevano permettersi delle cure mediche. Stesse reazioni si ebbero negli altri luoghi in cui vennero aperti gli ambulatori. Grazie all’iniziativa di St. Clair Stobart venne prestato aiuto medico a ben 22.000 civili.131

L’esempio della Stobart fu seguito da molti altri medici, tanto che ai primi di luglio la Sezione sanitaria del Ministero degli Interni fermò l’arrivo di nuovo personale dall’estero sostenendo che «il servizio medico civile è al completo».132

127 Ivi, op. cit., p. 69. 128 Ivi, p. 76. 129 Tuttavia, le sei automobili inviate dal Serbian Relief Fund in agosto si trovavano ancora bloccate a Salonicco a causa di alcuni problemi di natura burocratica. Esse arrivarono a destinazione solo il 17 settembre; nel frattempo il collegamento fu mantenuto dall’unica automobile a disposizione presso l’ospedale di Kragujevac. AS, MID-PO, 1915 XXI/ 532, l. br. 23530, da Comando supremo, Sezione sanitaria, a delegato Ministero degli Esteri presso la il Comando supremo, 17/30 agosto 1915; e St. C. Stobart, op. cit., p. 113. 130 St. C. Stobart, op. cit., p. 83. 131 Barbara McClaren, Women of war, Hodder and Stoughton, London – New York – Toronto, 1917, p. 34. 132 AS, MID-PO, 1915, XXI/184, da Ministero degli Interni, Sezione sanitaria, a Ministero degli Esteri, 20 giugno/3 luglio 1915; tuttavia, medici e infermiere stranieri continuarono ad arri-

116

This article is from: