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OPERAI E INDUSTRIALI DI FRONTE ALLA MOBILITAZIONE INDUSTRIALE

Come si evince dai fatti che abbiamo esaminato nel primo capitolo, la complessa struttura di controllo e di pianificazione economica realizzata in Italia durante la prima guerra mondiale, non fu organizzata a seguito di precedenti studi, ma venne creata pezzo per pezzo sotto la spinta delle circostanze. Il regime che ne derivò lasciava ben poco spazio all'attività sia dei datori di lavoro che dei lavoratori; non sarà quindi inutile esaminare l'atteggiamento che questi gruppi sociali assunsero nei confronti della Mobilitazione Industriale. L'entrata in vigore della regolamentazione relativa alla militarizzazione degli stabilimenti impegnati nella produzione bellica preoccupò, né poteva essere altrimenti, gli operai poiché, come riferì il generale Dallolio nel corso di una riunione del Comitato Centrale della Mobilitazione Industriale: « Le masse lavoratrici vi intravedevano il simbolo del ferreo rigorismo militare » (1). In effetti le maestranze non potevano certo apprendere con eccessivo entus iasmo le notizie di essere sottoposte ai rigori del codice penale militare , tanto più che in un primo periodo l'orientamento prevalente nei tribunali militari fu quello di applicare le disposizioni secondo criteri di estremo rigore (2). D'altra parte, però, ]a nuova rigida disciplina trovava un corrispettivo negli esoneri concessi agli operai aventi obblighi militari e nella garanzia che, finché durava lo sforzo bellico, il lavoro sarebbe stato loro assicurato. Le maggiori preoccupazioni riguardavano però le libertà sindacali; la valutazione che le organizzazioni operaie davano della situazione può essere desunta da una relazione tenuta al Congresso Nazionale della FIOM nel 1918, in cui si affermava che gli organismi della Mobilitazione Industriale « sorsero con lo scopo principale di disciplinare la mano d'opera e di risolvere i problemi del lavoro evitando gli scioperi ne1le officine mobilitate; gli operai non possono più licenziarsi dagli stabilimenti ausiliari, senza il consenso dei Comitati regionali di mobilitazione; anche se non hanno obblighi di leva sono considerati come dei militari; alle punizioni normali si aggiungono altre che possono venire distribuite dagli ufficiali addetti alla sorveglianza degli stabilimenti; possono fare della prigione, il licenziamento per punizione vuol dire il boicottaggio dell'operaio licenziato; la libertà di sciopero è soppressa» (3) . Il quadro qui tracciato pecca di qualche esagerazione; infatti l'operaio se non poteva licenziarsi, non poteva neppure essere licenziato senza il consenso dei Comitati Regionali, come d'altronde se la preoccupazione degli scioperi, come già dicemmo, era presente agli organizzatori della Mobilitazione I ndustriale, è fuor di dubbio che lo scopo istitutivo del nuovo ente consistesse nell'organizzazione della produzione per la guerra, nel cui quadro vanno valutate le limitazioni del diritto di sciopero. :E. comunque evidente ch e la situazione venutasi a creare con lo scoppio del confli tto era tale da preoccupare grandemente i dirigenti sindacali; infatti la legislazione eccezionale avrebbe potuto costituire un punto di partenza per un tentativo mirante a liquidare le organizzazioni operaie con misure repressive.

Le autorità militari preposte alla mobilitazione industriale batterono invece tutt'altra s trada . Si legge infatti nella relazione con cui il Ministro della guerra presentò il Regolamento della Mobilitazione Industriale: « Militarizzando il personale bisognava assicurargli un equo trattamento, salvaguardarlo da eventuale sfruttamento e permettergli di far valere le sue giuste ragioni, nell'interesse stesso della produzione. Poiché ove il personale è scontento anche la militarizzazione perde efficacia e non basta ad aumentare la produzione. D'altra parte bisognava escludere assolutamente la possibilità d'interrompere il lavoro degli stabilimenti. La questione fu risol ta concedendo alle maestranze, come pure per conto loro agli industriali, di ricorrere ai Comitati Regionali che fun gono da amichevoli compositori. Mancando l'accordo, i Comitati emettono ordinanze provvisoriamente esecutive, salvo il ricorso al Comitato centrale che decide inappellabilmente com'è chiaramente disciplinato dagli art. 7 e 10 >> ( 4 ) Dei Comitati Regionali facevano parte, oltre ad un ufficiale generale o ammiraglio che li presiedeva e ad alcuni t ecnici, in ugual numero i rappresentanti degli operai e d egli industriali, sia pure con voto consultivo.

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All'inizio questo meccanismo per risolvere le vertenze incontrò qualche difficoltà; ricordò a tal proposito di gen. Dallolio: « All'entrata in vigore di tale disposizione, fu notata come una incertezza ed una indecisione forse di aspettativa, per aro- bo le parti interessate. Gli industriali temevano che un consesso formato anche con la rappresentanza di membri operai tendesse a concedere eccessivi miglioramenti economici, anche per quella naturale contrarietà a permettere che altri esaminasse questioni interne delle aziende; la massa operaia riteneva al contrario che un Ente, sia pure costituito essenzialmente da elementi borghesi, risentisse troppo dell'Autorità militare da cui dipende, e come tale si mostrasse meno accessibile alle richieste, anche giustificate, di benefici .finanziari.

Sorpassato facilmente il primo periodo di avviamento, quando, sia da parte delle Direzioni degli stabilimenti sia delle maestranze, fu effettivamente constatato come questo collegio arbitrale delle mercedi operaie, nell'emettere le proprie sentenze, s'ispirava a giusti ed obiettivi sensi di equità e di giustizia, affluirono le domande di miglioramenti, e le vertenze, tutte debitamente esaminate, vagliate, furono risolte con reciproca soddisfazione delle parti interessate.

Si può oggi affermare che la massima parte di tali controversie fu amichevolmente composta coll'intervento dei Comitati regionali ~> ( 5 ).

Tutto ciò non avvenne a caso: infatti il generale Dallolio, per tutto il tempo in cui fu a capo della Mobilitazione Industriale, condusse una politica che aveva come obiettivo il recupero delle masse operaie all'union sacrée della nazione in guerra. Questo atteggiamento dipendeva, sia dall'ovvia considerazione che la collaborazione degli operai era un fattore importantissimo per il rapido approntamento dei materiali bellici, sia dal profondo convincimento di Dallolio che la grande maggioranza degli operai non fosse disfattista. Il Ministero delle armi e munizioni era convinto che il proletariato industriale, per quanto largamente ostile alla guerra, non avrebbe, nella sua grandissima maggioranza, fatto nulla che potesse portare l'Italia alla sconfitta. Partendo da questi convincimenti, il generale Dallolio, non solo condusse un'azione mirante ad appianare il più possibile i contrasti tra imprenditori e lavoratori , ma cercò di valorizzare in ogni modo il grande contributo dato dalle maestranze operaie allo sforzo bellico del Paese non esitando a difenderle efficacemente dall'accusa di « imboscamento » avanzata da più parti. « Il presupposto implicito di molte delle osservazioni » dichiarò il generale alla commissione d'inchiesta per il disastro di Caporetto « è che la condizione dell'operaio, appunto perché quas i sempre esente da risch i, sia già una condizione di favore fatta all'individuo . Ora, la cosa cambia aspetto se guardata da un punto di vista più ge- nerale e più elevato. Il punto di partenza deve essere che la guerra moderna, nella sua formidabile complessità, richiede bensì che molti cittadini affrontino la morte; ma esige pure che gli altri compiano lavori sussidiari e complementari; del tutto indispensabili, meno rischiosi, e questi altri, nell'interesse stesso del paese, dovranno naturalmente essere coloro che a questi lavori ed a questi uffici sono i più adatti. Non deve dunque essere interpretato a sfavore dei non combattenti il fatto, accessorio, che essi non corrono rischio; la necess ità vuole che sia così; e quando i non combattenti hanno fatto tutto ciò che il paese ha loro chiesto, essi non hanno meritato meno dei loro compagni combattenti ... Per la stessa via, si giungerebbe pure a concludere a sfavore dei meriti, rispetto al paese, dei comandanti di eserciti, i quali, appunto perché debbono comandare, sono indubbiamente meno esposti alla morte dei semplici soldati. Ne può darsi importanza al fatto, del quale è stata molto esagerata la frequenza, che nella folla di coloro ai quali il paese ha ordinato di servirlo nelle officine, qualche individuo si sia infiltrato per fini scorretti; si tratta infatti di casi rari, dai quali non sarebbe equo trarre conseguenze generali >> ( 6).

Qualche tempo prima, parlando al Senato nella seduta segreta del 6 luglio del 1917, il generale Dallolio aveva energicamente difeso il diritto degli operai ad una buona retribuzione affermando: « Se l'operaio avente obbligo di leva e che lavora in uno stabilimento percepisce una paga superiore a quella del soldato, non si deve dimenticare, oltre le condizioni di ambiente nelle quali egli è obbligato a vivere, che egli deve provvedere completamente a sé e per la famiglia, e che coloro che tuttora sono negli stabilimenti, in qualità di comandati, in divisa militare, sono soggetti ad una ritenuta d el 15 % su ciò che percepiscono, ritenuta a favore dello Stato per controbilanciare le spese di equipaggiamento, accasermamento ecc.

Si aggiunga inoltre che tutti coloro che, chiamati alle armi, si trovano o vengono a trovarsi adibiti ad aziende, officine o stabilimenti di Stato, di altre pubbliche amministrazioni o private, ausiliari o no, sia perché esonerati, sia perché al momento della chiamata vi furono lasciati come comandati a disposizione, sia perché in seguito assegnativi nelle loro qualità stesse in cui precedentemente lavoravano, sono soggetti ad una imposta, la così d etta imposta sui militari non combattenti, stabilita col Decreto 1525 del 9 novembre 1916, imposta che è proporzionale al salario che le dette maestranze percepiscono.

Il soldato invece , oltre alla paga che percepisce alla mano, è provvisto di tutto quanto occorre alla sua esistenza, vitto, vestiario, alloggio, tabacco, e per di più la sua famiglia percepisce un sussidio e sommando ciò che il soldato costa allo Stato per sé e per i sussidi, si vedrà che la cifra non è così lontana da quella che percepisce un operaio negli stabilimenti, poiché anche sulla questione delle paghe degli stabilimenti non è giusto lasciar credere che esse siano quelle favolose che si tenta di [ar credere. La grande massa degli operai ha paghe che si aggirano dalle 4 alle 6-7 lire al giorno, se ci sono degli operai che percepiscono delle paghe superiori, questo è dovuto o ad un'eccezionale loro attività, che è giusto sia premiata, che permette loro di guadagnare col cottimo e quindi con una produzione intensificata, che è quanto occorre in questi momenti di avere, oppure sono adibiti a lavorazioni specialissime o investiti di mansioni per le quaU una ]oro maggiore retribuzione può essere giustificata » (7).

Come si vede il Ministro delle armi e mw1izioni non aveva esitato a spingere tanto in là la sua difesa da equiparare quasi la condizione economica dei soldati a] fronte con quella degli operai nelle officine omettendo, per sostenere la sua tesi, un piccolo particolare, cioè che la maggior parte dei lavoratori a bassa retribuzione era costituita da donne. Il Ministro non si limitò a sostenere la legittimità e la giustizia delle alte retribuzioni operaie; nel suo discorso affrontò anche tm altro tema che era stato oggetto, nei mesi precedenti, di una vivace campagna di stampa: que1lo degli sciali e degli eccessi a cui si sarebbero abbandonati durante le ore di riposo gli operai. A tal proposito il Dallolio disse: « circa l'appunto che si fa al1e maestranze aventi obblighi militari, esonerate o comandate negli stabilimenti, di abbandonarsi durante i giorni festivi ad eccessi, si deve osservare che essendo essi in tutto e per tutto ambientati colla massa operaia, questa e specialmente quando ad essa si debba chiedere uno sforzo continuativo ed intenso, ha diritto per legge ad una giornata di riposo sulle sette, e questa giornata di riposo è tanto più doveroso il concederla in quanto ché è nell'interesse stesso della produzione che essa deve essere concessa. Tanto è vero che la pratica ha dimostrato che il lavoro festivo, che in certi periodi si è dovuto imporre, non ha dato quel rendimento che invece dava la maestranza che possa godere sia del prescritto riposo settimanale. Non si dimentichi infine che questa maestranza entra al mattino presto nell'officina e vi esce a tarda ora, e ciò ininterrottamente per tutta la settimana » ( 8 ).

Il generale Dallolio nella sua difesa degli operai era andato più in là di quanto avesse mai osato fare la stampa socialista che, replicando alla campagna dei giornali intervetist:ii, aveva più che altro negato gli « eccessi » e la prodigalità dei lavoratori dell'industria bellica. Il Ministro delle armi e munizioni affermò invece, senza mezzi termini, che il riposo festivo era necessario e che se gli operai consumavano nelle ore libere qualche bicchiere di vino se lo erano ampiamente meritato. Certamente il generale Dallolio, l'uomo che aveva saputo organizzare in breve tempo l'industria italiana per la guerra, non poteva essere tacciato di disfattismo e di conseguenza poteva permettersi affermazioni che, fatte da altri, avrebbero provocato le più vivaci reazioni. In verità queste dichiarazioni erano, almeno in parte, in contrasto con il tentativo di creare nel paese un clima di austerità e di risparmio, intrapreso, tra gli altri, dallo stesso Ministro delle armi e munizioni. Il fatto che il Dallolio si sia indotto a farle testimonia quanto fosse, a suo giudizio, importante respingere gli attacchi che verranno mossi alle maestranze degli stabilimenti bellici.

L'azione di tutela portata avanti dal Ministro delle armi e munizioni nei confronti degli operai, non aveva lo scopo di cercare di staccarli dalle loro organizzazioni sindacali, tendeva invece ad ottenere anche la collaborazione di quest'ultime. Quest'obbiettivo, che costituisce una delle caratteristiche più notevoli della politica del Dallolio, fu perseguito non solo conferendo una larga partecipazione, nei Comitati di mobilitazione industriale, ai rappresentanti dei sindacati operai, ma anche delegando importanti decisioni a commissioni miste in cui le organizzazioni dei lavoratori erano largamente rappresentate ( 9 ). La scelta di questa politica derivava dalla profonda convinzione del Ministro per le armi e munizioni della legittimità e dell'opportunità dell'azione sindacale come dimostrano le sue direttive al generale Eugenio Caputo dopo i fatti di Torino dell'agosto 1917: « Le istruzioni da me date con Dispaccio 4938 del 26/8/1917 non lasciano alcun dubbio che in ogni caso le disposizioni disciplinari circa gli operai debbono sempre essere applicate in modo da non colpire mai innocenti, e in ogni modo colla coscienza di un dovere, e mai colla impulsività di un provvedimento di rappresaglia. Da molte parti si segnalano che continuano revoche di esoneri per sola rappresaglia, operai firmatari memoriali appartenenti Commissioni Torinesi. Ora pure dichiarando zone di guerra le tre province di Torino-Alessandria-Genova non si è inteso affatto di togliere la libertà di riunione per motivi economicitutt'altro -.

Le disposizioni che mirano a togliere qualunque inciampo o ritardo alla continuità del lavoro debbono garantire al personale militarizzato un equo trattamento salvaguardante da eventuali sfruttamenti e permettergli di far valere le sue giuste ragioni nell'interesse stesso della produzione. Imperocché come saviamente ha rilevato nella sua relazione S.E. il Ministro della guerra, ove il personale è scontento anche la militarizzazione perde efficacia e non basta ad aumentare la produzione ( Circolare 28 ottobre 1915 pag. 40 - Volumetto relativo alla Mobilitazione Industriale).

Prego far chiamare operaio Colombina appartenente al Comitato Centrale Mobilitazione onde avere indicazioni, nomi e fatti provati, affinché sempre e in ogni circostanza disciplina e giustizia siano congiunte. Il Ministro Dallolio » ( 10 ).

Per quanto concerne l'atteggiamento dei sindacati operai nei confronti della Mobilitazione Industriale si ricorderà che all'inizio vi erano - al loro interno - grosse preoccupazioni e perplessità nei confronti dei nuovi organismi. Soprattutto nel più grande tra i sindacati operai, la C.G.L., si nutrivano forti timori che la nuova regolamentazione servisse in realtà principalmente a strangolare le libertà sindacali. Indubbiamente Gino Castagno diceva la verità quando affermò che « la mobilitazione industriale non fu cercata ma subita » ( 11 ). Tuttavia, constatato che non vi era alcuna intenzione liberticida, l'atteggiamento dei dirigenti sindacali della stessa C.G .L. si modificò e la collaborazione divenne sempre più intensa e fattiva. Per comprendere a pieno questo atteggiamento è necessario considerare che negli anni che avevano proceduto il conflitto, la C.G.L. si era trovata in serie difficoltà. L'espulsione dei riformisti di destra, il passaggio del P.S.I. sotto il controllo dei massimalisti e la costituzione dell'U.S.I. da parte dei sindacalisti rivoluzionari, avevano determinato una situazione per cui la C.G.L. aveva dovuto affrontare i primi accenni di ristrutturazione della organizzazione industriale italiana in una situazione di particolare debolezza, ciò sia per la mancanza di coordinamento per l'azione del partito e sia per le iniziative dei sindacalisti rivoluzionari che non mancarono di metterla in difficoltà. Paradossalmente lo scoppio del conflitto aveva tratto, in qualche modo, l'organizzazione sindacale riformista fuori della crisi in cui si dibatteva. Infatti, mentre la ristrutturazione degli impianti era rinviata in seguito alle commesse belliche, i sindacalisti, per l'atteggiamento assunto, non rappresentavano più un concorrente capace di creare gravi imbarazzi. I noltre, la speciale situazione creata dal conflitto diminuiva la possibile azione ed incidenza del P.S.I. permettendo alla C.G.L. di muo- versi m piena autonomia, senza troppo preoccuparsi della copertura del partito. In questa contingenza la Mobilitazione Industriale, passate le prime paure, dové apparire ai dirigenti riformisti come la grande occasione, non solo per mantenere in piedi l'organizzazione durante il periodo bellico, ma anche per assumere un nuovo ruolo in qualche modo «ufficiale» e pressocché alla pari con gli industriali. Una possibilità concreta dunque non soltanto per portare avanti « l'ordinaria amministrazione >> sindacale, ma anche per accresce re l'in1portanza e l'influenza d e l sindacato specie nelle piccole e medie industrie dove la sua presenza era stata in genere, fino ad allora, molto debole.

In definitiva la politica del Dallolio e l'atteggiamento della C.G.L. determinarono una situazione che fu riassunta da Bruno Buozzi, nel corso di una seduta plenaria del Comitato Centrale della M.I. con le seguenti parole:

« In nessun paese belligerante d'Europa la Mobilitazione Industriale è stata accettata dagli operai con la stessa serenità con la quale l'hanno accettata gli operai italiani, e ciò acquista tanto maggior valore se si considera che, fino al momento dell'entrata in guerra, il nostro paese ha avuto discussioni politiche talora vivaci » (1 2 ).

All'inizio, anche da parte degli industriali l'accoglienza alla nuova struttura della Mobilitazione Industriale non fu buona come ebbe a dire il generale Dallolio; le direzioni degli stabilimenti vedevano in essa un'ingerenza intollerabile nel campo delle loro specifiche attribuzioni ( 13 ).

Anche in questo caso la politica adottata dal Dallolio fece ben presto modificare l'atteggiamento degli imprenditori. Infatti il capo della Mobilitazione Industriale deside rava la collaborazione degli industriali non meno di quanto desiderasse quella degli operai. Egli era scettico sulla opportunità di ricorrere alle requisizioni pure previste dalla legge: « poiché sono convinto che non si arriverà mai a questo estremo. La requisizione avverrebbe quando gli industriali si rifiutassero di fare e produrre di buona voglia quanto fosse loro richiesto dal governo. Coi poteri conferitigli, il governo assumerebbe allora l'amministrazione e la direzione tecnica ed amministrativa dello stabilimento, sostituendosi all'industriale. Ora non c'è da illudersi. Per necessità di leggi contabili, o per inevitabili congegni burocratici, il governo è fatalmente un industriale più lento e forse anche meno efficace dei privati, cosicché nelle sue mani la produzione, invece di aumentare, probabilmente diminuirebbe e sarebbe più costosa. Si conseguirebbe così, in un primo periodo, un risultato dia- metralmente opposto a quello desiderato. Per questi motivi, e certo del patriottismo degli industriali e degli operai, non ho disciplinato le requisizioni, né le imposizioni d'opera da parte del governo . Ove occorresse si potrà farlo rapidamente» (14 ). Non ci fu bisogno di ricorrere a misure estreme; gli industriali non appena si accorsero che le autorità militari non intendevano ricorrere alla facoltà loro concessa dal decreto d el 26 giugno 1915 di stabilire d'imperio i prezzi dei materiali commissionati all'industria, collaborarono di buon grado. « La dichiarazione di ausiliarietà, vista con sospetto quando sulle prime vi si addivenne d'imperio e si temevano ingerenze dello stato nella gestione interna delle imprese, divenne presto ambitissima» (15 ).

La militarizzazione era deside rata sia dai proprietari sia dalle maestranze degli stabilimenti per diversi motivi. Gli industriali, con la dichiarazione di ausiliarietà, si assicuravano m olteplici vantaggi, il principale dei quali era senza dubbio la certezza di poter contare sulle commesse militari fino alla fine del conflitto; acquisivano inoltre la sicurezza di poter far fronte agli impegni poichè era stabilito un trattamento preferenziale e prioritario, per le industrie mobilitate, nell'assegnazione delle materie prime, mentre la concessione degli esoneri garantiva la disponibilità di maestranze qualificate la cui continuità di lavoro era assicurata dalla militarizzazione. In pratica, con la dichiarazione di « ausiliarità » si eliminava la quasi totalità dei rischi che l'imprenditore deve affrontare in condizioni normali. Notevoli erano anche i vantaggi che le maestranze conseguivano in seguito ad una simile dichiarazione; infatti, oltre all'agognatissimo esonero, bisogna considerare la non licenziabilità senza l'autorizzazione dei Comitati Regionali e, man mano che l'organizzazione della Mobilitazione Industriale si andava strutturando, un deciso miglioramento delle condizioni igienico sanitarie e una maggior cura per le norme relative alla prevenzione degli infortuni sul lavoro . Tutto ciò aveva un notevole peso soprattutto nelle piccole industrie dove le condizioni di lavoro erano sovente precarie e il movimento sindacale quasi inesistente.

All'atto pratico poi i Comitati Regionali si dimostrarono discretamente efficienti nel regolare le controversie tra datori di lavoro ed operai come risulta dalla tabella di pagina seguente.

Da questi dati risulta che, dopo il primo periodo che potremmo chiamare sperimentale, si fece ampio ricorso alla mediazione dei Comitati e se l'elevato numero delle vertenze negli ultimi due anni testimonia la necessità di rapidi adeguamenti dei salari

Tabella 1 al costo della vita, l'alto numero delle conciliaznoni avvenute testimonia l'efficacia dell'azione equitativa dei Comitati; ciò risulta anche dal confronto del numero delle ordinanze emesse in quegli anni dai Comitati Regionali e dal Comitato Centrale presso il quale era possibile ricorrere in seconda istanza:

Anni Componimenti ottenuti con l'intervento: Ordinanze del di deleg. del C.R. del Comitato Reg.

Tabella 2

Il fatto che su 1.406 vertenze solo 192 fossero state risolte in modo tale da indurre una delle parti a ricorrere presso gli organi centrali della Mobilitazione Industriale, testimonia l'efficacia dell'azione svolta dai Comitati Regionali.

Indubbiamente l'essere riusciti a comporre oltre 1'85% delle vertenze, in un modo che fosse accettato dalle parti, dimostra anche l'eccezionalità della situazione. Infatti questa reciproca buona disposizione tra industriali ed operai non era soto portata dal clima particolare creato dalla guerra. L'Abrate attesta che il segretario della lega industriale piemontese, Gino Olivetti, « spingeva gli imprenditori a concedere il possibile senza costringere gli operai all'arbitrato dei comitati di mobilitazione e occorre dire che era ascoltato» (1 8 ).

Tutta questa condiscendenza era giustificata dal fatto che le amministrazioni militari non facevano difficoltà a trasferire il costo degli aumenti salariali concessi, sul prezzo delle fortniture (1 9 ). In definitiva la buona volontà degli industriali era derivata dal fat- to che non costava loro un gran sacrificio concedere aumenti salariali, tant'è che, in genere, le vertenze sottoposte all'arbitrato dei Comitati Regionali e del Comitato Centrale si riferiscono, più che ad aumenti di salario in senso stretto, ad altri miglioramenti il cui valore economico o la cui portata nel t empo era più difficilmente valutabile o quantificabile.

Per comprendere a pieno gli effetti della situazione creata dalla guerra e dal particolare regime della Mobilitazione Industriale, basterà osservare le statistiche dei conflitti di lavoro in quel periodo:

Anche i dati relativi alle serrate sono quanto mai significativi:

Gli stabilimenti in cui si verificarono le serrate non erano certo quelli mobilitati, per cui la riduzione del numero delle serrate nel periodo del conflitto sta a testimoniare la particolare atmosfera di « pace sociale » realizzatasi in quegli anni.

Per quanto riguarda le industrie mobilitate, le giornate perdute per astensione dal lavoro dal 1° gennaio al 31 ottobre 1918 furono 356.855 ( 21 ) dal che si deduce che se, nel corso della guerra la conflittualità sindacale diminuì, ciò fu dovuto solo in parte al regime eccezionale cui furono sottoposti gli stabilimenti ausiliari i quali, almeno per il 1918, contribuirono massicciamente ad elevare il totale delle giornate di lavoro perdute. In definitiva era la particolare situazione creata dal conflitto, che favoriva lo sviluppo industriale in assenza o quasi di concorrenza estesa, a ridurre grandemente i conflitti di lavoro.

La scelta delle autorità militari di non lesinare sui prezzi quando si trattava di aumenti salariali non era avvenuta a caso. Ciò infatti rientrava nella politica del generale Dallolio mirante non solo a rendere possibile la piena collaborazione degli industriali allo sforzo bellico, ma anche, e soprattutto, il recupero delle masse operaie all'unione sacra della nazione in guerra. Questa politica veniva articolata su due livelli: da un lato non si ostacolavano gli aumenti salariali che anzi, entro certi limiti, venivano favoriti, mentre si provvedeva, inoltre, ad imporre l'osservanza alle aziende delle norme igieniche e sanitarie e si dedicava notevole cura alla prevenzione degli infortunii sul lavoro, dall'altra veniva svolta una massiccia propaganda per far sentire gli operai non solo partecipi, ma anch'essi protagonisti dello sforzo bellico del paese. Questa propaganda ottenne un notevole successo tra gli imprenditori e le maestranze degli stabilimenti mobilitati, poiché controbbatteva le affermazioni che sovente affioravano nella stampa, specie di quella più accesamente interventista, per cui gli industriali apparivano come speculatori e gli operai come imboscati; gli uni e gli altri traenti vantaggi della situazione creatasi col conflitto. Queste affermazioni rispondevano ad una mentalità largamente diffusa nell'opinione pubblica e soprattutto nei combattenti; per cui la propaganda della Mobilitazione Industriale, tendente a valorizzare lo sforzo compiuto da imprenditori ed operai per la vittoria, non poteva che trovare una favorevole accoglienza dagli uni e dagli altri. Il far propria l'ampollosa qualifica di « combattente del fronte interno» poteva senza dubbio servire in questa situazione agli operai a sentirsi meno diversi dai combattenti veri, come la convinzione della validità ed indispensabilità della loro attività consentiva agli industriali di non sentire troppo il disagio di una situazione, che proprio a causa della guerra, permetteva loro di accumulare grossi profitti senza correre rischi. Non che un certo disagio non fosse egualmente avvertito. Infatti nella riunione del 16 dicembre 1916 della Commissione per il « risparmio operaio » presso il Comitato Centrale della M.I. Buozzi non esitò a dichiarare che non bisognava chiedere l'aiuto dello Stato per l'assicurazione operaia perché « in questo momento gli operai e gli industriali metallurgici sono considerati dei privilegiati e quindi chiedere al governo dei contributi gli sembra problematico» ( 22 ). Fu, comunque, una delle principali preoccupazioni dei responsabili della Mobilitazione Industriale attenuare questo disagio. Il generale Dallolio, rivolgendosi al Presidente del Consiglio, nella riunione del 26 novembre, cui già abbiamo fatto ripetutamente cenno, concluse dicendo: « Gli industriali e gli operai hanno accennato ad una specie di marasma grigio che li turba; nulla ci deve turbare in questo momento . Industriali ed operai hanno fatto e continueranno a fare il loro dovere. Ma venga da Voi la parola che li incoraggi ad andare avanti fiduciosi e senza preoccupazione; la domando per gli industriali e per gli operai d'Italia e fino alla vittoria»! ( 23 )

Questa presa di posizione era perfettamente conforme alla politica seguita dal capo della Mobilitazione Industriale. Il generale Dallolio, come Sottosegretario prima e come Ministro poi, affermò sempre (abbiamo visto come) la propria fiducia nel patriottismo delle masse operaie, adoperandosi in ogni modo per valorizzare il contributo dato da queste al paese in guerra. Ciò se nel clima di intolleranza creatasi nel « fronte interno», poteva rendere meno difficile la posizione degli operai esonerati, finiva per coinvolgerli, sempre più strettamente, nel sostegno dello sforzo bellico nazionale . Un'analoga politica, nelle grandi linee, fu seguita dai responsabili della Mobilitazione Industriale anche per quanto riguardava il movimento sindacale . Infatti, la partecipazione ai Comitati Regionali dei rappresentanti operai su un piede di parità con quelli degli industriali, costituì indubbiamente un elemento di valorizzazione dell'organizzazione sindacale, anche per il crisma di legalità e di ufficialità che dava alla rappresentanza operaia. Questo fatto ebbe indubbiamente un grosso valore nelle zone in cui l'organizzazione sindacale era debole e nelle medie e piccole aziende, in cui, sovente, non aveva radici molto solide. Non ci deve quindi stupire se nella stessa relazione di Mario Guarnieri, al congresso della F I OM del 1918 in cui, come si ricorderà, si erano manifestate forti preoccupazioni sui motivi che avevano indotto le autorità a costituire la « Mobilitazione Industriale», si può leggere il seguente riconoscimento:

« I comitati di mobilitazione hanno fatto fare agli industriali e agli operai un buon passo . Nei paesi industrialmente e sindacalmente più progrediti hanno trascinato anche quei pochi industriali che ancora si rifiutavano di trattare coi propri operai, a considerare le loro richieste e a spiegare le ragioni degli eventuali rifiuti ad accoglierle . Lo stesso contatto tra rappresentanti operai ed industriali ha servito a dare a noi una più profonda conoscenza delle ragioni che gli industriali adducono a sostegno dei loro interessi, ci ha abituati a considerare più seriamente il problema della gestione dei mezzi di produzione e ha infine abituato gli industriali a non valutare più il lavoro come un elemento secondario e trascurabile della produzione» (24 ).

La soddisfazione per l'importanza del ruolo assunto all'interno dei comitati di mobilitazione da parte del sindacato, fu chiaramente espressa, nel corso di una riunione speciale del Comitato Centrale della Mobilitazione Industriale, da Bruno Buozzi il quale non esitò ad affermare: « Gli operai riconoscono che nella Mobilitazione Industriale è stata loro data quella rappresentanza che desideravano, rappresentanza che è stata tenuta nella maggior considerazione sia dai membri industriali che da quelli civili » (25). Questa situazione permetteva al sindacato di svolgere un'azione che aveva un'importanza senza precedenti; è quindi spiegabile la sostanziale difesa che molti anni dopo Gino Castagno, un altro dirigente sindacale, fece dell'organizzazione della Mobilitazione Industriale: « A guerra finita, si poté, forse, dire che, senza di essa, gli operai avrebbero guadagnato di più, particolarmente la categoria dei metallurgici che avrebbe potuto far giocare sul piano economico l'effetto dell'enorme richiesta di mano d'opera negli stabilimenti del settore, per le esigenze della produzione bellica. Ma i dirigenti sindacali si preoccuparono allora più della difesa del movimento nel suo complesso, che non degli interessi economici immediati della categoria » ( 26 ). Nella situazione creatasi la « difesa del movimento nel suo complesso » poteva essere realizzata soltanto attraverso il potenziamento dei Comitati di mobilitazione e l'allargamento dell'influenza di questi. Su questa strada non esitarono a porsi i dirigenti sindacali.

Si legge infatti nel verbale della riunione su accennata, che Buozzi « coglie l'occasione della presenza del Ministro dell'Interno per accennare come, da qualche settimana, si prendano dei provvedimenti gravi verso operai di stabilimenti, tenendo conto delle loro tendenze politiche. Tali operai vengono allontanti dagli stabilimenti ed egli non trova che ciò sia giusto, né opportuno. Comprende che l'autorità politica non può rinunciare alle sue prerogative, né può lasciare alla Mobilitazione Industriale il solo diritto di giudicare; chiede però che non si cerchi di fare il possibile, onde tra Autorità politica e Comitati Regionali, si proceda sempre d'accordo quando debbano prendersi provvedimenti a carico di operai appartenenti a stabilimenti ausiliari. Il Comitato Regionale è il solo responsabile della produzione e del regolare andamento degli stabilimenti dipendenti e quindi non si può e non si deve ammettere che altri enti fomentino il malcontento negli stabilimenti stessi» (27 ).

Ma la valorizzazione del ruolo delle strutture della mobilitazione industriale comportava fatalmente, per i dirigenti sindacali, un sempre maggiore inserimento in essi e quindi una sempre maggiore partecipazione allo sforzo bellico del paese. La forza delle cose spingeva inesorabilmente i dirigenti sindacali verso queste posizioni. Infatti, se non volevano rinunciare allo svolgimento dei loro compiti, dovevano necessariamente entrare a far parte dei Comitati della Mobilitazione Industriale, ed una volta entrativi, non potevano fare a meno di prendere parte attiva alla preparazione bellica. Questa situazione fece fra l'altro sì che si approfondisse la frattura tra la dirigenza della CGL e la maggioranza del P.S.I. che era ferocemente avversa a qualsiasi « compromissione» patriottica per il conflitto in corso. In genere si fa risalire l'atteggiamento più ben disposto verso le esigenze del paese in guerra assunto dai dirigenti sindacali, dagli amministratori socialisti e dal gruppo parlamentare, al loro riformismo contrapposto al massimalismo della direzione del P.S.I. Ciò è indubbiamente vero ma non spiega completamente il fenomeno In realtà vi sono anche altri elementi che bisogna considerare. Infatti se per la sua struttura burocratico-organizzativa, il Partito Socialista poté isolarsi dal resto del paese, cercando di mantenere in vita le proprie sezioni in attesa che la bufera passasse, non altrettanto poterono fare gli altri gruppi, i quali, specie i dirigenti della CGL e gli amministratori degli enti locali, avendo responsabilità pubbliche e dovendo agire necessariamente all'interno della situazione che si era venuta a determinare, non poterono non risentire del « clima » in cui viveva l'Italia.

Avrebbero dovuto o rinunziare a qualsiasia attività, e conseguentemente venire sostituiti o emarginati, o collaborare di fatto allo sforzo bellico del paese. P er i dirigenti sindacali la scelta era quasi obbligata anche se essa era pienamente conforme ai loro convincimenti riformistici. I diversi orientamenti del sindacato e del partito socialista nei confronti dello sforzo bellico del paese non mancarono di avere ripercussioni sulle stesse strutture organizzative delle associazioni

Il P.S.I. conobbe negli anni del conflitto un costante calo organizzativo passando da 58.326 iscritti nel 1914 a 41.974 del 1915, precipitando poi a 29.426 nel 1916, calando quindi a 27.918 nel 1917 per scendere ancora a circa 24.000 alla data del XV° Congresso nel 1918 ( 28 ). Secondo una pubblicazione ufficiale del P.S.I. ciò era quasi completamente da imputarsi ai richiami. « Non c'è dubbio» si leggeva nel documento « che oltre il 60% dei nostri iscritti sia sotto le armi e perciò la diminuzione delle tessere e delle Sezioni è conseguenza dei richiami alle armi e dello stato di guerra in cui si trovano ben 12 province » ( 29 ).

In effetti la contrazione del numero degli iscritti aveva probabilmente cause più profonde che non il semplice reclutamento o l'estensione della zona d'operazione. Va infatti segnalato che la riduzione del numero degli iscritti si accompagnò ad una rapida contrazione del numero delle sezioni che da 1.843 nel 1914 scesero a 1.518 nel 1915 per precipitare a 1.221 nel 1916 e diminuire ancora a 1.159 nel 1917 ( 30 ). Né il calo si arrestò a queste cifre: infatti, nel congresso del 1918 parteciparono allo votazioni conclusive i rappresentanti di 19.027 iscritti divisi in 658 sezioni il che fa pensare che sul totale complessivo di 24.000 iscritti le sezioni non dovessero essere più di un migliaio.

Un primo esame sembrerebbe confermare la tesi che questa brusca riduzione delle strutture organizzative del P .S.I. sia causata dai richiami alle armi, infatti le province sedi di grandi concentramenti industriali sono tra quelle che reggono meglio la crisi organizzativa del partito (Milano da 65 sezioni nel 1914 a 56 nel 1917, Genova da 39 a 30, Torino da 56 a 42) il che si spiegherebbe con il fatto che il proletariato industriale invece di essere inviato al fronte fu impegnato nella produzione b ellica. Ad un esame più approfondito appare però una realtà ben diversa: infatti le province che contavano nel 1914 più di 50 sezioni avevano, con la sola eccezione, per altro spiegabile, di Forlì, retto bene alla prova anche se si trattava di province agricole in cui la mobilitazione generale era stata pienamente eseguita: Alessandria da 93 sezioni nel 1914 a 77 nel 1917, Bologna da 70 a 49, Firenze da 86 a 60, Forlì da 82 a 37, Novara da 155 a 125, Pavia da 67 a 50, Ravenna 78 a 49, Reggio Emilia da 107 a 91 (31 ).

I n queste province la percentuale di contrazione del numero delle sezioni fu fortemente inferiore a quella nazionale. Il crollo non era avvenuto nelle zone, agricole o industriali che fossero, dove la penetrazione socialista era notevole, bensì in quelle in cui l'organizzazione era debole soprattutto nel centro-sud. Alla luce di questi fatti si deve concludere che la crisi organizzativa del P.S.I. negli anni della guerra, molto più che ai richiami alle armi, è da imputarsi al clima politico creatosi nel fronte interno. Infatti, là dove il partito era numeroso e disponeva di solide tradizioni affrontò meglio la dura prova, mentre invece dove era debole e dove non esistevano altri gruppi tendenzialmente pacifisti ( come nel Mezzogiorno dove i cattolici facevano in gran parte mostra dei loro sentimenti patriottici ed i giolittiani erano scomparsi, almeno ufficialmente, da tempo) fu isolato e vide frantumarsi la sua debole struttura.

In conclusione, la crisi organizzativa del P .S.I. nel corso della grande guerra, fu in gran parte conseguenza della posizione assunta dal partito che lo isolava dal resto del paese e rendeva difficile ogni sua azione propagandistica. La situazione organizzativa della CGL era in quegli stessi anni alquanto diversa. Da 320.858 iscritti nel 1914 la confederazione era scesa a 233.963 nel 1915; aveva toccato la punta più bassa nel 1916 con 201.291 iscritti, era risalita a 237.560 nel 1917, aveva infine raggiunto i 249.057 aderenti nel 1918 ( 32 ).

Per comprendere il senso di questi spostamenti è necessario valutare l'andamento delle iscrizioni delle federazioni di mestiere più rappresentative:

Si tratta dei dati relativi ad alcune tra le più importanti e significative organizzazioni di categoria da cui risulta, da un lato il progressivo contrarsi del numero degli iscritti nei settori non coinvolti nella produzione di guerra, in seguito principalmente ai richiami alle armi, dall'altro il vertiginoso aumento delle adesioni dei lavoratori dei settori interessati alla produzione per le forze armate.

In questo contesto si comprende sia la prima contrazione del numero degli iscritti, sia il successivo lento incremento. Incremento, giova sottolinearlo, che fu reso possibile dalla politica adottata dai dirigenti sindacali nei confronti della « Mobilitazione Industriale » e quindi del paese in guerra.

Nel complesso si assisté quindi al realizzarsi di una situazione che vedeva da un lato un partito socialista, emarginato dal clima di intolleranza creato dalla guerra, rinchiudersi nelle sempre meno numerose sezioni per radicalizzare l'intransigenza degli iscritti superstiti, dall'altro un'organizzazione sindacale che, fortemente coinvolta nello sforzo bellico del paese, vedeva costantemente aumentare i propri aderenti.

Il successo della Confederazione Generale del Lavoro non poteva che rafforzare i convincimenti riformisti nutriti dalla grande maggioranza dei suoi dirigenti e questo, nella particolare contingenza determinatasi, non poteva che allontanarli dai loro compagni di partito.

D'altro canto, la scelta « collaborazionistica » della CGL la mise in condizione di operare attivamente, assieme alle altre organizzazioni sindacali, in favore degli operai deUe industrie mobilitate, ottenendo notevoli risultati nel migliorarne le condizioni di lavoro. All'inizio la sorveglianza disciplinare negli stabilimenti era affidata ai comandi di divisione, il ché non mancò di provocare qualche inconveniente e, benché a ciò si fosse posto riparo ( 33 ), fu ritenuto opportuno trasferire il controllo ed il coordinamento della sorveglianza degli stabilimenti ai Comitati Regionali di Mobilitazione Industriale. Questo servizio dapprima si svolgeva nelle sole imprese mobilitate, dal dicembre del 1916 fu esteso a tutte quelle che avevano operai militari o esonerati. « La sorveglianza si estendeva negli stabilimenti ausiliari e requisiti , a tutto il personale di ruolo amministrativo, tecnico ed operaio sia maschile che femminile; nelle aziende non ausiliarie, al solo personale militare (esonerati, comandati, a disposizione) » ( 34 ).

Oltre a ciò, con il D.Lt. del 5 novembre 1916 n. 1684 furono emanate nuove norme penali e disciplinari per gli stabilimenti adibiti alla produzione bellica. La nuova normativa mitigava le disposizioni del codice penale militare, alle cui norme, fino a quel momento, erano state sottoposte le maestranze. I sindacalisti, che si erano attivamente adoperati per ottenere che gli stabilimenti fossero sottoposti a norme meno rigide di quelle del codice penale militare di guerra, insistettero ulteriormente per ottenere ch e si avesse particolare riguardo nei confronti delle maestranze minorili e femminili impegnate nella produzione bellica ( 35) ottenendo ulteriori agevolazioni (D.Lt. 16 marzo 1917 n. 570). Nel 1917 poi una serie di disposizioni legislative (D.L. 29 aprile 1917 n. 670 e D.L. 24 luglio 1917) estese a tutte le imprese impegnate nello sforzo bellico l'obbligo, già in vigore per gli operai dipendenti dal Comando Supremo di guerra e per quelli degli stabilimenti militari, dell'iscrizione alla Cassa Nazionale di Previdenza. Si trattava di un provvedimento significativo dato che, come ha ricordato il Melograni, numerosi settori tra i più importanti fra quelli impegnati nella mobilitazione industriale, ne erano in precedenza esclusi. Del pari significativo era il fatto che il provvedimento era stato studiato e fissato, nelle sue grandi linee, da una commissione mista operai-imprenditori appositamente nominata dal Ministro delle armi e munizioni ( 36 ).

Con il D.Lt. del 15 marzo 1917 n. 570 veniva istituito il servizio di vigilanza igienico-sanitaria presso il Ministero delle armi e mwlizioni. In sede locale il nuovo sen1izio era organizzato e regolato dai Comitati Regionali. Con le nuove disposizioni, non solo si vincolavano gli industriali ad osservare le necessarie disposizioni contro gli infortuni e per la tutela igienico-sanitaria deJle maestranze, ma si faceva obbligo agli stessi operai di servirsene. Tutto ciò contribuì notevolmente al miglioramento delle condizioni di lavoro anche se il numero degli incidenti sul lavoro si mantenne alto, nonostante le più accurate disposizioni antinfortunistiche, in seguito ai forti aumenti di personale non qualificato. Oltre a tutti i provvedimenti che abbiamo citato bisogna segnalare che, nel corso della guerra (benché talvolta, in considerazione di particolari necessità, grandi offensive, rotta di Caporetto ecc., si lavorasse anche fino a 14 ore al giorno negli stabilimenti) andò affermandosi una tendenza favorevole alla graduale riduzione del normale orario di lavoro; ecco, ad esempio i dati relativi alla Fiat:

Tracciando un bilancio degli anni della guerra nel corso del V Congresso Nazionale della federazione degli operai metallurgici tenutosi a Roma alla fine del 1918, Bruno Buozzi poté, a ragione, vantare una serie di notevoli successi ottenuti quali: il contenimento dell'orario massimo di lavoro entro le dieci ore giornaliere; gli aumenti per le ore di straordinario; l'equiparazione dei cottimi tra uomini e donne; l'iscrizione degli operai degli stabilimenti ausiliari alla Cassa Nazionale di Previdenza ( 38 ).

In conclusione non si può certo dire che la decisione della C.G.L. di collaborare con le autorità militari non riuscisse a conseguire notevoli vantaggi a favore della classe operaia.

Chiarita la posizione dell'organizzazione sindacale negli an- ni del conflitto, resta da esaminare l'orientamento assunto dalle masse operaie nei confronti della guerra. Non vi è alcun dubbio che la quasi totalità degli operai fosse ostile alla guerra; rimane da chiarire se questa ostilità, una volta scoppiato il conflitto, sia stata così forte da far desiderare la pace anche a prezzo della sconfitta. Nel corso della guerra vi furono due grosse agitazioni popolari per porre termine al conflitto, che coinvolsero due grandi città industriali: le dimostrazioni di Milano nel maggio del 1917 e la sommossa di Torino nell'agosto di quell'anno, vale quindi la pena di esaminare questi due avvenimenti più dettagliatamente. Le dimostrazioni di Milano nacquero in seguito ad agitazioni sindacali iniziate nella provincia. Si legge infatti in un documento dell'ufficio riservato di pubblica sicurezza: « Il 24 aprile scorso cominciò a Gallarate l'agitazione degli operai tessili che estese in tutto il Circondario nonché a quello di Monza ed alla stessa Milano con manifestazioni pubbliche di carattere apertamente antibellico » ( 39 ). In questa situazione la corrente rivoluzionaria del partito socialista decise di fare un tentativo per trasformare l'agitazione in una vera e propria sommossa e costringere il partito a prenderne la direzione. Turati, in una lettera alla Kuliscioff, così descrisse i progetti dei massimalisti: « Figurati che il piano per il 1° Maggio era questo: si erano fatte conferenze fuori Milano, preparativi per chiamare alla Casa del Popolo tutto l'elemento sovversivo dei Comuni vicini , probabilmente anche peggiore di quello milanese: si era deciso di far così uscire la folla dalla Casa del Popolo per la dimostrazione ... proibita dal decreto luogotenenziale e dall'Autorità: io dovevo essere l'oratore e l'unico oratore perché l'adunata fosse permessa: a me non si disse nulla, anzi, quando , dopo parlato col Questore andai da Fortichiari per accertarmi che non vi fosse intenzione di corteo o d'altro - mi si rispose che nessuno vi pensava ... Molta roba combinata di nascosto nel Comitato, nei rioni e nella piccola propaganda. Aggiungi le decine di migliaia di manifestini . Per cui, in sostanza, si fecero tre truffe: al P artito, che non fu interrogato e non deliberò, a me, che dovevo essere la bandiera per coprire tutta questa roba; e all'Autorità a cui io avevo, in certo modo, garantito che, se si lasciava - come fu lasciata - ampia libertà al Comizio, p r ivato di nome, pubblico in realtà, non sarebbe seguito nulla nelle strade ... Un partito serio avrebbe riprovato energicamente questa triplice slealtà; tanto più che tutti dovevano sentire il pericolo che questi sistemi presentano dappertutto e non nella sola Milano » ( 40 ). Il lavoro dei massimalisti non andò sprecato: infatti il 1° Maggio a Milano circa 4.000 dimostranti, in gran parte donne e ragazzi, mscenarono una manifestazione che impegnò lungamente le forze dell'ordine.

Le agitazioni si protrassero nei giorni successivi. Tuttavia gli avvenimenti non procedettero come la frazione rivoluzionaria del P.S.I. milanese aveva sperato; le manifestazioni « hanno sapore di jacquerie », nota Turati « con la differenza che sono sopratutto le donne, che però sono furie. Vogliono far cessare la guerra subito: rivogliono i loro uomini: ce l'hanno con Milano, che volle la guerra e che ora porta via loro tutto, grano, lardo, riso - riso sopratutto: che in campagna non si trova più e costa 1,70 al chilo -e vogliono far la pelle ai signori, fra i quali - beninteso - siamo anche noi, tanto che si sospettava di una dimostrazione rurale contro il Municipio. C'è forse lo zampino dei preti, e si spandono - come nella peste del Manzoni - le notizie più strambe, che il Municipio tiene nascosto il riso per affamare i contadini e così di seguito. Contro gli operai del bracciale, che fanno le munizioni , sono furibonde » ( 41 ).

La massa dei manifestanti era quindi costituita da donne ve nute dalla campagna le quali non intendevano fare causa comune con gli operai « imboscati » nelle fabbriche. Ciò comprometteva grandemente i programmi dei rivoluzionari, sia perché diveniva impossibile amalgamare gli operai e le contadine, sia perché queste fratture rendevano il movimento praticamente incontrollabile.

Mentre la frangia rivoluzionaria del partito socialista non riusciva a prendere la direzione dei manifestanti, i riformisti, capeggiati da Turati, si erano riavuti dalla sorpresa ed agivano energicamente per impedire che il partito fosse coinvolto in iniziative che giudicavano destinate al fallimento. In questo frangente emerse nuovamente la frattura tra le due anime del socialismo e le organizzazioni che le rappresentavano.

Infatti, mentre la C.G.L. e il Comune cercavano di por fine alle agitazioni, le strutture del partito cercavano con ogni mezzo di « allargare il movimento» (42 ). Nonostante che i tumulti continuassero , il 4 maggio i rivoluzionari che non erano riusciti a prendere il controllo delle agitazioni, non riuscirono nemmeno a contenere la pressione dei riformisti per cui, nella riunione congiunta dei rappresentanti della C.G.L. e del P .S.I., fu presa la decisione « di astenersi da qualsiasi partecipazione al movimento attuale, ritenendolo pel momento, inopportuno e privo dell'assenso della massa proletaria» ( 43 ).

La riunione della direzione del partito quattro giorni dopo sanzionò, sia pure non senza contrasti, la vittoria dei mode- rati (41 ). Il tentativo della frazione rivoluzionaria o «rigida», come veniva chiamata, del P.S .I. di servirs i delle agitazioni lombarde per trascinare l'intero partito sulle proprie posizioni, falll quindi completamente. Ciò avvenne non tanto per l'azione moderatrice svolta da Turati, dal sindaco di Milano, dai dirigenti sindacali, quanto perché non s i verificarono le condizioni necessarie per « l'allargamento del movimento».

Infatti non si poterono integrare i dimostranti venuti dalla campagna con gli operai della città, né, a differenza di quanto era avvenuto in Russia, i r eparti impegnati nel servizio di ordine pubblico dimostrarono in alcun modo di voler fare causa comune con i manifestanti. I «rigidi» sapevano fin troppo bene che Turati ed i suoi amici si sarebbero opposti ad ogni tentativo rivoluzionario ed avevano puntato sulle manifestazioni per travolgere la loro resistenza: solo dopo il fallimento del tentativo compiuto dai rivoluzionari di estendere ed egemonizzare le dimostrazioni, fu possibile per i riformisti avere la meglio.

Il Prefetto di Milano riferendo al Ministero dell'Interno che i dirigenti socialisti avevano sconfessato le agitazioni, rilevò « ch e essi, malgrado le loro buone intenzioni, erano travolti dagli elementi più spinti » ( 45 ).

In effetti la situazione andò normalizzandosi perché le agitazioni non furono, come si è detto, tali da permettere ai « rigidi» di « allargare il movimento» come avrebbero desiderato. I riformisti, per prevenire il ripetersi di analoghi episodi, riuscirono a far votare nella riunione congiunta della direzione del P.S .I., della C.G.L. e del gruppo parlamentare, tenutasi 1'8 maggio, un ordine del giorno in cui tra l 'altro si invitavano « le organizzazioni e i singoli a non assumere iniziative isolate e frammentarie, le quali potrebbero compromettere quella forza politica che, indubbiamente, al Partito socialista è venuta dal suo atteggiamento di fronte a lla guerra e che varrà, al momento opportuno, a realizzare quel programma politico e social e che il Partito socialista si appresta a difendere str enuamente » ( 46 ). Scrivendo però qualche giorno dopo alla Kuliscioff, Turati si d ichiarava scettico sull'efficacia che un simile appello avrebbe potuto avere sugli estremis ti ( 47 ). Gli avvenimenti di Torino, di lì a qualche mese, diedero ragione alle previsioni del capo dei riformisti. Nel valutare la sommossa avvenuta a Torino nell 'agosto del 1917 non bisogna però credere che la responsabilità sia da attribuirsi unicamente all'azione della frazione dei « rigidi» del P.S .I., anche se questo gruppo s i era mosso da tempo verso obiettivi di tipo insurrezionale. Infatti come riporta lo Spriano:

« Ora è Francesco Barberis (27 maggio) che pare pronunci la frase, restata poi famosa: "nei prossimi comizi gli operai dovranno intervenire non con delle scatole di cerini in tasca ma con buone rivoltelle per attaccare la forza pubblica". Ora è Rabezzana, che affermerebbe: " non bisogna perdere più tempo e lavorare attivamente per una insurrezione generale, impadronendosi delle bombe, che si fabbricano in grande quantità in tante officine di Torino, per adoperarle contro i soldati" » ( 48 ) Nonostante ciò è indubbio che le sommosse che coinvolgono le grandi città con decine di morti e centinaia di feriti e di arrestati, non nascono unicamente dalla predicazione rivoluzionaria di un piccolo gruppo di agitatori, per quanto questi possono essere abili e tenaci. Per comprendere pienamente gli avvenimenti dell'agosto 1917, bisognerà considerare la particolare situazione della città di Torino. Il comm. Fe1Taris, funzionario della direzione generale di Pubblica Sicurezza inviatovi appositamente nell'estate del 1917, riferiva nel suo rapporto: « In Torino, l'opinione pubblica fu sempre, in tutte le classi, generalmente avversa alla attuale nostra guerra, e tale si mantenne. :È ben naturale, adunque, che ivi più che altrove, trovi il terreno atto a germogliare il seme della pace, anche se prematura » ( 49 ).

In effetti in città giocavano un grosso ruolo i giolittiani che disponevano anche di un grande quotidiano, (< La Stampa», e parimenti importanti erano i cattolici e i socialisti. Alla luce di queste considerazioni si comprende facilmente come la guerra fosse in sostanza respinta dalla città in blocco. Oltre a ciò bisogna considerare le particolari caratteristiche del proletario torinese. Si trattava di una classe operaia di origine recente, in gran parte immigrata dalla campagna, quindi scarsamente integrata con la città ed estremamente instabile. A questi fattori vanno aggiunti, per l'agosto del 1917, altri elementi tra i quali ebbe grande importanza la carenza di pane che iniziò a manifestarsi nei primi giorni di agosto ( 50 ), e che, per la scarsa comprensione delle autorità centrali, continuò a trascinarsi per settimane; oltre a ciò bisogna considerare che il 13 agosto si svolgeva a Torino una grossa manifestazione in favore della delegazione del Governo provvisorio russo. I delegati russi erano quasi tutti avversari della fazione bolscevica, ma i (( rigidi » con una traduzione (< assai libera » ( 51 ) delle parole dei russi e con l'appoggio dei compagni « sparsi tra la folla di 40.000 persone, riuscirono a trasformare la cerimonia in una manifestazione contro la guerra, inneggiando a Lenin e alla rivoluzione » ( 52 ). In quello stesso giorno Giolitti uscì dal silenzio che si era imposto negli ultimi anni per tenere un memorabile discorso al consiglio provinciale di Cuneo in cui tra l'altro, definì la guerra in corso « la più grave catastrofe dopo il diluvio universale».

Due giorni dopo, il 15, fu pubblicata la famosa nota pontificia che accennava all' "inutile strage". Le ripercussioni che ebbero questi fatti sulla cittadinanza torinese sono facilmente immaginabili: la città era ormai un barile di polvere prnnto ad esplodere. Il 22 mancò il pane, cominciò così un'agitazione che si trasformò b en presto in rivolta armata. Gli scontri si potrassero fino al 26 e costarono la vita a 1 ufficiale, a 2 soldati, a 2 operai esonerati ed a 36 borghesi (di cui 3 donne), i feriti furono 152 e precisamente 2 ufficiali, 10 soldati, 4 carabinieri, 1 commissario di P.S., 22 guardie di città, 2 militi della croce verde; 11 operai esonerati e 100 borghesi. Furono arrestate circa 900 persone delle quali 822 furono rinviate a giudizio (53 ). Bisogna considerar e che i feriti tra i dimostranti furono probabilmente molti di più di quelli ufficialmente accertati e che i morti sarebbero stati molto più numerosi se le autorità militari non avessero fatto togliere colpi dai nastri delle mitragliatrici dei reparti impegnati p e r impedire che sparassero a raffica (54 )

Se le cause che determinarono la sommossa di Torino furono complesse, più semplici appaiono i motivi del suo fallimento che non fu dovuto, per la particolare situazione cittadina cui facemmo cenno, all'ostilità delle classi medie, poiché i moti furono caratterizzati « dalla neutralità degli strati intermedi, spesso benevola verso i proletari insorti» ( 55 ). L'insuccesso va invece attribuito a due precise circostanze: l'insurrezione, per il clima particolare e per le circostanze in cui era esplosa, non era facilmente estensibile. In quel momento, nelle altre grandi città non vi erano problemi alimentari e gli orientamenti dei ceti medi non erano quelli della metropoli piemontese. Infatti, quando il prefetto di Torino, nel tentativo di introdurre il tesseramento per il pane nella provincia, senza far aumentare la tensione, aveva chiesto il 12 agosto ai suoi colleghi di Genova e Milano di adottare contemporaneamente un analogo provvedimento, ne aveva ottenuto un rifiuto perché il problema alimentare in quel momento era un fatto esclusivamente torinese ( 56 ). Inoltre 12 giorni dopo, i dirigenti socialisti, anche quelli dall'ala rivoluzionaria, dovevano constatare che, data la situazione generale e le caratteristiche del movimento, questo non era «esportabile» fuori da Torino. Racconta infatti Gino Castagno: « Constatata l'impossibilità di estendere il movimento di massa, che rimaneva isolato e disorientato, senza sbocco e senza difesa, e che fatalmente dava già segni di stanchezza, un gruppo di compagni, con Buozzi , Serrati, Barberis, e alcuni deputati e consiglieri comunali torinesi, decise di lanciare un manifesto agli operai per invitarli a desistere» ( 57 ). L'altro elemento, del pari determinante per l'insuccesso dei moti, fu l'atteggiamento della truppa che, a differenza di quanto era avvenuto in Russia, non fraternizzò con gli insorti, ma represse la rivolta, nonostante che negli ultimi tempi fosse stata svolta una notevole propaganda a favore della fraternizzazione e che gli appelli in questo senso si ripetessero costantemente.

A comprendere questo fenomeno potrà giovare un brano del rapporto dell'ispettore generale di P.S . d'Alessandro inviato appositamente a Torino dopo la sommossa: « In caso di disordini le autorità militari ritengono di poter fare affidamento sulla truppa di fanteria, cavalleria e artiglieria, mentre desta qualche timore l'atteggiamento che potranno prendere i soldati del genio, che, come si sa, appartengono in massima parte alle categorie di operai meccanici » ( 58 ) È significativo che soltanto i soldati, che avevano un rapporto di identità sostanziale con i possibili rivoltosi, destassero qualche preoccupazione, mentre gli altri militari, di estrazione contadina o artigiana, davano pieno affidamento ai comandi. Il fatto di non essere molto popolari tra i fanticontadini non era ignoto ai dirigenti socialisti: Scalarini, il disegnatore dell'Avanti! disse ad un amico, cinque mesi prima di Caporetto: « I soldati siciliani, sardi e calabresi sono monarchici per la pelle, essi sparerebbero contro di noi socialisti con la medesima facilità e con la medesima voluttà con la quale sparano sugli austriaci, e noi dobbiamo quindi fare fra loro un'opera di persuasione e di propaganda, cercando di attirarli nella nostra orbita » ( 59 ). Questo atteggiamento ostile ai socialisti dei fanti contadini era solo un portato della fedeltà dinastica? Ciò appare in verità poco credibile. Ci sembra assai più probabile che quest'atteggiamento fosse anche in buona parte conseguenza del sordo rancore provato dal combattente contro l'imboscato, da chi riceveva cinquanta centesimi per esporre la propria vita ogni giorno, nei confronti di chi guadagnava buone paghe al sicuro. « Politici e militari si preoccupavano» ha scritto Piero Melograni « che il proletariato volesse "fare come in Russia" ma in realtà una delle più notevoli differenze tra la situazione italiana e quella russa si trovò proprio nel fatto che in Italia, durante la guerra, la contrapposizione tra città e campagna non fu mai superata, e "i fanti contadini" provavano un odio crescente nei confronti degli "operai imboscati". A Pietrogrado i tumulti del febbraio si trasformarono in "rivoluzione" quando la guarnigione si schierò dalla parte dei dimostranti. A Torino, viceversa, durante i moti dell'agosto, i soldati spararono contro i dimostranti» (60 ). In definitiva anche a Torino si ripresentò, in altra forma, la frattura che aveva provocato l'insuccesso delle manifestazioni milanesi. Infatti nella metropoli lombarda non era stato possibile amalgamare le donne del contado con gli operai della città ed a Torino la frattura fanti-contadini ed operai-imboscati aveva giocato w1 ruo]o determinante.

Da questa analisi emerge che nelle agitazioni del 1917 ebbe parte notevole la corrente rivoluzionaria del P.S.I., l'azione della quale non sarebbe stata comunque sufficiente a provocare le manifestazioni e la rivolta senza gravi ed obiettive situazioni di disagio. Infatti sia in Lombardia che in Piemonte, lo scoppio delle agitazioni non fu p r eordinato e solo i n un secondo momento i « rigidi » cercarono di controllare ed estendere il movimento. Peraltro, l'unica manifestazione propriamente operaia fu la rivolta di Torino, che per particolare situazione politica della città, per le caratteristiche degli operai che ne furono protagonisti, per le specialissime circostanze in cui si verificò, non può, da sola, costituire una prova dell'orientamento del proletariato industriale italiano durante la prima guerra mondiale.

Purtroppo manca uno studio sull'ordine pubblico in Italia durante la Grande Guerra che permetterebbe di valutare, con maggior precisione, gli orientamenti delle masse operaie nel corso del conflitto; tuttavia esiste un approfondito lavoro su i « Moti popolari in Emilia-Romagna e Toscana ( 1915-1917) » che può fornire utilissime indicazioni sia per la sua completezza sia per la «rappresentatività» delle zone esaminate. Infatti nelle due regioni erano stati eletti nel 1913 ben 19 dei 42 deputati che avevano costituito il Gruppo Parlamentare Socialista. Il successo elettorale era poggiato su una solida base organizzativa, infatti nel 1914, su le 1.843 sezioni che componevano il P.S.I., ben 668 erano toscane e emiliane. Di conseguenza, trattandosi di due regioni con un'opinione pubblica fortemente orien tata a sinistra ed in cui la presenza delle organizzazioni socialiste era fortissima, gli orientamenti delle masse operaie acquistavano in questo contesto, un'importanza che trascendeva la situazione locale.

Dallo studio citato (61 ) emerge che tutte le agitazioni operaie, non aventi un esplicito ed immediato movente economico, furono sempre determinate dalle agitazioni delle donne venute dalla campagna che impedirono agli operai di iniziare o continuare il lavoro. Così avvenne a Firenze, a Bologna, e a Reggio Emilia nel dicembre del 1916, a Pistoia nel marzo dell'anno successivo, a Bologna in aprile, a Lucca a Prato e a Firenze nel luglio del 1917 (62 ). L'agitazione più caratteristica avviene a Modena nel maggio del 1917.

« Si tratta di un grosso sciopero in cui la spinta da parte del proletariato agricolo è una delle componenti maggiori. Il 16 maggio del 1917 il prefetto riferisce che il 14 "contadine dintorni di Modena iniziarono città manifestazione pro-pace. Si astennero lavoro sigarie locale manifattura e qualche centinaio operai altri stabilimenti, complessivamente 2.000 circa. Intervento arma Carabinieri portò all'arresto di 140 persone. Fra le quali Bombacci Nicola fiduciario del P.S.U. e segretario locale della Camera del Lavoro. Dalle 13 alle 14 cessò la circolazione dei trams, vennero rotti alcuni vetri dei finestrini delle vetture. Ieri sera vicinanze proiettificio Sacca intervenne reparto allievi ufficiali Cavalleria per caricare dimostranti". L'agitazione si protrae il 15, il 16 e comincia a "morire" il 17, quando solo le sigarie e 1.000 operai del proiettificio continuano lo sciopero.

Il primo telespresso, che abbiamo visto, rischia di portarci sulla strada sbagliata. Il nome di Bombacci, che ha partecipato evidentemente alla dimostrazione, non può non saltare agli occhi. Si tratta nientemeno che del vice-segretario del partito, noto per essere uno dei socialisti più "rivoluzionari". Per di più è il segretario della Camera del Lavoro di Modena; l'organizzatore, si pensa, non può essere che lui. Ma i rapporti seguenti cominciano a far vacillare questa ipotesi. Si viene infatti a sapere: 1) che lo sciopero al proiettificio militare è cominciato perché un picchetto di dimostranti (non operai dello stabilimento) aveva sbarrato il ponte di accesso allo stabilimento stesso, impedendo in tal modo agli operai di entrare; 2) che la mattina del 15 tutti gli operai, militarizzati e non militarizzati si sono presentati allo stabilimento, ma che, verso le 10, le dimostranti "si dirigevano verso lo stabilimento per invitare gli operai ad associarsi alla manifestazione"; 3) che il 17 per quanto l'agitazione sia cessata, la maggior parte degli operai "non rientra negli stabilimenti per tema di rappresaglie"; 4) che Bombacci dal carcere, invia al prefetto un biglietto in cui promette "di mantenere calma l'opinione pubblica" se non ci saranno "manifestazioni patriottiche" » ( 63 ). In definitiva, anche in questo caso l'azione delle contadine ha un ruolo determinante nell'iniziare e mantenere in vita l'agitazione, mentre quello degli operai degli stabilimenti è del tutto passivo. Gli stessi dirigenti socialisti, anche quelli, come in que- sto caso, dell'ala più estremista, si preoccupano più di gestire che di promuovere le agitazioni.

Dal complesso degli avvenimenti appare chiaro che le tensioni maggiori non si sviluppano nelle città ma nelle campagne, da dove le agitazioni prendono il via prevalentemente per iniziativa delle contadine.

« Le ragioni che inducono le donne a far scioperare gli operai degli stabilimenti ausiliari sono fondamentalmente due: 1) negli stabilimenti ausiliari si lavora per la guerra: si producono proiettili, obici, fucili, scarpe militari, vestiti militari, zaini, ecc .; se gli stabilimenti si fermano, pensano le donne, si fermerà anche la guerra: l'operaio "militarizzato" non scioperando tradisce i desideri e le speranze della sua classe; 2) gli operai che lavorano negli stabilimenti ausiliari, inoltre, sono dei privilegiati, in primo luogo perché guadagnano di più degli operai delle industrie non convertite a scopo bellico e molto di più dei contadini; in secondo luogo perché l'esonero agli operai viene concesso con maggior larghezza che ai contadini. L'operaio militarizzato, oltre che un traditore degli interessi di classe, diventa, agli occhi dei contadini, un "imboscato"» ( 64 ).

Le agitazioni contro la guerra, in un ambiente estremamente significativo quale quello tosco-emiliano, ripropongono tutto il problema dei rapporti tra città e campagna già emerso, sia pure in forma diversa, nelle agitazioni milanesi e nei moti di Torino. Ciò rende necessarie alcune considerazioni sulla ripartizione del carico della guerra tra i vari gruppi sociali in cui era divisa la società Italiana.

Nel quadriennio precedente lo scoppio della guerra la ripartizione del prodotto lordo privato, fra i vari rami di attività, fu percentualmente la seguente : agricoltura 44,6%, industria 25,0%, settore terziario 30,4%. La guerra non poteva non sconvolgere questi equilibri per cui, nel quadriennio successivo, le percentuali furono le seguenti: agricoltura 44,2% industria 30,25% attività terziarie 25,55 % . Si ebbe quindi, negli anni della guerra in percentuale, una lieve contrazione del prodotto delle attività agricole (-0,4%) un fortissimo incremento delle attività industriali ( +5,25%) e una notevolissima contrazione della percentuale del settore terziario (-4,85% ). Da questi dati risulta chiaro che fu soprattutto la piccola borghesia a sopportare il peso della ristrutturazione del sistema economico imposto dal conflitto (come è noto le attività del settore terziario sono in genere quelle caratteristiche dei ceti medi). Tuttavia la piccola borghesia era il gruppo sociale che aveva più di ogni altro sostenuto l'intervento e che, in ogni caso, si riconosceva pienamente nell'ordinamento vigente. Questo fatto faceva sì, che nonostante i notevoli sacrifici, non solo economici, questo ceto sociale si dimostrasse per tutto il conflitto sostanzialmente unito nel sostenere lo sforzo bellico del paese.

Come si è visto, la contrazione della percentuale del valore del prodotto dell'agricoltura subì negli anni del conflitto una modesta contrazione (- 0,4%). Tuttavia bi sogna considerare che il disagio nelle campagne, nel corso della guerra, non era solo quello di natura economica; furono infatti i contadini a sopportare materialmente il maggior peso del conflitto .

Il Serpieri calcolò che fossero stati richiamati alle armi circa 2.600 000 contadini (65 ) per cui le condizioni di lavoro nelle campagne divennero molto pesanti. « I richiami alle armi nella misura esposta avrebbero diminuito gli uomini adulti da milioni 4,80 a 2,20 - le unità lavoratrici da milioni 7,66 a 5,06 - le unità consumatrici da milioni 14,46 a milioni 11,86. Su ciascuna unità lavoratrice gravavano, prima della guerra, circa 1,9 unità consumatrici, durante la guerra, hanno gravato .fino a 2,35. In altri termini le unità consumatrici passive gravanti su ciascuna unità lavoratrice si sono elevate da 0,9 a 1,35 » ( 66 ) Poiché la produzione agricola subì nel corso del conflitto una lieve contrazione valutabile attorno al 10%, è evidente che per mantenere una simile produzione la manodopera agricola, non avente obblighi militari, fu sottoposta ad un super lavoro .

I maggiori sforzi, cui furono costrette a sottoporsi le contadine, non furono senza gravi conseguenze se s i considera l'aumento percentua le dei nati morti negli ultimi anni di guerra (67 ).

Oltre a ciò bisogna considerare che i contadini costituivano il nerbo della fanteria: l'arma maggiormente esposta e che ebbe le pit1 gravi perdite. I nfatti, benché i reparti di fanteria comprendessero il 67% dei mobilitati, appartenevano a quest'arma

1'87% dei caduti ed il 77% dei ferit i ( 68 ). Questo fatto non poteva non incidere profondamente sullo stato d'animo dei congiunti dei richiamati.

I contadini, a differenza della piccola borghesia urbana e rurale, erano stati completamente estranei al dibattito per l 'intervento, coinvolti in una guerra che non avevano voluto e le cui finalità non comprendevano, desideravano logicamente che il conflitto avesse termine nel più breve tempo possibile. Ciò è vero soprattutto per le donne sottoposte sia alla tensione dominante della preoccupazione per la sorte dei loro uom in i, sia agli effetti della fatica per l'aumentato lavoro

A modificare gli orientamenti delle masse contadine non contribuì certo la politica del Governo che tendeva a « mantenere bassi i prezzi dei prodotti agricoli per evitare l'aumento troppo rapido del costo della vita e, quindi, il malumore degli abitanti delle città specialmente dei lavoratori » ( 69 ).

Indubbiamente la società agricola poteva essere, a differenza della città, supercompressa senza che si verificassero moti tali da costituire un effettivo pericolo. Infatti, mentre in città un qualsiasi avvenimento può produrre facilmente una serie di reazioni a catena e trasformarsi in un fenomeno di massa, in campagna le reazioni sono molto più lente e gli assembramenti molto meno frequenti. Non a caso le manifestazioni contro la guerra si verificarono in genere quando le contadine si riunirono per riscuotere il sussidio governativo alle famiglie dei richiamati. Per di più le campagne erano generalmente meno politicizzate della città e comunque, per effetto delle reiterate chiamate alle armi, popolate quindi quasi esclusivamente di donne, vecchi e ragazzi. Tutto ciò faceva si che le agitazioni contro la guerra, per quanto violente, fossero destinate ad esaurirsi rapidamente. Se si considera, perciò, il problema dal solo punto di vista dell'ordine pubblico, nel fronte interno la politica scelta dal Governo era giustificata anche se « il continuo travaso di ricchezza della campagna verso la città convinse sempre più le masse contadine che la guerra era stata fatta ad esclusivo vantaggio della città» (70 ).

Alla luce di questa considerazione, potrebbe sembrare che questa politica fosse stata scelta anche perché aumentava la frattura già esistente tra fanti-contadini ed operai-imboscati; questo aspetto della questione sfuggì invece completamente ai governanti italiani, come del pari sfuggì l'effetto dirompente che avrebbero potuto avere, come infatti ebbero, le notizie del malcontento e dei disagi dei ceti rurali sul morale dei combattenti che, come si ricorderà, erano in gran parte fanti-contadini.

Questo complesso di fatti e di situazioni fece sì che, per gli ultimi mesi del 1916 e per quasi tutto il 1917, le campagne italiane fossero in fermento e che si svolgessero una nutrita serie di agitazioni contro la guerra (71 ). Queste manifestazioni, per quanto violente, erano di brevissima durata e interessavano, in genere, piccole zone, per cui non incisero quasi per nulla sugli orientamenti generali sia del Governo che delle forze politiche, anzi passarono tanto inosservate che solo recentemente sono state « riscoperte» dagli storici. Per le agitazioni operaie, al contrario, si è esagerato la rappresentatività dei moti torinesi e delle agitazioni di Milano. Come si è visto, in realtà la sommossa di Torino va inquadrata in una particolare situazione locale e messa in relazione con una tale serie di specialissime circostanze che ne fanno un caso a sé. Riguardo alle manifestazioni milanesi esse furono determinate, oltre che dall'iniziativa della frazione rivoluzionaria del P.S.I., dallo stato d'animo delle contadine, come avvenne del resto in tutti gli scioperi contro la guerra avvenuti in altre città. In conseguenza di ciò, non ci sembra sostenibile la tesi di un'effervescenza rivoluzionaria tra le masse operaie italiane negli ultimi anni della guerra; anzi, dai dati disponibili, sembrerebbe nel complesso perfettamente giustificata la citata affermazione di Buozzi al Comitato Centrale della M.I. secondo cui gli operai italiani avevano accettato con grande serenità la riorganizzazione imposta dalle necessità del conflitto. Ciò fu indubbiamente reso possibile dalla politica adottata dai responsabili della M.I., politica che, in pratica, perpetuava, in forma più organica, l'alleanza operai-industriali che aveva caratterizzato almeno una parte del1'età giolittiana. Certo, per conseguire questa politica fu necessario sottoporre a duri sacrifici altri ceti sociali, creando, come osservò l'Einaudi, squilibri i cui effetti avrebbero inciso lungamente sulla intera società italiana. C'è tuttavia da domandarsi se una politica diversa avrebbe potuto conseguire i medesimi risultati. L'Einaudi affermò che « se lo Stato, sorretto dalla consapevole concorde volontà della nazione, si fosse ristretto a sottoporre a dura disciplina coercitiva industriali ed operai addetti alla produzione delle cose direttamente necessarie all'esercito in campo, quegli errori non sarebbero stati capaci di originare sconvolgimenti sociali » ( 72 ). Pur volendo prescindere -dall'importantissimo e fondamentale fatto che una « consapevole concorde volontà della nazione » non esisteva, non si può fare a meno di rilevare come un'organizzazione coercitiva, quale quella proposta da E inaudi, avrebbe, forse, retto alla resistenza passiva degli industriali e resistito all'urto delle agitazioni operaie, ma certo non avrebbe potuto creare quel clima di collaborazione che permise, nonostante notevolissime difficoltà, di far fronte alle richieste dell'esercito operante. La prova della validità delle scelte dei dirigenti della Mobilitazione I ndustriale si ebbe all'indomani della sconfitta di Caporetto . A questo proposito ha scritto Paolo Spriano: « Siamo forse di fronte a un'ondata profonda di patriottismo che scuota il partito socialista, i suoi quadri , i suoi adepti, le masse che ad esso si ispirano? L'affermazione non risponderebbe al vero » ( 73 ) In realtà, almeno per quanto riguarda le masse operaie degli stabilimenti ausiliari, si tratta di una affermazione tutt'altro che peregrina . Secondo lo Spriano i moti d'ago- sto a Torino iniziarono allorché gli operai della Diatto-Frejus e della Proiettili non vollero riprendere il lavoro (7 4 ). Non sarà quindi senza significato leggere l'ordine del giorno votato dalle maestranze di quest'ultima azienda dopo Caporetto: « Gli operai degli Stabilimenti della Società Italiana per la fabbricazione dei proiettili in Torino, consci della gravità del momento, riaffermando il supremo dovere nella concordia che sola può dare ali'esercito la forza di ricacciare il secolare nemico al di là delle violate frontiere, esprimono ferma e immutabile la loro solidarietà coi fratelli che combattono al fronte per la salvezza del Paese, la loro volontà di proseguire con rinnovata energia nell'adempimento del loro dovere, la loro fede nella vittoria finale che non può, non deve mancare; e perché Torino possa fraternamente ospitare i profughi delle regioni ove il barbaro nemico tenta spargere onta, rovina e morte, deliberano di partecipare alla sottoscrizione cittadina, destinando una giornata del loro lavoro, certi che alla loro iniziativa aderirà compatta tutta la maestranza delle industrie torinesi» (7 5 ) Né questo era un caso isolato: dopo la sconfitta il generale Dallolio aveva rivolto un appello agli operai italiani per l'intensificazione della produzione. Le prime risposte a quest'appello, tutte approssimativamente del tenore del documento sopra riportato, occuparono un intero numero speciale del «Bollettino» della M.I. preceduti da una breve premessa in cui si diceva tra altro: « Fino ad oggi (fine novembre 1917) si calcola che più di quattrocentomila operai abbiano risposto all'appello; le offerte in denaro oltrepassano di molto i due milioni, oltre l'importo, non esattamente precisabile, di molt e diecine di migliaia di giornate di lavoro, cedute a beneficio dei profughi; ma le risposte e l e offerte continuano diuturnamente a giungere » (76 ). Ed infatti il « Bollettino » riportò ancora , per alcuni numeri, lunghissimi elenchi di sottoscrittori. Questi fatti chiariscono perché i dirigenti sindacali non esitassero, in questa circostanza, ad assumere atteggiamenti filo patriottici; era infatti evidente che questi erano condivisi da gran parte della base operaia. Per quanto riguarda il Partito socialista, il discorso è indubbiamente diverso: abbiamo visto come questo, a differenza del sindacato, si fosse ripiegato in se stesso riducendo i contatti con l'esterno: contemporaneamente gli orientamenti della base si erano radicalizzati, eppure nonostante che questo processo fosse già molto avanzato, le vicende seguite dalla rotta scossero profondamente la base ed il vertice del P.S.I. Lo testimonia uno dei protagonisti non certo incline alle sollecitazioni patriottiche, Amadeo Bordiga: « Mentre i veri italiani facevano

(molto platonicamente) argine coi loro petti alle "orde" austriache molti di noi militanti del partito correvano a Roma per far argine al tradimento dei nostri deputati, e ne potemmo scongiurare la piena effettuazione col trattenerli quasi .fisicamente sulla via del Quirinale, ove, si disse, Turati si era già vestito per andare (se in giacca o meno, questo non ci fregava per nulla). Senza fare i soliti nomi può avere eloquenza un episodio. Un buon compagno della sinistra... giunse trafelato alla Direzione del partito, dove un gruppo della Federazione giovanile esorta e scongiura il bravo Lazzari a tenere duro: quello fresco di notizie di sala-stampa ansima; pare che li fermino sul Piave senza arretrare di più! Noi avevamo in testa a fermare il partito sulla via della disfatta di classe e lo guardammo sbalorditi: in lui parlava già il complesso della difesa della P atria e delle bandierine tricolori sulla carta topografica» ( 77 ). Si trattava di un « complesso » alquanto diffuso nel P.S.I. tant'è che sotto la « ventata di paura e di nazionalismo del periodo di Caporetto, con la formidabile pressione politica e ideologica del momento e le numerose manifestazioni di patriottismo provenienti non solo dai capi riformisti del GPS e della C.G.d.L. ma anche da amministrazioni locali e organizzazioni socialiste periferiche » ( 78 ), si deterrninò, per contraccolpo, un'avvicinamento tra la direzione e la frazione di sinistra . Questo avvicinamento praticamente portò però solo a una deplorazione dei « collaborazionisti » e ciò probabilmente, non solo in ossequio al mito dell'unità del partito, ma anche perché, in quelle circostanze, non vi era la sicurezza che un confronto diretto si concludesse vittoriosamente.

In conclusione, posti di fronte allo spettro della disfatta, i dirigenti sindacali, in piena sintonia con la propria base, non esitarono a manifestare la volontà di collaborare con lo sforzo bellico del Pase. Si trattava, per la verità, per gli uni e per gli altri, di esternare una situazione di fatto esistente da tempo. Sul momento ciò non mancò di fare molta impressione e di influenzare notevolmente l'atteggiamento dello stesso partito socialista, la dirigenza del quale però, sia pure in maniera non troppo energica, riaffermò la propria volontà di « non aderire», e riuscì nei mesi successivi, a riportare sulle proprie posizioni la grande maggioranza del partito.

L'atteggiamento della C.G.L. fu invece alquanto diverso fino alla fine del conflitto e ciò anche perché il clima di reazione patriottica creatosi a seguito del disastro di Caporetto si conservò a lungo tra le maestranze degli stabilimenti impegnati nel- lo sforzo bellico, come dimostrano i dati sulla partecipazione degli operai alla sottoscrizione del V0 prestito nazionale:

I dati, aggiornati a tutto aprile 1918, forniscono un totale complessivo di 86.563.750 lire: cifra notevolissima specie se si considera che questa raccolta di fondi era avvenuta dopo due precedenti sottoscrizioni l'una a favore dei profughi, cui facemmo già cenno, l'altra a beneficio dei combattenti.

In definitiva l'atteggiamento« collaborazionista» della C.G.L. era in parte anche conseguenza dell'orientamento di fondo di vasti strati del proletariato industriale.

Note

(1) Vedi allegato 12.

(2) Cfr. G. NAPPI MODONA: Sciopero, potere politico e magistratura 1870-1922, Bari 1969, p. 199.

(3) M. GUARNll!Rt: La Mobilitazione Industriale, Torino, 1919,

(4) Comitato di Mobilitazione Civile: I Comitati Regionali, cit., pp. 85-86.

(5) Vedi allegato 12.

(6) Cfr. Relazione della Commissione d'inchiesta istituita dal R.D. 10 gennaio 1918 n. 35. Dall'Isonzo al Piave, 24 ottobre· 9 novembre 1917 (da ora innanzi citata come Relazione Caporetto, Roma 1919, voi. li, pp. 411-412.

(7) A.C.S. Ministero Armi e Munizioni b. 42. Difronte alle _Prese di posìzione del Dallolio appare davvero incredibile che vi s ia chi sostenga che gli • sproloqui sugli alti salari • operai durante la prima guerra mondiale abbiano avuto nel Comitato Centrale di Mobilitazione Industriale • uno dei loro maggiori responsabili•. Cfr. La relazione di A. Camarda aJ convegno di studi « Operai e contadin.i nella Grande Guerra • Vittorio Veneto 14-16 dicembre 1978.

(8) A.C.S. Ministero Armi e Munizioni b. 42.

(9) Vedi allegati no. 13 e 14

(10) A.M.C.R. Carte Dallolw b. 948 f. 25.

(11) G. CASTAGNO: Bruno Buozzi, Milano 1955, p. 31.

(12) Vedi allegato n. 12.

(13) Ibidem.

(14) Commissione Parlame,itare, cit., voi. li, p. 111.

(15) L. EtNAUoI: La condotta economica, cii., p. 103.

(16) I dati sono desunti da E. Ra>llNn: Notizie sull'attività dei comitati di mob. lnd. nella composizione e risoluzwne di vertenze economiche e da Notizie sull'attività dei Comitali di mobilitazione industriale e delle commissioni di concUiazione nella composizione e risoluzione di vertenze economiche, entrambi in « Bollettino del Comitato Centrale di Mobilitazione Industriale•, rispettivamente aprile 1918, pp. 118 e novembre-dicembre 1918, p. 385.

(17) Ibidem. Tra i dati delle ordinanze emesse nel 1917, sono stati conteggiati 6 ricorsi che alla fine dell 'anno risultavano ancora pendenti, analogamente è stato fatto nel 1918 per i 9 ricorsi non ancora decisi alla fine di quell'anno.

(18) M. ABRAm: La lotta s indacale nell'industrializzazione in Italia 1906-1926, Milano 1967, pp. 177-178.

(19) Ibidem, p, 179,

(20) Cfr. G. PRATO: op. cit., p. 144.

(21) Comitato per la Mobilitazione Civile: La sorveglianza disciplinare sul personale degli stabilimenti produttori di material e bellico durante la grande guerra (1915-1918), Roma 1930, p. BI.

(22) Vedi allegato o. 14.

(23) Vedi allegato n. 12

(24) M. GUARNll;IU: op. cit., pp. 15-16.

(25) Vedi allegato o. 12.

(26) C. CWAGNO: op. cit., pag. 31-32. A questo p roposito vedi anche C. CARnCLIA: Rinaldo Rigola e il sindacalismo riformista in Italia, Milano 1976, pp. 110 ss.

(27) Vedi allegato o. 12.

(28) Per i dati cfr. P.S.J. Relazione amministrativa a1111i 1914-15/16-17, Roma 1917, p. 4 e Il P.S.I. nei suoi congressi a cura di F. Pedone, Milano 1963, p. 17.

(29) P.S.l. Relazione amministrativa, cit., p. 4.

(30) Cfr. Ibidem, pp. 33 ss.

(31) Ibidem.

(32) Cfr. La Confederazione Generale del Lavoro negli atti, nei documenti nei congressi 1906-1926, a cura di L. Marchetti, Milano 1962, pp. 419-421.

(33) Nella riunione del 26 novembre 1916 il Generale Dallolio dichiarava a tal J?rOposito « La facile invadenza nel campo delle altrui competenze, originate forse dalla inesatta interpretazione delle disposiz.iom vi.genti, provocò, agli inizi, qualche isolata protesta; ma il richiamo energico, ed alcune severe punizioni, valsero a ricondurre la funzione dell'organismo sulla giusta e ben delineata sua via ». Vedi allegato n. 12.

(34) Comitato di Mobilitazione Civile: I Comitati Regionali, cit ., p. 65.

(35) A.C.S. Ministero Armi e Mu11izio11i b 121. Promemoria Buozzi-Rigola in data 30 settembre 1916.

(36) Vedi allegati on. 13 e 14.

(37) Cfr. G. PRATO: Il Piemonte, cit., p. 133. Sull'orientamento dei Comitati Regionali della M.J. a favore di un • uso prudente delle energie•, vedi Comitati di Mobilitazione Civile: I Comitati Regionali, cit., p. 16.

(38) BRUNO Buoz21: L'opera della Federazione Metallurgica dal 1910 al 1918, Torino 1918, pp. 3-40.

(39) Cfr. R. On FEUCB: Ordine pubblico e orientamenti delle masse popolari italiane nella prima metd del 1917, in • Rivista storica del socialismo•, n. 20, p. 481.

(40) Cfr. Ibidem, p. 475.

(41) Ibidem, p. 472.

(42) Ibidem, pp. 474-475.

( 43) Ibidem, p, 502.

(44) Cfr. L. AM.JlROsou: Né aderire né sabotare, Milano 1961, pp. 197-199.

(45) Cfr. R. DE FELJCB: art. cit., p. 481.

(46) Cfr. L. AMBROSOU: op. cit., p. 180.

(47) Cfr. R. DE F01.1c1,: art. cit., p. 476.

(48) P. SPRlANO: Storia di Torino operaia e socialista. Da De Amicis a Gramsci, Torino 1972, p. 399.

(49) Cfr A. MONTICONE: li socialismo torinese e i fatti dell'agosto 1917, in • Rassegna storica del Risorgimento•, gennaio-marzo 1958, p. 66.

(50) E. Vmmwors: La sommossa di Torino del 1917 e l'approvvigionamento del gro.no, Roma 1925, p. 3 1 ss.

(51) P. SPRIANO: op. cit., p. 412.

(52) c. SBTON • WATSON: Storia d'Italia dal 1870 al 1925, Bari 1967, p . 544.

(53) I dati sono tratti da un appunto del generale Albricci, risalente al periodo in cui fu Ministro della guerra, conservato nel Museo del Risorgimento di Milano. Archivio guerra cartella 120 Le cifre in questione sono state controllate ed integrate con quelle fornite da P. SPRIANO, op. cit., pp. 432 n e 433. Si veda anche G. CARCANO: Cronaca di una rivolta, Torino 1977, pp. 91-96.

(54) Cfr. A. GAITI: Caporetto, dal diarìo di guerra inedito, Bologna 1964, pp. 432-433.

(55) R. DEL CAlwA: Proletari senza rivoluzione, Milano 1970, vol. II, p. 36.

(56) E. V ERDINOrs: Op. cit., p. 39.

(57) G. CASTAGNO: Op. cit., p. 35 .

(58) Cfr. P. SPRlA.'10: op. cii. , p. 448.

(59) Cfr. Ministero della Difesa, Stato Maggiore dell'Esercito Ufficio Storico, L'esercito italiano nella Grande Guerra 1915-1918, voi. IV, tomo 3°, p. 656.

(60) P. MELocRA.-a: Storia politica della Grande Guerra 1915-1918, Bari 1969, pp. 359-360.

(61) N. Dr STEFANO: Moti popolari in Emilia Romagna e Tcscana (1915-1917), in • Rivista storica del socialismo•, n. 32 , pp. 191 ss.

(62) Ibidem , pp. 204-205 e 211-213.

(63) Ibidem, p. 205.

(64) Ibidem, p 206.

(65) A. SERPIERI: op. cit., p. 50.

(66) Tbidem.

(67) Cfr. M. MORTARA: La sal ut e pubblica in Italia durante e dopo la guerra, Bari 1925, p. 467.

(68) A. BRONZUOLI: XXIV maggio, in « Bollettino dell'ufficio storico•, 1934, n. 2, p. 402.

(69) S.B. CLOucu: Storia dell'economia italiana dal 1961 ad oggi, Bologna 1963, p. 249.

(70) c. s,rrON-WATSON: op. cit., p. 542.

(71) Oltre allo studio della De Stefano più volte citato, vedi anche R. DE Fm.IcE art. cit.. L. PRJm: Lotte agrarie nella Valle padana, Torino 1955, pp. 340-350, A. CARACCIOLO: TI movimento contadino nel Lazio (1970-1922), Roma, 1952, pp. 149-162, e P. MELOGRANI: op. cit., pp. 329-334.

(72) L. EINAUDI: La condo/fa economica, cit., pp. 129-130.

(73) P. SPRIANO: op. cit., p. 451.

(74) Ibidem, p. 417.

(75) Cfr. • Bollettino del Comitato Centrale di Mobilitazione Industriale •, Supplemento al n. 4 dell'ottobre 1917, p. 2.

(76) I bidem.

(77) Anonimo (ma A. Bordiga): Storia della sinistra comw,ista 1912-1919, Milano 1973, pp. 113-114.

(78) L. CORTESI: li P.S.I. dalla • Settimana rossa• al congresso nazionale del 1918, in • Rivista storica del socialismo•. n 32, pp. XXXV-XXXVI.

(79) A M.C.R. Carte Dallo/io b. 958, fascicolo • Sottoscrizione degli stabilimenti militari e ausiliari al V• prestito nazionale •

I profitti realizzati dagli imprenditori industriali nel corso della prima guerra mondiale furono oggetto di annose polemiche. Sembrava infatti enorme che alcuni lucrassero ingenti somme di danaro, proprio mentre il paese era impegnato in una durissima prova. Ciò attirò sugli industriali il poco benevolo aggettivo di « pescecani » ed il sospetto di ogni genere di malversazioni. In realtà, la Commissione Parlamentare d'inchiesta sulle spese di guerra rilevò numerosi casi di speculazione e numerose irregolarità commesse dagli industriali. Sovente i materiali ottenuti a prezzo di calmiere per le forniture militari venivano sostituiti con materiali di scarto e rivenduti sul mercato libero a prezzi altissimi, come ad esempio avvenne per i cuoi prelevati a basso prezzo presso le concerie, per essere poi rivenduti illecitamente ma vantaggiosamente, mentre venivano impiegati, nella fabbricazione di calzature per l'esercito, cuoi di scarto. Nonostante le sanzioni previste dalla legge « il commercio, lucrosissimo, continuò diminuendo di intensità solo quando si pensò a rendere nominativi i buoni per poter controllare quale fosse il negoziante che ritirasse il cuoiame. In tal modo la frode fu diminuita, non impedita, perché il traffico si esercitò sul cuoiame ritirato dalle concerie e non direttamente con la cessione del buono» (1). In altri casi, materiali approntati per una amministrazione venivano rivenduti ad un'altra, se quest 'ul tima pagava prezzi più elevati. Il caso più clamoroso in questo senso è costituito dalla Società Ansaldo che « avendo già un contratto di forniture colla Regia Marina per cannoni da 381/40 al prezzo unitario di L. 410.800 e avendo riscosso le prime rate di pagamento e verificatasi la necessità da parte dell'Amministrazione delle Armi e Munizioni di avere cannoni d el genere, ad insaputa della Marina, concludeva un altro contratto con le Armi e Munizioni di cui erano oggetto gli stessi cannoni della Marina, dei quali s i operava il trapasso alle Armi e Munizioni, ma ad un prezzo unita- rio molto superiore e cioè a L. 2.100.000 percependo l'anticipo del 50% » ( 2).

Vi furono anche casi di imprese sorte quasi esclusivamente per permettere al personale, quanto mai eterogeneo e raccogliticcio, di fruire deJl'esonero (3) Comunque il caso più frequente di frode nelle forniture militari era costituito dal tentativo, sovente riuscito, di vendere materiale con caratteristiche inferiori a quelle richieste. Ciò era possibile anche per la situazione in cui si effettuavano le commesse militari, poiché, in considerazione della eccezionalità della situazione, una serie di decreti avevano autorizzato a derogare dalle norme della contabilità generale delJo Stato per le forniture di guerra. Sotto la spinta della necessità e dell'urgenza di provvedere alle necessità dell'esercito si ebbero tutta una serie di contratti in forma estremamente semplificata, a proposito dei quali la Commissione d'inchiesta sulle spese di guerra così si espresse: « Questa massa di contratti irregolari dell'Amministrazione centrale costituiscono oggi il contenuto di ben 10.501 cartelle di documenti, ordinativi, fatture, che durante la guerra non furono oggetto di alcuna registrazione contabile, e che ora soltanto ed in minima parte è stata sottoposta ad un esame analitico » ( 4 ). Passato il primo momento e stabilizzata la produzione su livelli accettabili allo scopo di mettere ordine in questa situazione e impedire che, passando attraverso i Comitati Regionali in cui gli industriali erano rappresentati, potessero ottenere prezzi di favore, fu costituita, all'inizio del 1917, una Commissione consultiva per la revisione dei prezzi, commissione che si mise alacremente al lavoro svolgendo un'attiva opera di controllo e ottenendo, in poco tempo, riduzioni dei prezzi concordati in precedenza per oltre 300 milioni ( 5 ). « Non è quindi a meravigliarsi» si legge nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle spese di guerra « che essa abbia suscitato opposizioni e tentativi di sfuggire alla sua azione, tentativi solo qualche volta riusciti, mentre nel complesso essa raggiunse lo scopo » ( 6 ). In effetti, il malumore contro la Mobilitazione Industriale, manifestato nella riunione della Confindustria del 6 luglio 1917, derivava in buona parte dagli aumentati controlli delle autorità centrali sui contratti concl usi in periferia (7).

La procedura adottata per la stipulazione dei contratti, e l'assenza per un lungo periodo di qualsiasi forma di controllo, sono importanti non solo per i vantaggi che gli industriali riuscivano a trarre facendo leva sulla necessità del momento o sulla scarsa capacità di trattare dei militari addetti, ma anche per tut- ta una serie di collusioni che si verificarono tra funzionari della Mobilitazione Industriale e le imprese private. La relazione della Commissione di inchiesta sulle spese di guerra enumera una serie di casi in cui ciò avvenne ( 8 ). Questa situazione era conseguenza del fatto che, per creare dal nulla l'organizzazione della Mobilitazione Industriale, si era dovuto per forza ricorrere al1'opera di ufficiali che avevano da tempo lasciato il servizio per occuparsi dell'industria privata e di personale civile pratico dell'attività industriale, e quindi, come osserva Alberto Caracciolo, « era ben difficile, senza dubbio, trovare tecnici competenti e in pari tempo indipendenti da interessi privati» ( 9 ).

Questi inconvenienti, che erano inevitabili, non intaccavano certo la validità della struttura della Mobilitazione Industriale nel complesso, come implicitamente riconobbe la Commissione Parlamentare d'inchiesta per le spese di guerra che, nella sua ultima riunione, votò all'unanimità il seguente ordine del giorno:

« La Commissione Parlamentare d'inchiesta per le spese di guerra, dopo aver partitamente e scrupolosamente esaminate le singole gestioni dell'amministrazione delle armi e munizioni alla quale fu preposto durante la guerra il generale Alfredo Dallolio, reputa suo preciso ed altissimo dovere indicare il nome di lui alla gratitudine ed alla ammirazione nazionale; perché in quella sua urgente, immensa, difficile opera, non solo seppe far tutto ciò che si poteva per apprestare le armi alla difesa, alla riscossa, alla trionfale vittoria, ma, con esemplare illibatezza e con appassionata diligenza, procurò che il denaro pubblico non andasse malamente disperso; e invita il Governo a considerare se non sia da rendere onore e premio adeguati a uno degli uomini, che, con senno e probità incomparabili, efficacemente contribuirono alle sorti gloriose della Patria » ( 10 ).

Oltre alfa frode ed alla corruzione, vi erano modi legali con cui le industrie potevano aumentare i loro profitti. Poiché la materia prima era fornita dallo Stato a prezzo estremamente vantaggioso per le forniture militari, i privati potevano, con un'attenta selezione del materiale ed una ripartizione dello stesso tra varie lavorazioni consimili, economizzare gran parte della mate· ria prima a loro vantaggio. La Commissione Parlamentare d'inchiesta sulle spese di guerra segnalò a questo proposito, esempi illuminanti. Poteva darsi infatti il caso che lo stesso industriale riuscisse « ad ottenere da tre distinte Amministrazioni dello Stato, ad insaputa forse l'una dell'altra, 650 tonnellate di vergella per fabbricare 300 tonnellate di cavi di diversa resistenza: sicché, pur calcolando un massimo di calo effettivo anche di 20 ton- nellate, come avanzo di lavorazione, rimanevano ben 280 tonnellate di vergella che poteva impiegare o per altre forniture militari o per il suo commercio privato, nel quale si noti, la vergella, pagata in media dallo stesso industriale allo Stato a L. 1,50 al chilogrammo, era salita a prezzi anche 10 volte superiori » ( 11 ).

Anche maggiori erano le quantità di materiali che rimanevano disponibili al privato come puri e semplici avanzi di lavorazione. Scrisse a questo proposito l'Einaudi: « Soprattutto rispetto ai metalli ricchi, ottone , bronzo, rame, alluminio ecc. il problema dei residui di lavorazione presentò particolare importanza. Forniti dall'amministrazione a titolo di vendita, quei materiali rimanevano di proprietà del fornitore, proprietà apparente, poiché l'importo ne era detratto, per addebito, dall'ammontare complessivo del prezzo convenuto. I residui soggetti a requisizione, avrebbero dovuto essere restituiti, al medesimo prezzo di addebito: ma per difficoltà di trasporti e resistenze dei fabbricanti, la restituzione non avveniva quasi mai. Rilevantissimi erano i residui» (1 2 ). Abbiamo in precedenza accennato al fatto che nel corso della guerra fu r ono impiegate, per la sola costruzione di proiettili, ben 2.099.000 tonnellate di metallo. La quantità del solo acciaio occorrente per la costruzione dei vari proiettili risultava in media la seguente: Kg. 9,8 per i piccoli calibri, Kg. 45,3 per i medi calibri e Kg. 255 per i grossi calibri. Si noti che un colpo completo, comprendente quindi anche la carica e parte di altri metalli oltre all'acciaio, aveva i seguenti pesi medi: Kg. 5,5 per i piccoli calibri, 32 per i medi calibri e 200 per i grossi calibri (1 3 ). Si potrà facilmente comprendere perciò come i residui di lavorazione dell'acciaio, fossero, in questo settore, ingentissimi e ciò spiega il verificarsi per talune parti del proiettile il fenomeno segnalato dall'Einaudi: « Laddove dal 1916 al 1918 i prezzi degli altri manufatti erano in continuo aumento, solo i prezzi d elle spolette scemarono notevolmente, nonostante l'aumento dei prezzi della materia prima, della mano d'opera e delle spese generali, per la concorrenza ad accaparrarsi una così vantaggiosa lavorazione» ( 14 ). Per quanto il caso delle spolette fosse un caso limite, (richiedevano infatti una quantità di materia prima circa tre volte superiore al peso del prodotto finito) i residui di produzione per la costruzione dei proiettili d'artiglieria furono in ogni caso ingentissimi.

Alla luce di questi fatti non può certo sorprendere che i profitti della società industriali crescessero rapidamente negli anni della guerra. « I profitti medi dichiarati dalle anonime» scrive il Romeo « che erano del 4,26% alla vigilia del conflitto, balza- no nel 1917 al 7,75% e ancor più significativi gli incrementi nei settori più direttamente impegnati nella produzione bellica. Così i profitti siderurgici salgono dal 6,30% al 16,55; quelli dell'industria automobilistica dall'8,20 al 30,51 % ; gli utili dei fabbricanti di pellami e calzature dal 9,31 al 30,51%; quelli dei lanieri dal 5,10 al 18,74%; quelli dei cotonieri, che ancora alla vigilia del conflitto si dibattevano in una gravissima crisi, dallo 0,94 % al 12,77% quelli dei chimici dallo 0,02 al 15,39%; quelli dell'industria della gomma dallo 8,57 al 14,95% » ( 15 ).

I profitti dichiarati dalle società sono sempre al di sotto del vero; s i deve ritenere però che questo fenomeno di occultamento si sia accentuato durante il primo conflitto mondiale e ciò non solo perché l'altezza confiscatrice d elle aliquote dell'imposta sui sopraprofitti di guerra spingeva in tal senso, ma anche perché i controlli non potevano funzionare efficacemente in un momento tanto eccezionale. Inoltre, una parte dei profitti come ad esempio quelli rilevantissimi derivati dall'impiego dei residui di lavorazione, sfuggivano per loro natura, a qualsiasi controllo. Conseguentemente non si può non convenire con il Caracciolo, quando rileva che i profitti dichiarati dalle società industriali nel corso della guerra furono « notoriamente molto al disotto del vero » ( 18 ). Va inoltre precisato che la ripartizione degli utili non avvenne in proporzioni eguali tra le varie imprese. Infatti, Augusto Graziani, sulla base dei dati dell'imposta sui sopraprofitti di guerra, rilevò che le imprese con un milione ed oltre di extraprofitti avevano ottenuto un saggio annuo di r endimento pari a circa il 34% del cap itale (1 7 ). Questo significava che le imprese maggiori, in grado di ammodernare ed ampliare agevolmente gli impianti, avevano potuto godere, per l'eccezionale situazione creata dalla guerra, di una rendita del produttore di straordinaria entità. Anche i salari operai, come i profitti industriali, furono oggetto di furibonde polemiche già nel corso della guerra. Infatti da parte della stampa interventista « si grida allo scandalo delle retribuzioni altissime, della dissipazione operaia, quasi fossimo di fronte ad un fenomeno "di profittatori di guerra" che abbia un'ampiezza di massa» ( 18 ).

In realtà la situazione era molto più complessa di quanto credevano gli interventisti; infatti gli aumentati consumi da parte degli operai potevano essere effetto, non solo dei maggiori salari, quanto dell'aumentata occupazione provocata dalla guerra. In quanto ai salari, già nel 1919, Riccardo Bachi rilevava che non esistevano dati complessivi per valutare l'andamento dei salari operai durante gli anni del conflitto ( 19 ).

In mancanza di enti che provvedessero alla raccolta ed alla analisi dei dati complessivi nazionali, è quindi necessario, per valutare la retribuzione delle maestranze operaie nel corso della grande guerra, servirsi di dati e studi parziali.

Nell'ottobre del 1918 il prof. Enrico Redenti pubblicò i dati relativi alle industrie mobilitate, quelle cioè dichiarate ausiliarie allo sforzo bellico e sottoposte a particolari controlli. Secondo questi dati il salario medio del personale maschile ( uomini e ragazzi) impegnato nell'industria bellica salì da 3,90 nel 1914 a quasi 9 lire al giorno nel 1917 ( 20 ).

Tale aumento va ovviamente commisurato con le variazioni dei prezzi al consumo i cui indici, negli anni della guerra, subirono le seguenti variazioni:

Sulla base di questi parametri si può riportare l'esito della ricerca del Redenti al valore reale delle retribuzioni: Tabella

Secondo questi dati si sarebbe verificato quindi un aumento non solo nominale, ma anche reale dei salari degli operai addetti alle industrie ausiliarie, l'aumento delle retribuzioni avrebbe cioè superato quello del costo della vita raggiungendo aumenti oscillanti tra il 14 ed il 21 % delle paghe prebelliche .

Questa conclusione sembra contraddetta dai dati relativi agli aumenti salariali verificatisi alla Fiat in questo stesso periodo.

(Tab.2)

In base a questi dati si sarebbe invece verificata, tra il 1913 ed il 1917, una piccola contrazione dei salari reali. Un'indicazione analoga si ricava anche dall'andamento dei salari delle industrie tessili laniere del biellese nello stesso periodo. (Tab. 3)

A rendere apparentemente ancor più contraddittorio il quadro, contribuiscono i dati raccolti dal « Comitato per la Mobilitazione Industriale» secondo i quali, nel 1917, le paghe degli operai meccanici a Torino raggiungevano quasi le 11 lire al giorno c2s).

Ciò porterebbe a concludere che le piccole e medie industrie pagassero salari più elevati del colosso torinese della meccanica che si trovava per di più in una fase di grande espansione. Questo fatto, in verità, appare poco credibile visto che le retribuzioni prebelliche della Fiat erano considerevolmente più alte della media nazionale delle industrie «mobilitate» (6,19 lire contro 3,90); comunque necessita una spiegazione.

Nel 1921 l'Istituto Nazionale per le Assicurazioni sul Lavoro rese noti i dati relativi ai salari medi di buona parte degli operai infortunati negli anni del conflitto ( 26 ). Benché i dati raccolti da11a Cassa Nazionale Infortuni fossero già stati sottoposti a più di una critica, (27 ) si ritenne dai più che un campionamento così vasto fornisse un indice quanto mai attendibile per determinare il livello dei salari reali ( 28 ).

La successiva elaborazione dei parametri del costo della vita da parte dell'ISTAT permette oggi di individuare con esattezza i valori reali dei salari indicati dalla Cassa Nazionale Infortuni.

(Tab.4)

Tabella 4

Oltre a queste elaborazioni, bisogna segnalare la ricerca fatta da Giustino Madia sui salari degli anni di guerra. Tale ricerca era il risultato di personali raffronti e indagini. di rilievi raccolti direttamente alle fonti ( 29 ), e perveniva a risultati diversi da quelli conseguiti dalla Cassa Nazionale Infortuni:

5

Secondo il prof. Mario Balestrieri del Gabinetto di Statistica della Università di Padova, il Madia avrebbe però commessi vari errori statistici, rettificati i quali risulterebbero i dati seguenti:

Tabella 6

Nonostante che questi dati non siano privi di interesse, senza alcun dubbio sono le cifre fornite dalla Cassa Nazionale Infortuni quelle che hanno goduto anche recentemente del maggior credito tra gli studiosi ( 32 ).

Tali cifre sono state, però sottoposte a svariate critiche fin dagli anni della prima guerra mondiale, critiche che il Melograni riassume nei seguenti punti:

« a) riguardano le retribuzioni medie giornaliere accertate in sede di definizione di infortunio, e si riferiscono pertanto ai soli infortunati, non alla generalità degli operai assicurati; b) in secondo luogo, durante la guerra, non esisteva alcuna INAIL (istituto che oggi assicura obbligatoriamente "tutti" i settori dell'industria) ma la cassa nazionale infortuni sul lavoro , dalla quale erano escluse fra l'altro: le industrie tessili, le metallurgiche, le minerarie e le marittime, ecc. facenti capo infatti ad enti assicurativi diversi; c) il salario accertato in sede di definizione di infortunio era solitamente quello denunciato dai datori di lavoro, ai fini della determinazione del premio assicurativo; la stessa relazione della Cassa, pubblicando i dati, dichiarò che non tutti i datori di lavoro avevano incluso nelle denuncie l'indennità caro viveri di recente istituzione, in modo che - per alcuni anni - le medie indicate nella tabella erano risultate inferiori ai salari effettivamente percepiti dai lavoratori infortunati; d) è probabile, inoltre, che i dati della Cassa non tenessero sufficientemente conto delle parti mobili delle retribuzioni (i cottimi, per esempio), così frequenti nel settore delle lavorazioni industriali; è certo che essi non tennero conto delle modificazioni contrattuali di carattere normativo, le quali avevano conseguenze economiche profonde, ma difficilmente quantificabili (si pensi alla riduzione degli orari, alla introduzione dei nuovi metodi di calcolo per cottimi e superminimi, alle maggiorazioni per le ore straordinarie, alle variazioni di ferie e di festività, alle nuove qualificazioni categoriali ecc.); e) infine, i dati pubblicati dalla Cassa costituivano la media aritmetica delle rilevazioni operaie tanto nelle regioni settentrionali ( dove i salari erano più alti), quanto delle regioni meridionali; tanto nella grande città, quanto nei borghi » ( 38 ). Si tratta di obiezioni non prive di fondamento, le quali a loro volta debbono essere sottoposte ad un esame critico. Le osservazioni a) ed e) si riferiscono sostanzialmente al fatto che i dati furono raccolti in maniera asistematica: ciò è indubbiamente vero ed influisce sulla piena attendibilità di questa rilevazione; va pe- rò considerato che per dati complessivi molto numerosi, come quelli in questione, si attua una sorta di compensazione per cui i margini di errore divengono molto modesti, d'altra parte l'obiezione a) può essere valida solo dove si ammetteva una forte immissione tra gli assicurati di personale a bassa retribuzione ed addetto ai lavori pesanti (e quindi più soggetto ad eventuali incidenti). L'obiezione b) circoscrive più che altro la portata dei dati raccolti dall'Istituto nazionale per le Assicurazioni; bisogna però considerare che, nel corso della guerra, la sfera di competenza della Cassa Nazionale Infortuni fu enormemente ampliata. Infine, riguardo alle obiezioni c) e d) esse, se dimostrano che i dati raccolti non tengono conto di tutti gli accrescimenti dei salari operai avvenuti nel corso del conflitto, non sono tali da modificare i risultati di fondo dell 'inchiesta, cioè, anche tenendo questi fattori nel debito conto, è innegabile che, in base ai dati raccolti dalla Cassa Nazionale Infortuni, si sarebbe verificata una contrazione dei salari reali dei lavoratori nel corso della guerra, sia pure molto più modesta di quella risultante dai calcoli della Cassa stessa.

In definitiva, non ci sembra che le obiezioni del Melograni bastino a giustificare la conclusione a cui perviene: « La nostra tesi è quella di un aumento dei salari reali per una parte almeno del proletariato industriale e di una sostanziale stabilità per un'altra parte di esso, con periodici «aggiustamenti» di continuo elevarsi del costo della vita» ( 34 ).

Per suffragare questa tesi il Melograni si serve tuttavia di considerazioni quanto mai interessanti: egli nota infatti che: « Il vistoso aumento della produzione e dei profitti incitava più gli operai ad insistere nelle loro rivendicazioni economiche, ma consigliava i datori di lavoro ad accoglierle per non compromettere la produzione. Questi ultimi sapevano fra l'altro, come ha ricordato J'Abrate, che "le amministrazioni militari (spesso i loro maggiori clienti) non discutevano sui prezzi delle forniture quando gli elementi di costo potevano, come nel caso di quello del lavoro, essere dimostrati".

La dinamica della Mobilitazione Industriale stimolava sia l'aumento della produzione, sia l'aumento delle retribuzioni. Il personale addetto agli stabilimenti "militarizzati" era assoggettato alla giurisdizione militare e ad una disciplina formalmente molto rigida che vietava, fra l'altro, di ricorrere allo sciopero . Ma di fatto sarebbe stato impossibile assicurare il buon andamento della produzione ricorrendo ad una applicazione continua delle misure coercitive. Ne ll'atmosfera di "finanza facile" determina- tasi durante la guerra poté spesso accadere che gli stessi ufficiali preposti alla sorveglianza degli stabilimenti destinati alle produzioni di guerra, svolgessero di fatto un'opera di mediazione tra gli operai ed i datori di lavoro, tra questi ultimi e le amministrazioni militari, facilitando aumenti di mercedi e di prezzi pur di evitare che negli stabilimenti a loro affidati scoppiassero incidenti suscettibili di far diminuire la produzione».

Dopo aver accennato all'attiva partecipazione degli esponenti sindacali all'azione dei Comitati di M.I. il Melograni riporta, a testimonianza degli orientamenti del Governo, una dichiarazione del gen. Dallolio: (< Non deve tacersi che a guidare il governo nelle linee generali della sua condotta verso le maestranze operaie non furono estranee preoccupazioni di natura anche politica.

Qualche cosa è trapelata in Paese del tenace, intenso lavorio fatto dai nemici, direttamente o indirettamente, presso le maestranze operaie; ebbene, malgrado questo, le maestranze operaie italiane hanno mantenuto la più grande tranquillità e differenza di quello che è accaduto in taluni paesi alleati .

Ma è indubitato che le maestranze avrebbero tenuto un contegno ben diverso se il governo non avesse sempre cercato di eliminare tutte le ragioni giuste di agitazione : è stata appunto la convinzione delle masse, che il governo si era messo per questa via e che intendeva rimanervi, che ha potentemente contribuito a rendere sterili le manovre degli agitatori » ( 35 ).

La politica governativa, insomma, curò coscientemente l'aumento della produzione e la tranquillità delle mase operaie: due obiettivi che erano strettamente legati fra loro. Quanto al terzo risultato di quella politica: la frattura tra fanti-contadini ed (< operai imboscati» riteniamo che esso fosse raggiunto inconsapevolmente: finora, in ogni caso, non abbiamo trovato alcun documento atto a dimostrare che la classe politica italiana fosse in grado di concepire un disegno strategico così geniale.

Il relativo benessere mantenuto o raggiunto da vasti strati popolari durante la guerra è indirettamente confermato dal fatto che i consumi privati non diminuirono ed anzi, in qualche misura, aumentarono rispetto al periodo prebellico .

I consumi privati pro-capite a prezzi 1938 variarono come dalla seguente tabella:

Tali dati risultano tanto più istruttivi se raffrontati con quelli della seconda guerra mondiale, durante la quale i consumi privati pro-capite, non soltanto diminuirono rispetto al livello prebellico, ma diventarono presto inferiori, in cifre assolute, ai consumi dei cittadini italiani riscontrati durante la precedente guerra. Anche la seguente tabella è infatti calcolata a prezzi 1938:

-

-

( 54)

Durante la seconda guerra mondiale la popolazione civile sopportò sacrifici economici e non economici (i bombardamenti aerei, per esempio, il passaggio del fronte attraverso la penisola ecc.) che non trovarono paragone con i sacrifici assai minori sopportati durante la prima guerra mondiale nel corso della quale, pertanto, la diversità di condizioni tra il soldato e il cittadino fu assai più netta.

I dati sopra riferiti, relativi al periodo 1914-18, riguardano tuttavia il cittadino medio senza fare distinzioni tra le diverse classi sociali. Un esame più minuzioso del consumo medio procapite dimostra tuttavia un incremento dei consumi popolari, vale a dire dei consumi primari e in particolar modo di quelli alimentari, come risulta dalla seguente tabeUa calcolata a prezzi

1938:

Tabella 7

Gli economisti hanno generalmente sottolineato l'impoverimento dei ceti medi borghesi verificatosi durante gli anni della guerra, e dovrebbe quindi essere attribuito complessivamente ad essi non un incremento dei consumi, ma un decremento degli stessi. I nuovi ricchi furono numericamente scarsi e non poterono influire in maniera sensibile sui consumi primari. Una parte dei contadini furono in grado di consumare più che nell'anteguerra, ma, secondo l'opinione del Serpieri, preferirono orientarsi verso maggiori risparmi, più che verso maggiori consumi. Einaudi ritenne viceversa che i ceti rurali partecipassero, in certa misura, all'incremento dei consumi, ma tenne a sottolineare che accanto ad essi « mantennero e crebbero i consumi le classi le quali nelle città e nelle zone industriali diedero più direttamente opera alla guerra: operai degli stabilimenti ausiliari od assimilati, artigiani mutatisi in piccoli industriali e coloro che si erano improvvisati commercianti e mediatori ».

Ci sembra inoltre assai sintomatico che l'unica rilevazione fino ad oggi conosciuta sui bilanci delle famigli e operaie negli anni della guerra, avvalori in maniera molto precisa la nostra tesi di un aumento dei consumi del ceto operaio cittadino. Nel dopoguerra ,infatti, la Società Umanitaria di Milano rese pubblici i risultati di una inchiesta compiuta da Angelo Pugliese sui bilanci di alcune famiglie operaie milanesi fra il 1913 e il 1917. Il Pugliese aveva esaminato i bilanci di 51 famiglie nel luglio

1913, di 28 famiglie nel marzo 1916, e infìne di 47 famiglie nel febbraio 1917. I consumi di queste famiglie erano notevolmente cresciuti nel 1917 rispetto al 1914 ed il 1916. Il Somogyi ripubblicando pochi anni or sono tali risultati, li giudicò « impressionanti » anche perché le famiglie sottoposte all'inchiesta non erano state scelte fra quelle particolarmente disagiate. Le differenze tra i tre periodi gli apparvero ancora più singolari dopo aver eseguito un confronto tra le famiglie di più ricca alimentazione: le famiglie che superavano le 3000 calorie giornaliere per ogni individuo erano 13 su 51 nel 1913, 6 su 28 nel 1916, e 22 su 47 nel 1917. Erano passate insomma dal 25,5% al 21,4% del campione considerato per salire infine, proprio nel 1917, al 46,8%.

Il fenomeno delle migliorate condizioni economiche delle famiglie dipese anche da un aumento dell'occupazione: infatti, grazie anche al maggior impiego della manodopera femminile, accadde spessissimo che una famiglia operaia contasse due, tre, quattro unità lavoratrici ( 36 ).

La considerazione del Melograni sono senza dubbio valide e fondate, tuttavia esse rilevano un fenomeno: quello del migliorato tenore di vita della classe operaia, senza fornirne alcuna spiegazione di come ciò si sia potuto verificare. In verità il mi- glioramento del tenore di vita del proletariato industriale negli anni della guerra mondiale è rilevabile anche da ulteriori elementi oltre a quelli elencati dal Me lograni. Infatti un Presidente del Consiglio dell'epoca, Paolo Boselli, prendendo la parola il 26 novembre 1916 in una riunione del Comitato Centrale per la Mobilitazione Industriale rilevava: « I salari sono largamente accresciuti; non c r edo che tutto il guadagno si versi in prodigalità inopportune; non lo credo perché i risparmi nelle Casse crescono, perché i pegni esulano dai Monti di Pietà, perché l 'acquisto di buoni del tesoro di piccolo taglio è abbastanza forte; tutto ciò significa risparmio » ( 37 ).

Tuttavia, quest'ulteriore elemento, se suffraga le tesi del Melograni relative ad un aumento della disponibilità finanziaria dei lavoratori dell'industria, non fornisce elementi sul come ciò sia stato possibile. D'altro canto, poiché, per i motivi che abbiamo precedentemente elencati, i dati raccolti dall'Istituto Nazionale per le Assicurazioni sul lavoro non possono essere completamente svalutati, rimane il problema di verificare se e come siano conciliabili i dati dell'Istituto con l'aume nto del tenore di vita della classe operaia verificatosi nel corso della guerra. A tal proposito non sarà inutile considerare il numero degli iscritti alla Cassa Nazionale di Previdenza negli anni del conflitto.

Il Decreto Luogotenenzia le del 9 settembre 1915 n. 1396 stabiliva il diritto al trattamento infortunistico per gli operai che lavoravano in zona di guerra per conto dell'amministrazione militare (art. 1); il decreto prevedeva inoltre che gli operai militari che lavoravano in stabilimenti dell'esercito o della marina, anche fuori del teatro di operazioni, potessero, in caso d'infortunio, scegliere tra il trattamento previsto « dalla legge infortuni e quello delle leggi sulle pensioni ed assegni militari » (art. 3). Con c iò il trattamento previdenziale era esteso agli op erai del Genio Civile in zona di guerra e degli stabilimenti militari nelle retrovie. Come si ricorderà, in questo periodo sia l'organizzazione del Genio Civile sia quella industriale militare erano in grande espansione.

La presenza di operai militari negli stabilimenti in cui a termini della legge del 1904, era obb ligatoria l'iscrizione alla Cassa Nazionale infortuni, creava il problema della disparità di trattamento esistente tra loro e gli operai civili. A questa situazione pose rimedio il Decreto Luogotenenziale 27 aprile 1916 n. 594, che estendeva anche agli operai militari addetti a ques to tipo di stabilimenti privati, l'iscrizione obbligatoria alla Cassa di Previdenza. Un altro decreto del 3 dicembre 1916, n. 1773, estese l 'assicu- razione ai prigionieri di guerra addetti ai lavori indicati dalla legge 31 gennaio 1904 n. 51 sulle assicurazioni. Infine il D.Lt. 29 aprile 1917 n. 670 stabilì l'iscrizione obbligatoria alla Cassa di previdenza di tutti gli operai addetti agli stabilimenti ausiliari. Il provvedimento aveva lo scopo di costringere, tra l'altro, gli operai dell'industria bellica, che percepivano alti salari, ad un risparmio forzato in vista della situazione che si sarebbe venuta a creare nell'immediato dopoguerra. L'art. 7 della legge prevedeva infatti la costituzione, con parte delle quote, di « un fondo per la disoccupazione involontaria a favore degli operai degli stabilimenti ausiliari che rimanessero disoccupati dopo la fine della guerra». Il provvedimento incontrò, nella fase applicativa una serie di difficoltà. Scrive a questo proposito l'Abrate: « Così si verificava che, mentre l'operaia di un'azienda cotoniera il cui guadagno non superava nel 1917 le tre lire giornaliere, era parificata o quasi, agli effetti del contributo, ad un meccanico che ne guadagnava trenta: altri lavoratori, non appartenenti a fabbriche ausilarie, che percepivano anch'essi alti salari, erano del tutto esclusi dal provvedimento. Altri pasticci nascevano a causa del passaggio di maestranze da stabilimenti ausiliari ad altri che tali non erano e viceversa; insomma, un disordine pari alla pretesa del Ministero delle Armi e munizioni di legiferare in materia di assicurazioni sociali base » (38 ). Per la verità la « pretesa » legislativa del Ministero era stata minima, visto che le caratteristiche del provvedimento erano state decise da una commissione mista imprenditori-operai (39 ); peraltro gli inconvenienti non ebbero quella rilevanza che attribuisce loro l'Abrate e furono in breve eliminati. I nfatti il Decreto Luogotenenziale del 24 luglio 1917 n. 1185, con cui l'obbligo dell'assicurazione veniva esteso ai lavoratori stranieri, provvide a graduare meglio la ripartizione delle quote per i salari inferiori alle 5 lire giornaliere.

Comunque, in applicazione del decreto del 29 aprile 1917, fu. rono immessi, in un sol colpo, a fruire del trattamento assicurativo, tutti gli operai degli stabilimenti ausiliari.

Da questo esame de1la composizione degli assicurati alla Cassa di Previdenza nel corso della guerra, risulta che, per le sempre nuove immissioni di categorie di aventi diritto, i dati degli anni di guerra non sono comparabili con quelli anteguerra poiché le basi non sono omogenee.

Indicazioni non meno significative possono derivare da un esame delle retribuzioni dei gruppi che, via via, furono ammessi a godere dell'assicurazione.

In quanto agli operai del Genio Civile in zona di guerra, dei loro salari si è già parlato; essi peraltro, come si è detto, non subivano aumenti altrettanto rapidi come quelli degli operai industriali e, anche se godevano di alcune previdenze, ( cibo ed alloggio gratuiti, vestiti a basso prezzo) queste non risultavano dai salari.

Per quanto riguarda i militari operai invece il discorso è più complesso: infatti il loro trattamento era diverso se lavoravano negli stabilimenti dell'esercito od in quelli privati. Nel primo caso, se i militari erano di leva, venivano retribuiti con la « mercede del picchetto» (un soldo l'ora!) più il soldo militare, più eventualmente il cottimo e lo straordinario. Se invece i militari operai erano « già militarmente istruiti» veniva loro attribuita, secondo la tabella « F », la paga annessa al regolamento degli operai civili del Ministero della guerra invece della « mercede di picchetto »; dovevano però versare al reparto la quota per il vitto e restituire il soldo. A tutti l'amministrazione militare forniva vitto e alloggio, non veniva però concesso il sussidio previsto per le famiglie dei chiamati alle armi (40 ). Per quanto riguarda poi i militari operai comandati o a disposizione presso le industrie private , il generale Dallolio, riferendo alla Commissione d'inchiesta su Caporetto, sostenne che si era riservato loro lo stesso trattamento degli operai borghesi poiché

« nella mentalità rudimentale sì, ma non sprovvista del senso della giustizia, dell'operaio, quando due persone compiono nell'officina lo stesso lavoro, essi sono due operai, i quali vanno trattati allo stesso modo, indipendentemente dal fatto che uno dei due abbia obblighi militari » ( 41 ). In realtà le dichiarazioni del Ministro delle armi e munizioni possono essere considerate come affermazioni programmatiche, poiché la situazione effettiva era ben diversa. Lo Spriana nota infatti che, dal particolare status dei militari operai derivarono « alcune sperequazioni contro cui lotteranno , senza molto successo, i rappresentanti sindacali» ( 42 ). In effetti, la buona disposizione delle autorità militari e l'azione dei dirigenti sindacali, peraltro non particolarmente risoluta, ottennero in questo settore risultati modesti. Si legge infatti nella relazione della Commissione Parlamentare d'inchiesta sulle spese di guerra: « I Comitati regionali appare siansi adoperati per impedire ogni sfruttamento della mano d'opera militare da parte delle Ditte. Quello di Torino, per esempio giunse gradualmente a far rispettare almeno i minimi stabiliti. Ma poiché diventarono sproporzionati alle sempre crescenti esigenze della vita, per non aver provveduto il Ministero ad una revisione di questi minimi, venne a verificarsi anche il ca- so che per l'insufficiente retribuzione, congiunta alla perdita del sussidio governativo alla famiglia, degli operai militari chiesero di rientrare al proprio corpo» ( 43 ). Coloro che fecero domanda per rientrare ai reparti dovevano essere militari del Genio per i quali i rischi di guerra erano molto modesti, tuttavia questo fatto è sintomatico di una grave situazione di disagio, per comprendere la quale è necessario esaminare più dettagliatamente il trattamento economico dei militari operai. Quelli comandati fruivano di due diversi trattamenti: in Piemonte, Liguria e Lombardia fruivano, almeno in teoria, della paga degli operai borghesi più, eventualmente, del cottimo e dello straordinario; dovevano però rimborsare allo Stato circa il 15 % della paga più il soldo e il vitto, quindi praticamente ricevano dall'amministrazione militare solo vestiario e alloggio. In complesso un trattamento modesto poiché, come segnala la Relazione dianzi citata, si trattava in realtà della paga minima per le varie qualifiche che gli operai militari percepivano, decurtata per di più dalle competenze dovute allo Stato . La situazione degli operai militari comandati nelle altre regioni era ancora peggiore: infatti questi dovevano rimborsare allo Stato la differenza tra la loro paga e quella stabilita dalla tabella « F » già citata. Succedeva, in pratica, che il loro salario era commisurato dagli industriali a quello previsto dalla tabella « F », che era già modestissimo allo inizio delle ostilità, e che fu aumentato del 30% soltanto dal Decreto Luogotenenziale 7 aprile 1918 n. 444. Le indennità concesse negli anni del conflitto al personale civile del Ministero della Guerra avevano permesso agli operai borghesi degli stabilimenti militari di far fronte in qualche modo all'aumento del costo della vita, anche se il loro salario restava ampiamente inferiore a quello dei lavoratori dell'industria privata. I militari operai invece si trovarono in una posizione ben più critica, sia perché alcune di queste indennità non spettavano ai militari di truppa, sia perché sovente le indennità non venivano addirittura prese in considerazione dai datori di lavoro privati Non deve quindi sorprendere se qualcuno, che aveva una famiglia numerosa, preferì rinunciare al salario per far pervenire ai suoi cari il modesto sussidio governativo che alla fine della guerra ammontava a 85 centesimi al giorno per Ja moglie, i genitori e i fratelli, a 45 centesimi per ogni figlio. Anche la situazione dei militari operai a disposizione era tutt'altro che ottimale, perché, se a questi spettava la paga degli operai borghesi, in pratica, anche in questo caso, si trattava quasi sempre dei minimi salariali ( 44 ). Concludendo, le retribuzioni degli operai militari, sia comanda- ti che a disposizione, furono, nel corso del conflitto, sensibilmente inferiori a quelle delle altre maestranze: ciò dipese da una serie di fattori quali l'assoluta mancanza di un qualche autonomo peso contrattuale degli operai militari; il modesto impegno dei sindacati nella difesa dei loro interessi e la tendenza prevalente tra le massime autorità militari (e non solo tra quelle) a non creare troppe grosse sperequazioni t ra i combattenti e quelli che venivano considerati dei privilegiati perché sottratti ai rischi della guerra.

Nell'ambiente militare il generale Dallolio era in realtà un isolato nel suo tentativo di non creare forti differenze tra il trattamento economico degli operai e degli operai militari , la quasi totalità degli altri ufficiali era infatti molto più preoccupata di non creare eccessive sperequazioni tra i combattenti e i militari operai.

Nel corso della guerra la manodopera minorile e femminile fu largamente impiegata e come già abbiamo visto, al termine del conflitto, nelle sole industrie dedite alla costruzione di armi e munizioni si contavano 258.000 fra donne e ragazzi. Quanto alla loro ripartizione tra i vari tipi d'industria, una statistica dell'agosto 1918 fornisce le seguenti percentuali:

Nonostante ch e la richiesta fosse, nel corso d el confl itto, fortemente aumentata, l'offerta di manodopera femminile si mantenne abbastanza elevata e ciò incise notevolmen te sulla retribu- zione che non aumentò con la stessa rapidità e con la stessa proporzione con cui crebbero i salari degli operai A questo proposito basti pensare che sul finire del 1916 una commissione mista operai-imprenditori, appositamente nominata dal generale Dollolio, pervenne alla conclusione che per la manodopera femminile, nella determinazione di nuove tariffe, si prendesse come base la paga giornaliera di 2,50 lire ( 46 ).

La necessità spinse un numero crescente di donne e fanciulle, appartenenti a famiglie artigiane, della piccola borghesia, o contadine ( quasi esclusivamente di braccianti) a cercare un lavoro che potesse sopperire in qualche modo alle necessità della famiglia compromesse dal richiamo alle armi dell'uomo di casa. Oltre a ciò si ricorse largamente all'impiego della manodopera minorile sia maschile che femminile. Per valutare l'ampiezza di questo fenomeno bisogna considerare i dati relativi alla composizione del personale delle industrie laniere nel 1918:

Indubbiamente il caso dell'industria laniera costituisce il caso limite dell'impiego della manodopera femminile e minorile, e ciò spiega come e perché il salario medio giornaliero abbia avuto, negli stabilimenti tessili lanieri, un modesto incremento nel corso del conflitto.

Oltre agli operai del Genio Civile mobilitato, agli operai militari e alla manodopera femminile, erano assicurati, presso la la Cas sa di Previdenza, anche i libici, i prigionieri militari e i detenuti, che lavoravano presso gli stabilimenti ausiliari. I libici veniva arruolati dal 1916 con un contratto base che assicurava una base minima di 3,50 lire (una lira della paga veniva inviata alla famiglia per gli operai sposati) in più diritto all'alloggio ed una somma quale premio d'ingaggio (48 ).

Si trattava di un salario modesto che, però, in considerazione del particolare tipo di vita condotto dai libici e delle agevolazioni per l'acquisto di viveri e di vestiario, permise a qualcuno di loro di risparmiare qualche soldo. Per quanto le paghe giornaliere dei libici subissero, nell'ultimo anno di guerra, qualche miglioria esse rimasero sensibilmente al disotto dei salari corrisposti agli operai italiani che avevano le stesse mansioni. Il trat- tamento economico dei prigionieri di guerra e dei detenuti addetti al lavoro negli stabilimenti era ancora più modesto.

In conclusione una valutazione analitica dei salari operai dichiarati alla Cassa di Previdenza dimostra che, nel corso della guerra, si vennero a formare, all'interno delle maestranze addette agli stabilimenti, diverse categorie di retribuzioni a seconda di particolari condizioni di taluni gruppi di lavoratori.

Per valutare l'ampiezza del fenomeno, gioverà ricordare che dei 1.224.500 operai addetti, al termine del conflitto, alle industrie più strettamente legate con la produzione bellica, 703.000 pari al 57,41 % erano operai maschi esonerati o senza obblighi di leva, la cui retribuzione era proporzionata alla realtà di questo tipo di manodopera, mentre 521.500, pari al 42,59 % era costituito da operai militari, prigionieri, libici e donne. Categorie queste che, o per la particolare condizione o per la larga disponibilità, (ad es. la manodopera femminile) venivano retribuite in maniera minore.

Questa diversità di trattamento risulta chiaramente anche da documenti dell'epoca. Infatti la relazione del 1917 della sezione torinese della Federazione Italiana Operai Metailurgici « nel commentare le medie salariali relative agli anni 1916 e 1917 affermava che esse erano aumentate di poco per effetto dell'avvenuta immissione nelle officine di un gran numero di operai non specializzati e che i loro minimi salariali avevano sortito l'effetto di ribassare la media reale delle paghe nominali "per le maestranze impiegate prima della guerra" » ( 49 ).

Riguardo poi alla diversa incidenza di questi due gruppi di lavoratori nelle rilevazioni statistiche della Cassa di Previdenza, gioverà ricordare che tali rilevazioni erano formulate sulla base delle denunzie d'infortunio. A tale proposito è indispensabile valutare non solo la frequenza degli infortuni, ma anche cercare di individuare quali categorie erano le più colpite. All'inizio del 1918 veniva pubblicato sul « Bollettino » del Comitato Centrale della Mobilitazione Industriale un articolo sul problema degli infortuni sul lavoro, in cui, tra l'altro, si leggeva: « Il danno è aumentato in modo notevole per il ricordato peggioramento della manodopera».

Infatti dai dati forniti dalla Cassa di Previdenza, su un campione di 450.000 operai addetti all'industria bellica, gli infortuni erano saliti da 167 per 1.000 operai assicurati nel 1916, a circa 335 per 1.000 secondo i dati di una statistica parziale del 1917. La frequenza degli incidenti era stata più intensa laddove vi era stato il maggior incremento di manodopera, ad esempio, la Lom- bardia, nel 1917, aveva 110.000 operai nelle industrie considerate, con una media di infortuni di 375 per ogni 1.000 operai.

Significativa anche la ripartizione di questi infortuni tra i vari tipi dell'industria lombarda: « dal 110 per le aziende elettriche al 145 per le chimiche ed esplosivi, al 190 per l'industria aviatoria, al 225 per le estrattive ed edilizie, al 283 per le metallurgiche, al 310 per i proiettifici al 460 per le fabbriche di automobili, motori a scoppio ecc. » ( 50 ).

Come si vede la percentuale degli infortuni era influenzata, oltre che, ovviamente, dalla particolare pericolosità di alcune lavorazioni rispetto alle altre, dal più o meno rapido incremento che alcune lavorazioni avevano ricevuto dalle commesse belliche. Non meno significative le notizie relative agli esiti dell'infortunio: « morti scesi progressivamente da 0,78 per 1.000 unità assicurate nel 1900 a 0,46 nel 1916; inabilità permanente invece aumentata da 3,20 a 8,92 nello stesso periodo di tempo, nel quale i valori per l'inabilità temporanea passarono da 73,73 a 116,29 nel 1916 » La statistica parziale del 1917 forniva invece i seguenti valori: 317,6 per l'invalidità temporanea, 17,3 per la permanente e 0,3 per la morte ogni 1.000 assicurati ( 51 ).

Come si vede le misure generali di prevenzione contro gli infortuni erano riuscite a far decrescere progressivamente il numero degli incidenti mortali, mentre era aumentato fortemente il numero delle invalidità temporanee, e, purtroppo, anche di quelle permanenti. Ciò era evidente conseguenza dell'inesperienza di molti nuovi addetti all'industria. Per far fronte a questa situazione la Mobilitazione Industriale lanciò nel 1917 una campagna antinfortunistica ed intensificò e rese sistematica la sorveglianza degli stabilimenti per far osservare le misure di prevenzione degli infortuni.

Nel corso del 1918 tale azione dové produrre il risultato di ridurre fortemente la percentuale degli infortunati. Sta il fatto comunque che, per quanto riguarda gli stabilimenti ausiliari, dal 1° gennaio del 1918 al 31 ottobre dello stesso anno furono perdute, per infortuni, 1.665.728 giornate lavorative , un dato relativamente modesto se si considera che il numero delle maestranze degli stabilimenti ausiliari in quell'anno era fortemente aumentato (52 ). La maggiore osservanza delle norme di prevenzione degli infortuni non poteva però impedire che si verificassero proprio quegli incidenti dovuti all'inesperienza degli operai. Ed i lavoratori meno pratici ed esperti erano appunto, come abbiamo visto, quelli delle categorie sotto-retribuite.

In definitiva, la storia dei dati della Cassa Nazionale infor- tuni può essere così ricostruita: nel 1915 l'iscrizione degli operai del Genio Civile mobilitati e quella dei militari addetti agli stabilimenti dell'esercito, determina una prima immissione tra gli iscri t ti alla Cassa di un notevole numero di assicurati a bassa retribuzione. Si noti che ciò avvenne contemporaneamente al richiamo alle armi di una parte degli assicurati «normali». Questa situazione, alterando le caratteristiche complessive degli assicurati, fa si che si determini una prima lieve contrazione del salario reale della media degli assicurati.

Questa diminuzione diviene più sensibile l'anno successivo allorché, a compensare gli effetti dei nuovi richiami alle anni, concorrono l'ampliarsi dell'industria privata e sopratutto il grande sviluppo assunto dal Genio Civile mobilitato e dagli stabilimenti militari il cui ritmo di espansione era, come abbiamo constatato, molto superiore a quello degli analoghi impianti civili. Oltre a ciò, ad abbassare i valori medi retributivi, contribuì senza dubbio potentemente, l'estensione dell'obbligo dell'assicurazione a gli operai-militari ed ai prigionieri di guerra che lavoravano negli stabilimenti per cui era prevista l'assicurazione. Nel 1917 si ebbe poi l'iscrizione obbligatoria alla Cassa Nazionale Infortuni di tutti i lavoratori degli stabilimenti ausiliari, mentre cresceva il numero degli operai militari, delle donne e dei prigionieri in essi impiegati.

Ciò provocò una nuova contrazione del salario medio perché, in primo luogo, la maestranza a scarsa retribuzione era proprio la meno esperta ed anche perché militari e prigionieri erano addetti ai lavori più pesanti e più faticosi in cui quindi la percentuale degli incidenti era maggiore. Nel 1918 si verificò una ulteriore espansione del numero de lle maestranze d eJl'industria mobilitata, espansione, che, si badi bene, venne attuata soprattutto con manodopera femminile, militare, libica ecc. a basso salario. Si ebbe inoltre l'intensificazione della sorveglianza delle norme antinfortunistiche cosicché la maggioranza degli infortuni fu causata da inesperienza e quindi coinvolse quasi esclusivamente i lavoratori a bassa retribuzione . In sostanza i dati della Cassa Nazionale Infortuni sono la conseguenza a) del grande e progressivo aumento, verificatosi lungo tutto il corso della guerra, del numero degli assicurati; b) del continuo crescere, all'interno, del numero degli assicurati stessi, della quantità e della p ercentuale d ei lavoratori a bassa retribuzione; c) delle circostanze per cui operai militari, del Genio Civile mobilitato, prigionieri e libici, erano in genere adibiti ai lavori più pesanti e faticosi; d) del fatto che il progressivo aumento delle disposizioni antinfortunistiche e la creazione di un efficiente strumento di controllo per la loro osservanza, attuandosi con efficienza sul finire del 1917, fece si che gli incidenti si riducessero, ma che la percentuale di quelli dovuti ad inesperienza si accrescesse ulteriormente. Tutto ciò porta a concludere che il rapido crescere delle retribuzioni registrato dai dati della Cassa Nazionale Infortuni negli anni 1919 e 1920, fosse dovuto, più che all'aumento della conflittualità, al fatto che, con la smobilitazione nel 1919, le categorie degli operai a bassa retribuzione fossero venute a sparire.

L'esame che abbiamo condotto sulle varie fasce retributive degli operai addetti all'industria bellica ci può permettere di chiarire il piccolo mistero della retribuzione degli operai della Fiat.

Come si ricorderà, dal confronto dei dati delle rilevazioni del Redenti con quelli dei salari giornalieri degli operai della Fiat, risulta che nel 1917, la paga media di un operaio meccanico nella zona del Comitato regionale piemontese, era di L. 10,74 mentre quello di un lavoratore della Fiat era di 9,81. Appare invero poco credibile che il colosso della meccanica offrisse retribuzioni medie inferiori a quelle delle altre industrie. Si rileverà a questo proposito che, mentre i dati Fiat si riferivano al totale delle maestranze, i dati del Redenti si riferivano invece al solo personale maschile; ciò ha indubbiamente il suo peso . Tuttavia, come abbiamo in precedenza visto, la percentuale delle donne impiegate nelle industrie meccaniche era alquanto modesta e non certo tale, da sola, da provocare una differenza di quasi una lira. P er comprendere questa differenza bisogna considerare la presenza degli operai militari; si potrà osservare a questo proposito che non è detto che i dati raccolti dal Redenti non siano influenzati dalla presenza nell'industrie, oggetto dalla sua rilevazione statistica, di manodopera militare. Il problema principale non è però costituito dalla presenza o meno di operai militari tra il personale oggetto delle due diverse rilevazioni (per quanto nel caso della statistica del Redenti ciò sia tutt'altro che certo) quanto della diversa incidenza di questo personale, poiché è sicuro che gli operai militari venivano preferibilmente assegnati, per ovvi motivi di produttività, alle grosse industrie, ed i libici e i prigionieri esclusivamente a queste. Come si ricorderà questo personale era in massima parte addetto a lavori pesanti e di manovalanza. Un esame più dettagliato delle retribuzioni degli operai delle Fiat, negli anni del conflitto, permetterà di individuare, sia pure per difetto, l'incidenza dei lavoratori a bassa retribuzione sulla formazione del salario medio.

I dati completi delle retribuzioni giornaliere nella grande industria torinese, per il periodo che ci interessa, furono i seguenti:

Tabella 9

Tra il 1914 cd il 1918 i salari dei cottimisti aumentarono di 7,38 lire pari al 104% della paga del 1914, quelli dei percentualisti L. 6,85 pari al 118 %, quelli dei manovali di 3,15 lire pari al 81 %. Benché indubbiamente vi fossero operai militari anche tra le due prime categorie è indubbio che la maggior parte del personale militarizzato era costituita da manovali; ecco quindi spiegato il perché dei modesti aumenti di questa categoria sia in assoluto che in percentuale. A questo riguardo sono estremamente significativi anche i dati d ell'immediato dopoguerra. Infatti , nel 1919 la retribuzione dei cottimisti aumenta del 19,7% quella dei percentualisti del 26,4 % e quella dei manovali del 34,7%. Ancora più indicativi i dati del 1920, cioè a smobilitazione ultimata. I n quest'anno gli aumenti furono del 33,6% dei cottimisti, del 35,5% per i perccntualis ti e del 90,9% dei manovali. Incrementi che in una situazione in cui, per la smobilitazione, non scarseggiava certo la manodopera non qualificata per i lavori di fatica, possono essere spiegati solo se si considera che i dati sono alterati dalla presenza, negli anni della guerra, di lavoratori a basso salario. Quindi gli aumenti della retribuzione media dei manovali appaiono nel corso d el conflitto minori di quelli che furono in realtà quelli degli operai civili, mentre nel dopoguerra si verificarono aumenti sproporzionati che in realtà sono anch'essi apparenti e che non sono altro che la conseguenza dell'eliminazione della manodopera a bassa retribuzione dagli stabilimenti.

Concludendo il nostro esame dei salari operai nel corso della prima guerra mondiale non possiamo far a meno di riconoscere che l'intuizione del Melograni circa l'aumento dei salari reali di una parte della manodopera industriale era esatta. Questa parte peraltro era costituita, in maggioranza, dal proletariato industriale poiché « i lavoratori di guerra » a bassa retribu- zione erano in buona parte contadini ed artigiani. Anche la grande disponibilità di personale femminile, che permise una grande estensione della occupazione in questo settore senza che si esaurisse la disponibilità di manodopera (e che quindi questa divenisse cara come quella maschile), fu dovuta alla sempre maggiore disponibilità di donne e fanciulle delle famiglie artigiane o della piccolissima borghesia, ma soprattutto del contado.

Il Gini ha ascritto tra i risultati positivi delle esperienze della guerra per l'industria italiana il fatto che una parte cospicua di uomini e donne di origine contadina avessero fatto una sia pure rudimentale esperienza di lavoro in fabbrica ( 54 ).

Si trattò di un apprendistato pagato il più delle volte con la sottoretribuzione anche se, date le particolari circostanze in cui ciò avvenne, comportava almeno, per gli uomini, il privilegio di sottrarsi ai rischi della guerra guerreggiata. Va rilevato inoltre che di questa esperienza l'organizzazione industriale italiana non poté giovarsi molto perché queste maestranze furono, per la quasi totalità, espulse dalle fabbriche durante la riconversione che fece seguito al conflitto. Infatti gli addetti all'industria che nel 1911 erano 3.091.160 dieci anni dopo erano 3.182.797 con una piccola flessione sulla percentuale totale della popolazione attiva dal 19,0% al 18,4%. Per quanto riguarda poi l'occupazione femminile, tanto estesasi nel corso della guerra, la flessione fu ancora più netta; le addette all'industria passarono infatti da 1.382.864 nel 1911 a 1.218.347 nel 1921, mentre la percentuale scendeva da 8,4 a 6,9. Per quanto sia certo che sulla riduzione della manodopera femminile abbia influito la contrazione del lavoro artigianale, è però indubitale che la causa maggiore della flessione fosse la riconversione industriale, tant'è che la riduzione maggiore (dal 10,2 all'8,6) si verificò proprio nel nord industrializzato.

Not E

(1) Commissione Parlamentare, cit., voi. I, p. 429.

(2) Ibidem, voi. Il, p. 54.

(3) Ibidem, voi. Il, p. 115.

(4) Ibidem, voi. Il, p. 77.

(5) Ibidem, voi. II, p. 83.

(6) Ibidem, voi. Il, p. 82.

(7) In una rela:,,ione presentata in quell'occasione si legge che l'organismo della Mobilitazione Industriale • concepito con criteri di sveltezza e di equità, lentamente si va trasformando in un ente burocratico. in cui 1'impero della circolare, del regolamento, dell'ordine cli servizio, veniva a sovrapporsi a quella che doveva essere la principale guida dei comitati di mobiLitazione: il buon senso pratico nell'applicare le direttive necessariamente generiche impartite dal centro, l'adattabilità rapida alle necessità industriali del luogo e del momento•, « Bollettino della Lega Industriale•, anno Xl (1917), numero unico p. 6 ss.

(8) Commissione Parlamentare, cit., voi. T, pp. 305-306, voi. II, pp. 35, 48, 49, 55, 64, 72, 74.

(9) A CARAOCTOLO: La formazione dell'Italia ind11striale, Bari 1974, p. 187.

(10) Commissione Parlam enta re, cit., voi. II, p. 99.

(11) Ibidem, voi. Il, p. 95.

(12) L E1m1,1>1: La condotta economica, cit., pp. 128-129.

(13) Cfr. C. GELOSO: art. cit ., p. 7.

(14) L. ErNA\/1)1: L acondotta economica, cit., p . 129

(15) R Roi.im: op. cit., pp. 115-116.

(16) A. CARAOCIOLO: La formazione dell'Italia industriate, cit., p. 196.

(17) A. GRAZ1AN1: Lo sfo rzo economico dell'Italia in gue rra, Trieste 1919, p. 58.

(18) P. SPRJANO: op. cit., p. 3n.

( 19) R. BACHI: L'Italia economica nel 1918, Città di Castello 1919, p. 186

(20) E. REDl!NTI': Studi e notizie s ui salar i n elle industrie • mobilitate •, in • Bo llettino del Comitato Ccntrole dj Mobilitazione Industriale•, ottobre 1918, pp. 338-349.

(21) Istituto Centrale di tatistica: Sommario di statistiche storiche dell'Italia 1861-1965, Roma 1968, p 109

(22) E. Rrol!Nn: op. cit., p. 349.

(23) Cfr. G. PRATO: Il Piemonte, cit., p. 132.

( 24) I bidem , p. 133.

(25) E. REDllNTT: op. cit., p, 340.

( 26) I dati si riferivano infatti a 76.496 assistiti per il 1913 , 90.465 per il 1914. 94.920 per il 191 5. 101.098 per il 1916, 105.275 per il 1917, 78.284 per il 1918, 74.348 per il 1919, 92.U7 per Il 1920. Cfr. C. VISMARA: I salari degli operai nelle statistiche della Cassa Nazionale Infor tuni, in • Rassegna della previdenza sociale•. novembre 1921 , p. 86

(27) G. B AI.El.LA: Salari, costo delta vita ed indenni/li. caroviveri, in • Rivista delle società commerciali •, ottobre 1918.

(28) Oltre al c ita to articolo di C. Vismara vedi: G. TAGLIACARNE: Le variazioni dei salari reali nel!li ultimi anni, in e Rivi,ta bancaria•, agosto 1923 G. C1N1: Sul livello dei salari reali del dopo guerra in Italia in confronto al loro livello prebellico, in • Rhista di politica economica •. aprile 1923.

(29) G. MADIA: L'aumen to dei snJari dal 1914 al 1921, nel • Giornale degli economisti •, ottobre e novembre 1921 , p. 390.

(30) I salari reali sono calcolati in base ai coefficienti ru moltipJica7Jonc all'Istituto Centrale di Statistica: Il ,•alorc della lira dal 1861 al 1965, Roma 1966.

(31) Cfr C. Grnt: Sul liv ello dei salari reali , cit tavola XLV.

(32) Vedi A. FOSSATI: IA,'Oro e r,rodutione in Italia, Torino 1951 , pp. 567-569. C. VAN'I\ITRLI: Occupai.ione e salari dal 1981 al 1961. in e L'economia italiana dal 1861 al 1961, a cura di A Fanfa ni, MUano 1961 pp 560-596.

(33) P MELOGRANI: op. cìt. , pp. 36 1-362

(34) Ibidem, p. 362.

(35) Il brano della dichiarar.ione del generale Dallolio contenuto in R elation e Capo retto. voi. II, p 412 Il corsivo è nostro.

(36) P MELOcltANI: op. cit., pp. 363-369.

(37) Vedi allegato n. 12.

(38) M. A.BRATB: op. cii. , p . 173.

(39) Il 17 agosto 1917 era stata decisa la costiturionc di una comm1ss1one paritetica mista industriali-operai pr esieduta da un rappresentante del Sottosegretario alle armi e munizioni, per affrontare alcuni problt'mi sollevati dai rappresentanti sindacali. Nella prima seduta , il 6 settembre, il Comm. Orlando propose di m ettere a llo studio • una forma ru previdenza che, basandosi sulla larqbe7.7,a delle attuali pa$e, volga a salvaguardare gli operoi dalle conseguenze dei probabili minimi guadagni temibili per l'avvenire•. Tale proposta fu accettata e formulata come ro.ccomandazione. Successivamente nella seduta del 19 settembre, la Commissione propose che la proposta Orlando fosse sturuata da una commissione mista operai e datori di lavoro. TI Sottoseirretariato diede incarico di studiare la cosa alla commissione P.ià costituita, c he prese allora il nome di e Commissione per il risparmio opera io• N ella riunione del 16 dicembre 1917 f1.lrono esaminati due pro11ctti di assicura1ione presentnti d a due rappresentanti operai Ancillotti e Buozzi. La commissione scartando il prcj!etto minimo di Buou'i si pronunciò a fayore di quello dell'Ancillotti che costitul la base del decreto d el 29 aprile. Vedi allegati nn. 13 e 14.

(40) Cfr. Comitato per la Mobilitazione Civile: Le Wtrie forme di esenzione, cit., pp. 440-441.

(41 ) Relazione Ca poretto, voi. II, p. 412

(42) P SPRTANO, op. c it., p. 346.

(43) Commissione Parlame,1tare, cit., voi. II , p. 126

(44) Per le notizie sui shtemi di retribuzione degli operai militari cfr. Comitato per la Mobilitazione Ch·ile: Le varie fo rme di esenzione, cii., pp , 440-441.

(45) Com itato per la Mobilitazione Civile: li co ntributo delle maestranze femminili all'opera di allestimento di materiali bellici, cir., p. 57.

(46) Vedi allegato n. 13.

(47) Ministero della Guerra: / serv izi l ogis tici, ci t. , p. 278.

(48) V FRANClmn: La mobilitazio11e indu striale, cit., pp. 147-148.

( 49) B. BEZZA: li sindacato di massa tra riorganhzazione capùalistica e fascismo, in La FIOM dalle o rigini al fascismo 1901-1924, a cura di M. Antonioli e B. Bcaa. Dari 1978, p. 101.

(50) L C.o\RO'ZZr: li problema sociale dell'infortunio sul lavoro, in e Bollettino del Comitato Centrale di Mobilitazione Industriale •, febbraio-marzo 1918, p. 98.

(51) Ibidem.

(52) Comitato per la Mobilitazione Civile: La sorveglianza disciplinare sul personale degli stabilimenti, c,t., p . 131.

(53) Cfr. G . PRATO: Il Piemo nte, cit., p. 132.

(54) C. GINI: Problemi sociologici della guerra, Bologna 1921 , pp. 203 ss.

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