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STATI UNITI, IL GIGANTE DAI PIEDI D’ARGILLA

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UN PASSO INDIETRO

UN PASSO INDIETRO

In realtà l’obesità negli Stati Uniti è in continuo e costante aumento nonostante le campagne per uno stile di vita più sano promosse dal Dipartimento di Salute e da Michelle in persona. Gli americani obesi hanno raggiunto nel periodo 2015-2016 quota 39,5%, nel 2013-2014 erano il 38%, nel 2011-2012 il 35% e 10 anni prima (nel 2003-2004) il 32%. I più colpiti sono gli americani di mezza età: il più alto tasso di obesità, il 41 per cento, riguarda adulti della fascia di età 40-59 anni, seguiti da persone di 60 e più anni con il 38 per cento. Nella fascia 20-39 anni gli obesi sono circa il 33 per cento. Il tasso di obesità inoltre è salito in modo vertiginoso tra la popolazione femminile afroamericana e ispanica, rispettivamente il 57% e 46% contro il 39% e 40% tra gli uomini. Dati impressionanti. Che riguardano gli adulti e che non sembrano allarmare i ricercatori che ritengono l’incremento non significativo. E gli sforzi di Lady Obama sono stati premiati nella fascia di età dai 2 ai 19 anni dove si è riusciti a mantenere invariato il numero di bimbi obesi nel 2013-2014 rispetto al 2003-2004 con un tasso del 17%. Gli esperti hanno sottolineato l’efficacia dei cambiamenti nelle mense scolastiche e della rimozione di bevande zuccherate dalle macchinette nelle scuole. Infatti, se consideriamo la fascia di età 2-5 anni, gli ultimi dati hanno rilevato un calo di obesità del 43% in 10 anni, diminuzione meno sensibile nelle fasce di popolazione economicamente

disagiate dove era più difficile intervenire con efficacia. Il cibo spazzatura costa meno, gli zuccheri danno energia a basso costo. Non solo campagne a tappeto di sensibilizzazione, ma anche iniziative di contrasto alle azioni consumistiche delle lobby industriali: sono stati tassati i prodotti zuccherati e i cibi grassi, tolti i distributori automatici dai luoghi frequentati dai giovani e promosso l’allattamento al seno, anche se le disposizioni variano da Stato a Stato e non senza numerosi ostacoli sulla rotta di una cultura del cibo virtuosa. I cambiamenti di stile di vita in senso salutare per ora hanno riguardato soprattutto gli americani più istruiti. Uno studio pubblicato su Health Affairs osserva che la dieta degli americani sembra sia migliorata in termini di qualità dal 1999 in poi, con una riduzione di grassi trans, un aumento del consumo di fibre e una diminuzione di quello di sodio, ma ha anche rilevato che la maggior parte dei progressi positivi non si sia ancora registrato nelle fasce di popolazione a basso reddito. Ecco perché Michelle ha concentrato il suo impegno sui bambini, sull’educazione nelle scuole elementari. E con lei si è cominciata a muovere anche la gente, l’opinione pubblica: a New York si chiede la «fat tax» (tassa sul grasso) per i fast food e la pubblicità che li promuove, soldi da utilizzare poi in sanità; le associazioni di genitori di molti Stati fanno campagna contro le macchinette automatiche nelle scuole; grandi e medie imprese lanciano campagne di cultura alimentare tra i dipendenti per far capire loro i pericoli del cibo spazzatura. Ma soprattutto si stanno muovendo le lobby degli avvocati e le associazioni dei consumatori. La McDonald’s è già stata citata in giudizio da un gruppo di adolescenti newyorchesi obesi. Se poi le ricerche scientifiche sul fast food confermeranno forme di «dipendenza» che renderanno certi cibi come le droghe o la nicotina delle

sigarette, potrebbero comparire anche scritte sulle confezioni di hamburger, pollo fritto e patatine made in Usa del tipo: «Questo cibo provoca obesità, malattie cardiache e diabete», o «Questo genere di alimento produce dipendenza». E, come accaduto per il tabacco, le avvertenze salutiste si allargherebbero rapidamente a tutto il pianeta dei “cibo spazzatura dipendenti”. Stretta poi la connessione con i costi sanitari. Si presume che nei soli Stati Uniti la spesa per i prodotti dietetici si attesti fra i 60 e i 150 miliardi di dollari all’anno. Nel 2008, i costi sanitari attribuibili all’obesità erano negli Stati Uniti di oltre 100 miliardi di dollari, pari al 9,7% di tutte le spese mediche. Costi in aumento con l’aumento degli obesi e delle malattie croniche conseguenti, dal diabete al cardiovascolare, dagli squilibri ormonali alle usure articolari. E qui, dati alla mano, è stato dimostrato che i programmi di prevenzione dell’obesità hanno ridotto il costo del trattamento delle malattie correlate. Peraltro, a parte le conseguenze negative sulla salute, l’obesità conduce a numerosi problemi in materia di occupazione e di costi aumentati per la collettività. Effetti negativi che incidono sulla società, a partire dai singoli individui fino alle imprese e ai governi. La grassezza può portare alla stigmatizzazione sociale e a forti svantaggi in materia di occupazione. Rispetto ai loro colleghi di peso normale, i lavoratori obesi hanno in media tassi di assenteismo più elevati: di conseguenza, i costi per i datori di lavoro si innalzano, andando a detrimento della produttività. L’eccesso ponderale comporta inoltre un rischio superiore di infortuni alle mani e alla schiena, dovuti a cadute e al sollevamento di oggetti pesanti. Gli Stati Uniti rischiano nei prossimi anni la caduta dell’Impero: un Paese troppo grasso che poggia su piedi d’argilla, cioè una sanità fragile se non inesistente.

Di tutto ciò, al giorno d’oggi, dovrà tener conto Donald Trump prima di dare via libera alle ruspe. E anche nel consigliare alle aziende di assumere più americani che immigrati: assumere obesi non è certo un vantaggio per le aziende. A proposito dell’eccellenza nella ricerca, poi, da anni gli scienziati che lavorano nei laboratori e nei centri di ricerca e i medici delle strutture ospedaliere sono in maggioranza “cervelli” stranieri. In media oltre la metà. L’immagine di americano corpulento sinonimo di ricchezza, forza, potenza non funziona più, anzi se si tocca il limite dell’obesità l’immagine diventa quella della malattia, dell’impotenza, della fatica continua, della pigrizia obbligata.

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