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Introduzione

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Bibliografia

Bibliografia

Nella Prefazione scritta da Andrea Cortellessa a Le notti chiare erano tutte un’alba, il critico giustifica la sua scelta di leggere i temi della Grande Guerra attraverso la produzione poetica. La tesi è che la poesia, in quanto scrittura formalizzata che espone in modo palese le proprie convenzioni e i propri codici, possa essere più sincera di tanta scrittura popolare, appunto perché non nasconde le finzioni e i limiti di rappresentazione della realtà. Dopo decenni di ricerche e studi sulle fonti dirette del racconto del conflitto, quali diari e lettere privati, nel 1998 Cortellessa cambia il paradigma di approccio alla scrittura di guerra, riprendendo in mano il lavoro dei letterati. La trattazione che segue è diretta conseguenza di questa riflessione, anche se giunge ad esiti diversi. Si è pensato di cercare una prospettiva di ricerca sulla letteratura della Grande Guerra che fosse eccentrica rispetto alla direzione preminente emersa negli studi degli ultimi anni. Si è optato quindi per il genere comico-umoristico, in quanto forma apparentemente lontana ed estranea al racconto del dramma di guerra e in quanto argomento trattato poco nella bibliografia critica su questo evento storico. La presenza della risata in trincea viene in realtà registrata da alcuni contributi, ma rimane sempre un fatto concepito come laterale e inadatto a raccontare quel vissuto. L’obiettivo di questo lavoro di ricerca è dimostrare che l’incontro tra genere comicoumoristico e realtà di guerra ha dato risultati interessanti che meritano di essere approfonditi. Non soltanto perché manifestano la complessità del riso, che può assumere forme molto diverse in base all’autore o alle necessità di racconto, ma anche perché può costituire un mezzo per parlare di altri temi decisivi. Data l’imponente mole di opere generate da questo evento si è ritenuto più saggio seguire un criterio di selezione e non di censimento. Non si è cercata tutta la letteratura comico-

umoristica legata al conflitto. Si sono prese in considerazione solo quelle narrazioni e quegli autori che potessero essere funzionali a dimostrare le diverse potenzialità della risata in guerra. Si è proceduto inoltre distinguendo le forme narrative, partendo con il periodico, per proseguire con un approfondimento sulla novella e concludere con il romanzo. La tesi infine è limitata nei confini della produzione scritta in lingua italiana, con un’unica eccezione per quanto riguarda il quinto capitolo. È stato analizzato perciò questo preciso contesto geografico e culturale e gli scritti restituiscono questa particolare esperienza.

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Dopo un primo capitolo introduttivo, in cui si è fatto il punto sulle forme letterarie nel conflitto, sulla situazione teorica del comico e dell’umorismo ad inizio Novecento e sui primi esempi di contatto riscontrabili tra questi due mondi, nel secondo capitolo si è analizzato il giornale di trincea. Grazie a semplici vignette e raccontini contraddistinti da un senso dell’umorismo fanciullesco, questi periodici molto diffusi nelle zone di combattimento hanno funzionato da strumento di propaganda molto potente. In particolare ci si è focalizzati su «La Tradotta», giornale della Terza Armata, studiando l’influenza delle precedenti esperienze dei suoi collaboratori nel campo della letteratura dell’infanzia e vedendo in che modo venga rappresentata la figura dell’imboscato, dell’uomo nelle retrovie. Abbonda la satira denigratoria nei confronti dei nemici, ma l’analisi delle vignette con protagonisti Bertoldo Ciucca e Apollo Mari dimostrano in modo più efficace che una risata apparentemente innocente può nascondere un solido attacco retorico contro il nemico interno.

Il terzo e il quarto capitolo hanno invece considerato la novella. Il terzo ha messo a confronto Berecche e la guerra di Luigi Pirandello e Il volontariato di Torquemada di Paola Drigo, con la ricerca di possibili punti di contatto nel loro umorismo e lo studio del complesso rapporto dei padri con i figli giovanissimi destinati al fronte. Il quarto ha discusso i racconti Scherzi di guerra e L’intrusa di Amalia Guglielminetti, studiando uno sguardo critico sulla popolazione femminile coinvolta nel conflitto e notando in che maniera l’autrice abbia utilizzato l’umorismo per svincolarsi da un ruolo stereotipato di donna. Infine il quinto capitolo ha valutato il romanzo, allo scopo di descrivere due diversi sentimenti di inettitudine alla guerra. Quella di Rubè, creazione di Giuseppe Antonio Borgese, che pur presentando qualche elemento umoristico nella costruzione del personaggio è difficilmente collocabile all’interno della sfera del comico. E quella del bravo soldato Švejk, protagonista del romanzo di Hašek, unica incursione nella letteratura straniera, strappo doveroso in quanto narrazione emblematica della comicità eversiva e antimilitarista. Come si è accennato, i cinque capitoli sono autonomi e indipendenti fra loro nonostante l’argomento che li accomuna. Ognuno costituisce un tema a sé e in tal senso l’obiettivo non è giungere ad una riflessione finale definitiva o alla dimostrazione di qualche ipotesi. La speranza è che dalla somma di queste letture critiche si intuisca la forza della comicità come stile per affrontare l’inconcepibilità del conflitto. Utile ad approfondire temi importanti legati all’immaginario e alla storia della Grande Guerra, come la propaganda, il ruolo della donna, il rapporto padre-figlio, l’incapacità dell’uomo dinanzi ad eventi troppo grandi, ma anche a conoscere i diversi significati e le ricche sfumature insite nella risata. Atto liberatorio e ribelle,

strumento di potere e di persuasione, sintomo di spaesamento e debolezza, estrema reazione di difesa dinanzi all’indicibile. In un’immagine diffusa nella letteratura classica Democrito è il filosofo che ride, divertito dalle azioni dei suoi concittadini, di cui non riesce ad afferrare gli affanni e le preoccupazioni. In una epistola falsamente attribuita a Ippocrate, il padre della medicina viene convocato dai cittadini di Abdera per interrogare il filosofo, sospettato di essere uscito di senno. Il dialogo tra Ippocrate e Democrito fa emergere la verità: quest’ultimo continua a ridere non perché folle, ma perché lucido e consapevole della follia di ciò che gli succede intorno. Il riso malinconico di Democrito ben si collega alla visione della tragicità del conflitto, proprio in quanto mezzo paradossalmente adatto a restituirne una rappresentazione letteraria fedele. La risata quindi come segnale denso di significati per narrare la realtà. È proprio questa densità che si è cercato di spiegare nelle pagine che seguono.

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