Forward. Numero 37 - 2025 Contrasti

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Ciò che è opposto si concilia, dalle cose in contrasto nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contesa.

– Eraclito, Frammenti

www.forward.recentiprogressi.it

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Le “care” abitudini: dove iniz

Dai “contrasti” al “contrastar

4 Quante cose fai senza pensarci?

ANNAMARIA TESTA

5 Rinforzi, motivazioni, imitazioni GUENDALINA GRAFFIGNA

7 Le routine nel cervello PAOLO BARTOLOMEO

Gli stili di vita per la

10 I bambini come agenti di cambiamento CHIARA BORGIA

12 Quanto incidono le differenze culturali? ANDREA CALIGNANO

Osservare senza giudizi e

La ricerca tra conflitti e bisogni Il paziente e il medico. La san

18 Nel rispetto dell’autonomia della persona

Cosa dice il medico, cosa

22 Il medico come guida o modello SERGIO CONTI NIBALI,

26/27 La compliance del paziente, le prescrizioni del medico

LUIGI ROSSI, MIRKO DI MARTINO

Nuove vecchie abitudini per

Rompere vecchie abitudini

MIRJAM AMATI, ADRIANA DEGIORGI, ALAN VALNEGRI

34 Una guida al cambiamento GIACOMO GALLETTI

Svegliarsi presto per iniziare con calma la giornata, anticipando poco alla volta l’orario in cui si va a dormire.

Svegliarsi presto per iniziare con calma la giornata, anticipando poco alla volta l’orario in cui si va a dormire.

iano, dove finiscono

iano, dove finiscono

8 Come nascono le

per progredire

8 Come nascono le dipendenze

9

SERVADIO

La salute pubblica nelle città e nei piccoli paesi CARLA ANCONA

9 Piccoli gesti che fanno la differenza LE ROUTINE

salute e il benessere

bisogni di salute

salute e il benessere

13

Salute individuale e salute pubblica LORENZO RICHIARDI

15 Comportamenti appresi e consumo di massa

14

Oncologia al bivio, tra individuo e collettività

RAFFAELE GIUSTI, FOTIOS LOUPAKIS

senza pregiudizi

senza pregiudizi

21 Il modello di Emergency in Italia

il paziente

pensa il paziente

ità profit e no profit vecchie sfide

28/30 Come migliorare l’aderenza terapeutica

Il parto cesareo è la normalità? CARLO

cambiamento

vita che cambia

una vita che cambia

36/37 Quel prima e dopo una diagnosi di cancro

L’equilibrio tra bianco e nero

STEFANO MAGNO, FLORI DEGRASSI

38 Scivolare nell’abisso

GIANCARLO DE CATALDO

Abitare le abitudini

Abitare le abitudini

Gentili contrasti

Tra le abitudini del gruppo Forward ve ne sono alcune ormai consolidate: non cercare mai le soluzioni semplici, la frase conclusiva, la risposta scontata. Ci siamo fatti convincere che la complessità, per quanto scomoda, possa garantire un maggiore spazio a tutti quelli che lavorano al progetto e consenta di esplorare meglio ogni tematica.

Tra le abitudini del gruppo Forward ve ne sono alcune ormai consolidate: non cercare mai le soluzioni semplici, la frase conclusiva, la risposta scontata. Ci siamo fatti convincere che la complessità, per quanto scomoda, possa garantire un maggiore spazio a tutti quelli che lavorano al progetto e consenta di esplorare meglio ogni tematica.

In fin dei conti, dopo ormai dieci anni, il progetto Forward – a furia di ripeterlo – dovrebbe avervi convinto: qui non si cercano soluzioni semplici. Piuttosto, ci piace immaginarci come dei promotori di contrasti gentili che raccontino la complessità degli interventi sanitari di oggi e di domani. Nel gruppo di lavoro cerchiamo ogni volta di mettere in mostra confronti intelligenti che animino discussioni fruttuose, convinti che questo sia il reale obiettivo di un onesto think-tank. Molte delle più importanti conoscenze mediche sono nate e si sono sviluppate in contesti conflittuali, ma è nella capacità dell’uomo di disinnescarne i pericoli che si è rivelata la sua intelligenza.

In questo numero troverete versioni sia positive che negative dei comportamenti ricorrenti. A volte parliamo dei veri e propri nemici del cambiamento; altre volte di ossessioni, deviazioni, ma anche di traguardi che fatichiamo a raggiungere per ottenere una salute migliore.

Insomma il tema è un prisma a mille facce che non poteva mancare alla nostra collezione, così come alla nostra voglia di confronto.

In questo numero troverete versioni sia positive che negative dei comportamenti ricorrenti. A volte parliamo dei veri e propri nemici del cambiamento; altre volte di ossessioni, deviazioni, ma anche di traguardi che fatichiamo a raggiungere per ottenere una salute migliore. Insomma il tema è un prisma a mille facce che non poteva mancare alla nostra collezione, così come alla nostra voglia di confronto.

I numeri possono alle volte aiutarci a seguire e capire le ragioni che stanno dietro gli stili di vita e le attitudini degli operatori sanitari, ma che non sempre combaciano con le migliori prove di efficacia disponibili. Una ragione in più per capire quando e come si forma un comportamento ricorrente.

Questo numero – che portiamo al congresso dell’Associazione italiana di epidemiologia dedicato quest’anno alla parola “contrasti” – racconta esperienze e novità in medicina dove l’equilibrio più o meno chiaro tra le diverse criticità rappresenta il vero stato dell’arte. In questo ambito, individuare e prendere le misure senza paura dei contrasti ci sembra che aggiunga valore e aiuti a capire. È chiaro che chi si occupa soprattutto di terapie innovative debba necessariamente confrontarsi con il perenne contrasto tra ciò che si propone come nuovo e la pratica consolidata.

I numeri possono alle volte aiutarci a seguire e capire le ragioni che stanno dietro gli stili di vita e le attitudini degli operatori sanitari, ma che non sempre combaciano con le migliori prove di efficacia disponibili. Una ragione in più per capire quando e come si forma un comportamento ricorrente.

In alcune pagine del numero abbiamo cercato anche di rispolverare un linguaggio che fosse valido non solo per gli addetti ai lavori, traendo spunto da quanto abbiamo in passato sperimentato con Forward for Kids

Come sempre, alcuni contributi attingono anche a settori diversi da quello medico, dove il gioco dei contrasti e delle sfumature ci permette di affinare lo sguardo e scoprire dettagli inattesi.

In alcune pagine del numero abbiamo cercato anche di rispolverare un linguaggio che fosse valido non solo per gli addetti ai lavori, traendo spunto da quanto abbiamo in passato sperimentato con Forward for

Visto il periodo ci sembra doveroso, almeno in questa breve introduzione, affiancare alla parola “contrasti” l’aggettivo “gentile” in modo da dichiarare fin da subito che l’obiettivo dell’esercizio, come sempre, è quello di considerare ogni altro punto di vista egualmente importante.

In sintesi, così come “visto da vicino nessuno è normale” anche le abitudini – a seconda di dove e come si collocano nella medicina del futuro – possono rassicurare o spaventare, con tutto quello che ci sta nel mezzo.

In sintesi, così come “visto da vicino nessuno è normale” anche le abitudini – a seconda di dove e come si collocano nella medicina del futuro – possono rassicurare o spaventare, con tutto quello che ci sta nel mezzo.

Antonio Addis

Antonio Addis Dipartimento di epidemiologia

Antonio Addis

Dipartimento di epidemiologia

Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1

Dipartimento di epidemiologia

Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1

Servizio sanitario regionale del Lazio, Asl Roma 1

Una medici

Una conversazione con Rodolfo Saracci

Quale ricordo ha di Giulio Maccacaro?

Ho lavorato tre anni a Milano nell’istituto di Maccacaro, dal 1966 al 1969, dopo averlo conosciuto anni prima nell’istituto di Genetica dell’Università di Pavia diretto da Adriano Buzzati Traverso e popolato da altre persone eccezionali come Luca Cavalli Sforza. Possiamo avvicinarci oggi a comprendere la figura di Giulio Alfredo Maccacaro attraverso il volume di scritti pubblicato nel 1979 e curato da un gruppo di editor guidato da Giovanni Berlinguer: il titolo? Per una medicina da rinnovare1

La sua è stata una figura singolare e importante nella storia della medicina e in generale nella scienza italiana. Ha avuto una carriera lunga, a partire dalla fine degli anni Quaranta del secolo scorso fino agli anni Settanta. Un ricercatore all’avanguardia e allo stesso tempo un accademico impegnato. Maccacaro insegnava brillantemente genetica dei microrganismi, materia che all’epoca era lo strumento di elezione della biologia molecolare. Il suo focus di ricerca si è poi spostato alla biometria, intesa come disciplina più trasversale alla medicina. Non è casuale che immediatamente avesse fondato una piccola rivista che si chiamava Le applicazioni biomediche del calcolo elettronico. In un numero della rivista formulava due domande ancora oggi aperte: cosa faremo noi coi calcolatori? E ancora: cosa i calcolatori faranno di noi?

La fase più conosciuta della vita di Maccacaro come ricercatore è quella in cui l’impegno accademico si è trasformato in quella che definirei una militanza accademica. Credo che l’episodio scatenante sia stato l’attentato di piazza Fontana a Milano del dicembre 1969,

seguito nei giorni immediatamente successivi dal “suicidio” di Giuseppe Pinelli. Una pubblicazione anche a firma di Maccacaro sosteneva l’implausibilità del suicidio considerate le circostanze peritali e la moglie di Pinelli, Licia, sarebbe poi diventata la segretaria dell’istituto diretto da Maccacaro, negli anni in cui lui stava ristrutturando la scuola di specializzazione in statistica medica e biometria, lavorando alla rivista Sapere e alla fondazione di Epidemiologia e prevenzione. Alla sua morte, all’inizio del 1977, Maccacaro ha lasciato un cantiere aperto, che per certi aspetti è ancora tale.

La fase più conosciuta della vita di Maccacaro come ricercatore è quella in cui l’impegno accademico si è trasformato in quella che definirei una militanza accademica.

Di recente, su Salute internazionale Gavino Maciocco ha parlato di “memorabili anni Settanta”, un decennio di grandi speranze ma contrassegnato da lutti e aspri conflitti…

Credo che la figura di Maccacaro sia da contestualizzare in un tempo ancora segnato dal dramma della bomba, da un’ombra che si proiettava sui ricercatori sollecitandoli a riflettere sulla responsabilità sociale della scienza. A questo proposito vorrei menzionare due

contributi. Il primo è di John von Neumann, un articolo del 1955 ancora di una attualità straordinaria. Il titolo è Can we survive technology? ed è stato pubblicato su Fortune. L’autore discute il problema del nucleare ma parla anche dell’automazione, in termini assai vicini a quelli di cui noi oggi discutiamo a proposito dell’intelligenza artificiale, in positivo e in negativo. Parla del cambiamento climatico: delle emissioni di CO 2 derivanti dall’utilizzo dei combustibili fossili e dell’aumento della temperatura globale. Inquadra tutto questo nella prospettiva della guerra fredda e della possibile instabilità politica globale. E in un passaggio dell’articolo scrive che “Science is indivisible”: la scienza e la tecnologia sono tutt’uno, aggiungendo in un’altra frase che non c’è rimedio al progresso. Conclude infine in modo abbastanza ottimista perché dopotutto l’umanità ce l’ha fatta a superare tanti altri rischi nel passato e ciò su cui fare affidamento sono le capacità, le risorse e tre attitudini: la pazienza, l’umiltà e l’intelligenza. Dovremmo tornare a chiederci, rispetto al contesto attuale, se abbiamo umiltà, pazienza, intelligenza. Non mi avventuro a dare una risposta. Il secondo contributo è di Max Born, uno dei grandi fisici ai quali dobbiamo lo sviluppo della meccanica quantistica. Nella sua autobiografia uscita nel 1965 c’è un passaggio che definirei micidiale, in cui sostiene di essere tormentato dall’idea che la rottura nella civilizzazione umana rappresentata dalla scoperta del metodo scientifico sia irrimediabile. Born continua sostenendo di non credere che quanto accaduto alla fine del secondo conflitto mondiale sia solo una debolezza transitoria e localizzata della nostra civilizzazione. Born temeva che la nostra civilizzazione non fosse in grado di

Rodolfo Saracci è stato presidente della International epidemiological association. Ha diretto l’unità di Epidemiologia analitica dell’International agency for research on cancer di Lione.

da rin

naLa celebrazione dei cento anni dalla nascita di Giulio Alfredo Maccacaro offre l’opportunità per tornare a riflettere sui rapporti tra la scienza e la politica. Ma non solo: anche per provare a ricostruire le origini e lo sviluppo di un pensiero critico che ha fecondato

l’Italia degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, conducendo il Paese a una memorabile stagione di riforme. Pensiero critico che potrebbe contribuire a ri-politicizzare la medicina.

ancora

assorbire quello che la scienza produce. Il termine assorbibile è lo stesso usato pochi mesi fa da un premio Nobel 2024 per la Chimica, Demis Hassabis. In una giornata organizzata a Parigi sul futuro dell’intelligenza artificiale, ha sostenuto la possibilità che l’intelligenza artificiale generativa si realizzi pienamente prima di quanto noi possiamo prevedere, magari entro cinque o dieci anni. Dobbiamo cercare di fare tutto il possibile perché sia – ecco di nuovo la parola – assorbibile dalla nostra civilizzazione.

Dovremmo tornare a chiederci, rispetto al contesto attuale, se abbiamo umiltà, pazienza, intelligenza. Non mi avventuro a dare una risposta.

Dobbiamo pensare dunque a una preparedness che non riguardi soltanto le emergenze pandemiche ma anche i prodotti della tecnoscienza?

Sì, vediamo proprio in questo momento come non solo la tecnoscienza risulti difficilmente assorbibile ma sembra incastrarsi nel contesto americano al potere politico in modo molto intimo. Nella collezione degli scritti di Maccacaro un capitolo riprende un contributo

presentato a un convegno del 1973 in cui poneva la domanda se sia possibile o abbia senso parlare di un’altra scienza diversa da quella di quegli anni. Inquadrata nell’esperienza storica, sappiamo che di scienza – con le caratteristiche che noi oggi le attribuiamo – ne conosciamo una sola, quella che si è sviluppata nelle stesse società e nello stesso arco di tempo del capitalismo. Di fatto, non abbiamo altri esempi di una tecnoscienza cresciuta in un contesto diverso. È dunque possibile domandare e domandarsi se sarebbe possibile una tecnoscienza diversa da quella intrecciata al modello economico capitalista. Ma Maccacaro aggiunge che la risposta è impossibile e ancora prima che la domanda è inappropriata, perché non si può chiedere a chi è chiuso dentro a un certo sistema cosa accadrà quando si esce dal sistema. L’unica cosa è ideare delle vie di fuga alternative.

Se Mattei intende ri-politicizzare l’economia, l’attualità centrale della lezione di Maccacaro può essere quella di ri-politicizzare la medicina.

Maccacaro è morto nel 1977 col cantiere aperto della costruzione di una via alternativa di sviluppo scientifico, in particolare della

novare

medicina. Il punto interrogativo che ci hanno lasciato lui e gli altri di quella generazione è ancora largamente aperto e forse si è ingrandito ancora di più proprio alla luce di quanto stiamo sperimentando in questo momento. Che fare? Cercare di inquadrare le singole attività all’interno del quadro globale che ho descritto, consapevoli del fatto che la scienza e la tecnica attuali sono intimamente integrate nel sistema di sviluppo del capitalismo. A questo punto mi limiterei a consigliare una lettura breve e illuminante di una ricercatrice trentacinquenne italiana che insegna negli Stati Uniti, Clara Mattei. Il libro è intitolato L’economia è politica2. Mattei guarda all’economia come scienza e discute la convinzione che la forma attuale della nostra società, ovvero ciò che chiamiamo capitalismo, sia qualcosa di inevitabile e perenne. L’autrice parla di “naturalizzazione” dell’economia capitalista e della prassi di seguire per molte scelte essenziali le indicazioni formulate da esperti che analizzano l’economia proprio come se si trattasse di una realtà naturale e non sociale. Se Mattei intende ri-politicizzare l’economia, l’attualità centrale della lezione di Maccacaro può essere quella di ri-politicizzare la medicina.

A cura di Luca De Fiore

1. Giulio Alfredo Maccacaro. Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976. Milano: Feltrinelli, 1981.

2. Clara Matteri. L’economia è politica. Milano: Fuoriscena, 2023.

1847

1849

Nel rapporto sull’epidemia di tifo nell’Alta Slesia, il medico patologo Rudolf Virchow afferma che l’epidemia di tifo non può essere risolta trattando singoli pazienti con farmaci o modifiche nell’alimentazione, abitazione o abbigliamento, ma solo con un’azione politica. Viene rimosso dalla posizione accademica.

Ignác Semmelweis introduce il lavaggio delle mani con ipoclorito di sodio nella Clinica ostetrica di Vienna e la mortalità delle donne per febbre puerperale è quasi azzerata. Il suo direttore Johann Klein non gli rinnova il contratto, accusandolo di far spendere tempo e denaro inutilmente.

1854

1948

Negli Stati Uniti prende il via il Framingham heart study, uno dei più importanti studi epidemiologici nella storia sulle malattie cardiovascolari. Nel tempo, però, permangono dubbi sulla rappresentatività delle popolazioni studiate vs la popolazione statunitense.

John Snow identifica in una pompa di distribuzione di acqua la fonte di un’epidemia di colera a Londra. Solo nel 1866 (otto anni dopo la sua morte) uno dei suoi avversari, William Farr, ammette la validità dell’ipotesi batteriologica, molto criticata anche sulle pagine del Lancet

1950

1960

La tragedia della talidomide evidenzia il divario tra tempestività nella generazione delle evidenze scientifiche e ritardi delle decisioni di politica sanitaria: porta alla nascita della farmacovigilanza e stimola l’interesse per la farmacoepidemiologia.

Gli epidemiologi Richard Doll e Austin Bradford Hill pubblicano sul British Medical Journal il primo studio sulla correlazione tra fumo e rischio di carcinoma al polmone. Nel 1954 si costituisce il Tobacco industry research council per contrastare la ricerca scientifica.

1972

1981

Geoffrey Rose descrive il “paradosso della prevenzione”, in cui la maggior parte dei casi di una malattia proviene da una popolazione a rischio basso o moderato, e solo una minoranza dalla popolazione ad alto rischio perché numericamente ridotta.

L’epidemiologia è una scienza antica e il concetto di contrasto è profondamente legato ad essa. Si pensi alle discrepanze tra evidenze e percezione del rischio, alle differenze nell’incidenza di malattie a seconda del contesto sociale o geografico, agli interessi economici e politici in contrapposizione con le evidenze scientifiche. La timeline di questo numero riporta solo alcuni dei momenti chiave più recenti della sanità pubblica.

1995

Baruch Fischhoff della Carnegie Mellon university, nell’articolo “Risk perception and communication unplugged: twenty years of process”, scrive che dobbiamo rendere partecipi tutti i soggetti interessati e in particolare quelli esposti al rischio.

Le tappe dell’epidemiologia moderna

Il 25 settembre Giulio Alfredo Maccacaro è convocato dal presidente Omceo di Milano: deve rispondere delle proprie posizioni “sul potere e la servitù della medicina nella società del capitale”.

1981

Il 5 giugno i Centers for disease control and prevention statunitensi descrivono per la prima volta 5 casi di una patologia che verrà definita dal Lancet “gay compromise syndrome”, definizione poi smentita in favore dell’attuale sindrome da immunodeficienza acquisita

2002

2007

Sul Nejm uno studio su oltre 12mila persone seguite per 32 anni suggerisce che l’obesità si diffonde attraverso i legami sociali, aumentando il rischio di obesità tra partner, fratelli e amici di persone obese.

Un trial clinico randomizzato dimostra un aumento del rischio di cardiopatie coronariche, tumore della mammella e ictus nelle donne in menopausa trattate con terapia ormonale sostitutiva, raccomandata sulla base di studi osservazionali

2012

2013

La Iarc classifica l’inquinamento atmosferico esterno nel gruppo 1 delle sostanze cancerogene e tre anni dopo l’Oms stima che circa il 24 per cento dei decessi globali annui sia attribuibile a esposizioni ambientali. Le ondate di calore aumentano. Nel 2024 si contano nel mondo oltre 540 organizzazioni negazioniste di ispirazione accademica.

Nasce il Programma nazionale esiti per monitorare i trattamenti efficaci e produrre evidenze sulle interazioni tra assetti organizzativi, modalità di erogazione e performance assistenziali in ambito ospedaliero. Aumentano le proteste dei cittadini contro la chiusura di ospedali inefficienti o con basso volume di attività.

2017

2018

Viene attuato il Regolamento generale sulla protezione dei dati, che limita l’uso delle informazioni sulla salute individuale, un elemento chiave per la ricerca in sanità pubblica.

La Fda pubblica linee guida sull’uso della real world evidence per decisioni regolatorie: l’uso dei dati provenienti dal mondo reale diventa una questione rilevante per scelte di salute pubblica.

2020

2025

Nei primi giorni della presidenza Trump, sono state rimosse migliaia di pagine web da decine di siti governativi, per esempio dei Centers for disease control and prevention, tra cui un migliaio di articoli di ricerca scientifica

La pandemia da sars-cov-2 fa emergere i contrasti sulle strategie di contenimento del virus, tra legittimità/ efficacia del lockdown, delle mascherine, dei nuovi vaccini.

Il futuro delle città tra URBANITÀ NATURA e

Il termine contrasto, come sostantivo, indica ciò che si oppone tra due corpi, creando resistenza al loro avvicinamento. Può anche riferirsi a impedimento, inconciliabilità, contrapposizione e conflitto. Derivando dal verbo contrastare, composto da “contro” e “stare”, implica l’idea di “stare contro”, cioè opporsi, ma anche combattere. In questo senso, il verbo può aiutarci a esprimere la spinta per ripensare le città come luoghi che non solo si oppongono, ma che riescono a convivere con la natura.

CONTRASTI. Le città nascono dai contrasti, che possono essere duri o generativi. C’è un’opposizione fondativa tra città e campagna, tra dentro e fuori, tra privato e pubblico, tra interno ed esterno. La città, così come l’abbiamo ereditata dall’Ottocento, separa e crea contrasti netti tra edifici con funzioni differenti: alla scuola viene attribuita l’educazione, all’ospedale la salute, al parco il tempo libero e la natura, alla piazza la circolazione di persone e veicoli, al museo l’arte e la cultura.

Oggi, questa visione di separazione per funzioni è superata, è fuori tempo. Non possiamo più permetterci di dividere rigidamente gli spazi. Prendiamo ad esempio il contrasto fondativo tra città e campagna: la città è storicamente il luogo da cui la natura è stata esclusa, relegata all’esterno perché la natura sta nella campagna, sta nel paesaggio. Ma oggi le città non possono sopravvivere senza reintegrare la natura al loro interno. Città fatte solo di cemento e asfalto non sono più sostenibili di fronte alla crisi climatica e, soprattutto, non sono più spazi accoglienti per la vita delle persone.

L’innovazione urbana contemporanea si gioca sulla capacità di rielaborare questi contrasti, sfumando le distanze e le separazioni rigide tra le funzioni. Gli ospedali e le scuole possono uscire dai propri confini tradizionali, perché la salute non si esaurisce negli ospedali, ma riguarda la qualità della vita, l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo. Questa logica di sconfinamento inteso come superamento dei contrasti e della dialettica diventa cruciale per il nostro tempo.

Le città avrebbero la potenzialità di superare le rigidità che le rendono più dure e inabitabili, ma manca la volontà politica per farlo.

Le città avrebbero la potenzialità di superare le rigidità che le rendono più dure e inabitabili, ma manca la volontà politica per farlo. Conservare le separazioni, quelle linee di demarcazione che definiscono la distanza fra le parti che compongono la città e con essa la società, è più semplice che ripensarle. Pensiamo per esempio alla distinzione tra interno ed esterno: in alcune culture, questa separazione è più sfumata, il passaggio da un interno all’esterno avviene in maniera più aperta più fluida, con cortili aperti e spazi pubblici più porosi. Questo non riguarda solo l’architettura, ma anche il tipo di società che vogliamo costruire: una società basata su opposizioni e confini netti, oppure che promuove attraversamenti e connessioni?

Un altro esempio è la separazione tra pubblico e privato. La crescente privatizzazione degli spazi pubblici riduce le aree destinate alla condivisione e alla comunità, sostituendole con spazi commerciali. I contrasti sono fondanti nella vita urbana, ma oggi è necessario un progetto politico e sociale che li rielabori in chiave più fluida e aperta.

CONTRASTARE. Se la parola “contrasti” assume una connotazione negativa, il verbo “contrastare” ha una forza trasformativa. Oggi dobbiamo contrastare la crisi climatica, una questione strettamente legata a tutto ciò di cui abbiamo parlato finora.

Oggi le città devono sapersi adattare per poter sopravvivere a loro stesse. Se non vogliamo che diventino luoghi inospitali e insalubri, con fenomeni come l’aumento delle isole di calore, delle alluvioni, delle piogge torrenziali, degli allagamenti e della siccità, è fondamentale agire. Questi sono problemi che ormai vediamo anche negli spazi urbani, come nel caso di Valencia o degli incendi in California. Per poter affrontare la crisi climatica, le città devono adottare progetti di adattamento. La sfida più grande non è resistere al cambiamento climatico, ma trasformarsi per affrontarlo. E questo passa proprio dalla capacità di modificare la “pelle” delle città.

Una città fatta di asfalto e materiali non drenanti è la meno adatta a contrastare la crisi climatica. Serve aumentare la permeabilità del suolo, integrare più alberi e spazi verdi, ripensare i parchi non come aree isolate, ma come elementi diffusi all’interno del tessuto urbano. Ancora una volta, la soluzione sta nel superare il contrasto tra città e campagna: la natura deve tornare a essere parte integrante della città. Le città del futuro non potranno che essere un ibrido tra urbano e naturale, un sistema capace di adattarsi e rispondere ai mutamenti in corso.

Ancora una volta, la soluzione sta nel superare il contrasto tra città e campagna: la natura deve tornare a essere parte integrante della città.

Elena Granata insegna Analisi della città e del territorio e urbanistica al Politecnico di Milano. Vicepresidente della Scuola di economia civile (SEC) e co-fondatrice di I’MPOSSIBLE Studio, che si occupa di comunicazione sociale e cultura d’impresa. Tra i suoi ultimi libri: “Placemaker” e “Il senso delle donne per la città”.

La salute pubblica nelle CITTÀ e nei piccoli paesi

Un confronto sulla salute pubblica

La salute pubblica è costantemente impegnata nella gestione di conflitti derivanti dalle complesse interazioni tra fattori sociali, economici, territoriali e politici. Queste divergenze possono manifestarsi in diversi ambiti, incidendo sull’equità nell’accesso ai servizi sanitari e sugli esiti delle cure, sulla ripartizione delle risorse disponibili e sulla qualità complessiva dell’assistenza offerta alla popolazione. Uno dei contrasti più evidenti riguarda la differenza tra la salute nelle città e quella nelle aree interne e rurali.

Lecittà, grazie alla loro elevata densità abitativa e all’ampia disponibilità di strutture sanitarie specializzate, offrono migliori opportunità di prevenzione, diagnosi precoce e trattamento delle malattie. Tuttavia, il contesto urbano presenta anche fattori di rischio ambientale significativi, come l’inquinamento atmosferico, il traffico congestionato, il rumore e lo stress derivante da ritmi di vita frenetici e da disuguaglianze sociali marcate. Questi elementi possono compromettere il benessere della popolazione, contribuendo all’aumento di patologie croniche, malattie respiratorie e disturbi legati alla salute mentale. Negli ultimi decenni sono stati proposti modelli urbani sperimentali, quale il Superblock sperimentato a Barcellona per ripensare gli spazi urbani aumentando le aree verdi, favorendo infrastrutture che incentivano i contatti sociali e l’attività fisica, dando priorità alla mobilità attiva e al trasporto pubblico al fine di ridurre l’inquinamento atmosferico e acustico e gli effetti delle isole di calore urbane. È indiscutibile la necessità di avviare una trasformazione verso città più inclusive e solidali, attraverso interventi mirati alla rigenerazione degli spazi pubblici e alla limitazione del consumo di suolo. Questo processo richiede un approccio integrato, capace di coniugare sostenibilità ambientale, coesione sociale e valorizzazione del patrimonio urbano1 . Le aree interne del Paese offrono un ambiente più salubre rispetto alle aree urbane, grazie a una migliore qualità dell’aria e a un maggiore contatto con la natura, elementi che favoriscono uno stile di vita più sano. Tuttavia, queste zone caratterizzate dalla significativa distanza dai centri che offrono i servizi essenziali di istruzione, salute e mo-

bilità soffrono spesso di isolamento geografico. La carenza cronica di infrastrutture sanitarie, la distanza dai presidi ospedalieri, la limitata presenza di medici di base e specialisti, nonché le difficoltà nel trattenere professionisti sanitari qualificati rendono l’accesso alle cure più complesso, aumentando il rischio di ritardi nella diagnosi e nel trattamento delle patologie. Inoltre, l’invecchiamento progressivo della popolazione in molte di queste aree amplifica il problema, determinando una crescente domanda di assistenza sanitaria che il sistema fatica a soddisfare in modo adeguato. Inoltre, tutti gli indicatori mostrano che le regioni meridionali più povere tendono a ottenere risultati peggiori rispetto al centro-nord, con evidenti disuguaglianze di salute documentate a livello nazionale2 Il contrasto tra città e aree interne evidenzia dunque la necessità di politiche sanitarie mirate, in grado di ridurre le disuguaglianze e garantire un accesso equo alle cure. Per migliorare l’accesso ai servizi sanitari, sono fondamentali gli investimenti nella telemedicina e nella sanità digitale, oltre a promuovere servizi mobili di assistenza per offrire visite mediche e screening anche nelle zone più remote. Un altro aspetto cruciale è il sostegno ai professionisti sanitari, per contrastare la fuga verso la sanità privata. Questo obiettivo può essere raggiunto rafforzando la rete dei medici di medicina generale, attivando percorsi di formazione specifica sulla medicina rurale e gestione delle emergenze in contesti isolati. Parallelamente, è necessario potenziare le strategie di prevenzione e promozione della salute attraverso campagne educative su alimentazione, attività fisica e gestione delle malattie croniche, oltre a garantire screening e vaccinazioni capillari. Un ruolo chiave è svolto anche dalla pianificazione territoriale, che deve rispondere alle specifiche esigenze locali migliorando la rete di trasporti sanitari che collega le aree interne e i centri di cura e investendo in infrastrutture moderne. Infine, è fondamentale adottare un approccio integrato e collettivo, basato sulla medicina di prossimità e sul coinvolgimento attivo della comunità, per assicurare servizi sociosanitari più accessibili ed efficaci su tutto il territorio.

Per ridurre il contrasto tra città e piccoli centri, è necessario adottare politiche differenziate che rispondano alle specifiche criticità di ciascun contesto. Un coordinamento efficace tra le politiche locali e nazionali potrebbe garantire una distribuzione più equa delle risorse e favorire soluzioni che permettano sia alle città sia ai piccoli Comuni di affrontare le sfide ambientali e sanitarie in modo integrato, senza lasciare indietro nessuna comunità.

1. Nieuwenhuijsen M, de Nazelle A, Pradas MC, et al. The Superblock model: a review of an innovative urban model for sustainability, liveability, health and well-being. Environ Res 2024;251(pt 1):118550.

2. Petrelli A, Di Napoli A, Sebastiani G, et al. Italian atlas of mortality inequalities by education level. Epidemiol Prev 2019;43(1S1):1-120.

4mila

i Comuni delle aree interne

13,3 Mln

gli abitanti delle aree interne

22,6%

dei residenti in Italia

48,5% -5% la decrescita della popolazione delle aree interne tra il 2014 e il 2024 del totale

Carla Ancona, epidemiologa ambientale, lavora al Dipartimento di epidemiologia del Ssr LazioAsl Roma 1. È presidente dell’Associazione italiana di epidemiologia.

tra EVIDENZE e percezione del RISCHIO

Il caso degli inceneritori dei rifiuti urbani

Il rapporto tra evidenze scientifiche e percezione pubblica del rischio ambientale è spesso caratterizzato da contrasti e incomprensioni. Mentre la ricerca scientifica si basa su dati raccolti in maniera rigorosa, la percezione della popolazione è spesso influenzata da fattori psicologici, sociali e culturali. Questo divario emerge chiaramente nei temi legati ad ambiente e salute, in particolare nel dibattito sugli inceneritori di rifiuti.

La crescita della popolazione e l’urbanizzazione determinano un aumento del consumo di risorse e della produzione di rifiuti1. Uno smaltimento improprio può comportare il rilascio di composti chimici dannosi, rendendo la gestione dei rifiuti urbani una questione centrale per la sanità pubblica2. Tra le diverse strategie adottate, l’incenerimento consente di ridurre il volume dei rifiuti e di mitigare la contaminazione del suolo e delle falde acquifere, solitamente associata alle discariche. Inoltre, i moderni termovalorizzatori permettono il recupero di energia dall’incenerimento dei rifiuti urbani3. Tuttavia, gli impianti rilasciano diversi inquinanti nell’ambiente, alimentando il dibattito sui potenziali effetti nocivi per la salute legati all’esposizione a queste sostanze.

Se da un lato le evidenze scientifiche suggeriscono, pur con un certo grado di incertezza, che le emissioni degli inceneritori di ultima generazione non rappresentano una minaccia significativa per la salute pubblica, dall’altro le comunità locali, anche riconoscendo la necessità di questi impianti, li percepiscono come un rischio per la propria salute e si oppongono alla loro costruzione, specialmente nelle vicinanze delle aree residenziali.

Gli studi epidemiologici sull’associazione tra l’esposizione alle emissioni degli inceneritori di rifiuti e gli effetti sulla salute umana presentano alcuni limiti metodologici, come la difficoltà nella definizione dell’esposizione, la scarsa disponibilità di dati sui fattori confondenti e l’eterogeneità dei disegni di ricerca. Tuttavia, nel complesso, non evidenziano rischi significativi per la salute. Eventuali lievi associazioni potrebbero essere attribuibili a fattori confondenti non presi in considerazione. Le associazioni con patologie cardiovascolari e respiratorie emergono prevalentemente in studi su impianti di vecchia generazione o non conformi alle normative.

Le moderne tecnologie e i sistemi di filtraggio degli inquinanti, insieme alle stringenti regolamentazioni ambientali, hanno drasticamente ridotto le emissioni, rendendo l’impatto ambientale e, quindi, sanitario difficilmente rilevabile. Nonostante ciò, e nonostante le rassicuranti evidenze scientifiche, gli inceneritori vengono spesso percepiti come una minaccia, un pericolo più o meno imme-

diato. Il fenomeno “nimby” (not in my backyard) descrive l’opposizione delle comunità locali alla costruzione di infrastrutture ritenute potenzialmente nocive, indipendentemente dalla loro effettiva pericolosità. Questa resistenza nasce dalla preoccupazione per possibili ripercussioni sulla salute, sulla qualità della vita e anche sul valore degli immobili4. Gli impianti per la gestione dei rifiuti, in particolare, vengono spesso associati a inquinamento, odori sgradevoli e degrado ambientale, alimentando il dissenso e la sfiducia nelle istituzioni.

La percezione del rischio è profondamente influenzata da fattori psicologici. Le persone tendono a preoccuparsi maggiormente per i rischi imposti dall’esterno rispetto a quelli derivanti da scelte individuali. Pericoli considerati incontrollabili, come le emissioni industriali, vengono spesso sovrastimati rispetto ai fattori di rischio ben documentati derivanti dallo stile di vita, come il consumo di alcol o tabacco5. Inoltre, le comunità locali spesso vedono la costruzione di un impianto come un’imposizione, alimentando la loro sfiducia nelle autorità e opposizione ai progetti.

Solo con una comunicazione chiara, trasparente e vicina alle persone si può costruire fiducia nelle istituzioni e consapevolezza, contribuendo a superare le barriere psicologiche e culturali che spesso ostacolano l’accettazione di soluzioni sostenibili.

Il divario tra i risultati della ricerca scientifica e ciò che le persone percepiscono come pericoloso rappresenta una delle sfide più difficili nella gestione del rapporto tra ambiente e salute. Evidentemente, non basta fornire dati, ma è fondamentale comunicare l’incertezza della scienza e comprendere anche le emozioni, le paure e le preoccupazioni delle comunità interessate. È necessario instaurare un dialogo aperto tra istituzioni, esperti e cittadini, mostrando apertura e disponibilità ad ascoltare le preoccupazioni della popolazione, rispondere ai suoi dubbi e farla sentire coinvolta nei processi decisionali. Solo con una comunicazione chiara, trasparente e vicina alle persone si può costruire fiducia nelle istituzioni e consapevolezza, contribuendo a superare le barriere psicologiche e culturali che spesso ostacolano l’accettazione di soluzioni sostenibili.

1. Vergara SE, Tchobanoglous G. Annu Rev Environ Resour 2012;37:277-309.

2. Chen DMC, et al. Environ Res Lett 2020;15:074021.

3. Khan MS, et al.Waste Manag Res 2022;40:1708-29.

4. Pol E, et al. Eur Rev Appl Psychol 2006;56:43-51.

5. Slovic P. The perception of risk. In: Sternberg RJ, Fiske ST, Foss DJ, eds. Scientists making a difference: one hundred eminent behavioral and brain scientists talk about their most important contributions. Cambridge (UK): Cambridge University Press, 2016; 179-82.

Isabella Bottini

lavora al Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio - Asl Roma 1. Si occupa di epidemiologia ambientale.

Gestire il contrasto per ottenere evidenze affidabili

Quei delicati equilibri epidemiologici

Inepidemiologia, il concetto di contrasto rappresenta un principio fondamentale per l’analisi causale. La distinzione tra fattuale e controfattuale è essenziale nella valutazione dell’effetto di un’esposizione su un esito di salute. Il fattuale rappresenta l’osservazione dei risultati in un gruppo esposto a un determinato fattore di rischio o intervento. In contrasto al fattuale, il controfattuale ipotizza ciò che sarebbe accaduto se l’esposizione non fosse avvenuta, ma non può essere osservato direttamente.

La distinzione tra fattuale e controfattuale è essenziale nella valutazione dell’effetto di un’esposizione su un esito di salute.

Questo contrasto è indispensabile per inferire la causalità, poiché permette di stimare l’effetto di un’esposizione o di un intervento confrontando il mondo reale (fattuale) con un’ipotesi alternativa (controfattuale). La maggiore sfida di questo concetto risiede nell’impossibilità di osservare fattuale e controfattuale negli stessi individui, non essendo possibile azzerare l’esposizione e osservare gli stessi individui in assenza di essa. Pertanto, è necessario rendere i gruppi a confronto il più simili possibile, simulando due popolazioni con le stesse caratteristiche, come se si osservasse la stessa popolazione due volte, ovvero in presenza e in assenza dell’esposizione in questione.

Negli studi case-crossover, invece, ogni individuo funge da controllo di sé stesso, minimizzando il rischio di confondimento da variabili stabili (come la genetica o il sesso). Si confrontano i periodi in cui la persona è stata esposta con periodi in cui non lo è stata, immediatamente prima dell’evento di interesse. In questo caso, il fattuale è rappresentato dall’osservazione dell’esposizione in un periodo immediatamente precedente all’evento (per esempio, il livello di esposizione all’inquinamento nei giorni precedenti un attacco cardiaco), mentre il controfattuale viene definito dal livello di esposizione all’inquinamento in periodi in cui il paziente non ha avuto un attacco cardiaco, assumendo che altri fattori rimangano costanti.

Nei trial randomizzati controllati, la randomizzazione dei gruppi a confronto è uno strumento che consente di ottenere gruppi confrontabili. Un esempio di questi studi è la valutazione della sicurezza di un nuovo farmaco: in questo caso, l’analisi utilizza il contrasto tra il tasso di incidenza di eventi avversi nel gruppo che ha ricevuto il farmaco (fattuale) e il tasso che si sarebbe osservato tra gli stessi individui se non avessero ricevuto il farmaco (controfattuale). Questo viene approssimato dal gruppo di controllo, che riceve un placebo o un altro trattamento. L’assegnazione al gruppo avviene in maniera casuale. Negli studi osservazionali, si cerca di approssimare una randomizzazione in fase di disegno dello studio (per esempio, attraverso il propensity score matching) oppure in fase di analisi (per esempio, utilizzando modelli multivariati che tengono conto di potenziali fattori di distorsione).

Il contrasto utile si riferisce all’esposizione, poiché è proprio la differenza tra gruppi esposti e non esposti a una determinata condizione che consente di valutarne l’effetto su un esito di salute.

Il contrasto utile si riferisce quindi all’esposizione, poiché è proprio la differenza tra gruppi esposti e non esposti a una determinata condizione che consente di valutarne l’effetto su un esito di salute. Tuttavia, affinché questa valutazione sia attendibile, è fondamentale ridurre al minimo il contrasto legato a differenze nelle caratteristiche di base tra i gruppi a confronto, minimizzando le distorsioni.

L’epidemiologia si basa quindi sulla capacità di mantenere, attraverso un adeguato disegno degli studi, un delicato equilibrio tra il contrasto “utile”, indispensabile per individuare un effetto, e il contrasto “a rischio” che, se non gestito correttamente, potrebbe compromettere la validità delle conclusioni.

Ursula Kirchmayer lavora come epidemiologa al Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio - Asl Roma 1, in ambito di epidemiologia valutativa con particolare focus sulla farmacoepidemiologia. È presidente eletto della International society for pharmacoepidemiology.

Reale, sperimentale, ARTIFICIALE

Intervista a Jordan

In che modo la combinazione di real world evidence (Rwe) e trial clinici randomizzati (Rct) può portare a decisioni più informate? Cosa comportano i contrasti tra questi due approcci nella pratica clinica quotidiana?

La combinazione di Rct e Rwe fornisce un approccio più olistico al processo decisionale, in quanto ciascun metodo aiuta a mitigare gli svantaggi dell’altro. Con gli Rct, raccogliamo prove rigorose sulla causalità in condizioni strettamente controllate, rispondendo principalmente alla domanda: “Qual è l’efficacia del trattamento?”. Al contrario, la Rwe offre informazioni utili sull’efficacia pratica e sugli interventi assistenziali in contesti clinici quotidiani, includendo un gruppo di pazienti molto più ampio e tenendo conto delle variazioni spesso riscontrate nella realtà clinica. Per esempio, come farmacista, osservo che l’aderenza dei pazienti alla terapia farmacologica – un aspetto che spesso non emerge dagli Rct – può avere un impatto significativo sull’efficacia reale di un trattamento. Come clinico, considero gli Rct fondamentali per determinare causalità ed efficacia, mentre le Rwe mi aiutano a comprendere i benefici concreti sia per i singoli pazienti che in una prospettiva più ampia di salute pubblica. Quindi, per rispondere alla domanda sui contrasti nella pratica clinica quotidiana, non vedo tanto un contrasto quanto piuttosto un legame tra i due approcci. Voglio integrare entrambe queste fonti di evidenza per ottenere la migliore comprensione possibile e prendere decisioni più informate.

La dipendenza esclusiva dai dati reali nell’Ia potrebbe portare a conclusioni errate? Come possiamo bilanciare questo con metodi tradizionali per garantire decisioni cliniche più sicure?

Come possiamo affrontare i contrasti tra la robustezza dei trial clinici e la flessibilità dei dati reali nell’intelligenza artificiale (Ia) applicata alla sanità?

La combinazione di Rct e Rwe migliora il processo decisionale clinico bilanciando prove robuste con l’applicabilità nel mondo reale. Gli Rct, considerati il gold standard della medicina evidence-based, forniscono prove controllate e riproducibili, riducendo i bias e confermando la causalità, elementi chiave per le linee guida cliniche. Tuttavia, i loro parametri rigorosi possono limitare la rilevanza per popolazioni diverse e nell’ambito della pratica clinica quotidiana. La Rwe completa questo quadro utilizzando dati relativi alle cure di routine dei pazienti per scoprire tendenze a livello di popolazione, esiti rari e approfondimenti su gruppi sottorappresentati. Nonostante la sua più ampia applicabilità, la Rwe è più soggetta a bias, problemi di qualità dei dati ed errori metodologici. La Rwe deve essere considerata nel contesto di una gerarchia delle prove. Insieme, forniscono un approccio olistico a decisioni sanitarie informate ed equilibrate. È importante che i responsabili sanitari comprendano la forza delle prove provenienti da diverse fonti utilizzate per il processo decisionale clinico, soprattutto una volta applicata l’Ia.

Come l’evoluzione dell’Ia può influire sulla qualità e quantità dei dati, e quali sono i rischi legati alla sua applicazione in contrasto con le linee guida tradizionali?

L’Ia è in grado d’identificare schemi e tendenze in grandi insiemi di dati non organizzati e, man mano che esporremo più insiemi di dati a questo livello avanzato di screening e ragionamento, l’Ia ha il potenziale per fornire approfondimenti più dettagliati e sfumati. Tuttavia, dati i rischi intrinseci dell’Ia, occorre valutare con attenzione quali dati vengono inseriti nei modelli di Ia. “Garbage in, garbage out” è un concetto molto importante da tenere a mente,

Come vede il futuro dell’Ia generativa nel supporto alle decisioni cliniche e quale ruolo gioca UpToDate in questa evoluzione, in particolare in termini di contenuti esperti e innovazione responsabile?

Navigare tra i dati dal mondo reale e dei trial clinici

e molti modelli di Ia non sono ancora al livello in cui si può fare un controllo sicuro della disinformazione. La base dell’Ia generativa clinica deve essere un sistema robusto di revisione clinica con il coinvolgimento di esperti della materia per aiutare l’Ia a generare risposte contestualmente appropriate. L’Ia responsabile in ambito sanitario richiede un impegno continuo per la qualità e la revisione da parte sia degli sviluppatori sia degli utenti delle soluzioni.

La chiave per uno strumento di supporto decisionale clinico altamente efficace è la sintesi di tutte le prove disponibili – dalla Rwe, dai dati dei pazienti e dagli Rct, nonché da altre evidenze – da parte di esperti della materia che possano valutare in maniera critica gli studi per individuare eventuali bias. Gli esperti possono anche fornire trasparenza, fonti e contesto relativamente alle raccomandazioni fornite, per garantire che i clinici possano fidarsi dello strumento. Questo è particolarmente cruciale poiché le nuove tecnologie di Ia utilizzano contenuti e dati medici come materiale di base per fornire risposte ai quesiti clinici. Gli esperti clinici possono fornire un approccio sfumato alla cura del paziente, in grado di bilanciare la metodologia scientifica rigorosa con l’applicabilità nel mondo reale. La Rwe è uno strumento potente. Tuttavia, alla base, si tratta di dati osservazionali che dovrebbero essere considerati in questo contesto. Perché un “cervello ausiliario” sia veramente efficace, i clinici devono sapere di poter fidarsi delle informazioni che ricevono. Questo si fonda su un processo editoriale rigoroso basato su una gerarchia delle prove che attribuisce il massimo valore alle meta-analisi di alta qualità degli studi randomizzati, seguite dai singoli studi randomizzati, dagli studi osservazionali e dalle osservazioni cliniche non sistematiche.

Penso che l’uso dell’Ia generativa come parte del supporto alle decisioni cliniche sarà inevitabile; il modo in cui consumiamo e processiamo le informazioni è stato profondamente cambiato. Tuttavia, devo sottolineare che sarà solo una parte del supporto alle decisioni cliniche. L’Ia generativa dovrebbe avere un ruolo di supporto per i clinici all’interno di una suite di altre risorse e soluzioni che aiutano a ridurre il carico amministrativo e clinico, consentendo ai professionisti sanitari di dedicare più tempo a fornire la migliore assistenza ai pazienti. In UpToDate, siamo focalizzati sull’introduzione di applicazioni responsabili dell’Ia generativa per i clinici, con un forte focus su informazioni affidabili ed esperte. Alla base delle soluzioni responsabili di Ia devono esserci un framework rigoroso e un continuo processo di miglioramento.

A cura di Laura Tonon

UpToDate illustra i quattro principi chiave degli strumenti di GenAI in questo approfondimento “Expert Insight online”.

Jordan Fulcher è farmacista clinico. Lavora alla Wolters Kluwer – Health come clinical solution consultant per Emea.

SALUTE individuale e SALUTE pubblica tra contrasti e convergenze

Intervista a Lorenzo Richiardi

Lorenzo Richiardi

è vicepresidente dell’Associazione italiana di epidemiologia. È direttore dell’Unità di epidemiologia dell’Aou Città della salute e della scienza, nonché coordinatore del Cpo Piemonte e codirettore dell’European educational programme in epidemiology.

Quali sono i passi fondamentali per tradurre la ricerca in interventi di prevenzione e promozione della salute più efficaci e personalizzati, considerando le specificità individuali e i contesti sociali?

Un approccio personalizzato, o stratificato, non è necessariamente in contrasto con approcci di popolazione. Ritengo, anzi, che ci siano ampie possibilità di integrazione. Prendo a prestito l’esempio della gestione clinica del tumore della prostata, su cui stiamo lavorando nell’ambito di progetti supportati dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro. La diffusione dello screening opportunistico per tumore della prostata tramite test del Psa si traduce in un numero rilevante di diagnosi di malattia in fase iniziale e potenzialmente indolente. In questo contesto, è fondamentale che la diagnosi venga seguita da una valutazione individuale del rischio di progressione metastatica. Questo permetterà di selezionare i pazienti a cui proporre la sorveglianza attiva, limitando così gli effetti collaterali a breve e lungo termine del trattamento radicale. Lo screening (opportunistico) è un intervento di popolazione, anche se può a sua volta essere personalizzato; il trattamento, in questo caso, viene definito in base al rischio stimato per il singolo paziente. È importante sottolineare che gli elementi del modello predittivo possono comprendere sia caratteristiche individuali, come quelle cliniche e molecolari della malattia, sia fattori generali, come il contesto socioeconomico. A mio parere, questa rappresenta una strada per tradurre i risultati della ricerca in interventi concreti: l’integrazione tra i diversi approcci, il coinvolgimento del personale sanitario – così come dei pazienti e della popolazione – già in fase di pianificazione e conduzione della ricerca, e la definizione di un chiaro razionale che giustifichi l’intervento sono aspetti cruciali.

L’integrazione tra i diversi approcci, il coinvolgimento del personale sanitario –così come dei pazienti e della popolazione – già in fase di pianificazione e conduzione della ricerca, e la definizione di un chiaro razionale che giustifichi l’intervento sono aspetti cruciali.

Su cosa si basa l’approccio epidemiologico life course e come è possibile integrarlo nelle politiche sanitarie per prevenire le malattie croniche?

L’approccio epidemiologico life course consiste nel focalizzarsi sulle traiettorie di salute considerando tutto l’arco della vita delle persone, dal concepimento in avanti. Nonostante la sua complessità, questo approccio amplia notevolmente le opportunità di prevenzione e promozione della salute.

Per esempio, in un recente studio condotto su coorti di nuovi nati in 11 città europee, tra cui Torino, abbiamo osservato che la posizione socioeconomica, misurata come reddito familiare o istruzione materna, era associata nei bambini in età prescolare a esposizioni che possono influire sulla salute lungo tutto il corso della vita. Tra queste esposizio-

ni, figurano una maggiore probabilità di esposizione al fumo passivo, una dieta meno sana e un maggiore livello di sedentarietà. Il progetto europeo Stage (Stay healthy through aging), avviato nel 2024, ha l’obiettivo di promuovere un approccio life course per la prevenzione della multimorbidità, sia a livello personalizzato che di popolazione, lungo tutto il corso della vita, al fine di favorire una crescita ottimale e un invecchiamento in salute. Il progetto coinvolge coorti di persone di tutte le età, dai bambini agli anziani, in diversi paesi europei. La sfida consiste nell’integrare le diverse opportunità di prevenzione per aumentarne l’efficacia, coinvolgendo l’intera popolazione. Il progetto mira a coinvolgere i decisori politici, i cittadini e gli addetti ai lavori. Ritengo che, per integrare l’approccio life course nelle politiche sanitarie, un primo passo sia lavorare per aumentare la conoscenza di questo approccio. È fondamentale sensibilizzare la comunità scientifica, i cittadini e i decisori politici.

Per integrare l’approccio life course nelle politiche sanitarie, un primo passo ritengo sia lavorare per aumentare la conoscenza di questo approccio. È fondamentale sensibilizzare la comunità scientifica, i cittadini e i decisori politici.

Quali sono le maggiori sfide per gli studi di coorte e di popolazione?

Gli studi di coorte di popolazione, come quelli coinvolti nel progetto Stage, sono strumenti fondamentali per l’epidemiologia del life course. La principale sfida riguarda la disponibilità di questi studi, che implica l’avvio di nuove coorti, il mantenimento di quelle esistenti e l’integrazione dei vari studi tra loro. Inoltre, è fondamentale seguire nel tempo i partecipanti alle coorti il più a lungo possibile, contattandoli periodicamente e integrando i dati raccolti con quelli provenienti da database sanitari e amministrativi, tralasciando in questa sede le problematiche relative alla privacy. Seguire nel tempo le coorti significa raccogliere dati durante tutto il follow-up, per studiare efficacemente gli effetti dell’esposoma. Quest’ultimo comprende la totalità delle esposizioni legate all’ambiente esterno di contesto, all’ambiente esterno specifico della persona (compresi gli stili di vita) e all’ambiente interno, caratterizzato da alterazioni molecolari. Esiste anche una sfida legata all’acquisizione e alla gestione delle risorse necessarie per condurre studi di questa complessità. A volte, sono proprio questi dettagli a determinare il successo o il fallimento delle coorti di popolazione. Ad esempio, nella coorte di nuovi nati Ninfea, stiamo iniziando in questi mesi il follow-up dei partecipanti che hanno raggiunto i diciannove anni. Questo comporta il passaggio da un follow-up basato sulle donne che avevano preso parte allo studio fin dalla gravidanza a un contatto diretto con i bambini e le bambine che hanno appena raggiunto l’età adulta. Si tratta di un passaggio delicato, il cui esito rimane ancora incerto, e che rappresenta una sfida significativa per il proseguimento dello studio.

A cura di Giada Savini

Oncologia al bivio, tra individuo e collettività

Dalla salute collettiva all’innovazione: progresso e diseguaglianze

L’oncologia di oggi è a un bivio cruciale: il progresso scientifico si scontra con la sostenibilità economica, l’equità di accesso e le politiche sanitarie globali. Da un lato, la medicina di precisione rivoluziona le cure con terapie su misura, farmaci a bersaglio molecolare e immunoterapia avanzata. Dall’altro, la medicina di popolazione dimostra che il principale strumento di controllo della malattia resta la prevenzione, lo screening e l’accesso equo alle cure essenziali. Ma il progresso è davvero tale se non è accessibile a tutti? Stiamo costruendo un sistema più efficace o stiamo, inconsapevolmente, alimentando una sanità sempre più frammentata, in cui le decisioni politiche e i modelli economici rafforzano il divario tra chi può curarsi e chi no?

L’era dell’one-size-fits-all oncology, in cui tutti i pazienti ricevevano lo stesso trattamento, è ormai superata. Il sequenziamento genomico ha aperto la strada a terapie mirate, rivoluzionando la gestione di tumori un tempo intrattabili, dal carcinoma polmonare alle neoplasie ematologiche. Tuttavia, questo straordinario progresso ha un costo economico e sociale difficile da ignorare. Quando un singolo trattamento può superare il mezzo milione di euro, la domanda diventa inevitabile: siamo ancora di fronte a un avanzamento della medicina o a un privilegio riservato a pochi? Il rischio è ampliare il divario tra chi può accedere a queste cure e chi ne è escluso, lasciando intere fasce di popolazione relegate a trattamenti standard sempre meno adeguati.

ciale applicata alla diagnostica oncologica, e al tempo stesso milioni di donne non hanno accesso a un semplice test di screening per il tumore della cervice uterina, per non parlare del vaccino. La questione non è solo etica, ma profondamente pragmatica: possiamo permetterci un sistema sanitario in cui il progresso scientifico non si traduce in benefici per l’intera collettività? O è necessario ridefinire il concetto stesso di innovazione affinché includa soluzioni realmente efficaci non solo per una ristretta élite, ma per l’intera popolazione globale?

A complicare ulteriormente il quadro è il ruolo delle politiche sanitarie internazionali, spesso condizionate da interessi economici e logiche geopolitiche piuttosto che da un’autentica volontà di equità sanitaria. I meccanismi di brevetto e proprietà intellettuale sui farmaci oncologici limitano la produzione di versioni generiche accessibili, mantenendo i costi delle terapie personalizzate fuori dalla portata della maggior parte dei sistemi sanitari pubblici. Le politiche di prezzo imposte dalle grandi case farmaceutiche e le negoziazioni con i governi determinano chi avrà accesso alle cure più innovative e chi ne sarà escluso. Inoltre, la distribuzione iniqua delle risorse sanitarie e la dipendenza di molti paesi da aiuti internazionali condizionano la capacità di garantire cure oncologiche efficaci, rendendo le popolazioni più vulnerabili ostaggio di decisioni prese altrove.

Si sostiene spesso che il futuro dell’oncologia risieda nell’iper-specializzazione, che il costo delle terapie avanzate si ridurrà nel tempo e che la personalizzazione delle cure sia un diritto inalienabile del paziente. Tuttavia, questa visione ignora una realtà scomoda: ogni investimento in una terapia iper-specialistica rappresenta una scelta che sottrae risorse a strategie di prevenzione e diagnosi precoce, gli unici strumenti realmente capaci di ridurre l’incidenza del cancro su larga scala. Se l’obiettivo è migliorare la sopravvivenza globale, non possiamo permetterci di trascurare le fondamenta della salute pubblica per inseguire soluzioni che, per quanto straordinarie, rischiano di rimanere inaccessibili alla maggioranza.

Raffaele Giusti

è medico specialista in oncologia medica presso l’Azienda ospedaliero universitaria Sant’Andrea di Roma.

Parallelamente, la medicina di popolazione pone una sfida silenziosa ma ineludibile: mentre si investono risorse sempre più ingenti in terapie di estrema sofisticazione, si trascurano strategie semplici e universalmente applicabili che potrebbero salvare molte più vite con investimenti di gran lunga inferiori. Screening oncologici diffusi, riduzione dei fattori di rischio ambientali e stili di vita salutari, accesso garantito ai farmaci essenziali e alla chirurgia oncologica sono interventi che hanno già dimostrato un impatto significativo sulla riduzione della mortalità. Eppure, il finanziamento della ricerca e delle politiche sanitarie continua a privilegiare trattamenti d’élite, lasciando milioni di pazienti senza accesso alle cure basilari. L’innovazione, se non accompagnata da strategie di accessibilità, rischia di trasformarsi da promessa di progresso a strumento di esclusione. Il paradosso è evidente e inquietante. Da un lato, miliardi vengono investiti nello sviluppo di terapie genomiche rivoluzionarie, mentre nei Paesi a basso e medio reddito il cancro continua a essere una condanna non per l’assenza di trattamenti avanzati, ma per la mancanza di antibiotici, antidolorifici e cure essenziali. Celebriamo i progressi dell’intelligenza artifi-

Se l’obiettivo è migliorare la sopravvivenza globale, non possiamo permetterci di trascurare le fondamenta della salute pubblica per inseguire soluzioni che, per quanto straordinarie, rischiano di rimanere inaccessibili alla maggioranza.

Il vero interrogativo, dunque, non è se la medicina di precisione rappresenti il futuro, ma se lo sarà per tutti o solo per pochi. Senza un’integrazione tra innovazione e accessibilità, rischiamo di creare un sistema sanitario duale, in cui le frontiere della biotecnologia sono riservate a un’élite mentre la maggioranza continua a morire per la mancanza di cure basilari. Il problema non risiede nella scienza, ma nel modello economico che la governa e nelle scelte politiche che determinano l’allocazione delle risorse sanitarie su scala globale. Senza un cambiamento radicale nella gestione della ricerca, delle politiche sanitarie internazionali e dei modelli di pricing farmaceutico, l’oncologia del XXI secolo potrebbe non essere ricordata per aver sconfitto il cancro, ma per averlo trasformato in uno strumento di selezione sociale su scala planetaria.

Medicina

“individuale”: tra etica, ragione e buon senso

Fotios Loupakis, oncologo e ricercatore clinico nel campo dell’innovazione terapeutica, è fondatore della startup 3trees.

Potrebbe

determinarsi un

contrasto

tra

medicina individuale e medicina di popolazione qualora la prima dovesse assorbire un’eccessiva quantità di risorse? A confronto il punto di vista di Raffaele Giusti, oncologo

medico, e Fotios Loupakis, oncologo imprenditore

L’accesso equo alle cure è il principio fondante, o dovrebbe esserlo almeno in teoria, di pressoché tutti i sistemi sanitari moderni. Equità non significa necessariamente universalità indistinta.

Il nodo della questione è chiaro: non tutti gli interventi terapeutici offrono un beneficio tale da giustificare la loro estensione a tutta la popolazione (entità del beneficio). Così pure la forza delle prove scientifiche a sostegno di alcune terapie o procedure non è tale da giustificare la loro estensione a tutta la popolazione (qualità dell’evidenza). Alcuni trattamenti hanno un effetto significativo su specifici sottogruppi di pazienti, mentre per altri l’efficacia è marginale o incerta.

L’articolo 32 della Costituzione italiana sottolinea che la Repubblica “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Si è molto lontani da un accesso indiscriminato a ogni trattamento esistente, abbiamo invece un fondamentale principio di garanzia delle cure essenziali e realmente efficaci. In un contesto di risorse finite, ciò implica una selezione razionale delle terapie da rendere disponibili sulla base di evidenze scientifiche e del beneficio clinico atteso.

La medicina di precisione ha reso possibile una nuova era della cura, con diagnosi più raffinate e personalizzate e trattamenti mirati che hanno rivoluzionato la prognosi di molte patologie. Tuttavia, questa personalizzazione della cura ha anche costi elevati, sia in termini economici che organizzativi. Il rischio, ovvio, è che una spinta incontrollata verso una medicina “ultra-individuale” porti a un consumo sproporzionato di risorse, sottraendole a interventi di comprovata efficacia per una fascia più ampia di popolazione. È dunque necessario trovare un equilibrio, evitando che il progresso scientifico diventi un privilegio per pochi o che, al contrario, la sua implementazione in larga scala disperda le risorse disponibili senza che poi si abbia un effetto significativo sulla salute pubblica.

Un esempio concreto è rappresentato dai nuovi farmaci oncologici, molti dei quali caratterizzati da costi elevatissimi e benefici clinici modesti (su medie e mediane) in termini di sopravvivenza o qualità della vita. È corretto garantire a tutti l’accesso a trattamenti che offrono un guadagno marginale di poche settimane di vita, magari a fronte di tossicità significative e costi insostenibili?

Certo sarebbe fantastico poter selezionare, sulla base di biomarcatori affidabili, solo quei pazienti che hanno la maggiore probabilità di rispondere positivamente alla terapia. E fin qui sembrerebbe tutto molto facile. Ma che fare quando invece gli agognati biomarcatori

non ci sono ma si sa che il beneficio è ristretto a pochi, pochissimi pazienti, senza che vi siano elementi per poterli identificare a priori?

Da una parte la narrazione secondo cui il diritto alla salute coincide con la disponibilità illimitata di ogni possibile trattamento è insostenibile, sia sul piano pratico che su quello etico. La sostenibilità dei sistemi sanitari richiede scelte oculate: finanziare un farmaco molto costoso con un’efficacia dubbia può significare sottrarre risorse alla prevenzione, alla gestione delle cronicità o al potenziamento dell’assistenza territoriale, con un impatto complessivo negativo sulla salute della popolazione.

Dobbiamo anche accettare che, nel mondo economico occidentale in cui viviamo, non c’è il tutto per tutti e ciò che costa effettivamente troppo a fronte di un beneficio ipotetico e marginale non deve essere negato a priori.

Dall’altra però restano i diritti dei singoli e le loro scelte. E anche qui forse potremmo tornare alla nostra amata Carta, qualche articolo dopo il precedente: articolo 53. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. La Sanità è una spesa pubblica che deve più di ogni altra rispettare questo criterio. Così potremo aiutare a sostenere “l’individualità”. Dopodiché dobbiamo anche accettare che, nel mondo economico occidentale in cui viviamo, non c’è il tutto per tutti e ciò che costa effettivamente troppo a fronte di un beneficio ipotetico e marginale non deve essere negato a priori. Ci sarà chi potrà permetterselo? Pagherà. Ce ne dobbiamo fare una ragione. Non possiamo però blindarci in sistemi d’altri tempi che neghino possibilità a chi ne ha. La sfida è definire i confini e le regole. Oppure continuare a raccontarci storie. Fino al punto che la migrazione per curarsi non sarà più solo un problema di gradiente SudNord ma Italia-Altrove.

CONTRASTI TRA pubblico e PRIVATO

Quali sono le dinamiche che regolano il rapporto tra pubblico e privato nel sistema sanitario italiano?

La survey di Forward, a cui hanno risposto 367 professionisti del settore, con un’età media di 57 anni, principalmente medici, epidemiologi, dirigenti sanitari, infermieri e ricercatori, offre uno spaccato sulle criticità e le opportunità di questa convivenza. Se da un lato la maggioranza (59%) privilegia le strutture pubbliche, dall’altro l’accesso ai servizi è spesso guidato da fattori pratici come i tempi di attesa (19%) e la qualità delle strutture (21%). Oltre due terzi degli intervistati

(63%) ha sperimentato difficoltà nel garantire continuità di cura ai pazienti a causa della frammentazione tra strutture pubbliche e private, con un 28% che segnala questo problema frequentemente. Nel rapporto medico-paziente i maggiori contrasti sono rappresentati dalla mancanza di tempo e dalle difficoltà comunicative. Tra le risposte aperte, i lettori hanno evidenziato la difficoltà nel creare un legame empatico e le barriere emotive e psicologiche che ostacolano la comprensione della terminologia medica. La relazione asimmetrica tra medico e paziente, spesso amplificata

Per usufruire di prestazioni medico-sanitarie, chi o cosa privilegi solitamente?

Strutture del servizio pubblico

Non ho preferenze, scelgo in base a tempi e disponibilità

Strutture private accreditate

Medici specialisti in regime di libera professione

Centri convenzionati con assicurazioni sanitarie

Strutture private

Nel rapporto medico-paziente, quali aspetti pensi creino più contrasti?

Mancanza di tempo dedicato al dialogo

Difficoltà del medico ad avere una visione olistica del paziente

Difficoltà del medico nell’ascoltare il paziente

Difficoltà nel comunicare e capire l’incertezza

Differente percezione della malattia

Mancanza di fiducia nelle competenze del medico

Difficoltà nel confronto tra medico e paziente sulle informazioni trovate online

Difficoltà del paziente nell’ascoltare il medico

da stress, carichi di lavoro e limiti di tempo, resta un nodo centrale. Anche la collaborazione tra ospedali pubblici e aziende private incontra ostacoli significativi. Tra le problematiche emerse vi sono la diversità di obiettivi, la rigidità delle linee guida regionali e le differenti finalità e visioni delle due parti. Per molti, non esiste una risposta univoca: le sfide derivano da una combinazione di fattori che rende complesso il raggiungimento di un equilibrio efficace tra i due sistemi.

Se dovessi scegliere per una prestazione sanitaria nel privato, quale criterio sarebbe per te prioritario?

Competenza del medico

Qualità di servizi e strutture

Tempi di attesa

Possibilità di scegliere il medico e la struttura

Costo della prestazione

Copertura assicurativa

Vicinanza della struttura

Ti è mai capitato di avere difficoltà nel garantire continuità di cura ai tuoi pazienti a causa della frammentazione tra strutture pubbliche e private?

Non saprei/ Non riguarda la mia professione

Sì, qualche volta Sì, frequentemente No, mai

6%

In quali fasi del percorso assistenziale hai riscontrato maggiori difficoltà?

Presa in carico iniziale del paziente 7%

Condivisione delle informazioni cliniche e documentazione sanitaria

Coordinamento tra professionisti di strutture diverse

Continuità tra il ricovero ospedaliero e l’assistenza territoriale/domiciliare

Ti è mai capitato che le differenze tra strutture pubbliche e private abbiano ostacolato l’accesso dei pazienti a farmaci o tecnologie sanitarie innovative?

Sì, qualche volta

Non saprei/ Non riguarda la mia professione Sì, frequentemente No, mai

Accesso a esami diagnostici o trattamenti specifici

Secondo la tua esperienza, in quali aree cliniche i contrasti tra pubblico e privato impattano maggiormente sulla qualità delle cure offerte ai pazienti?

Continuità dell’assistenza tra ospedale e territorio

Diagnostica e accesso tempestivo agli esami

Accesso a farmaci e terapie innovative

Secondo la tua opinione in quali ambiti la collaborazione istituzioni-imprese sanitarie porta maggiori benefici?

Formazione e aggiornamento del personale sanitario 4%Non saprei

Investimenti in infrastrutture sanitarie

Erogazione di servizi di assistenza domiciliare e territoriale

Ricerca e sviluppo di nuove tecnologie mediche e farmaceutiche

Cure palliative e assistenza domiciliare

Non saprei Non riscontro impatti rilevanti

Cosa rende difficile la collaborazione tra ospedali pubblici e aziende private?

Conflitti di interesse

Divergenze strategiche

Mancanza di meccanismi di valutazione condivisi

Difficoltà nella condivisione dei dati

Non saprei

Gestione e ottimizzazione dei servizi sanitari

Pareri medici

contrastanti e alfabetizzazione sanitaria

OPINIONE, PUBBLICA

Quando nel 1956 David Sackett, studente di medicina alla Illinois university, interrogava i suoi tutor durante il giro visite chiedendo loro su che base avessero deciso di prescrivere una certa terapia o un certo provvedimento, si sentiva spesso rispondere: “Perché sì”. Quel “perché sì” poteva essere declinato in molti modi – “perché lo ha detto il medico supervisore di turno, perché è quello che mi hanno insegnato, perché lo dice il libro, perché lo dicono gli esperti, perché abbiamo sempre fatto così” fino ad arrivare a “Non ribattere! Fallo e basta!”1

Molti medici non gradiscono il ricorso a una seconda opinione, intravedendo in questa pratica una sorta di insuccesso professionale nel migliore dei casi, o un’invasione di campo o una lesa maestà nel peggiore.

È storia che Sackett abbia da allora cercato di rispondere a quelle domande, cioè di definire un esercizio della medicina che fosse lontano anni luce dalla torre d’avorio in cui il bias di autorità l’aveva chiusa. In quel contesto medico così paradossalmente antiscientifico, dove contava più chi diceva una cosa rispetto alla validità della cosa stessa, un parere alternativo, una seconda opinione avrebbe messo in discussione un potere verticale che non poteva in alcun modo ammettere l’irriverente capovolgimento gerarchico per cui un giovane studente ricordava ai senior da che parte stesse la scienza. Da allora è passato del tempo, grazie anche a Sackett, la medicina si è un poco (poco) spogliata del bias di autorità, e il

ricorso a un secondo o terzo parere medico da parte di pazienti, ma anche del personale medico, è diventato una prassi in molte circostanze. La richiesta di un’opinione aggiuntiva a colleghe e colleghi è uno strumento medico di uso quotidiano, rapido e informale, con valore orientativo sulla decisione medica finale. È però quando un secondo parere viene richiesto formalmente, da medici o pazienti, spesso per iscritto e con un impatto significativo sulla decisione finale, che si configura la “second opinion” o “seconda opinione” secondo la definizione della letteratura. Il personale medico e le/i pazienti ricercano un secondo parere per ottenere più informazioni o rassicurazioni su diagnosi e terapie, con esiti che vanno dal suggerimento di nuove diagnosi a strategie di cura alternative2. Tuttavia, la letteratura medica sul tema è limitata e poche sono le statistiche di popolazione. Un’eccezione è un’indagine dell’Associazione italiana di oncologia medica (Aiom) del 20233 condotta su 200 oncologhe e oncologi, l’81 per cento dei quali ha dichiarato di aver ricevuto richieste di seconda opinione. Aiom ha anche redatto un decalogo sulla seconda opinione oncologica, il cui primo principio, non a caso, è “siate aperti”. Non è un segreto che molti medici non gradiscano il ricorso a una seconda opinione, intravedendo in questa pratica una sorta di insuccesso professionale nel migliore dei casi, o un’invasione di campo o una lesa maestà nel peggiore. Tuttavia, l’obiettivo della seconda opinione –chiunque la richieda – è per definizione esattamente quello della prima, ovvero arrivare alla diagnosi e al trattamento più corretti per quella o quel paziente. Il metodo scientifico ha alla sua base un processo dinamico di valutazione delle ipotesi e di revisione delle prove: la stessa ipotesi nulla, da cui scaturisce ogni domanda di ricerca, rappresenta una messa in discussione della posizione iniziale, proprio come accade per la seconda opinione. Eppure, le decisioni mediche, in teoria frutto di questo iter, risultano spesso difficili da mettere in discussione perché in molti casi chi le esprime tende a chiudersi al confronto.

La richiesta di una seconda opinione non è sempre opportuna e la seconda opinione in sé può non essere la più giusta o la migliore.

Non dobbiamo però incorrere nell’errore di pensare che un mezzo (la seconda opinione) sia il fine (il percorso di cura più corretto). La richiesta di una seconda opinione non è sempre opportuna e la seconda opinione in sé può non essere la più giusta o la migliore. Per esempio, in uno studio pubblicato nel 2022 sul Jama Dermatology 4 circa 150 dermato-patologi, incaricati di giudicare un set di diapositive con alcuni campioni di biopsia cutanea melanocitica, hanno modificato la diagnosi a seconda dell’opinione della/del collega precedente, ancorando il loro giudizio alla valutazione iniziale (anchoring bias). C’è chi pensa di superare questi bias “umani” attraverso sistemi basati sull’intelligenza artificiale, specializzati come IBM Watson Health, ma anche generalisti come ChatGPT, che ci hanno messo di fronte in tempi recenti a contesti di second opinion completamente nuovi. Come il caso della madre di un bambino statunitense di quattro anni con dolore cronico da causa non chiara, che dopo aver effettuato 17 consulti medici non risolutivi, ha inserito tutte le note cliniche e i risultati delle risonanze del figlio su ChatGPT e ha ottenuto tra gli altri il suggerimento della diagnosi effettiva, rara, cioè la sindrome del midollo ancorato; oppure l’indagine pubblicata a settembre 2024 su BMJ Health Care, secondo cui, in un campione di 1006 medici di medicina generale inglesi, uno su cinque utilizza strumenti di intelligenza artificiale come ChatGPT per attività quotidiane, tra cui la redazione di lettere per i pazienti. I sistemi di intelligenza artificiale sono strumen-

Il decalogo della “seconda opinione” in oncologia

OPINIONE, PUBBLICA

ti il cui valore dipende dall’uso che se ne fa e dalla qualità dei dati attraverso cui il sistema stesso è stato istruito. Sebbene gli studi sull’impiego dell’intelligenza artificiale per la diagnosi e la terapia siano ancora preliminari e si concentrino su indicatori indiretti (come la diagnosi corretta) piuttosto che sugli esiti clinici, diversi risultati suggeriscono che il supporto di questi sistemi potrebbe migliorare in molti casi l’accuratezza diagnostica rispetto alla diagnosi solo umana5. Tuttavia, questi stessi sistemi non sono esenti da errori sistematici o bias, come la falsa conferma6 di precedenti diagnosi scorrette di umani (che riproduce lo stesso anchoring bias di cui sopra), e possono contenere pregiudizi5,7 legati a genere, etnia, ceto sociale e interessi economici, influenzando le seconde opinioni in modo imprevedibile e potenzialmente dannoso.

L’elemento che permette di differenziare un parere medico informato dal cosiddetto “cuginismo” sono le migliori prove scientifiche a disposizione.

Per la filosofa Hanna Arendt, l’opinione (prima o seconda che sia) è un esercizio di potere, che per essere legittimo deve essere disinteressato e fondato su elementi esterni rispetto alla sola soggettività, in una chiara presa di distanza dall’analfabetismo funzionale per cui pensiamo che tutto sia riferibile alle nostre – sempre limitate – esperienze personali. Nel nostro caso, l’elemento che permette di differenziare un parere medico informato dal cosiddetto “cuginismo” sono le migliori prove scientifiche a disposizione. In altre parole, la seconda opinione non è migliore in sé e per sé o perché viene dopo la prima o perché la esprime un sistema di

intelligenza artificiale, perché questo presupporrebbe ricadere nello stesso bias di autorità o di ancoraggio o di innovazione da cui vogliamo fuggire. Un’opinione medica, a prescindere dal numero ordinale, è valida solo se ha una base corretta. Ma non è tutto. L’opinione (medica) viene espressa in un contesto di relazione (personale medico/pazienti) in cui si presuppone siano anche le persone a parlare e non solo, di nuovo, gli esperti. Nel momento in cui citiamo espressioni come “paziente al centro del percorso di cura”, “cittadinanza sanitaria attiva”, “cittadine/i partecipi di decisioni sanitarie informate”, forse ci dimentichiamo di un contrasto sicuramente più sconfortante di due pareri medici in conflitto, ovvero che al momento attuale i dati di alfabetizzazione sanitaria italiana e europea8,9 rendono la partecipazione di cittadine e cittadini alle loro decisioni di salute semplicemente poco o per niente praticabile se non per una esigua élite di persone. Senza strumenti critici, più pareri medici possono aumentare la confusione invece di risolverla. Se invece la cittadinanza padroneggiasse concetti di alfabetizzazione sanitaria, l’opinione diventerebbe pubblica, ovvero comprensibile e discutibile tra personale sanitario e pazienti, nell’ottica di prendere decisioni sulla salute più informate e consapevoli, al riparo dal “perché sì”.

Se la cittadinanza padroneggiasse concetti di alfabetizzazione sanitaria, l’opinione diventerebbe pubblica, ovvero comprensibile e discutibile tra personale sanitario e pazienti.

1. Sackett D, Haynes RB, Goodman SN. An interview with David Sackett, 2014–2015. Clin Trials 2015;12:540-51.

2. Burger PM, Westerink J, Vrijsen BEL. Outcomes of second opinions in general internal medicine. PLoS One 2020;15:e0236048.

3. Tumori: 8 oncologi su 10 forniscono ad un collega una “second opinion” e il 47% dei pazienti informa il medico curante solo dopo la consulenza. Aiom.it, 15 settembre 2023.

4. Elmore JG, Eguchi MM, Barnhill RL, et al. Effect of prior diagnoses on dermatopathologists’ interpretations of melanocytic lesions: a randomized controlled trial. JAMA Dermatology 2022;158:1040-7.

5. Jabbour S, Fouhey D, Shepard S, et al. Measuring the impact of AI in the diagnosis of hospitalized patients: a randomized clinical vignette survey study. JAMA 2023;330:2275-84.

6. Rosenbacke R, Melhus Å, McKee M, et al. AI and XAI second opinion: the danger of false confirmation in human–AI collaboration. J Med Ethics 2024:jme-2024-110074.

7. Omiye JA, Lester JC, Spichak S, et al. Large language model propagate race-based medicine. NPJ Digit Med 2023;6:195.

8. Palumbo R, Annarumma C, Adinolfi P, et al. The Italian Health Literacy Project: insights from the assessment of health literacy skills in Italy. Health Policy 2016;120:1087-94.

9. Rosano A, Lorini C, Unim B, et al. Coronavirus-related health literacy: a cross-sectional study during the covid-19 pandemic in Italy. Int J Environ Res Public Health 2022;19:3807.

Camilla Aderighi, cardiologa al Poliambulatorio della Misericordia di Sesto Fiorentino, Firenze, fa parte del gruppo “Informed Health Choices” e del consiglio direttivo dell’Associazione Alessandro Liberati - Centro Affiliato al Cochrane Italia.

privato e pubblico

UNO

La prima cosa che mi colpisce guardando il verbale è il numero di medici del reparto, elencati nel frontespizio, fossimo anche solo un quarto da noi andrebbe benone. Poi le solite sigle di stadiazione, le immunoterapie sperimentali dai nomi esotici, i protocolli di terapia eroici. Alzo lo sguardo e Armando boccheggia, è semicosciente, pallido, sudato ipoteso, tachicardico, soffocato dalle secrezioni. Non ci vuole un clinico esperto per capire come finirà, quando e dove, cioè qui a breve. Quando è la fine capita spesso che ci siamo NOI, perché secondo la struttura mirabolante e di eccellenza piena di colleghi eccellenti (mica come noi straccioni) Armando aveva un day hospital programmato per un altro ciclo di chemioterapia tra un mese.

DUE

Vittorio Fontana, medico geriatra, lavora al Pronto soccorso dell’Ospedale Bassini di Cinisello Balsamo. È autore del libro “Di verità solo l’ombra. Storie di sanità pubblica”.

Stento a crederci. Invece noi ci siamo ora, alla fine. Ed è qui e ora che serve. C’è da andarne orgogliosi comunque. Siamo un pronto soccorso pubblico: scarso appeal, pessime recensioni, caos, disordine, siamo vestiti male, brutti perfino (e parlo per me). Iniziamo a dare una mano, bronco aspiriamo, prepariamo una palliazione per controllare il dolore, le secrezioni eccessive, la mancanza di fiato. Anche se non l’abbiamo ancora allestiamo una “stanza del sollievo”, più tranquilla, silenziosa, riparata. Silenziamo gli allarmi e cerchiamo di dar meno fastidio possibile ad Armando e a Lia, la moglie che lo accompagna e gli tiene la mano. Ci prepariamo con lei all’inevitabile nei pochi minuti in cui incrociamo le loro vite che si separano. Quando Armando se ne va, Lia ci ringrazia.

Lo hanno dimesso dal pronto soccorso della struttura privata con due impegnative per due visite di controllo da fare da noi naturalmente che siamo Pubblico. Da fare quando? Hanno sentito parlare delle liste d’attesa? e chi ce lo porta a queste benedette visite? Intuisco che la risposta sia stata “ma chissenefrega”. Lui è indigente, è in pessime condizioni generali: è diabetico con le ulcere ai piedi e una bella sepsi. L’assistente sociale che lo segue a casa mi chiede se lo ricovereremo, certo che sì che altro dovremmo fare? Eppure quelli sono accreditati con il Servizio sanitario nazionale (ricevono fondi pubblici forse più di noi da queste parti) ma i casi sociali NO, loro non li ricoverano, gli mettono in mano due impegnative e li mandano a casa. Tanto che le ambulanze di solito neanche glieli portano, fanno selezione in anticipo. Poi qualcuno parlava di concorrenza pubblico/privato. Ma che razza di concorrenza è? Sleale è la parola giusta? Giuseppe in reparto mi dice che siamo pieni di casi sociali, difficili da dimettere, li chiamano “bed blocker” perché

l’inglese è sempre più figo quando si parla di management. Io lo immagino come un vecchietto che si lega alle spondine da solo per non farsi dimettere. Questo genera il boarding di pronto soccorso (teloqui che torna l’inglese) che adesso è diventato nemico pubblico numero uno, ma poi, sono sicuro, passerà di moda. Comunque, ora va combattuto con tutti i mezzi disponibili. Ma come? Ci hanno ridotto i letti per acuti, vogliono la piena occupazione dei letti, quindi vogliono che li facciamo ruotare molto velocemente come un tempo volevano drg remunerativi (i drg, diagnosis related group, sono uno strumento su cui si basa la remunerazione delle prestazioni ospedaliere, ndr). Se non si raggiungono gli obbiettivi di budget minacciano ulteriori chiusure, accorpamenti, smembramenti, fallimenti fino al sacrificio umano. Siamo continuamente sotto ricatto di direttive di management che negli anni hanno prodotto solo evidenti peggioramenti. Noi contiamo nulla, siamo working class senza potere e pure senza coscienza di classe. Peggio di così.

Il modello di EMERGENCY in Italia

Tra diritti, bisogni e prossimità

Intervista a Michele Iacoviello

A Marghera è attivo un ambulatorio di Emergency per offrire cure gratuite a chi non ha accesso al Servizio sanitario nazionale (Ssn), come migranti e senza fissa dimora. Come è nato questo ambulatorio e come è evoluto il vostro intervento?

L’ambulatorio di Marghera fa parte di Programma Italia, un progetto di Emergency nato per offrire cure gratuite di base nel Paese e per facilitare l’accesso al Ssn a chi ne ha bisogno. Dal 2006 a oggi, oltre a Marghera, abbiamo attivato altre strutture: una clinica mobile a Milano, uno sportello di orientamento a Brescia, ambulatori a Sassari, Castelvolturno, Napoli, Polistena e una clinica mobile che copre la fascia trasformata ragusana, da Ragusa a Gela. Quindi attualmente siamo presenti in sei regioni: Lombardia, Veneto, Sardegna, Campania, Calabria e Sicilia. L’apertura di un ambulatorio parte sempre da una valutazione del territorio per capire come rispondere in modo più efficace ai bisogni della popolazione. Nello specifico l’ambulatorio di Marghera è stato aperto nel 2010 a seguito della crisi economica e dell’impatto su molti lavoratori migranti impiegati nei cantieri. In altri casi, come Castelvolturno e Polistena, gli ambulatori sono nati dopo interventi delle cliniche mobili nate nel 2011 per seguire il percorso

Michele Iacoviello

è socio di Emergency e vicedirettore di Programma Italia oltre che responsabile della mediazione culturale sui progetti dell’associazione nel Paese.

dei migranti all’interno del territorio nazionale, adattandosi alla stagionalità dei prodotti agricoli, e che ci hanno permesso di rilevare bisogni sanitari persistenti nelle comunità locali. Nel caso specifico di Polistena, ci siamo resi conto che il disagio non era legato solo alla presenza stagionale dei migranti, ma che esistevano comunità stanziali in condizioni di degrado e disagio. Quindi invece di proseguire con la clinica mobile, abbiamo scelto di stabilire una struttura fissa. Grazie alla collaborazione con Libera e altre organizzazioni antimafia del territorio, abbiamo ottenuto un piano di un edificio confiscato a una ’ndrina locale. Questo conferisce al progetto un forte valore di rinascita: oltre all’ambulatorio, la struttura ospita attività di doposcuola per bambini e altre iniziative sociali. L’ambulatorio di Polistena rappresenta un riscatto per la città, segnata da conflitti tra clan. A Brescia, abbiamo valutato il problema principale, che era la difficoltà di accesso ai servizi esistenti per migliaia di migranti, quindi abbiamo istituito uno sportello di orientamento socio-sanitario piuttosto che un ambulatorio. A Milano, oltre alla clinica mobile, abbiamo aperto uno sportello di ascolto psicologico presso la nostra sede, poiché era logisticamente difficile garantire la presenza simultanea di medici, infermieri, psicologi, mediatori e operatori sociali nella clinica mobile.

Emergency in Italia

84.794

prestazioni offerte con ambulatori mobili dal 2011

481.413

prestazioni offerte dal 2006

Come diceva Gino Strada “la prima visita non si nega a nessuno”. Accogliamo chiunque entri nelle nostre strutture, ascoltiamo la sua richiesta e, se necessario, lo visitiamo.

L’ambulatorio di Marghera

97.180

prestazioni offerte dal 2010

20

volontari dello staff

Il nostro

obiettivo è

sempre stato dimostrare che la medicina di prossimità riduce i costi del Ssn, fungendo da filtro per i bisogni sanitari ed evitando il ricorso

improprio ai

Pronto soccorso.

Chi può accedere ai vostri ambulatori?

Come diceva Gino Strada “la prima visita non si nega a nessuno”. Accogliamo chiunque entri nelle nostre strutture, ascoltiamo la sua richiesta e, se necessario, lo visitiamo. In seguito, orientiamo i pazienti verso i servizi territoriali. Il nostro orario esteso, dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 18, permette di rispondere a chi non trova assistenza dal proprio medico curante o necessita di monitoraggi frequenti, come nel caso di pazienti cronici o di pazienti ipertesi. Negli anni, il target dell’ambulatorio di Marghera è cambiato. Se inizialmente le nostre prestazioni erano rivolte principalmente a cittadini migranti, oggi, anche grazie alle attività specialistiche che offriamo, una percentuale crescente di pazienti è italiana. Nel 2024, circa il 6 per cento dei pazienti era italiano. Qui offriamo medicina di base, supporto psicologico e odontoiatria sociale, oltre alla mediazione culturale, fondamentale per superare barriere linguistiche e burocratiche e orientare i pazienti nel Ssn.

In un certo qual modo Emergency sembra supplire alle carenze della sanità pubblica. È possibile trasformare questo apparente “contrasto” in un’alleanza virtuosa tra istituzioni, terzo settore e sanità pubblica?

Il vero contrasto non è tra sanità pubblica e terzo settore, ma tra la normativa e la sua appli-

L’ambulatorio di Sassari

24.595

prestazioni offerte dal 2012

cazione. L’articolo 32 della Costituzione garantisce le cure gratuite a tutti, senza distinzione giuridica o amministrativa, ma la mancanza di servizi e mediazione culturale crea un vuoto che il terzo settore cerca di colmare. La nostra sanità pubblica è regionalizzata, e questo crea grandi differenze nell’accesso ai servizi. La principale patologia che affrontiamo in Italia è la burocrazia: il problema più grande è l’ottenimento dei requisiti amministrativi per iscriversi alla medicina generale. Per questo i nostri mediatori culturali non sono solo traduttori ma figure competenti in ambito amministrativo e legale, formati per seguire i pazienti nell’intero iter di accesso al Ssn. Rispetto alla sanità pubblica noi siamo avvantaggiati da una maggiore flessibilità: possiamo attivare rapidamente un servizio e offrire ambulatori grandi, accoglienti e ben attrezzati, mentre il sistema pubblico ha procedure più complesse. In alcune Regioni collaboriamo con le aziende sanitarie locali attraverso protocolli d’intesa. A Napoli e in Sicilia, per esempio, abbiamo inserito personale del Ssn nei nostri ambulatori, affiancato dai nostri mediatori culturali. A Marghera, invece, molte delle prestazioni odontoiatriche sono richieste da pazienti italiani, a causa delle restrizioni regionali sull’accesso alle cure dentali. La normativa del Veneto è più rigida rispetto ad altre Regioni, impedendo l’accesso alle cure odontoiatriche a chi non ha la residenza o non si trova in condizioni di particolare indigenza. Questo esclude molti senza fissa dimora, anche italiani, da qualsiasi tipo di prestazione odontoiatrica, che si tratti di un’estrazione o di una terapia antibiotica per un’infezione. Nelle nostre sale d’attesa è comune vedere pazienti italiani e

migranti senza permesso di soggiorno, seduti fianco a fianco, in un contesto di condivisione e integrazione. Questo dimostra come, di fronte alla malattia, le differenze e i contrasti si annullino – e questo è un aspetto molto significativo del nostro lavoro.

Per concludere, quale direzione immaginate per il futuro e cosa vi spinge a percorrerla?

Il nostro obiettivo è sempre stato dimostrare che la medicina di prossimità riduce i costi del Ssn, fungendo da filtro per i bisogni sanitari ed evitando il ricorso improprio ai Pronto soccorso. Vogliamo coinvolgere sempre più le aziende sanitarie della sanità pubblica e dimostrare l’efficacia di una medicina di prossimità e di una medicina transculturale. L’idea è che queste strutture diventino un punto di riferimento stabile per la comunità e vengano gradualmente assorbite nel sistema pubblico. Quindi lo scopo finale è diventare “inutili”, ovvero lasciare strutture integrate nel pubblico per una sanità accessibile a tutti. È un processo lungo, ma grazie alla credibilità costruita negli anni, sempre più aziende sanitarie ci riconoscono come interlocutori affidabili per migliorare il Ssn.

A cura di Laura Tonon

L’ambulatorio di Castelvolturno

72.713

prestazioni offerte dal 2015

RI-innovare LE cure ANESTESIOLOGICHE e

INTENSIVE

Tra innovazione e disuguaglianze

Nel campo dell’anestesia, della rianimazione e della terapia intensiva e del dolore, il concetto di contrasto assume una connotazione peculiare. Se da un punto di vista strettamente clinico la nostra disciplina si caratterizza per un’azione tempestiva e mirata su eventi acuti, il vero contrasto oggi si manifesta sul piano sociale e organizzativo, nell’equilibrio tra progresso tecnologico e accessibilità alle cure.

Elena Giovanna Bignami, direttrice della Uoc 2 Anestesia e rianimazione e terapia antalgica dell’Aou di Parma e della Scuola di specializzazione in anestesia rianimazione e terapia intensiva e del dolore dell’Università di Parma, è stata eletta presidente della Siiarti per il triennio 20252027.

Ladigitalizzazione e la telemedicina potrebbero rappresentare un vantaggio significativo per le diverse tipologie di pazienti che la nostra specialità si trova a gestire. Per esempio, esse consentono una gestione più efficiente delle valutazioni pre- e post-operatorie tra casa e ospedale. Allo stesso modo, in terapia intensiva, l’uso della telemedicina potrebbe rivelarsi determinante nella gestione di pazienti con gravi infezioni e necessità di alto contenimento, riducendo il rischio di diffusione di agenti patogeni. Inoltre, potrebbe facilitare la dimissione precoce di alcuni pazienti dalla terapia intensiva, compensando la carenza di posti letto e permettendo una redistribuzione più efficace delle risorse. Le nuove tecnologie offrono anche opportunità importanti nei percorsi di umanizzazione delle cure e nel campo della terapia del dolore e delle cure palliative, migliorando il monitoraggio e l’assistenza ai pazienti più fragili. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza pone al centro concetti fondamentali come “digitalizzazione” e “trasferimento tecnologico”, principi che accogliamo con grande favore. Ma è anche vero che se da un lato l’introduzione di nuove tecnologie – dall’intelligenza artificiale alla digitalizzazione, fino alla telemedicina – rappresenta un’opportunità straordinaria per migliorare la qualità dell’assistenza sanitaria, dall’altro è concreto il rischio che, nella pratica quotidiana, questo sviluppo possa acuire le disuguaglianze. Non tutti i pazienti, infatti, possono accedere in egual misura a questi strumenti, sia per motivi socio-economici sia per carenze infrastrutturali e formative. Uno degli aspetti più critici è la possibilità che si creino pazienti di serie A e di serie B: quelli che possono beneficiare appieno dell’innovazione e quelli che, per mancanza di supporto tecnologico e/o per mancanza di un caregiver competente, ne restano esclusi. La disparità non riguarda solo i pazienti, ma anche gli operatori sanitari, che si trovano a dover gestire competenze sempre più diversificate. Lo stesso vale per le realtà ospedaliere: strutture più avanzate e meglio finanziate possono integrare le nuove tecnologie con maggiore facilità rispetto a quelle meno attrezzate, aumentando così il divario territoriale nell’erogazione delle cure.

Il nostro impegno, come Società italiana di anestesia, rianimazione e terapia intensiva – Siaarti, è quello di colmare queste lacune attraverso la formazione mirata del personale sanitario che consenta ai giovani specialisti di acquisire competenze solide per l’utilizzo delle nuove tecnologie, senza compromettere la qualità e la sicurezza delle cure. Abbiamo identificato quattro profili di giovani medici con diverse competenze tecnologiche e cliniche, su cui costruire percorsi di aggiornamento specifici per capire quali sono gli strumenti di intelligenza artificiale (e non solo) migliori da usare e quando, in che modo e con che limiti. Al contempo, è essenziale ridurre i divari tra le strutture sanitarie, affinché l’innovazione sia garantita su tutto il territorio e non prerogativa dei grandi centri, diventando un privilegio per pochi. Per raggiungere questi traguardi, il coinvolgimento delle istituzioni è imprescindibile. Stiamo collaborando con l’Istituto superiore di sanità e le commissioni parlamentari per definire standard minimi e linee guida sui percorsi formativi degli anestesisti rianimatori al fine di assicurare un’implementazione equa delle nuove tecnologie su tutto il territorio nazionale. Inoltre, solo con un’azione coordinata tra società scientifiche, professionisti e decisori politici potremo evitare che la rivoluzione digitale crei nuove fratture nel sistema sanitario.

La sfida è aperta: trasformare il potenziale contrasto tra tecnologia e accessibilità in un’opportunità per costruire un sistema sanitario più equo e sostenibile.

A ciò si aggiunge il tema della sostenibilità ambientale delle nuove tecnologie, un aspetto cruciale che non possiamo ignorare. Pertanto la medicina del futuro deve essere innovativa, ma anche inclusiva e sostenibile. È nostro dovere garantire che ogni paziente, ogni medico e ogni struttura beneficino dei progressi scientifici e tecnologici. La sfida è aperta: trasformare il potenziale contrasto tra tecnologia e accessibilità in un’opportunità per costruire un sistema sanitario più equo e sostenibile.

Massimo Sartelli, chirurgo, lavora all’Ospedale di Macerata. È presidente della Società italiana per la prevenzione delle infezioni nelle organizzazioni sanitarie – Simpios, è fondatore e direttore ad interim della Global alliance for infections in surgery.

Lecomplicanze infettive rappresentano un rischio significativo per la sicurezza del paziente, con un impatto clinico ed economico elevato, ma in parte prevenibile mediante misure efficaci. Le infezioni correlate all’assistenza (Ica), tra cui infezioni del sito chirurgico, batteriemie, polmoniti e infezioni urinarie, sono comuni nei pazienti ricoverati. Una parte delle Ica è prevenibile e, pertanto, tali infezioni possono essere considerate un importante indicatore della qualità dell’assistenza erogata ai pazienti. Una metanalisi del 2018 ha evidenziato che interventi multimodali di prevenzione possono ridurre i tassi di Ica tra il 35 per cento e il 55 per cento, indipendentemente dal reddito del Paese.

La crescente resistenza batterica, con il diffondersi di ceppi multiresistenti tra cui Staphylococcus aureus meticillino-resistente e Enterococcus vancomicinoresistente, rende ancora più cruciale il controllo di queste infezioni.

Uno dei punti cruciali per il contrasto alle Ica è l’applicazione delle buone pratiche basate sulle evidenze, secondo un programma integrato che deve essere adattato a ogni ambito assistenziale. Tuttavia, nonostante le numerose linee guida per la prevenzione delle Ica e le solide evidenze scientifiche disponibili, l’aderenza alle raccomandazioni è frequentemente sub-ottimale. Esiste un ampio contrasto tra le linee guida e la loro applicazione nella pratica clinica quotidiana. La sfida di superare gli ostacoli all’implementazione delle linee guida è stata oggetto di ampio dibattito, con interventi di implementazione che possono favorire la conformità. È fondamentale comprendere i fattori contestuali e culturali che ostacolano l’adozione delle pratiche di prevenzione e controllo delle infezioni (Ipc, dall’inglese “In-

fection prevention and control”). Sebbene i sanitari debbano possedere le competenze necessarie per applicare l’Ipc, l’ambiente organizzativo spesso presenta risorse insufficienti e richieste sovrapposte, mentre l’Ipc è percepito come marginale rispetto ad altri compiti clinici. Inoltre, la resistenza al cambiamento e il radicamento di pratiche consolidate impediscono l’adozione di nuove evidenze, nonostante i sanitari riconoscano l’importanza delle linee guida, creando così una dissonanza cognitiva.

La strategia dell’Oms

Le buone pratiche per la prevenzione e il controllo delle infezioni sono fondamentali per la sicurezza sanitaria e dovrebbero essere adottati in ogni struttura con l’obiettivo di contrastare le Ica e l’antimicrobico-resistenza. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) raccomanda un approccio multimodale per il successo di programmi dedicati al contrasto dell’infezioni, combinando diversi metodi per modificare il comportamento dei sanitari, migliorare gli esiti clinici e favorire un cambiamento culturale e organizzativo. La strategia per implementare le linee guida nella pratica clinica si articola in cinque fasi: cambiamento del sistema, formazione del personale, monitoraggio con feedback, promozione tramite comunicazione e creazione di una cultura della sicurezza (figura 1). Nel 2016, l’Oms ha pubblicato le raccomandazioni basate sull’evidenza che definiscono le otto componenti dei programmi di Ipc (figura 2). Un elemento chiave è la costituzione del Comitato infezioni correlate all’assistenza, coordinato da professionisti esperti nel campo, ma che dovrebbe includere anche i sanitari direttamente coinvolti nella pratica clinica.

A livello di amministrazione sanitaria, l’adozione di programmi Icp dovrebbe essere una priorità istituzionale e parte integrante della sicurezza delle cure. Sarebbe responsabilità degli ospedali garantire la formazione continua dei sanitari, poiché un maggiore livello di conoscenza può favorire il cambiamento dei comportamenti. Tuttavia, la formazione da sola non basta: i nuovi interventi devono

essere integrati con le convinzioni degli operatori sanitari e adattati al loro contesto lavorativo. Coinvolgere attivamente i sanitari nell’adattamento delle linee guida ai protocolli locali può facilitare il cambiamento, migliorando l’applicazione delle raccomandazioni e la qualità dell’assistenza.

L’utilità dei bundle e delle checklist

Nel contesto di una strategia multimodale uno strumento per l’Ipc è il bundle introdotto dall’Institute for healthcare improvement nel 2001 per migliorare la cura dei pazienti sottoposti a specifici trattamenti ad alto rischio. Il bundle consiste in un insieme limitato di pratiche basate sull’evidenza (da 3 a 5), mirate a specifici pazienti e contesti di cura, che applicate congiuntamente e correttamente, migliorano la qualità dell’assistenza con un impatto superiore rispetto all’adozione isolata delle singole misure. Questo approccio ha dimostrato di ridurre i tassi di Ica quando integrato in strategie multimodali.

Anche le checklist rappresentano un altro strumento utile per la prevenzione delle Ica, sebbene non sempre supportate da forti evidenze scientifiche. Consentono di sintetizzare in modo chiaro e conciso un’ampia quantità di evidenze, contribuendo al miglioramento delle pratiche assistenziali. Un esempio significativo è la checklist perioperatoria chirurgica dell’Oms, pubblicata nel 2009, che include 22 voci suddivise in tre fasi: prima dell’anestesia, prima dell’incisione cutanea e prima che il paziente lasci la sala operatoria. L’uso di questa checklist può ridurre il rischio di infezioni del sito chirurgico, anche se questo beneficio potrebbe dipendere dalla più alta qualità dell’assistenza complessiva. Per essere efficace una checklist deve essere pratica, veloce e aggiornata in base alle evidenze più recenti.

Sorveglianza e audit

Per garantire la conformità ai programmi di Ipc e la loro sostenibilità a lungo termine, è fondamentale la sorveglianza delle pratiche assistenziali: il monitoraggio continuo e si-

LINEE GUIDA

E CHECKLIST

stematico consente di valutare l’efficacia delle strategie adottate e di fornire un feedback tempestivo agli stakeholder. La sorveglianza delle Ica prevede la raccolta, l’analisi e la diffusione dei dati, elementi essenziali per pianificare, attuare e migliorare le pratiche di prevenzione e controllo delle infezioni.

L’audit è un processo di confronto tra la pratica effettiva e uno standard di riferimento, utile per individuare criticità e stimolare il miglioramento. La strategia “Audit e feedback”, ampiamente utilizzata per valutare la qualità dell’assistenza, aiuta a evidenziare le discrepanze tra le pratiche attuali e quelle raccomandate. Dimostrare con empatia questo divario può motivare i sanitari a colmarlo. Il feedback deve essere condiviso non solo con gli operatori direttamente coinvolti (per il cambiamento individuale), ma anche con la direzione ospedaliera e l’amministrazione (per il cambiamento organizzativo). Per esempio, questa strategia applicata all’igiene delle mani ha dimostrato di portare a piccoli ma misurabili miglioramenti.

Al contrario, mandati restrittivi e punitivi dovrebbero essere evitati, poiché rischiano di generare una compliance superficiale senza modificare realmente i comportamenti. Per migliorare l’aderenza alle buone pratiche, è fondamentale promuovere una cultura istituzionale della sicurezza, in cui i sanitari siano persuasi e non obbligati a conformarsi alle misure di Ipc.

Il lavoro di squadra

Il “paradosso” delle infezioni contratte da pazienti che si rivolgono a una struttura sanitaria per ricevere le cure ma che durante l’assistenza finiscono per essere gravati da una complicanza infettiva, continua a conservare la sua drammatica attualità, anche a causa delle innumerevoli procedure risarcitorie per i danni provocati. Ad oggi nelle nostre organizzazioni sanitarie persiste un grosso contrasto tra le evidenze scientifiche e la loro applicazione nella pratica clinica. L’efficace attuazio-

ne delle raccomandazioni e delle linee guida di buona pratica clinica dipende da una solida strategia di implementazione. Gli ospedali con una forte cultura della sicurezza possono promuovere l’educazione, incoraggiare la comunicazione e coinvolgere i propri operatori sanitari, favorendo un clima collaborativo e multidisciplinare. Non ci sono dubbi che il trasferimento nella pratica di nuove misure assistenziali più “sicure” non avviene senza un contesto favorevole, e cioè quando vengono realizzate le adeguate condizioni organizzative, culturali, formative e interpersonali. Un efficace lavoro di squadra nell’erogazione dell’assistenza sanitaria può avere un impatto immediato e positivo sulla sicurezza del paziente: riduce il rischio di errore umano, migliora la sicurezza dei pazienti e la qualità dell’assistenza.

Per tale motivo è indispensabile creare una rete multidisciplinare che finalmente riesca a rimuovere il contrasto tra le raccomandazioni basate sull’evidenza e la loro applicazione nella pratica clinica.

La versione completa di questo articolo, comprensiva di bibliografia, è disponibile online.

1 2 3 4 5

Cambiamento del sistema

Costruiscilo

Formazione ed educazione

Insegnalo

Monitoraggio e feedback Controllalo

Comunicazione e richiami Promuovilo

Cambiamento culturale Vivilo

Figura 1. Superare il contrasto. Le 5 fasi della strategia di implementazioni dell’OMS.

Programmi di prevenzione e controllo delle infezioni

Linee guida per la prevenzione e controllo delle infezioni

Formazione sulla prevenzione e controllo delle infezioni

Sorveglianza delle infezioni correlate all’assistenza

Strategie multimodali per l’attuazione di attività di prevenzione e controllo delle infezioni

Monitoraggio/audit delle pratiche di prevenzione e controllo delle infezioni

Carico di lavoro, personale e occupazione dei posti letto adeguati

Ambiente costruito, attrezzature e materiali per la prevenzione ed il controllo delle infezioni adeguati 1 2 3 4 5 6 7 8

Figura 2.

Le 8 componenti chiave della “infection prevention and control”, secondo le strategie dell’Oms.

Nuove e vecchie sfide per l’epidemiologia

IL CONTRASTO ALL’ANTIBIOTICO RESISTENZA

Come noto, l’antibiotico resistenza rappresenta una delle maggiori minacce per la salute globale: le infezioni causate da batteri resistenti agli antibiotici costituiscono un serio problema di sanità pubblica, con un impatto significativo in termini di decessi, ospedalizzazioni e disabilità, colpendo in particolare neonati e anziani1. In Italia, il Piano nazionale di contrasto all’antibiotico resistenza 2022-2025 si pone l’obiettivo di definire “le linee strategiche e le indicazioni operative per affrontare l’emergenza dell’antibiotico

Ricerca e cooperazione sono i pilastri nella lotta contro l’antibiotico

resistenza. Tuttavia, la mancanza di interoperabilità tra i sistemi informativi, fattori strutturali e normativi e la resistenza

della popolazione potrebbero ostacolare la capacità di risposta.

resistenza nei prossimi anni, seguendo un approccio multidisciplinare e una visione One health”, facendo tesoro dell’esperienza maturata durante la pandemia da sars-cov-2.

In questo contesto, l’epidemiologia, nei suoi campi di applicazione più ampi, come può contribuire nel contrastare questo fenomeno? Allo stato attuale, esistono le competenze analitiche per monitorare e identificare i pattern di resistenza. La sorveglianza epidemiologica potrebbe rappresentare un primo passo fondamentale: la raccolta sistematica e tempestiva di dati sull’uso degli antibiotici e sull’incidenza delle infezioni resistenti consentirebbe ai farmacoepidemiologi di individuare fenomeni di prescrizione eccessiva, trend emergenti e aree a rischio, offrendo un supporto essenziale alle politiche sanitarie, sia nel breve che nel lungo termine.

Al tempo stesso, le evidenze provenienti dagli studi epidemiologici permettono di approfondire l’eziologia del fenomeno, identificando fattori di rischio e meccanismi di resistenza, e contribuendo allo sviluppo di nuovi antibiotici o terapie alternative. L’epidemiologia delle malattie infettive può inoltre fornire strumenti per l’analisi delle infezioni in ambito ospedaliero, mentre lo studio delle reti di trasmissione aiuta a comprendere le dinamiche di diffusione delle nuove epidemie su scala globale. L’esperienza acquisita durante la recente pandemia covid-19 nello sviluppo di vaccini in grado di prevenire infezioni batteriche e ridurre la necessità di antibiotici rappresenta un ulteriore vantaggio. Adottando una prospettiva One health, l’epidemiologia ambientale potrebbe svolgere un ruolo chiave nel monitoraggio della presenza di batteri resistenti nel suolo e nelle acque, determinandone l’origine, che può derivare dalla dispersione di antibiotici da parte della popolazione, da attività industriali o da allevamenti intensivi.

Questi sono solo alcuni esempi del contributo che l’epidemiologia può offrire per affrontare questa sfida globale. Oltre a ciò, vi è un fiorente dibattito intorno al promettente ruolo dell’intelligenza artificiale: la crescente capacità computazionale consente una rapida individuazione di nuovi farmaci, sempre più efficace, con tempistiche inimmaginabili fino a pochi anni fa2 In sintesi, ricerca e cooperazione – anche a livello internazionale –saranno i pilastri nella lotta contro l’antibiotico resistenza. Tuttavia, in Italia, come già avvenuto per l’attività di contact tracing durante la pandemia3, la mancanza di interoperabilità tra i sistemi informativi, fattori strutturali e normativi e la resistenza della popolazione all’introduzione di nuove tecnologie potrebbero ostacolare la capacità di risposta a emergenze sanitarie di questo tipo.

1. Cassini A, Högberg LD, Plachouras D, et al. Attributable deaths and disability-adjusted life-years caused by infections with antibioticresistant bacteria in the EU and the European Economic Area in 2015: a population-level modelling analysis. Lancet Infect Dis 2019;19:56-66.

2. Wong F, Zheng EJ, Valeri JA, et al. Discovery of a structural class of antibiotics with explainable deep learning. Nature 2024;626:177-85.

3. Venturelli F, Mataloni F, Bisceglia L, et al. Covid-19 e contact tracing in Italia: dalle lezioni di ieri alle azioni di domani. Epidemiol Prev 2024;48:484-9.

Alessandro Rosa, statistico, lavora al Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio – Asl Roma 1. Si occupa di farmacoepidemiologia e valutazione della performance nei sistemi sanitari.

Riparare l’errore

Una giustizia che costruisce

Fabio De Iaco dirige la Medicina e chirurgia d’accettazione e urgenza dell’Ospedale Maria Vittoria di Torino. È stato presidente della Simeu, Società italiana di medicina d’emergenza urgenza, e per anni ha ricoperto il ruolo di responsabile della formazione all’interno della stessa società. È attivo sui temi dell’organizzazione, dell’etica, della comunicazione.

Secondo la direttiva europea 29/ 2012, recepita anche dalla riforma del processo penale italiano del 2022 (riforma Cartabia), per giustizia riparativa si intende “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”. Rileggete la definizione, sostituendo la parola “reato” con la parola “danno”, e comprenderete perché la giustizia riparativa possa essere candidata alla gestione dei contrasti in sanità.

“Risolvere le questioni derivanti dal danno” significa “ristorare” (restorative justice), ovvero consegnare alla vittima e alla comunità una prospettiva ri-costruttiva, totale o parziale, che supera una logica meramente punitiva. L’esito del processo riparativo può essere la spiegazione partecipata dell’accaduto, l’interruzione di un conflitto altrimenti perdurante, la prevenzione di futuri danni consimili1

Il più immediato campo di applicazione della giustizia riparativa in sanità è quello del danno conseguente a errore medico, in cui essa si pone come alternativa alla penalizzazione della colpa, in piena sintonia con la cultura dell’errore: non si può chiedere al responsabile di segnalare il proprio errore e partecipare al processo di rimozione del rischio mentre lo si espone a un processo penalmente punitivo. Invece, la sua partecipazione attiva e volontaria, come previsto dalla giustizia riparativa, diviene essa stessa parte integrante di quell’approccio proattivo all’errore che, da James Reason in poi, dovrebbe essere l’unico previsto in sanità. Questa forma di giustizia, inoltre, coinvolge la vittima del danno nel processo riparativo, offrendole un ruolo attivo e non più quello di ininfluente spettatore, lasciato solo in attesa della definizione di una pena: un valore

aggiunto nelle dinamiche di gestione dei conflitti2

I meccanismi della giustizia riparativa si rivelano utili anche in situazioni che vanno oltre la dimensione del singolo evento. È accaduto, per esempio, in Nuova Zelanda con le complicanze indotte dal “surgical mesh”, l’applicazione di particolari protesi in chirurgia uro-ginecologica che, a lungo termine, ha causato seri effetti invalidanti su una vasta coorte di pazienti. Il Ministero della salute locale ha realizzato uno specifico progetto di giustizia riparativa ‒ con incontri individuali, circoli di ascolto, raccolta di storie ‒ che ha coinvolto circa 600 vittime e ha portato all’emanazione di nuovi standard e alla revisione delle richieste di risarcimento.

Ragionando sui contrasti in medicina, quel che di nuovo offre la giustizia riparativa è il coinvolgimento attivo, volontario e paritario di entrambi i poli del contrasto (danneggiato e responsabile) ma anche di altri soggetti come istituzioni e comunità. L’intento riparativo (ristorativo, ricostruttivo ‒ è difficile trovare il termine più adatto), ben differente da un esercizio meramente risarcitorio, ha lo scopo di rispondere ad alcune domande: in cosa consiste il danno, chi è stato danneggiato e chi ne è responsabile, ma anche chi ha la responsabilità di riparare il danno ‒ inteso come ferita nelle relazioni sociali e non come semplice violazione di una norma ‒ e, infine, quali percorsi intraprendere per suturare quella ferita3

Per questi motivi, negli ultimi anni la giustizia riparativa viene sempre più proposta per un’applicazione in sanità: nei conflitti in ambiente accademico, nei contenziosi da malpractice, nelle aggressioni ai sanitari e nei casi di burn out, così come nelle controversie legate a situazioni di possibile razzismo, gender gap e stigma4

Il posto della giustizia riparativa in sanità dovrebbe essere al cuore del movimento per la sicurezza delle cure. Ma anche per l’equità e l’universalità.

L’ampio coinvolgimento di diversi soggetti proietta, inoltre, le potenzialità della giustizia riparativa a un livello più ampio: quello della gestione dei contrasti all’interno di intere comunità. C’è un esempio storico: Nelson Mandela, divenuto presidente del Sudafrica, la utilizzò per contribuire a ricucire il tessuto sociale sudafricano devastato dall’apartheid, in un processo affidato a Desmond Tutu. Gli stessi principi possono essere impiegati per ricollegare le parti separate da lacerazioni anche in altri contesti: inevitabile pensare alle fratture sociali prodotte dalla pandemia, o all’attuale sfaldamento del patto sociale tra cittadini e servizio sanitario pubblico. Com’è stato ben scritto, il posto della giustizia riparativa in sanità dovrebbe essere al cuore del movimento per la sicurezza delle cure5 Ma anche per l’equità e l’universalità.

1. Bortolato M, Vigna E. Oltre la vendetta: la giustizia riparativa in Italia. Bari: Laterza, 2025

2. Acmt, Aact, Aaem. Joint statement against criminalization of medical errors 2022 | www.acmt.net/wp-content/uploads/2022/06/PS_220502_Joint-Statement-Against-Criminalization-of-Medical-Errors.pdf

3. Zehr H. The Little book of restorative justice: revised and updated. Skyhorse Publishing Company, Incorporated; 2015.

4. Sawin G, Klasson CL, Kaplan S, et al. Scoping review of restorative justice in academics and medicine: a powerful tool for justice equity diversity and inclusion. Health Equity 2023;7:663-75.

5. Amin D, Bajaj K, Giuntoli A. A need to embrace restorative justice at the heart of the patient safety movement. J Med Toxicol 2022;18:183-4.

L’EDUCAZIONE EMOTIVA DEI

Per aiutarli a orientarsi in un mondo che cambia in fretta

giovani

Intervista a Francesca Pierotti

In “Dialoghi impossibili tra giovani e adulti” mette in luce le differenze tra il modello educativo del passato, basato sull’autorità e sul rispetto dei valori condivisi, e quello attuale, caratterizzato da una maggiore attenzione all’individualità e alla libertà di espressione. Come è avvenuta questa trasformazione?

Prima di tutto, è bene precisare che i valori del passato non erano condivisi ma imposti, non ragionati e tramandati senza essere messi in discussione. La scuola e la famiglia erano allineati in questa visione e il loro compito era farla rispettare invece che promuovere la discussione e supportare l’individuazione della persona. Detto ciò, la maggiore attenzione attuale dovrebbe concentrarsi non tanto sull’individualità intesa come manifestazione indiscussa della propria personalità a scapito della collettività e del gruppo, tendenza molto diffusa, quanto piuttosto sul guidare i giovani nel processo di individuazione, nella faticosa strada della ricerca del proprio sé, nel rispetto e non a scapito degli altri. Il passaggio dal modello educativo del passato a quello attuale si muove tra queste due estremità, non trovando un equilibrio tra di esse. Mi sento di dire che il difficile compito che dobbiamo ancora realizzare è quello di adottare delle dinamiche evolutive che guidino i ragazzi verso la propria formazione includendo le radici e i valori della loro storia, familiare e comunitaria, ma insegnando loro, contemporaneamente, il rispetto e l’inclusione della diversità, intesa come possibilità di crescita piuttosto che come altro da combattere ed eliminare.

Quali sono i pro e i contro?

Mentre il modello educativo del passato determinava una netta divisione tra adulti e ragazzi, quello attuale manca completamente di confine e, pertanto, di possibilità di differenziazione per i giovani che si trovano inevitabilmente in questa fase evolutiva. Questo determina confusione e incapacità di trovare un proprio e definito spazio vitale di esistenza e manifestazione.

Il non sapere come agire diventa espressione di non adeguatezza, invece che punto di partenza per la ricerca delle risposte.

Il concetto di contrasto emerge in diversi punti, nel cambiamento dei ruoli genitoriali, nella ricerca dei bisogni affettivi, nella forte spinta alla condivisione delle emozioni. Quali sono le sfide che i giovani - e di conseguenza le famiglie - affrontano in una società in continua evoluzione?

Il malessere dei giovani si fa sempre più prepotente e visibile, manifestando continuamente i suoi effetti, anche attraverso l’aumento dei sintomi psichiatrici, tra i quali assumono un ruolo imponente da un punto di vista quantitativo, oltre che della complessità, i disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Attualmente, la società si rivela impreparata nella gestione di tale malessere e della sintomatologia che ne deriva e, non solo non riesce a prendersene carico, non lavora adeguatamente sulla prevenzione dell’inevitabile disagio che, se non accolto, rischia di trasformarsi in disturbo.

Inoltre, va considerata una questione cruciale: le coordinate del vivere sociale. Ci troviamo oggi di fronte ad una società che si caratterizza per la grande velocità, dove non si è allenati alla riflessione e all’attesa, ma ad una risposta che deve avere come caratteristica l’immediatezza, ma anche l’efficienza. Questo lascia poco spazio alla riflessione e all’elaborazione, non solo cognitiva ma anche e soprattutto emotiva, delle informazioni, delle risposte e delle reazioni che ne derivano. Ciò determina, soprattutto per i giovani, una fretta che non ha motivo di essere: il non sapere che strada intraprendere o come agire diventa espressione di non adeguatezza e di debolezza, invece che punto di partenza per la ricerca delle risposte. Infatti, nel mondo attuale, l’attesa viene interpretata come fragilità a favore di una rapidità che non contempla il divenire, che richiede tempo per manifestarsi e compiersi. La tecnologia ha reso più veloce le comunicazioni tra gli uomini, ma quelle tra i neuroni sono rimaste immutate. A maggior ragione, si dovrebbero favorire a livello educativo tutte quelle attività che, nella frenesia della vita quotidiana, non si ha occasione di svolgere adeguatamente e che insegnano l’attesa e il divenire come valore e non come qualcosa da evitare, attività che richiedono un allenamento, una progressione, una evoluzione oltre che una riflessione.

La tecnologia ha reso più veloce le comunicazioni tra gli uomini, ma quelle tra i neuroni sono rimaste immutate.

I social media hanno un ruolo ambivalente nella vita dei giovani, offrono opportunità di connessione ed espressione, ma generano anche ansia da prestazione e senso di inadeguatezza. Come si può trovare un equilibrio?

I ragazzi, in quanto tali, non hanno ancora completato la loro maturazione biologica ed emotiva. Questo comporta un disallineamento tra ciò che cognitivamente percepiscono e quello che emotivamente riescono ad elaborare. Il compito dell’adulto è anche quello di aiutarli a regolare le emozioni e a restituire una visione del mondo più congrua possibile alla realtà. I social media, per le caratteristiche strutturali che li determinano e per i loro meccanismi di funzionamento, tendono a mostrare una visione parziale e solo in parte aderente della realtà, con l’inevitabile conseguenza di far credere a coloro che ne usufruiscono che, invece, quello che vedono sia la dimostrazione del vero. L’equilibrio potrebbe essere dato dalla mediazione dell’adulto e, ancora una volta, dall’educazione emotiva, che sembra scarseggiare sempre di più ma di cui c’è un bisogno senza precedenti. Il corpo, nella dinamica dei social media, diventa il rappresentante per eccellenza dell’identità della persona, in quanto unico elemento visivo presente, ma viene mostrato e non vissuto, in quanto disincarnato, perché quel corpo non può vivere la relazione se non in forma mediata, quindi può solo partecipare in modo indiretto e filtrato a ciò che vive. È mediato e filtrato da uno strumento che nasconde la persona, seppur mostrandola. A volte, purtroppo, il virtuale tende a sovrastare e, nei casi peggiori, a sostituire il reale. Quello che si può fare è aiutare i ragazzi a trovare un equilibrio tra questi due mondi che, soprattutto per loro, devono coesistere perché sono importanti in egual misura.

A cura di Giada Savini

Francesca Pierotti Dialoghi impossibili tra giovani e adulti. Le parole della cura tra identità, narrazione e social Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2024.

Francesca Pierotti, psicologa, lavora presso il Centro Palazzo Francisci di Todi e il Centro Dai di Città della Pieve occupandosi di prevenzione, formazione e cura dei disturbi alimentari. È membro della Società italiana di medicina narrativa.

Quel che conta è la posizione che assumiamo nel contrasto, spiega Damiano Tommasi E dovremmo viverlo come opportunità per una ripartenza.

Essere per il servizio sanitario pubblico, ma anche saper apprezzare l’efficienza di un sistema sanitario privato. Avere la consapevolezza dei rischi ambientali del traffico di grandi navi in alcuni porti italiani ma anche saperne valutare l’indotto economico in termini di sviluppo del turismo nei territori interessati. Avere contezza del contributo marginale di alcune terapie al raggiungimento di esiti significativi per il malato ma anche non dimenticare che se non si premia l’impegno industriale si disincentiva la ricerca scientifica nel suo complesso. Mettere l’assistenza di prossimità al centro delle politiche sanitarie ma anche chiudere i presidi ospedalieri con ridotto volume di attività. Essere intransigenti sulla trasparenza dei conflitti d’interesse ma anche desiderare di evitare di far la figura dei talebani. Avere imparato che non si può prescindere dagli studi controllati randomizzati per determinare l’efficacia di un intervento sanitario ma anche incentivare la raccolta di real world data smettendo di investire nelle sperimentazioni indipendenti. Far proprio lo sguardo della sanità di popolazione ma anche riconoscere che solo una medicina personalizzata può esser capace di dare risposta ai bisogni del singolo paziente. Investire centinaia di milioni di euro per trasformare le città metropolitane in smart cities ma anche avere a cuore lo sviluppo delle aree interne del Paese. Trovare intollerabili le falsificazioni di dati nelle pubblicazioni scientifiche ma anche saper chiudere un occhio (e anche due) comprendendo l’esigenza di pubblicare sentita dai colleghi…

Potremmo continuare chissà per quanto (sarebbe un esercizio utile), ma andiamo al punto: sebbene il nostro quotidiano sia popolato dalla necessità frequente di operare delle scelte che presuppongono il risolvere un contrasto (a livello individuale: scegliere i mezzi pubblici o l’automobile per andare in centro, prenotare le analisi all’asl o in un ambulatorio privato per avere domani i risultati, e così via), viviamo in una società caratterizzata dalla permanente rimozione di ogni conflitto che possa anche solo teoricamente mettere in discussione l’equilibrio sociale ed economico. Il prezzo che paghiamo è quello di una percezione sempre più normalizzata delle cose: per far parte di un sistema in cui i conflitti sono depotenziati, spesso ci viene chiesto di rinunciare alla nostra identità, alle nostre radici culturali, ai nostri ideali1

Viviamo in una società caratterizzata dalla permanente rimozione di ogni conflitto.

Eppure… eppure ci devono essere degli ambiti dove il contrasto è irriducibile. Dalla conversazione con Roberto Koch pubblicata in questo numero di Forward ricaviamo il sospetto che l’agire dell’artista possa prescindere dalla normalizzazione del reale, dal momento che per lui il contrasto esiste sia come strumento per interpretare la realtà sia come oggetto di documentazione.

Però, se è il desiderio a essere il movente del conflitto, è forse nello sport che davvero non possiamo fare a meno del contrasto. Ne abbiamo parlato con Damiano Tommasi –che è stato calciatore e oggi è amministratore pubblico – e che proprio successivamente a un contrasto ha visto la propria carriera sportiva profondamente condizionata.

Il calcio ci insegna che, in ogni contrasto, è importante mantenere la postura più adatta: è indispensabile arrivare preparati, investendo la stessa energia delle persone con le quali ci andiamo a scontrare.

— Damiano Tommasi

Cosa viene in mente, parlando di contrasti? “Certamente il rispetto per l’avversario. Ma direi che soprattutto un altro punto è importante e, per spiegarlo, farei riferimento all’episodio a me capitato, un grave infortunio causato proprio da un contrasto con un avversario. Era una partita amichevole e per questa ragione la mia idea era quella di evitarlo, il contrasto. L’avversario, però, non aveva la stessa disposizione d’animo ed è entrato con la massima decisione. Il calcio ci insegna che, in ogni contrasto, è importante mantenere la postura più adatta; in altre parole è indispensabile arrivare preparati al contrasto, investendo la stessa energia delle persone con le quali ci andiamo a scontrare”.

Tommasi ha studiato Scienze della formazione ed è anche cofondatore di una scuola paritaria intitolata a Lorenzo Milani; inevitabile, dunque, chiedergli di come preparare i bambini al conflitto: “È importante che i bambini siano educati ad accettare i contrasti, insegnando anche a loro a stare attenti a mantenere sempre la propria postura o, se vogliamo, la loro posizione. Non bisogna mai dimenticare che il contrasto non va vissuto in opposizione a un

avversario, ma – per esempio nelle politiche amministrative – come momento di passaggio per affermare il proprio punto di vista”. Primo calciatore italiano a rifiutare di fare il servizio militare, Tommasi è oggi sindaco di Verona, eletto da una coalizione ampia di centrosinistra. “Nel calcio, il contrasto deve essere considerato non solo come interruzione di un’azione avversaria ma anche come opportunità per una ripartenza. Questo vale anche per l’attività politica, dove dai contrasti possono nascere nuove iniziative e nuovi progetti. Il contrasto è dunque necessario, anche perché non sempre è possibile giocare d’anticipo, vuoi nel calcio, vuoi nell’amministrazione. Molto spesso manca il tempo necessario per leggere il gioco o la realtà, e non è sempre possibile anticipare i problemi, anche perché i tempi necessari per attuare dei programmi amministrativi sono quasi sempre molto lunghi”.

Nel calcio, il contrasto deve essere considerato non solo come interruzione di un’azione avversaria ma anche come opportunità per una ripartenza. Questo vale anche per l’attività politica.

— Damiano Tommasi

Un elogio del contrasto e del conflitto – che sottolinei il valore dell’essere consapevoli della propria posizione – e della liceità della loro esperienza è il modo per ricordarci la possibilità della creazione del nuovo1. E chissà che non sia proprio la libertà di poter vivere l’esperienza del contrasto a rendere – come diceva Albert Camus – lo stadio di calcio il posto al mondo dove l’uomo è più felice.

Luca De Fiore

1. Benasayag M, Del Rey A. Elogio del conflitto. Milano: Feltrinelli, 2007.

Damiano Tommasi è stato campione d’Italia con la Roma nel campionato 20002001 giocando tutte le partite. Ha giocato 25 volte nella nazionale maggiore italiana. Nel luglio 2004, durante una partita amichevole con lo Stoke City, un contrasto con un avversario gli provocò la rottura del crociato anteriore e posteriore, dei legamenti collaterali mediali esterno e interno, dei due menischi, un’infrazione dei condili e del piatto tibiale. Oggi è sindaco di Verona.

L’equilibrio tra bianco e nero

Una conversazione con Roberto Koch

Cos’è, per un fotografo, il contrasto?

Il contrasto è una caratteristica di un certo tipo di fotografia. Ovviamente, parlo di una fotografia che viaggia verso i margini estremi della composizione vera e propria. Poi, il contrasto ha anche un significato sociale e politico, se parliamo di reportage. Intendo dire una fotografia che, in qualche modo, si propone di essere di ispirazione di una visione diversa. Tant’è che, quando chiamammo Contrasto la nostra struttura, inizialmente eravamo molto dubbiosi, perché non c’era una volontà di rompere le scatole a qualcuno o di identificare ideologicamente una visione a cui dovevano ispirarci. Però, il nome era forte perché funzionava ed era facilmente riproducibile, nel senso che si applicava a un’idea di fotografia, una fotografia che rende visibile, che si presta ad essere discussa. Però, era il periodo in cui la fotografia aveva le proprie regole, determinate dalla tecnica analogica e dalla capacità di poter trasformare nella stampa, che solo successivamente ha potuto utilizzare carta diventata a contrasto variabile.

C’è stato un periodo, infatti, in cui la carta poteva avere delle diverse gradazioni di contrasto, da quella a contrasto 3 o 4 molto più contrastata a quella a contrasto zero che invece permetteva delle sfumature più morbide. La carta a contrasto variabile aveva nello stesso foglio zone che reagivano in maniera più forte al contrasto puntuale e altre zone che erano più morbide. Quindi, il contrasto era certamente una caratteristica molto importante della fotografia. Tutto questo, poi, nella fotografia digitale è diventato una caratteristica precisa del linguaggio di postproduzione, di elaborazione delle immagini.

Un fotografo come Gianni Berengo Gardin ha sempre avuto un rapporto di grande consuetudine e vicinanza con Leica, per cui ha potuto sperimentare delle nuove macchine, compresa una digitale. La sua prima reazione fu: ma stiamo scherzando? In realtà, molti fotografi che l’avevano sperimentata prima cominciavano a dire “lo sfocato della Leica digitale è meraviglioso”, perché è una cosa che non ha niente di paragonabile e al tempo stesso ti arricchisce con una percezione che non si può spiegare: devi solo vederla per capirla. Lui diceva “a me la fotografia digitale non interessa e non la faccio” ma da un rifiuto immediato è passato a fare foto diventate anche importanti nel suo lavoro.

Il contrasto in un’immagine è qualcosa già presente nella realtà o è l’occhio del fotografo o la postproduzione che lo svelano?

Tendenzialmente direi la seconda risposta. Specificamente, se pensiamo a Mario Giacomelli, lui interpretava da visionario una scena che

gli si poneva davanti e di cui lui vedeva soltanto dei contorni. Lui, per esempio, della foto famosa del bambino di Scanno – quello che esce dalla chiesa che sembra un fantasma che si aggira quasi levitando in un paesaggio in cui ci sono signore tutte vestite di nero – aveva tre o quattro varianti all’interno delle quali aveva aggiunto a matita delle cose. Perché per lui era la stessa cosa avere il contrasto più forte o aggiungere una croce sulla chiesetta che non c’era perché gli dava un senso di maggiore compiutezza. Oppure penso a Richard Avedon, al quale una resa molto morbida consentiva di esprimere con la stampa un ritratto che era pieno di tenerezza e di sfumature, mentre col contrasto le cose sono molto, molto nette.

Giacomelli ha di continuo dato forma, lavorando su grafica e contrasto, a una visione del paesaggio che non voleva essere descrittiva ma poetica. Christian Caujolle1

Giacomelli lo otteneva con dei passaggi nella tecnica di stampa per aumentare il contrasto; esponeva il negativo in bianco e nero a contatto con la cosiddetta pellicola fotomeccanica, così da produrre un positivo in bianco e nero per poi ripetere questo processo quattro o cinque volte, così che alla fine restavano solo i neri e i bianchi. Fondamentalmente, era disegno annotato e basta. E per lui era importantissimo poter trasformare queste cose usando appieno la tecnica che gli permetteva di rendere più visibile solo gli aspetti che davano un impatto poetico a quella fotografia. Oggi tutto si decide attraverso la tecnologia digitale e la post-produzione, al punto che qualunque fotografo incaricato di una commissione tende a non mostrarla quando ancora è in fase di lavorazione perché nel lavoro di post-produzione si può fare di tutto. Nel caso di Mimmo Jodice, per esempio, è il mosso che ha determinato la sua interpretazione di un determinato soggetto perché si può ottenere in ripresa ma anche in fase di stampa. Jodice fa moltissime fotografie di paesaggi di mare e a volte muove il foglio di carta nella camera oscura tradizionale, creando questo aspetto di mosso e di dinamismo particolare che in qualche modo rende più vera la fotografia. Anche nel suo caso il vero originale non è il negativo.

1. Giacomelli M. La figura nera aspetta il bianco. A cura di Alessandra Mauro. Roma: Contrasto, 2009.

Giocare con l’equilibrio tra il nero e il bianco può essere un esercizio per fotografare le cose e vedersele restituire come fossero qualcos’altro. Oppure un artificio per una narrazione del mondo ancora più vicina alla realtà, documentandone non soltanto le forme ma anche i tormenti.

Mercoledì delle ceneri. Qui quasi nessuno beve l’acqua: molti credono che sia contaminata e faccia diventare ciechi. Roosevelt e Katherine invece la bevono; Roosevelt è già cieco. Matt Black2

Oggi, riguardo le immagini, c’è una voracità nel produrre, vedere, consumare, fare che limita poi l’arricchimento che ti può dare un’immagine. D’altro canto, è anche vero che la fotografia come l’avevamo intesa fino all’altro ieri oggi è diventata una cosa diversa. Ci sono stati dei fotografi che tra il 1970 e il 2000 sono stati dei grandissimi maestri. Parliamo di Cartier-Bresson, di Robert Frank, di Joseph Koudelka. Personaggi di grande rilievo che hanno informato il panorama fotografico mondiale in una maniera così ricca che poi sono diventati bestseller sia con i libri sia con le mostre. Oggi non è più tanto chiaro chi lo sia. Una mostra di Elliott Erwitt che sarebbe stata un tempo molto di successo oggi comincia a esserlo un po’ meno e quelli che sono oggi considerati dei nuovi fotografi hanno bisogno di più tempo per lasciare un segno. Penso al lavoro di Matt Black e alla sua fotografia molto espressionistica, molto intensa e coinvolgente, una fotografia straordinariamente importante sul piano dell’interpretazione.

Matt Black è un autore particolarmente significativo. Durante il suo viaggio di documentazione sistematica degli Stati Uniti ha esplorato la Cancer alley, la strada che collega Baton Rouge a New Orleans, lungo la quale, in 85 miglia, ci sono 150 raffinerie e impianti petroliferi. Con il suo reportage, Black è riuscito a mettere in luce i danni alla salute di queste industrie supplendo alla mancanza di un registro tumori. È una conferma della possibilità che lo sguardo di un fotografo possa venire in soccorso anche della documentazione tecnica per contribuire alla conoscenza scientifica.

Il rapporto tra la fotografia e la scienza è un rapporto fondamentale perché tutte le prove fornite da milioni di fotografi in tutto il mondo partono comunque dal prelievo di una parte della realtà attraverso un’inquadratura, una composizione con cui vogliono sottolineare un

determinato significato. Certamente, raccontare qualcosa dipende anche dalla determinazione con cui si fa, si rifà, si studia e si cerca di raggiungere un livello ancora superiore con maggiore intensità. Mi viene in mente, per esempio, una cosa che diceva Koudelka: “Il mio modo di lavorare è molto semplice: vado in un posto, devo fare una determinata cosa. Mentre sto lì, la esploro in tutte le modalità. Poi, quando torno, seleziono le foto da fare sulla base di quali sono più riuscite. E quindi, con questa selezione in testa, torno e ne faccio delle altre che non avevo fatto prima o cerco di rifare alcune che avevo già fatto. A volte, quelle che rifaccio sono meglio di quelle che avevo già fatto e a volte no. Alla fine, quando torno in quel posto e non c’è nessuna fotografia migliore di quelle che ho già fatto, penso che il lavoro sia finito”. Insomma, è proprio uno sviscerare fino al midollo le cose per esser sicuro che niente sia sfuggito. E in fondo, se vogliamo, può somigliare anche a un’ossessione, tipica dell’artista.

A cura di Luca De Fiore

Roberto Koch è editore, curatore, fotografo e organizzatore di eventi culturali intorno alla fotografia. Dal 1986 è alla guida dell’agenzia Contrasto, la più importante struttura di produzione fotografica italiana, dal 1994 della casa editrice Contrastobooks, che ha all’attivo più di 400 titoli dedicati alla grande fotografia internazionale.

2. Black M. American geography. Roma: Contrasto, 2021.

CONTRASTO

[con-trà-sto] s.m.

1 Ciò che si oppone al compimento di qlco. SIN impedimento, ostacolo: l’iniziativa ha incontrato duri c.

2 Inconciliabilità, disaccordo: c. di mentalità; conflitto: c. di interessi

3 In pittura e fotografia, mancanza di sfumature nei colori; giustapposizione di luce e ombra

4 Nell’immagine televisiva, differenza di toni nella composizione dell’immagine e comando che la regola

5 Componimento poetico medievale, in cui due personaggi dialogano o disputano

6 mezzo di c., in medicina, sostanza che consente la visualizzazione radiologica di organi altrimenti non visibili ai raggi X

7 sport. Nel calcio e gener. in giochi di squadra, intervento di un giocatore per togliere la palla all’avversario

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Insieme al Dipartimento di epidemiologia del Ssr Lazio, Asl Roma 1 e al Pensiero Scientifico Editore partecipano al progetto Forward

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