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40. Central Station
New York, maggio 1935. Georg Zuezler era stanco. Aveva camminato tutto il pomeriggio. Ora era seduto su di una panchina vicina all’acquario e fissava l’acqua. La brezza dava riflessi d’acciaio alle piccole onde increspate e al cielo di un grigio sporcodiardesia.Ungrandepiroscafo bianco con la ciminiera rossa passò di fronte alla statua della libertà. Il fumo usciva compatto dal camino del rimorchiatore.Alcuni gabbiani svolazzavano incessantemente gridando. Di colpo si scosse e si alzò in piedi. «Devo decidermi a fare qualcosa.» Rimase lì un istante, i muscoli tesi, dondolandosi un po’, da un piede all’altro. Poi se ne andò rapidamente.
L’orologio a quattro quadranti sopra il banco informazioni al centro della Grand Central Station di New York segnava le undici e dieci. La luce polverosadelsolescendevainsottililamedallefinestre,dellemezzeluneposte in alto sopra l’ingresso. L’aria portava l’odore di caffè bruciato, di lucido per pulire l’ottone, di grasso per motori e brillantina. Due enormi bandiere americane pendevano dalle corde appese al soffitto a volta, oscillando dolcemente grazie all’aria che arrivava dall’esterno. Zuezler entrato in stazione controllò gli orari. «Ci sono treni in partenza per…» Per un attimo si chiese come sarebbe stato prenderne uno a caso, salire a bordo ed andare in un’altra città, senza valigia, senza soldi, senza progetti, senza la famiglia. Nei mesi in cui aveva vissuto lì aveva fatto l’abitudine agli americani, al loro caffè inutile, ai loro modi cortesi, al loro ottimismo ottuso e all’ignoranza mal dissimulata,aipaesaggidicittàsovraffollateedi desertiangoscianti.E adessodopotuttoquelperiodovissutoinapnea,dopo
tantotempo diesiliovolontarioavevalapossibilitàditornareindietroripercorrendotuttiqueichilometrialcontrario,ritornareaBerlino,lasua patria,in un paese che era cambiato all’improvviso. Ma non sarebbestatotantofacile.Luiebreoerastatocostrettoafuggire.Per tantotempo,peranni,aveva dettocheavrebbevolutoandareavivereinAmerica,mapoicieradovutoandareperforza,persfuggire al nazismo e non finire in un campo di concentramento.Malìin America, il paese della giustizia e della democrazia per lui non c’era stata giustizia e non gli era stata riconosciuta la priorità nella scoperta e registrazione dell’ormone del pancreas, anche se la sua registrazione del brevetto era un dato di fatto indiscutibile. Un’ingiustizia palese, un atto ingiusto nel paese della giustizia. Ma ormai aveva buttato tutto dietro le spalle. All’inizio, appena era arrivato dalla Germania non aveva potuto fare a meno che vedere il vecchio nel nuovo. Main Street che gli pareva la Unter den Linden,VenicebeachchegliricordavaWannsee. Ma erano solo dei giochi della memoria emotiva. Era marzo, la temperatura era già salita. Dalle parti sue di questi tempi alle volte c’era ancora la neve. Binario 16, una locomotiva con una decina di vagoni teneva il motore al minimo sul binario, riempiendo l’aria di vapore e fuliggine. Lui si sistemò il cappello a borsalino, fece un respiro rumoroso, tanto che una passante gli lanciò un occhiataperplessa, poifecevelocementegliscalinicheportavanoalpiano di sotto, al binario. «Treno diretto per Chicago. Biglietti prego.» Il treno era in partenza. Prese un pacchetto di sigarette di una marca sconosciuta che però ricordava le sue amate overstolz tedesche da un distributore automatico, e comprò un pacchetto di Chewing gum da una altra macchinetta, e salì sul vagone. Ormai era chiaro che la sua vita sarebbe continuata in questa nazione che non gli piaceva poi tanto, e che lo aveva tradito. Ma peggio ancora aveva fatto la sua Germania nazista. Sicuramente se avesse riattraversato Berlino oggi sarebbe stato deluso per come la città dellasuamemorial’avrebbetrovatasostituitadaunaversionepiùsquallida. Viali e piazze rimpiccolite e via dicendo… meglio evitare.
Ed alla fin fine una città valeva l’altra, l’importante era vivere. E proprio mentre si stavano per chiudere le porte scese in corsa dal treno e tornò a casa dalla sua famiglia che lo aspettava.
Al Cafè Latin di Montreal, uno dei locali più di moda della città, sembrava noncifossepiùnessunosobrio.Illocalesiestendevasu trepiani,alpianterrenoc’erailristorante,unasortadigiunglatropicale,alprimopianositrovava il cocktail bar, invece al secondo piano si ballava, ma la musica si sentiva ovunque,unoswingfluido edelegante,davverogradevoledaascoltare.AppoggiatoalparapettodelprimopianoilmaggioreBantingguardòitavolial pianterreno, la sua mano destra giocherellava con una bustina di fiammiferi, lasinistraerainfilatanellatascadeipantalonimilitari. Stava pensando alla nuovaavventuranellaqualesieraimbarcato, e se stava facendo la cosa giusta, poi lo schiocco di un tappo di champagneloriportòalpresente.Sidiresse verso il bar, trovò uno sgabello libero tra un giovane smilzo ed una biondina in tiro e si sedette.Avevaappenaordinatounwhiskyquandosentì fareilsuo nome. Si girò, alle sue spalle era arrivato Bert Collip. Si abbracciaronoaffettuosamente,eranodavverofelicidirivedersi.