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1.6 Guerra e comico a confronto. Il conflitto come “situazione ironica”
annullamento di ogni codice. L’umorismo è in tal senso una comprensione e uno svelamento della maschera, che rappresenta in questa concezione «il male, la soppressione della “vita” più autentica, della durata, della profondità»80. Questa scoperta della finzione di ogni maschera sociale riesce a scalfirne la fissità e l’unità. Se il comico «è solo un primo e parziale scoprirsi della maschera»81, è l’operazione umoristica che, attraverso il momento cruciale della riflessione, riesce a intuire i motivi più profondi che hanno contribuito alla creazione di quella maschera, deridendola ma al tempo stesso partecipando al suo funzionamento. Il pensiero di Pirandello tende ad una riconciliazione completa con la vita, in cui si ricompongano «tutte le scomposizioni dell’umorismo»82. Ma questa teoria, secondo Giulio Ferroni, presenta delle esitazioni, e L’umorismo sembra presupporre che «dietro ogni maschera non troveremo mai la “vita”, ma soltanto un’altra maschera»83 .
1.6 Guerra e comico a confronto. Il conflitto come «situazione ironica»
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Tra fine Ottocento e inizio Novecento si nota un ribollire teorico molto forte intorno alle
teorie del comico, del riso, dell’umorismo. Risulta ora interessante osservare come il riso novecentesco sia entrato in contatto con l’evento tragico che ha aperto lo scenario del secolo, e quali tracce abbia lasciato questo incontro. Va innanzitutto notato che non esiste una teoria comica o umoristica nata in trincea, che sia quindi diretta emanazione delle contingenze del conflitto. Solo Pirandello con il racconto Berecche e la guerra rispetta la sua poetica umoristica, ma la sua teoria è nata in realtà qualche anno prima della mobilitazione italiana, prima della grande disillusione degli intellettuali, per lo più frutto di un autore che per motivi anagrafici non ha potuto combattere in prima linea. In tutti gli altri casi la strategia del riso assume forme personali e individuali. Viene utilizzato in alcuni casi come segno dell’euforia e dell’entusiasmo per la guerra che si prospetta. In altri diventa la reazione davanti all’inettitudine del soldato. In alcuni casi il riso è qualcosa di sotterraneo, di cui ci si vergogna, che nasce nei momenti più drammatici, quasi un istinto che
80 G. Ferroni, Il comico nelle teorie contemporanee, cit., p. 45. 81 Ivi, p. 46. 82 Ivi, p. 49. 83 Ibid.
permette di sopportare le atrocità vissute. Infine esiste anche un uso strumentale del riso, come irrisione del nemico a scopo propagandistico. Sulle interpretazioni del riso al fronte manca uno studio monografico completo, ma emergono comunque alcune prospettive interessanti. Ad esempio un capitolo del volume La Grande Guerra e la memoria moderna di Paul Fussell ne fornisce una. Il professore americano rilegge l’esperienza britannica del conflitto attraverso le testimonianze letterarie, riprendendo una linea di ricerca inaugurata da Isnenghi. Nel primo capitolo intitolato Una satira di circostanza lo studioso sostiene che per capire la guerra bisogna interpretarla come fatto ironico. Scrive che «ogni guerra è ironica, perché ogni guerra è peggiore di quel che ci si aspettasse»84, riprendendo il tema della tremenda disillusione dei soldati arrivati in trincea.
La guerra è ironica «perché i suoi strumenti sono melodrammaticamente sproporzionati ai suoi presunti scopi»85, e in particolare la Grande Guerra raggiunse in tal senso un primato, dal momento che «costituì un orribile imbarazzo per il diffuso mito migliorista che aveva dominato la coscienza pubblica per un secolo»86. La modernità del conflitto mostra il lato più spaventoso del Progresso, e la sorpresa che ne deriva crea un effetto ironico potente che trova la propria reazione nel riso. Le parole dello scrittore Philip Gibbs sono chiare in tal senso:
Era…il riso dei mortali di fronte al tiro giocato loro da un destino ironico. Erano stati allevati a credere che il massimo obiettivo della vita fosse quello di raggiungere la bellezza e l’amore, e che il genere umano, procedendo verso la perfezione, avesse annientato gli istinti bestiali, la crudeltà, la sete di sangue, la primitiva e selvaggia legge della sopravvivenza dominata dalle zanne e dalla clava, dal randello e dall’ascia. La poesia, l’arte, la religione, tutti avevano predicato questo vangelo e questa promessa. Ed ora questo ideale era infranto, come un vaso di porcellana precipitato a terra. Il contrasto tra Quello e Questo era sconvolgente… E così l’umorismo proprio del tempo di guerra sghignazzava deliziato alla vista di tutta quella dignità ed eleganza smascherate.87
La guerra è prima di tutto un’esperienza individuale, quindi la narrazione del conflitto non potrà che essere una costellazione di tanti episodi ironici che compongono l’insieme della vita di trincea. L’ironia della guerra crea anche sgomento e sorpresa nei soldati, come riporta Robert Brooke nelle lettere scritte tra 1914 e 1915: «Tutto è tremendamente buffo»88, proprio perché ciò che si vede è incomprensibile, e il riso è l’unica reazione possibile.
84 P. Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, cit., p. 12. 85 Ibid. 86 Ivi, pp. 12-13. 87 P. Gibbs, Now it can be told, New York, Harper, 1920, p. 131, cit. in P. Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, cit., p. 13. 88 P. Fussell, La Grande Guerra e la memoria moderna, cit., p. 12.