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30. Il viaggio della Speranza

Copenhagen, luglio 1922. Un giorno Marie, che intanto si era laureata nel 1904, ed esercitava come medico internista, entrò nello studio del marito a Copenhagen. «August,tudicisemprecheiosonounottimomedico.Seunpaziente perde peso, ha sempre sete, e urina di frequente, che diagnosi faresti?» «Sei tu il medico eccellente, non io! Comunque…» «Faresti la ricerca degli zuccheri nell’urina.» «Esatto!». Nel rispondereAugust si tolse gli occhialini. «Io l’ho fatta. Sono diabetica.» «Sei diabetica?Tu ? Ma come è possibile?» «Ècosì…Egiàmivedocieca,coninfezioni,gangrene…epoi…» «E poi?» «Ognigiornodei diabetici,specialmentegiovani,muoiono,August. I giovani diabetici hanno un’aspettativa di vita di uno o due anni dalladiagnosi,mentre gliadulticomemesopravvivonodaicinque ai dieci anni dal momento della diagnosi. Non di più.» Si guardarono a lungo senza più parlare. Entrò una cameriera e annunciò che il pranzo era pronto. «Grazie, ora veniamo.» Risposero all’unisono.

Col bavero della giacca impermeabile rialzato fin sopra le orecchie ed il largo berretto calcato sugli occhi August passeggiava nervosamente sul ponte umido della nave. Piovigginava e lui guardava gli edifici colorati lungo il molo contro il cielo cupo. Speranza! Speranza! Mormorava tra sé. Eranopassatialcunimesidall’annuncioda partedi Mariedella suapatologia diabetica,ed ora all’iniziodell’estatedel 1922 sta-

vanopartendopergliU.S.A.doveeranostatiinvitatiafaredelle conferenze perché August, come abbiamo già detto, due anni prima, nel 1920, aveva ottenuto il Premio Nobel per i suoi studi sui capillari, e Marie aveva deciso di accompagnarlo nel viaggio oltreoceano. Qualchetempoprimaavevanolettodellascopertanelnuovocontinentedell’ormonedelpancreaschepotevasalvarelavitaaidiabetici, e che erano iniziati i primi trattamenti sull’uomo. Cosa poteva esserci di meglio dall’andaredirettamentelì per rendersi conto se Marie poteva iniziare questa terapia? Il fischio della nave sibilava finalmente per la terza volta. Tappandosi le orecchie, coperto dietro una scialuppa di salvataggio, August indugiava a guardare la striscia di acqua che andava allargandosi sempre di più tra il molo e lo scafo. Il ponte tremò sotto i suoi piedi quando le eliche cominciarono a mordere l’acqua. Gli edifici sfilarono via e la sirenetta apparve sempre più piccola e lontana mentre sottocoperta una orchestrina già aveva iniziato a suonare. Scese in cabina dove era rimasta Marie, che portava un cappello giallo a campana sopra uno sportivo vestito da viaggio, che ancora non si era tolta, ed aveva gli occhi lucidi per l’emozione e la speranza. Poiiniziòillungoviaggio. Abordodellanaveinterminabilicocktailecene eleganti, alle quali Marie non aveva avuto il piacere di partecipareavendo preferito mangiare in cabina e passare le giornate seduta sul ponte con un libroinattesadell’arrivoalmolo27 di Manhattan, il molo della speranza.

…Molo della speranza. I Krogh andarono a fare colazione. In sala da pranzo il capo steward porse a Marie il primo frutto della giornata, seguendo le indicazioni dietetiche che lei aveva dato meticolosamente. Aveva il portamento ed il contegno di un ufficiale della riserva e le mani curate. Marie gli chiese improvvisamente. “Voi avete figli?” “Si, due”. “E di dove siete?” “Di Amburgo”.

Dalle finestre della sala da pranzo si vedevano le onde grigio azzurre che stavano salendo minacciose. Era come se la nave si contraesse su se stessa e poi si stendesse saltando d’un balzo sull’onda. August bevuto il suo caffè si alzò e disse alla moglie che tentava di andare a farsi la barba. Ma quando arrivò giù al salone del barbiere trovò una confusione totale. Era entrata l’acqua perchè il boccaporto non era stato chiuso bene. Il barbiere di bordo, grasso e rubicondo come un oste dello Jutland occidentale, era cosi fuori di testa che tremava. “Quando ero al mio primo viaggio, sono 15 anni che navigo, signore mio , al mio primo viaggio soffrivo il mal di mare come un gatto…. Ma quel che dovevo fare lo facevo, e poi mi giravo e vomitavo in un secchio”. August Krogh non rispose mentre quello continuava. “Il mio paese è in mezzo ad un bosco. Una piccola città in mezzo al bosco. Li abita la mia fidanzata ed io mi sono imbarcato per poter mettere casa più in fretta. La parrucca, certo, certo, signorina”. Ora parlava ad una che aveva portato una parrucca da donna brizzolata chiedendo che fosse pronta per il te delle cinque. “Anche questo è un problema”, disse guardando la parrucca spelacchiata e mal ridotta. Entrò un ufficiale: “Che diavolo, gli squali volevano mangiarsi i vostri barattoli.” Esclamò ridendo. “Signor tenente fino a qualche ora fa l’acqua in corridoio era alta così. Un onda aveva aperto i portelli d’acciaio. C’è brutto tempo. Si ammetto, può farseli solo il diavolo i capelli con un tempo simile”. Infatti, il Professor Krogh convenne che non era proprio il caso di restare lì. Decise di passare dal medico di bordo per farsi dare qualcosa per il mal di testa che non lo abbandonava. Il medico aveva molto da fare e si aggirava tra la sua ovatta ed i suoi flaconi che tintinnavano negli armadietti. “Caro e illustre Collega, non si crederebbe che un medico di bordo abbia qualcosa da fare”. Disse. “Abbiamo ben quattro ambulatori, ora non ci sono pazienti ma questa mattina , per esempio, un uomo si è rotto la testa, uno della terza classe, è uscito sul ponte e un’onda l’ha sbattuto a terra. Nessuno pensa a quanta forza abbia l’acqua, una forza enorme con un tempo così”. Già enorme, ripetette August quasi senza rendersene conto e all’improvviso sporgendosi da un oblò si vide davanti le onde lunghe. E mentre entrambi

rimasero in silenzio tutti gli armadietti di quella grossa stanza ansimavano ai movimenti della nave. “Anche Il barometro scende”. Disse il medico nel porgergli la medicina. Quando tornò in sala da pranzo Marie era in piena conversazione con il capocuoco. Il capocuoco aveva un fazzoletto al collo e nel volto un’ espressione rassegnata. “Signora mia la gastronomia navale è una cosa del tutto a se. L’arte consiste nell’ approvvigionamento e nel variare con le scorte.” Salirono sul ponte dove la gente passeggiava avvolta in mantelli e plaid. Marie diede da mangiare ai gabbiani del pane che prendeva da un cartoccio che si era preparato al ristorante. August rimase un attimo immobile a guardare quegli uccelli che volavano in cerchio sopra di loro, sembravano fiori bianchi sull’acqua azzurrina. “Sono molti, significa tempesta”. Si fermarono fuori vicino al parapetto, ed in mezzo ad una piccola folla, ed abbassarono lo sguardo sulla terza classe. Laggiù erano tutti fuori, ora che timidamente era uscito il sole ed il maltempo s’era un attimo affievolito. C’erano donne con gonne variopinte, di mezza età e curve che chiacchieravano tenendosi a braccetto, come sul sagrato della chiesa. Le russe con i merletti colorati, ancora un po’ barcollanti per l’ultima ebbrezza di alcol europeo e le giovani ebree con sgargianti vestiti estivi in cui avevano l’aria intirizzita; contadini che non abbandonavano mai i loro fagotti ma se li trascinavano dietro come se fossero per strada, e ragazze che nei loro scialli grigi osservavano il mare. Due ragazzi che reclamavano strepitando il cibo. Dei bambini, due vecchi in cappotto legato ad una corda in vita. Ed uno urlava in Italiano: “Ricordatelo questi sono i giorni più felici della vostra vita”. La tempesta stava riprendendo e la folla laggiù scomparve. Le onde si erano fatte più lunghe, molto lunghe, come se si lanciassero avanti per ghermire la nave sbattuta qua e là. Anche August e Marie rientrarono in cabina riflettendo se anche per loro quelli potevano essere considerati i giorni più felici della vita. Forse non i più felici ma senz’altro quelli della speranza. Giorni di due vite sospese in attesa di un miracolo in cui loro credevano fortemente.

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