
9 minute read
Premessa
La storia dei Balcani nel XIX secolo è un lungo tragitto di lotte per l’indipendenza e l’autoaffermazione nazionale, ma al contempo una continua contesa politica tra le potenze dominanti nell’Europa di allora. Alla lenta agonia dell’Impero ottomano, che a poco a poco si ritirava dai suoi territori europei, si sostituivano gli appetiti della Russia e dell’Impero austro-ungarico, entrambi fortemente interessati ad espandere la propria influenza verso il mar Egeo. In mezzo, stavano i bulgari, i romeni, i serbi, i montenegrini, gli albanesi, i greci e tutta quella variegata costellazione di popoli che cominciavano, sull’onda degli avvenimenti europei, a formulare e a realizzare le proprie aspirazioni nazionali.
L’affrancamento dal giogo turco fu un processo graduale, segnato da tappe fondamentali. Le insurrezioni del 1804 e del 1815 portarono alla formazione di un Principato serbo che, seppur non indipendente dall’Impero ottomano, godeva di importanti autonomie, rappresentate in particolar modo dall’istituzione di un parlamento e dalla promulgazione di una costituzione. Eppure, il periodo successivo fu segnato dalle lotte intestine tra le due dinastie, gli Obrenović e i Karađorđević, che si risolse definitivamente solo nel 1903 con la vittoria dei Karađorđević. L’indipendenza venne sancita nel 1878 durante il Congresso di Berlino e fu tenuta a battesimo dalle grandi potenze europee che ormai apertamente si stavano contendendo l’influenza su tutti i Balcani.
Advertisement
Più cruenti furono i fatti che portarono all’indipendenza greca. Le lotte contro le forze ottomane durarono, a più riprese, dal 1822 al 1829. L’anno successivo, sotto la supervisione di Francia, Gran Bretagna e Russia, fu sancita l’indipendenza. L’ordinamento repubblicano, turbato dall’assassinio del presidente Giovanni Capodistria, fu sostituto nel 1831 dall’imposizione di un monarca da parte delle potenze protettrici: la scelta cadde sul bavarese Ottone di Wittelsbach. Anche in Romania fu una dinastia tedesca ad essere posta alla guida del paese. Il principe di Moldavia e Valacchia Alessandro Giovanni Cuza, sotto il quale nel 1862 venne proclamanta la nascita dello stato romeno, anche se tributario dell’Impero ottomano, fu costretto nel 1866 ad abdicare a favore di Carlo di Hohenzollern. L’indipendenza fu raggiunta nel 1877 grazie all’alleanza con la Russia nel conflitto russo-turco, e ratificata l’anno succes-
11
sivo dal Congresso di Berlino. Proprio a Berlino iniziò la complessa vicenda della Bulgaria. Il 3 marzo del 1878 infatti, con la sigla del Trattato di Santo Stefano era stato creata un’entità autonoma bulgara notevolmente più estesa rispetto agli altri paesi balcanici. Le obiezioni delle altre potenze europee, timorose dell’espansionismo russo nei Balcani, portarono il 13 luglio alla sigla del più noto Trattato di Berlino che ridimensionava notevolmente i confini bulgari e che garantiva, come accennato, l’indipendenza serba, romena e del piccolo Montenegro. La Bulgaria rimase un principato autonomo vasallo dell’Impero ottomano, anche se buona parte della popolazione bulgara rimase alle dirette dipendenze di Costantinopoli nella neonata provincia della Rumelia orientale. L’unificazione delle due entità avvenne nel 1885 ma la nascita della Bulgaria indipendente ebbe luogo soltanto nel 1908, a pochi anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale. A guida del nuovo Regno si trovava un altro tedesco, Ferdinando di Coburgo, giunto al trono nel 1887. Infine l’Albania, costituitasi come paese indipendente nel 1912 grazie alla decisione delle grandi potenze.
Considerati da un punto di vista comparativo, ovvero guardando a quanto avveniva o era già avvenuto nel resto dell’Europa (eccezion fatta per l’Impero austro-ungarico), i neonati stati balcanici rappresentavano più degli embrioni che dei veri stati nazionali. Gli avvenimenti nel resto dell’Europa, e primi fra tutti i processi di unificazione nazionale tedesca e italiana, giungevano nei Balcani come dei modelli da seguire. Tuttavia, la complessità del tessuto etnico, religioso e sociale del sudest europeo da un lato, e le ambizioni delle grandi potenze dall’altro, rappresentarono uno scoglio insormontabile. La storia del Novecento dimostra come il cammino incentrato sull’occidentale idea di nazione sia stata fatale per i popoli balcanici.
Il Congresso di Berlino ne fu sostanzialmente l’inizio, e per molti versi ne rimase l’emblema. Esso sancì uno status quo nella regione che sarebbe dovuto durare il più a lungo possibile, finché le grandi potenze non avessero trovato soluzioni definitive alle loro ambizioni. Allo stesso tempo, bloccava i processi di emancipazione nazionale dei popoli balcanici che, prima o poi, avrebbero dovuto inevitabilmente confrontarsi tra loro. Il conflitto politico e diplomatico assunse sempre più i caratteri di un confronto tra la Russia, desiderosa di raggiungere uno sbocco nel Mediterraneo, e l’Impero austro-ungarico, rilegato dalla dirompenza tedesca ad un ruolo sempre più marginale e sempre più rivolto verso i Balcani. Tale atteggiamento fu simboleggiato dal protettorato formato in Bosnia da parte di Vienna, anch’esso come risultato del Congresso di Berlino. I trentacinque anni che precedettero lo scoppio della Grande Guerra trascorsero all’insegna di queste premesse.
Gli anni che precedettero lo scoppio della Prima Guerra Mondiale furono estremamente densi di cambiamenti negli equilibri interni della penisola bal-
12
canica. Le insurrezioni in Macedonia di Sant’Elia (o Ilinden) nel 1903 contro i turchi, l’ascesa al potere dei Giovani Turchi, la dichiarazione d’indipendenza della Bulgaria, le rivolte albanesi e finalmente le guerre balcaniche del 1912 e 1913, furono intrinsicamente legate ai cambi di direzione della politica delle grandi potenze, in particolare di quella viennese. L’Impero austro-ungarico e il Regno di Serbia vennero a più riprese ai ferri corti, in particolare nel 1906 (guerra doganale) e nel 1908 (annessione della Bosnia Erzegovina da parte austroungarica). La diplomazia viennese premeva per un intervento armato, a volte sostenuta e a volte fermata dalla più influente diplomazia tedesca. A Belgrado le piazze si infiammarono e le organizzazioni nazionaliste tentarono di indirizzare il governo serbo verso un confronto militare.
L’obiettivo espansionisitico di Vienna era dettato sempre più anche dalla necessità di eliminare la presenza di uno stato serbo che potesse fungere da centro di gravità per le popolazioni jugoslave (serbi, croati, sloveni e musulmani bosniaci) che vivevano nelle zone meridionali dell’Impero. Tale politica si fondava su un appoggio all’Impero ottomano, al quale era legata da diversi interessi comuni nella regione. La difficile situazione interna della Porta però, resa molto evidente dalle rivolte albanesi del 1911 e dalla debolezza dimostrata nella guerra con l’Italia, avrebbe spinto i circoli viennesi a cercare un’alternativa. L’abile diplomazia austroungarica trovò presto una soluzione il cui fondamento risiedeva proprio in quei nazionalismi che paradossalmente rappresentavano sia per Vienna che per Costantinopoli un pericolo. Molto pragmaticamente, Vienna decise di appoggiare i bulgari nelle loro aspirazioni verso la Macedonia e gli albanesi nella creazione di uno stato nazionale comprendente anche buona parte del Kosovo e la Macedonia occidentale. L’isolamento della Serbia sarebbe stato completo in seguito alla dipendenza economica del piccolo Montenegro dall’Austria-Ungheria, cui questa stessa potenza aveva concesso una serie di prestiti molto elevati necessari alla sopravvivenza stessa del paese.
Tuttavia, la diffidenza nei confronti dei piani austriaci a Sofia e l’interesse comune agli altri paesi balcanici di liberarsi definitivamente dall’ingombrante peso turco, così come le pressioni russe in favore di un patto balcanico (che a Sofia venivano in quel periodo ascoltate dal governo filo-russo) fecero fallire i piani della diplomazia viennese. L’occasione per fare i conti con la Serbia si sarebbe ripresentata alcuni anni dopo, con l’attentato di Sarajevo.
La Grande Guerra nei Balcani ebbe un duplice aspetto. Da un lato vi fu il confronto tra le grandi potenze, che era stato soltanto mitigato dal Congresso di Berlino ed era riesploso negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della guerra, e che si trasformò in un conflitto armato che fece esplodere una lotta per la supremazia in Europa. Gli attriti e le rivalità, le ambizioni, gli
13
imperialismi contrapposti trovarono nell’attentato di Sarajevo la scintilla che aspettavano da tempo. I Balcani furono il luogo in cui figurativamente scoppiò la guerra, ma non certo il motivo per cui i belligeranti si scatenarono gli uni contro gli altri.
Con lo scoppio della guerra, l’atteggiamento delle grandi potenze stabilì il corso degli avvenimenti anche nei Balcani. La Serbia si trovò immediatamente assediata. Tuttavia, fino all’ottobre del 1915 riuscì ad evitare la catastrofe, sostenendo pressoché da sola il peso degli attacchi austro-ungarici. Le potenze dell’Intesa erano infatti bloccate sul fronte occidentale e su quello orientale: la Serbia, che pure non perse mai la speranza in un aiuto militare, rappresentava un teatro bellico di secondo piano. Più importanti erano invece le attenzioni che vennero rivolte ai paesi ancora neutrali ma tendenti ad un’ingresso in guerra. Fu quello infatti un periodo di intensa attività diplomatica che vide i blocchi belligeranti contrapporsi nel tentativo di ottenere più alleati possibile. L’Intesa riuscì a portare dalla sua parte l’Italia, grazie al famoso trattato di Londra; gli Imperi centrali attrarrono invece, dopo l’Impero ottomano, anche la Bulgaria, gettando le basi per il tanto anelato raggiungimento delle pianure di Baghdad. Romania e Grecia entrarono in guerra al fianco dell’Intesa rispettivamente nel 1916 e nel 1917.
La svolta che determinò le sorti della Serbia si ebbe nella primavera del 1915. Un corpo di spedizione francese e inglese tentò di forzare i Dardanelli e occupare Costantinopoli costringendo l’Impero ottomano alla resa, subendo però una drammatica sconfitta. La conseguenza fu una rinuncia, da parte dell’Intesa, all’apertura di un fronte balcanico. Molto più importante risultò, da un punto di vista politico e militare, l’ingresso in guerra dell’Italia. Nell’autunno dello stesso anno, l’offensiva congiunta di tedeschi, austro-ungarici e bulgari avrebbe eliminato dalla carta geopolitica dell’Europa, almeno temporaneamente, la Serbia.
Dall’altro lato, i paesi balcanici continuarono quel processo di affermazione nazionale che era cominciato nel secolo precedente e che aveva dimostrato nel corso delle guerre balcaniche tutto il suo potenziale distruttivo. Fu un conflitto a più riprese, una lunga guerra cominciata nel 1912 e terminata nel 1918, in cui gli eserciti si scontrarono ripetutamente e sanguinosamente, ma soprattutto in cui le popolazioni civili furono vittime di sofferenze estreme ed in particolare di violenze di massa.
Buona parte di questo lavoro è concentrata proprio su questi ultimi argomenti, con l’intenzione non solo di riportarli alla luce ma di mostrare come siano parte integrante dell’uso europeo della violenza contro i civili. Quanto avvenne in Serbia infatti non fu un fenomeno balcanico. La violenza ai civili, tra il 1914 e il 1918, fu praticata in vari modi da tutti i belligeranti, con conse-
14
guenze tanto drammatiche quanto, ancora oggi, poco conosciute.
Pur concentrandosi sui Balcani, quello che si vuole inoltre sottolineare con questo lavoro è che la sofferenza e la violenza contro i civili in Serbia nella Grande Guerra ebbe un carattere molteplice e fu imbrigliata nei meccanismi tipici dell’aggressività degli stati nazionali dell’epoca. In effetti, a guardare meglio, non si tratta di Balcani, ma dell’irreversibile decisione di eliminare ciò che per motivi di conquista viene ritenuto indesiderato: un copione visto e rivisto dall’Atlantico agli Urali, da Stettino all’Egeo.
Nel ringraziare tutte le persone che sono state importanti per questa pubblicazione, un posto di riguardo occupa la professoressa Bruna Bianchi. Il suo contributo alla nascita di questo lavoro e alla formazione scientifica e personale di chi scrive è insostituibile. Ringraziamenti vanno al professor Milan Ristović, alla professoressa Božica Mladenović, al professor Massimo Bucarelli, a Martin Valkov, a Milan Piljak e a tutti gli archivisti che pazientemente hanno adempito a tutte le mie richieste. Alla mia famiglia.
Questo libro è dedicato alla memoria delle donne, dei bambini e degli uomini le cui vite sono state distrutte dalla volontà dei guerrafondai.
Milovan Pisarri
15