il punto la rivista dell'OMCeO Torino - Numero 2 2025
Un progetto dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Torino
Farmaci e ambiente.
Una minaccia silenziosa per la salute globale
La professione medica.
Uno sguardo retrospettivo attraverso gli archivi
Ripensare la bioetica: un dialogo tra passato e futuro
L’intelligenza artificiale, dai contenuti scientifici alla pratica clinica
Comitato editoriale
3
Ambiente e bioetica: una responsabilità condivisa per la salute e il futuro
Guido Giustetto
5
Una scoperta d’archivio: il primo Codice dell’Ordine di Torino
Guido Giustetto, Angelica Salvadori
PUNTO SU AMBIENTE E SALUTE
9
Farmaci e ambiente: una minaccia silenziosa per la salute globale
Roberto Romizi
11
Dal Torinese alla Val di Susa, cresce la preoccupazione per i Pfas
Giuseppe Ungherese
12
Bambine, bambini e inquinamento
Elena Uga
14
Un’app per la prevenzione primaria
Marco Calgaro
IL PUNTO SULLA BIOETICA DI OGGI
16
La bioetica oggi, tra vecchie e nuove sfide Una conversazione con Luca Savarino
20
Bioetica e mitigazione dei disastri climatici
Larry R. Churchill
23
La bioetica come discorso sull’autonomia e strumento per l’autodeterminazione
Simone Pollo
25
L’appropriatezza clinica: vent’anni dopo
Aldo Mozzone, Ottavio Davini
31
L’eziologia della negazione, per il paziente e per il medico che cura sé stesso
Mary Braun Bates
34
Il “volto empatico” dei chatbot medici. Tra fiducia e trasparenza
Guido Boella
38
Etica e intelligenza artificiale: tra fiducia e responsabilità
Piergiorgio Donatelli
40
La qualità della conoscenza e l’innovazione
43
L’intelligenza artificiale può fare la peer review?
Robert Golub
44
LIBRI, CINEMA, ARTE Come è nato e cambiato il Servizio sanitario italiano
Marco Geddes da Filicaia
45
LIBRI, CINEMA, ARTE Scavare per recuperare, trarre, per non dimenticare
Italo Spada
Direttore scientifico
Guido Giustetto
Direttore editoriale
Rosa Revellino
Comitato redazionale
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Celeste De Fiore, Laura Tonon (Il Pensiero Scientifico Editore)
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dell’OMCeO di Torino
Guido Giustetto (presidente)
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Gli articoli raccolti in questo numero
ANNO IV, NUMERO 2
Ambiente e bioetica: una responsabilità condivisa per la salute e il futuro
Guido Giustetto Presidente
OMCeO Torino
Direttore scientifico il punto
Negli ultimi anni l’Ordine dei Medici di Torino ha scelto di mettere al centro della propria azione il legame tra ambiente e salute. Convegni dedicati all’inquinamento da farmaci, alla contaminazione da Pfas e alle strategie per una sanità più sostenibile hanno evidenziato quanto la tutela ambientale sia oggi una componente imprescindibile della pratica medica. Questa attenzione nasce dalla consapevolezza che il compito dei medici non può limitarsi alla cura individuale, ma deve estendersi alla protezione delle condizioni che rendono possibile la salute collettiva.
Le crisi ambientali e la salute sono ormai due facce strettamente connesse della realtà in cui viviamo. Gli inquinanti chimici presenti nell’aria e nelle acque, insieme agli effetti del cambiamento climatico, incidono in modo diretto sulle patologie respiratorie, cardiovascolari, metaboliche e sul benessere psichico. L’analisi di Roberto Romizi sull’inquinamento da farmaci e cosmetici evidenzia come le tracce di medicinali e prodotti di uso quotidiano, non smaltiti correttamente, contaminino i sistemi idrici e contribuiscano all’antibiotico-resistenza, una delle minacce sanitarie più rilevanti a livello globale (vedi pag. 9). In questo quadro, diversi ambiti della pratica medica si trasformano: appropriatezza prescrittiva, riduzione degli sprechi e informazione ai pazienti diventano anche importanti strumenti di prevenzione primaria ambientale. L’impatto di questi fenomeni è ancora più evidente quando si guarda all’infanzia. Elena Uga sottolinea che nei primi mille giorni di vita bambini e bambine assorbono aria, acqua e alimenti in proporzione molto maggiore rispetto al peso corporeo, accumulando quantità più elevate di sostanze inquinanti (vedi pag. 12). Gli effetti non si limitano al presente: modificazioni epigenetiche possono trasmettere vulnerabilità alle generazioni successive. Proteggere la salute infantile significa, quindi, anche intervenire sull’ambiente in cui questi bambini crescono, riducendo i fattori di rischio alla radice. Questi dati hanno spinto a ripensare i confini della bioetica. Luca Savarino parla di una bioetica globale che supera la visione tradizionale, legata al solo rapporto medico-paziente, per includere la salute umana, animale e ambientale nel quadro di One health (vedi pag. 16). Questa prospettiva riconosce che la vita si fonda su un equilibrio dinamico tra individui, comunità ed ecosistemi e che ogni scelta tecnica, scientifica o politica produce conseguenze di lungo periodo sull’intero pianeta.
Occorre una bioetica che non resti confinata ai laboratori e alle aule universitarie, ma diventi linguaggio pubblico, capace di contrastare la disinformazione, costruire fiducia e promuovere prevenzione
Considerare la crisi climatica come una questione etica oltre che scientifica è anche l’invito che ci fa Larry Churchill (vedi pag. 20). Ondate di calore, scarsità di risor-
se idriche, malattie infettive emergenti e nuove forme di fragilità psicologica sono realtà che mettono alla prova i sistemi sanitari e le comunità. Per affrontarle occorre una responsabilità condivisa: una bioetica che non resti confinata ai laboratori e alle aule universitarie, ma diventi linguaggio pubblico, capace di contrastare la disinformazione, costruire fiducia e promuovere prevenzione.
Essere medici oggi significa riconoscere le connessioni tra ambiente e salute, educare a comportamenti sostenibili, promuovere un uso responsabile delle risorse e partecipare attivamente alla promozione di politiche ambientali efficaci
Questa prospettiva inoltre cambia il senso della responsabilità e della deontologia medica. Essere medici oggi significa riconoscere le connessioni tra ambiente e salute, educare a comportamenti sostenibili, promuovere un uso responsabile delle risorse e partecipare attivamente alla promozione di politiche ambientali efficaci. Con questo obiettivo la formazione deve includere competenze che uniscano le materie tipiche degli attuali corsi di medicina con l’etica, l’ecologia e la comunicazione, preparando i professionisti ad essere interlocutori consapevoli e propositivi nei confronti della società.
La presa in cura diventa così un concetto allargato: non solo diagnosi e terapia, ma difesa delle condizioni che rendono la salute possibile. Ogni decisione clinica, ogni intervento, ogni politica sanitaria devono essere letti come parte di un impegno più ampio che riguarda anche il pianeta. Mettere in relazione bioetica e ambiente significa dare ai medici strumenti per affrontare le sfide presenti e future, contribuendo a costruire una medicina che riconosce come inseparabili la salute delle persone e quella del mondo in cui vivono.
Riaffermare questo sguardo permette di costruire un modello di cura che unisce dimensione individuale e collettiva, salute e ambiente, responsabilità e solidarietà. E la bioetica può davvero proporsi come una bussola globale, laica e pubblica, capace di orientare una medicina che si prende cura della vita in tutte le sue forme, collegando la salute delle persone, delle comunità e degli ecosistemi che le sostengono. y
Nel febbraio 2024, nell’archivio dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri della provincia di Torino, è stato ritrovato i l “Bollettino dell’Ordine dei Medici della provincia di Torino” (Anno I, N. 4, dicembre 1912). Questo ritrovamento ha una notevole importanza: al suo interno, infatti, sono pubblicate – oltre alla “Legge del 10 luglio 1910 n. 455, sugli Ordini dei sanitari”, al “Regolamento 12 agosto 1911, n. 1022, sugli Ordini dei sanitari”, al “Regolamento interno dell’Ordine dei medici della provincia di Torino”, alla “Tariffa minima dell’Ordine dei Medici della provincia di Torino. Osservazioni di indole generale”, alla “Tariffa minima per la città di Torino” e alla “Tariffa minima per la Provincia” – le “Norme di Deontologia per i me-
Una scoperta d’archivio: il primo Codice dell’Ordine di Torino
Memoria e modernità nella deontologia medica del primo Novecento
Guido Giustetto Presidente dell’OMCeO di Torino
Angelica Salvadori Vicepresidente della Commissione Albo medici dell’OMCeO di Torino
dici iscritti nell’Ordine della Provincia di Torino”. Le norme furono approvate dal “Consiglio Amministrativo” dell’Ordine di Torino, allora composto dal dott. G.B. Boccasso (presidente), dal dott. G. Oliaro (segretario), dal dott. G. Garzino (tesoriere) e dai dottori G.B. Maffei, A. Mattioli-Bertacchini, E. Sosso e N. Valobra (consiglieri), nelle adunanze del 13 settembre, 4 e 18 ottobre 1912.
Pur trattandosi nel complesso di documenti di sicuro interesse, soprattutto in chiave storica e normativa, la parte di maggior rilievo è costituita dalle “Norme di deontologia per i medici iscritti”: si tratta, di fatto, del primo codice deontologico di cui si abbia notizia e di cui si conservi una copia originale. Emanato dopo l’approvazione della Legge n. 455, che isti-
tuiva gli Ordini dei medici chirurghi, dei farmacisti e dei veterinari, questo documento – per iniziativa dell’Ordine di Torino insieme ad altri Ordini – darà origine al primo Codice unificato di deontologia medica, pubblicato nel 1924 sulla rivista “Federazione Medica”. In secondo luogo, questo codice – aggiornato dal Consiglio dell’Ordine di Torino (Presidente Stefano Perrier), pubblicato nel 1948 – ha rappresentato la base per la redazione del cosiddetto “Protocodice Frugoni”, apparso su “Federazione Medica” nel 1954, a sua volta fondamento del Codice del 1958. Prima del ritrovamento delle “Norme di deontologia per i medici iscritti”, non era stato possibile valutare questo codice nella sua interezza e confrontarlo con i successivi, comparazione che oggi risulta invece molto interessante per cogliere analogie e divergenze.
Alle origini della deontologia medica
Limitandosi al confronto con il Codice di deontologia medica del 2014, attualmente vigente, si osserva che il Codice del 1912 si articola in sei titoli, contro i diciotto dell’attuale che affronta un numero molto più ampio di argomenti introducendo temi e riflessioni su argomenti professionali che non erano certamente immaginabili cento anni fa.
Quanto al numero di articoli, la differenza non è marcata: 84 articoli nel Codice del 1912 contro i 79 del Codice attuale. Tuttavia, gli adempimenti deontologici richiesti nel 1912 sono in numero minore ma molto più dettagliati.
Da queste due osservazioni, numero di titoli e numero di articoli, possiamo fare una prima considerazione: la volontà nel Codice del 1912 di normare in modo puntale l’attività del medico, cercando di rappresentare tutte le diverse e possibili situazioni in cui il medico si trova ad esercitare rispetto all’impostazione del Codice attuale che esprime principi e concetti più generali ai quali il buon medico deve attenersi.
La comparazione delle norme di deontologia del 1912 con i codici successivi risulta molto interessante per cogliere analogie e divergenze
Entrando nel dettaglio, il Codice del 1912 è strutturato nei seguenti sei titoli:
{ I. Rapporti dei medici fra di loro (artt. 1-26)
{ II. Rapporti fra medico e cliente (artt. 27-49)
{ III. Della pubblicità (artt. 50-53)
{ IV. Rapporti dei medici con altre categorie di sanitari (artt. 54-64)
{ V. Rapporti dei medici con Enti pubblici (artt. 65-73)
{ VI. Rapporti dei medici con Enti privati (artt. 74-84).
Il rispetto tra colleghi, il rapporto con il paziente, il segreto professionale
Uno degli aspetti che emerge è l’alto numero di articoli presenti nel titolo I dedicato ai rapporti tra colleghi – ben 26 contro gli attuali 4 articoli – che sottolinea l’importanza di garantire il massimo rispetto reciproco, la tutela della reputazione, l’assistenza gratuita e la lealtà professionale. L’importanza data alla relazione tra colleghi è ben esemplificata nell’art. 1 nel quale si dice “In ogni circostanza il medico avrà pei colleghi quel rispetto che ha per se stesso. Sarà sollecito della loro reputazione come della propria, si comporterà verso di loro colla correttezza che egli esigerebbe per sé e sarà sempre disposto a portare loro aiuto”. L’art. 2 prescrive l’obbligo di prestare assistenza gratuita nelle malattie dei colleghi medici e dei loro congiunti conviventi, traccia rimasta anche nell’attuale Codice in cui però all’art. 58 si fa riferimento esclusivamente al dovere di curare i colleghi. Interessante e moderno, considerati i tempi di promulgazione, anche l’art. 10 del 1912 nel quale si fa riferimento al rispetto del desiderio del malato e della sua famiglia di ricorrere ad un consulto con altro medico, norma questa ripresa anche dall’attuale art. 27, dove si sottolinea la libera scelta del medico e del luogo di cura come diritto della persona.
Nel titolo II “Rapporti fra medico e cliente”, hanno rilievo sicuramente il termine “cliente”, oggi sostituito da “persona assistita” o “paziente”, e il numero di articoli, 22 articoli contro gli attuali 13. Interessante è notare che, pur utilizzando la parola “cliente” nel titolo II, nel Codice si parli più spesso di “malato”, con alcune eccezioni in quegli articoli che normano prevalentemente gli aspetti di tipo amministrativo/economico rispetto a quelli clinici (artt. 32, 33, 36, 39, 40, 47).
Il primo articolo del titolo II, l’art. 27, introduce il dovere di soccorso urgente dell’ammalato, in parallelismo con l’art. 36 “Assistenza di urgenza e di emergenza” del
Codice attuale. Tra gli articoli più interessanti, continuando a scorrere lo stesso titolo, l’art. 31 che prevede il consenso del paziente o dei suoi tutori: un segno di modernità là dove viene sottolineata la necessità di “avere il consenso o dall’ammalato o dalle persone dalle quali egli dipende se minorenne o civilmente incapace”. Da notare però che non si dà ancora importanza alla parte informativa, che è invece centrale nell’attuale Codice del 2014 all’art. 33.
Proseguendo con il Codice del 1912, degni di nota anche l’art. 34, che ricorda che “il medico non deve abbandonare un malato perché incurabile ma ha il dovere di assisterlo anche quando ogni speranza di salvezza appare perduta”, (corrisponde all’art 39 del Codice attuale), e l’art. 35, che sancisce la modalità di cura del medico secondo “sua scienza e coscienza” e l’autonomia professionale del medico che non può essere obbligato “dal malato e dalla sua famiglia a metodi di cura non accettati, né
a prestazioni speciali che egli non ritenga necessarie”. Già presenti e vincolanti gli articoli sul segreto professionale (artt. 3744) in cui si afferma che l’obbligo del segreto esiste “anche quando le notizie siano destinate a cadere o siano cadute nel dominio pubblico”. E, ancora, l’art. 39 sottolinea, in perfetto parallelismo con l’attuale art. 10, che “l’obbligo del segreto è specialmente stretto per tutte quelle notizie che potrebbero recare nocumento al cliente o alla famiglia”.
Molto interessanti e moderni anche gli articoli 42 e 43: nel primo articolo si sottolinea il dovere del medico di mantenere il segreto anche fra i membri della stessa famiglia, e nell’articolo successivo il dovere di mantenere il segreto professionale anche nei confronti delle persone di servizio, “e qualora una di queste avesse un malattia trasmissibile, il medico la consiglierà a ritirarsi dal servizio, riservandosi in caso contrario di avvertire genericamente il capo di famiglia”.
La pubblicità medica, il rapporto con le altre professioni sanitarie e gli enti pubblici e privati
Nel titolo III si approfondisce il tema della pubblicità, condannando “qualunque forma di pubblicità fatta dal medico con metodi ciarlataneschi per conquistarsi clientele”. Mentre nel titolo IV si affrontano i temi legati ai rapporti dei medici con altre categorie di professionisti sanitari con una prospettiva di divieto, diversamente da quanto sottolineato nell’attuale Codice nel quale è posta l’attenzione sulla necessità di favorire la collaborazione, la condivisione e l’integrazione fra tutti i professionisti sanitari. Presenti analogie nell’art. 54, con l’attuale art. 67 per quanto riguarda l’obbligo, “qualora egli abbia conoscenza di abusi compiuti da un altro esercente, specialmente per esorbito di competenza”, di denunciarli agli Ordini ai quali entrambi appartengono. Negli ultimi due titoli V e VI si affrontano i rapporti dei medici con enti pubblici e privati, argomenti forse più di tipo ammi-
nistrativo e contrattuale che deontologici. L’art. 71 sottolinea la gravità, condannabile anche disciplinarmente, per il medico che senza giustificato motivo cerca di sottrarsi all’obbligo di rimanere durante un’epidemia a disposizione dell’autorità locale (possiamo ritrovare memoria di questo articolo nell’attuale art. 9). Molto attuali anche gli artt. 77 e 78 inerenti al “non obbligo” per il medico di “rispondere alle domande delle compagnie di assicurazione sulla vita intorno alle condizioni di salute degli assicurandi o clienti” estendendo il dovere del medico al rispetto del segreto professionale anche qualora ci sia “l’autorizzazione del cliente”.
I documenti conservati, espressione di attività pregresse, sono fonti storiche preziose per la conoscenza e custodi della nostra memoria collettiva professionale
Una memoria professionale da custodire
In conclusione il Codice del 1912 contiene, in modo moderno, già molti dei temi affrontati negli anni nei vari Codici successivi, in particolare il rapporto tra i colleghi, la tutela della salute e la libertà di scegliere il luogo di cura e la persona a cui affidarsi, il consenso e il segreto professionale. Rimangono appena sfiorati quei temi, quali la relazione tra medico e paziente, l’informazione e la comunicazione con la persona assistita, oggi centrali e tra i più importanti. Un’ultima considerazione: questo ritrovamento sottolinea l’importanza di organizzare un archivio storico a livello ordinistico in quanto i documenti conservati, espressione di attività pregresse, sono fonti storiche preziose per la conoscenza e custodi della nostra memoria collettiva professionale. y
Nel vasto panorama delle crisi ambientali che affliggono il nostro tempo, una forma di inquinamento si sta facendo strada in modo invisibile, ma sempre più allarmante: quella causata dai farmaci e dai prodotti per la cura della persona, noti con l’acronimo Ppcp ( pharmaceuticals and personal care products). L’utilizzo di medicinali ad uso umano e veterinario, cosmetici, prodotti per l’igiene quotidiana causa la dispersione nell‘ambiente di residui chimici.
Questi inquinanti, spesso ignorati nel dibattito pubblico, sono oggi al centro dell’attenzione di chi si occupa di salute ambientale e pubblica. I Ppcp entrano nelle acque reflue e, a causa della loro persistenza e della limitata capacità dei depuratori di rimuoverli, si ritrovano nei fiumi, nei laghi, nel suolo e persino nell’acqua potabile. Le conseguenze? Preoccupanti sia per gli ecosistemi che per la nostra salute.
Un pericolo subdolo e diffuso
Le concentrazioni di questi contaminanti nell’ambiente sono generalmente molto basse, ma ciò non significa che siano innocue. Numerosi studi hanno dimostrato che anche piccole dosi possono avere effetti significativi: alterazioni del comportamento e della riproduzione negli animali acquatici, resistenze batteriche, bioac-
Farmaci e ambiente: una minaccia silenziosa per la salute globale
Servono scelte più consapevoli e nuove politiche ambientali
Roberto Romizi
Presidente Isde –Associazione medici per l’ambiente Italia
cumulo lungo la catena alimentare. Alcuni di questi composti, come gli interferenti endocrini, sono in grado di modificare il sistema ormonale umano anche a dosi infinitesimali.
Inoltre, la presenza di antibiotici nei corpi idrici è considerata una delle cause principali dell’antibiotico-resistenza. Un pericolo globale, che supera i confini nazionali e richiede risposte urgenti.
Il ruolo della comunità medico-scientifica
La sensibilità crescente su questi temi ha trovato voce anche nel recente convegno nazionale promosso dall’OMCeO Torino in collaborazione con l’International society of doctors for environment Italia (Isde), che si è tenuto nel marzo scorso a Torino.
Un incontro che ha visto la partecipazione di medici, ricercatori, amministratori, attivisti e rappresentanti del mondo sanitario e ambientale. Un evento nato dalla consapevolezza che ambiente e salute non sono ambiti separati, ma due volti della stessa realtà. Ogni volta che si inquina un
fiume, si minaccia la salute delle comunità. Ogni volta che si diffonde un inquinante persistente, si moltiplicano le probabilità di malattie per le generazioni future.
Prescrivere in modo consapevole, smaltire in modo sicuro
Uno dei temi centrali emersi durante il convegno riguarda l’importanza della prevenzione primaria. I medici, come attori di prima linea nella difesa della salute pubblica, possono fare molto: dalla sensibilizzazione dei pazienti al corretto smaltimento dei farmaci, alla scelta di terapie realmente necessarie, evitando l’uso eccessivo di farmaci inappropriati. Una medicina più sobria e attenta all’ambiente è una medicina anche più giusta.
A ciò si aggiunge la necessità di campagne informative rivolte alla cittadinanza: pochi sanno che gettare i medicinali nel lavandino o nel water equivale a contaminarci da soli. Le farmacie devono rimanere presìdi fondamentali nella raccolta dei farmaci scaduti, ma serve anche un’educazione culturale e civica che parta dalle scuole e coinvolga le famiglie.
Le responsabilità delle istituzioni e dell’industria
L’azione dei singoli non può però bastare. È necessario un intervento coordinato e deciso da parte delle istituzioni, a partire dall’adeguamento dei sistemi di depurazione delle acque. Gran parte degli impianti oggi operativi non è progettata per trattenere i microinquinanti come i Ppcp. Occorrono investimenti mirati e l’introduzione di tecnologie avanzate – come i filtri a carboni attivi o l’ozonizzazione –capaci di rimuovere anche le sostanze più resistenti.
Le politiche pubbliche devono anche favorire la ricerca di alternative ecocompatibili, promuovere pratiche agricole meno dipendenti da farmaci veterinari, incentivare le aziende farmaceutiche e cosmetiche a ridurre l’impatto ambientale dei loro prodotti. Tutto ciò deve avvenire in un contesto normativo più rigoroso, in cui si
stabiliscano limiti precisi per la presenza di Ppcp nelle acque e nei suoli.
Ppcp, Pfas, pesticidi: tre volti dello stesso problema L’inquinamento da Ppcp non è un fenomeno isolato, anzi. L’ambiente è sempre più contaminato da composti chimici persistenti, come i pesticidi o le sostanze pere polifluoroalchiliniche (Pfas), spesso mal regolati e scarsamente monitorati e che minano alla base il diritto universale alla salute e a un ambiente sano. Difendere l’ambiente, oggi, non è più una questione di sensibilità personale, ma un obbligo sanitario e costituzionale. In Italia, l’articolo 9 della Costituzione tutela l’ambiente come valore fondativo della Repubblica. In Europa, la nuova direttiva sulla qualità delle acque riconosce finalmente i microinquinanti come una priorità. È su questa strada che dobbiamo continuare, con coerenza e coraggio.
Conclusione: quello che serve è un cambio di paradigma
L’inquinamento da farmaci e cosmetici è un esempio paradigmatico della complessità della crisi ambientale in cui ci troviamo. Non è causato da grandi disastri, ma da milioni di gesti quotidiani. Non produce danni immediati, ma agisce lentamente e silenziosamente. Eppure, proprio perché è diffuso e invisibile, è anche il più insidioso.
La salute umana non può essere separata dalla salute del pianeta. Solo ripensando i nostri modelli produttivi, sanitari e culturali potremo invertire la rotta. Isde continuerà ad essere in prima linea su questo fronte, promuovendo una medicina integrata, consapevole e attenta all’ambiente. Perché ogni prescrizione, ogni scelta e ogni politica possono essere anche un atto di cura verso la Terra. y
Dal Torinese alla Val di Susa, cresce la preoccupazione per i Pfas
Gli inquinanti eterni e i medici sentinella
Da alcuni mesi si discute sempre più spesso della presenza di sostanze inquinanti nelle acque del torinese. Al centro dell’attenzione ci sono i Pfas, composti chimici utilizzati in numerosi prodotti di uso quotidiano – dai tessuti impermeabili alle pentole antiaderenti – e nei processi industriali. Queste sostanze sono note per la loro resistenza alla degradazione: una volta disperse nell’ambiente, restano a lungo nell’acqua, nel suolo e negli organismi viventi. Per questo sono stati definiti “inquinanti eterni”. Un recente report di Greenpeace ha portato l’attenzione sulla situazione del Piemonte, dove in diverse aree, tra cui Torino, sono stati rilevati livelli significativi di Pfas anche nell’acqua potabile. La notizia ha sollevato domande legittime rispetto agli effetti a lungo termine dell’esposizione e alla responsabilità medica nel riconoscere e segnalare le patologie connesse a fattori ambientali.
Per capire meglio la situazione, l’OMCeO di Torino ha intervistato di Giuseppe Ungherese, responsabile campagne inquinamento di Greenpeace Italia. “Dalla lettura dei dati raccolti da Greenpeace nel
2024 è emersa una contaminazione diffusa di tutta la città metropolitana di Torino, che interessava oltre 70 Comuni. Almeno 125.000 persone sono state esposte nel tempo attraverso l’acqua potabile a Pfoa, un composto chimico appartenente alla famiglia dei Pfas che oggi è classificato come cancerogeno certo per l’uomo”. Le successive indagini indipendenti hanno rilevato ulteriori casi di inquinamento in diversi comuni, tra cui alcuni in Val di Susa. Le fonti della contaminazione sono molteplici: stabilimenti chimici come l’ex Solvay di Alessandria, discariche, lavorazioni tessili, industria della carta e impianti galvanici.
I Pfas destano crescente preoccupazione per i rischi sulla salute umana. A fine novembre 2023, durante il processo in Veneto per disastro ambientale, Philippe Grandjean ha definito queste sostanze “il
Di fronte a un problema così ampio e complesso, è fondamentale che ognuno faccia la propria parte, qualunque sia il ruolo che ricopre nella società
Il report di Greenpeace “Pfas e acque potabili in Piemonte”
L’intervista video a Giuseppe Ungherese
nuovo amianto”, poiché causano effetti nocivi sul lungo periodo. Alcune sostanze sono interferenti endocrini, in grado di alterare il nostro sistema ormonale. In Italia, la prima reazione a queste denunce, osserva Ungherese, è spesso negazionista o minimizzante: si tende ad accusare Greenpeace di allarmismo o a dichiarare che l’acqua è sicura. “Ma oggi possiamo affermare che in Italia vi è una contaminazione diffusa da queste sostanze, tant’è che a marzo il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legislativo che abbasserà ulteriormente i limiti di Pfas consentiti nelle acque potabili, anticipando le soglie previste a partire dal 2026”.
“Tante nazioni hanno adottato limiti estremamente cautelativi per la salute umana. Chiediamo anche all’Italia di fare lo stesso, perché è necessario tutelare un
bene prezioso e comune come le acque potabili, garantendo che la popolazione possa usufruirne in assoluta sicurezza. Di fronte a un problema così ampio e complesso, è fondamentale che tutte le persone facciano la loro parte, indipendentemente dal ruolo che ricoprono nella nostra società”, sottolinea Ungherese. “La cittadinanza può chiedere agli enti pubblici l’accesso a dati puntuali e trasparenti, che indichino i livelli di contaminazione delle singole molecole, così da avere una visione
Bambine, bambini e inquinamento
Cosa c’è da sapere e cosa possiamo fare noi pediatri
L’Elena Uga Pediatra Presidente Isde –
impatto dell’inquinamento ambientale sulla salute della popolazione, in particolare delle fasce più fragili come le bambine e i bambini, è oggetto di grande attenzione da parte dei media, della politica e della comunità scientifica. È necessario che il personale sanitario e la comunità conoscano le implicazioni dell’inquinamento sulla salute dei più piccoli in modo da poter fornire alle famiglie consigli adeguati e basati su evidenze.
I bambini si “inquinano” di più Bambine e bambini, soprattutto nei primi mille giorni (quelli che vanno dal concepimento ai 2 anni di vita), sono più sensibili ai possibili danni derivanti da sostanze inquinanti che mangiano, respirano e assorbono attraverso la cute per vari moti-
chiara e acquisire consapevolezza del reale stato delle acque potabili. L’OMCeO può sicuramente svolgere un ruolo importantissimo, come già avvenuto in Veneto negli anni scorsi con i medici di famiglia, promuovendo la loro sensibilizzazione su questo problema. I medici, così informati, possono diventare vere e proprie sentinelle sul territorio, in grado di segnalare eventuali aumenti di patologie potenzialmente riconducibili alla presenza di queste sostanze”. y vi non solo fisiologici. Per esempio un bambino con meno di un anno proporzionalmente a peso e superficie corporea riceve e assorbe attraverso gli alveoli polmonari un quantitativo di aria 2,3 volte superiore a un adulto, assorbe e metabolizza un quantitativo di liquidi 4,8 volte maggiore e mangia un quantitativo di cibo 6,1 volte maggiore. Essendo aria, acqua e cibo fra le principali fonti di inquinanti per l’organismo, questo crea ovviamente una maggior suscettibilità ai loro possibili danni. I motivi per cui le bambine e i bambini sono fragili però sono anche altri: innanzitutto hanno, ovviamente, un’aspettativa di vita più lunga e, essendo in rapida crescita, hanno un metabolismo accelerato; non bisogna inoltre trascurare il danno transgenerazionale che gli inquinanti possono causare, già in epoca fetale, alle cellule riproduttrici attraverso documentate alterazioni epigenetiche. In questo contesto diventa centrale il concetto di esposoma, che rappresenta la descrizione della storia personale di tutte le interazioni di un individuo con l’ambiente e di come queste siano in grado di lasciare un’impronta molecolare nell’organismo. L’esposoma comprende sia agenti fisici e chimici presenti nell’aria o nell’acqua, sia stili di vita (alimentazione, attività fisica, fumo o alcol) e fattori socioeconomici, tenendo conto delle complesse interazioni tra questi fattori e la genetica nell’influenzare la salute umana.
Associazione medici per l’ambiente Vercelli
La consapevolezza dello stretto rapporto fra ambiente e salute – soprattutto per le popolazioni fragili come quella pediatrica – è stato ormai interiorizzata sia dalla comunità scientifica, come dimostra l’aumento costante delle pubblicazioni sul tema, sia dalle organizzazioni internazionali, in primis l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). In particolare in un rapporto pubblicato nel 2023, una serie di sigle internazionali capitanate da Oms e Unicef ha lanciato un appello per proteggere la salute materna, dei neonati e delle bambine e dei bambini dall’impatto negativo di inquinamento e cambiamenti climatici. In tale occasione Bruce Aylward, assistant director general della Universal health coverage, Life course Division dell’Oms, ha dichiarato che “il cambiamento climatico rappresenta una minaccia esistenziale per tutti noi, ma le donne in gravidanza, i neonati, le bambine e i bambini si trovano ad affrontare alcune delle conseguenze più gravi. Il futuro delle bambine e dei bambini deve essere consapevolmente protetto, il che significa agire ora
Che cosa respiro?
Questo articolo è un estratto della versione integrale pubblicata online
L’inquinamento atmosferico è una realtà che riguarda tutti, con effetti più gravi nei contesti industrializzati e per chi vive in condizioni di maggiore vulnerabilità. I bambini sono particolarmente esposti, soprattutto a livello degli strati più bassi dell’aria, dove si concentrano le particelle più pesanti. Le principali fonti di inquinamento sono il riscaldamento domestico, il traffico, le attività industriali, l’agricoltura e gli inceneritori; negli ambienti chiusi, contribuiscono anche il fumo di tabacco e l’uso di combustibili non adeguatamente ventilati. Nel 2013 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha classificato l’inquinamento atmosferico come cancerogeno certo per l’uomo.
Cosa mi metto sulla pelle?
Creme, detergenti, tessuti sintetici e cosmetici sono veicoli di inquinanti e interferenti endocrini che entrano nell’organismo anche per via cutanea. Un focus particolare riguarda le creme solari: un position paper del 2024 ha evidenziato possibili effetti nocivi di alcuni filtri solari, nonché i limiti degli studi esistenti, spesso sponsorizzati da produttori. Premessa l’importanza della vita all’aperto, è possibile proteggere la pelle dei bambini privilegiando indumenti protettivi, cappelli, zone in ombra e mediante un uso selettivo e consapevole dei solari, soprattutto nei cosiddetti “1000 giorni”, periodo particolarmente vulnerabile.
per la loro salute e la loro sopravvivenza, assicurando al contempo che le loro esigenze specifiche siano riconosciute nella risposta al clima”.
Dall’Antropocene al Simbiocene: verso un mondo possibile
Per partire dalla percezione del rischio e arrivare ad azioni concrete che tutelino ambiente e salute, è centrale – ancor di più per noi pediatri – il concetto olistico di One health. Con il termine One health si intende un modello che integra discipline diverse, basandosi sul riconoscimento che la salute umana, la salute animale e la salute dell’ecosistema sono indissolubilmente legate. One health rappresenta l’approccio ideale per raggiungere la salute globale, poiché affronta i bisogni delle popolazioni più vulnerabili, considerando l’intima relazione tra la loro salute, quella degli animali e l’ambiente in cui vivono, e l’ampio spettro di determinanti che emerge da questa connessione.
A questo si aggiunge la necessità di progettare il futuro, oltre il pessimismo, cam-
Cosa mangio?
Gli inquinanti alimentari provengono da pesticidi, antibiotici, farmaci veterinari, materiali a contatto con gli alimenti e microplastiche. Queste ultime, presenti anche in bottiglie, pellicole, utensili e tessuti, si accumulano nell’ambiente e possono essere ingerite. Una fonte importante di microplastiche nei neonati è il biberon. A fronte di questi rischi, la comunità scientifica pediatrica promuove il “greenfeeding”: un’alimentazione sostenibile, centrata su allattamento materno e riduzione di cibi ultraprocessati. Il Regolamento Ue 2023/1442 interviene sulla sicurezza dei materiali plastici, ma serve anche una maggiore consapevolezza individuale.
Cosa guardo?
L’uso precoce e prolungato di dispositivi elettronici incide negativamente sul benessere visivo e relazionale dei bambini. I campi elettromagnetici emessi da smartphone e tablet sono stati classificati come possibili cancerogeni, mentre il tempo trascorso davanti agli schermi limita il gioco attivo, la relazione e l’esperienza sensoriale. L’Oms, nelle sue linee guida 2023, raccomanda: nessuno schermo sotto l’anno di età, massimo un’ora al giorno tra i due e i quattro anni e sempre con la supervisione di un adulto. Un’educazione precoce all’uso responsabile è fondamentale per ridurre i rischi e favorire uno sviluppo sano.
biando approccio mentale e introducendo il concetto di Simbiocene in contrapposizione all’Antropocene. L’Antropocene è l’epoca geologica attuale in cui l’ambiente terrestre viene fortemente condizionato, su scala locale e globale, dagli effetti della azione umana. Il Simbiocene rappresenta una nuova era in cui l’uomo torna a pensarsi in “simbiosi” con la natura e con tutti gli esseri viventi, e in cui prevalgono l’armonia e le emozioni positive.
Proprio in quest’ottica di azioni e emozioni positive, noi pediatri abbiamo il dovere di informare le famiglie sui benefici dello stare in natura, anche come compensazione agli effetti negativi dell’esposizione agli inquinanti. È infatti dimostrato che la frequentazione degli ambienti naturali, a partire dai primi mille giorni, comporta una riduzione della mortalità per tutte le cause, in particolare per le malattie cardiovascolari e polmonari, e una diminuzione dei disturbi neuropsichiatrici. Essere “immersi” nella natura ci fa sentire parte di qualcosa di più grande e può aiutare a liberare la nostra mente da stress e preoccupazioni.
Per godere di questi benefici, sarebbe ideale trascorrere almeno due ore alla settimana a contatto con la natura, o comunque mantenere un contatto regolare e consapevole con essa, anche in “piccole dosi” quotidiane, attraverso attività come la cura di un giardino o di un orto, una passeggiata in un parco o un’altra attività sportiva all’aperto.
In conclusione, esistono concrete possibilità di cambiamento e di riduzione degli effetti negativi legati a inquinamento e salute. Come? Suggerendo alle famiglie stili di vita che permettano una minore esposizione e un impatto ambientale ridotto, bilanciando gli effetti negativi degli inquinanti con la frequentazione degli ambienti naturali, favorendo lo sviluppo di una maggiore sensibilità che permetta di bussare alle porte delle istituzioni e chiedere un intervento dall’alto per proteggere le famiglie. y
Un’app per la prevenzione primaria
Per orientare le scelte di alimenti e cosmetici
Marco Calgaro
Medico di medicina generale, specialista in geriatria
Referente Isde
Italia – Associazione medici per l’ambiente Novara
La prevenzione primaria è la forma principale di prevenzione e comprende gli interventi finalizzati a prevenire l’insorgenza delle malattie, affrontando le cause e i fattori predisponenti.
L’App Yuka:
“Fai le scelte migliori per la tua salute”
L’obiettivo è cambiare abitudini e comportamenti scorretti, oltre a evitare l’esposizione a fattori ambientali dannosi. A tale scopo risulta molto utile un’app gratuita di nome Yuka: molti colleghi la usano già da tempo e la consigliano ai loro pazienti. L’app Yuka: come funziona? Si tratta di un’app realizzata da una start up francese, non sponsorizzata, che funziona inquadrando il codice a barre di prodotti alimentari e cosmetici. Essa fornisce immediatamente uno score da 0 a 100 che valuta la qualità del prodotto. Per i cosmetici la valutazione prende in considerazione tutte le sostanze che vi sono contenute: sostanze allergizzanti, cancerogene o interferenti endocrini che abbassano lo score. Per gli alimenti la valutazione prende in considerazione i valori nutritivi (calorie, grassi, zuccheri, ecc.) e gli additivi contenuti. Gli alimenti certificati biologici hanno quasi sempre score più alti. In caso di score bassi l’app propone delle alternative in commercio sulla base del suo data base, sempre rigorosamente non sponsorizzato. Per gli alimenti, Yuka si basa sulle informazioni fornite da Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare) e Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), e
Dedicare qualche minuto nel rapporto con i pazienti e promuovere l’uso di questa app può senz’altro essere di grande beneficio
da studi scientifici indipendenti pertinenti, classificati per livello di prova. Le revisioni sistematiche e le meta-analisi sono utilizzate in primo luogo, seguite da studi di coorte, studi caso-controllo, studi sugli animali e opinioni di esperti. Yuka utilizza, tra gli altri strumenti, il sistema di valutazione Klimisch, un punto di riferimento in tossicologia, per valutare la qualità degli studi sperimentali. Per valutare il profilo nutrizionale l’app si basa sul Nutri-Score un sistema fondato sul modello di profilazione nutrizionale della Food standards agency del Regno Unito. Nutri-Score è stato adottato in Francia nell’ottobre del 2017, a seguito di una serie di studi sperimentali eseguiti su vasta scala, nel 2018 in Spagna, nel 2019 nei Paesi Bassi e Belgio, nel 2020 in Germania e Lussemburgo. Per i cosmetici, le fonti utilizzate includono opinioni di organismi ufficiali nazionali francesi, come l’Anses (Agenzia nazionale per la sicurezza alimentare, ambientale e occupazionale), l’Ansm (Agenzia nazionale per la sicurezza dei farmaci e dei prodotti sanitari) e il Cnr (Centro nazionale per la ricerca scientifica), nonché il Cssc (Comitato scientifico europeo per la sicurezza dei consumatori) e l’Iarc (Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), insieme a database scientifici internazionali (SIN List, TEDX List, Skin Deep, ecc.). Limiti e considerazioni. È importante sottolineare che l’uso dell’app da solo non garantisce una salute migliore, poiché lo stato di salute dipende anche dalla quantità di prodotto consumato o utilizzato e dalla frequenza con cui ciò avviene. Ad ogni modo, essa fornisce rapidamente informazioni utili che il consumatore altrimenti non avrebbe a disposizione. Una delle critiche mosse all’app Yuka è che potrebbe spingere i consumatori a escludere
alimenti che, se consumati in modo occasionale, non comportano rischi per la salute. Ad esempio, Yuka e altri sistemi di valutazione nutrizionale non consigliano alimenti come il lardo di Colonnata, che pur essendo una prelibatezza, è molto ricco di grassi. Tuttavia, ciò non implica che tale alimento debba essere demonizzato, ma è importante essere consapevoli del suo contenuto e bilanciarne l’assunzione nella dieta. Un altro aspetto da considerare è che Yuka si basa esclusivamente sulla lista degli ingredienti riportata in etichetta, la quale non sempre fornisce tutte le informazioni necessarie su un alimento o una bevanda. Per esempio, Yuka non può rilevare la presenza di fitofarmaci nel tè, dell’acrilammide nelle patatine fritte, o dei Pfas in altri prodotti, tutti elementi che potrebbero influire sulla salute. L’app gratuita ha una versione a pagamento che permette di valutare i prodotti anche solo inserendo il nome, senza quindi avere il codice a barre. L’iniziativa si sostiene economicamente grazie agli abbonamenti alla versione a pagamento e alla vendita di un libro.
Dedicare qualche minuto nel rapporto con i pazienti e promuovere l’uso di questa app può senz’altro essere di grande beneficio. y
«L’etica medica e la bioetica vengono talvolta usate come sinonimi, ma hanno origini e ambiti distinti. Quali sono, a suo avviso, i confini tra queste due discipline? E come possiamo oggi definire la bioetica nel suo nucleo concettuale più profondo?
Nel suo significato principale, la bioetica può essere definita come l’etica medica delle società contemporanee, pluraliste e secolarizzate. È importante sottolineare che sebbene la riflessione etica sulla medicina sia molto antica – può essere fatta risalite ad Ippocrate, mentre il primo codice deontologico, quello dell’American Medical Association, è del 1847 – la bioetica vera e propria nasce nella seconda metà del secolo scorso negli Stati Uniti e poi si diffonde rapidamente in Europa. Nasce quando la medicina diventa una disciplina scientifica e sperimentale: aumentano non solo i costi di farmaci e cure, ma anche la capacità della medicina stessa di incidere profondamente sulla vita degli individui. Sorgono problemi nuovi che riguardano il rap-
La bioetica oggi, tra vecchie e nuove sfide
Una conversazione con
Luca Savarino
Professore di Bioetica
Università del Piemonte Orientale Comitato nazionale per la bioetica della Presidenza del Consiglio dei ministri
porto medico-paziente, l’allocazione delle risorse sanitarie e – non da ultimo – la trasformazione dei processi naturali. Le scienze biomediche novecentesche hanno progressivamente aumentato la facoltà umana di conoscere e di agire all’interno dei cicli biologici che regolano la vita (umana e non umana) Il processo del morire è stato quasi completamente sottratto alla natura e affidato a molteplici decisioni umane che solo in parte sono decisioni cliniche e, dunque, non possono più essere di pertinenza esclusiva degli operatori
sanitari. Ad un progressivo accrescimento del potere dei medici sulla vita dei pazienti è seguito una richiesta sempre maggiore di controllo e di autonomia dei cittadini in campo medico. Analogamente, le scelte riproduttive sono state rivoluzionate: la diffusione della contraccezione negli anni Cinquanta ha creato i presupposti per la messa a punto delle tecnologie di riproduzione medicalmente assistita, trasformando il processo del nascere così come è
L’etica medica tradizionale si mostra inadeguata a rispondere ai rapidi mutamenti scientifici e sociali che richiedono una nuova disciplina con una vocazione pubblica e non più espressione di una riflessione deontologica
“tra medici”
stato conosciuto per milioni di anni. L’etica medica tradizionale si mostra inadeguata a rispondere ai rapidi mutamenti scientifici e sociali che richiedono una nuova disciplina con una vocazione pubblica e non più espressione di una riflessione deontologica “tra medici”, ma che si occupi di problemi che coinvolgono i pazienti e più in generale tutti i cittadini.
Qual è stato, a suo avviso, il terreno fertile che ha permesso alla bioetica di affermarsi proprio in quel momento storico?
La trasformazione dell’etica medica tradizionale non è dovuta solo a elementi di carattere scientifico, ma anche a fattori di tipo socioculturale. Non è un caso che la bioetica sia nata negli Stati Uniti e si sia rapidamente diffusa in Europa, il che significa che si è sviluppata in società tecnologicamente avanzate, certo, ma anche prospere e in cui era profondamente radicata una concezione liberale dell’autonomia individuale. Si tratta di società pluralistiche, vale a dire società composte di quelli che uno dei padri fondatori della bioetica – Tr. H. Engelhardt jr. – ha definito “estranei morali”, persone che non
condividono la stessa concezione della vita buona. All’interno di un contesto in cui i valori fondamentali dei cittadini sono frammentari, si è fatta sentire l’esigenza di una riflessione che fosse in grado di armonizzare visioni del mondo antitetiche (concezioni della medicina, del modo in cui si muore e del modo in cui si mettono al mondo i figli) producendo norme percepite come legittime dalla maggior parte delle persone. A ciò si deve aggiungere il fatto che all’interno di un simile contesto culturale, liberale e pluralistico, anche in ambito medico – come in quello economico – si fa valere con sempre maggior forza l’esigenza di un controllo individuale su processi che condizionano l’esistenza individuale. Il superamento del paternalismo medico tradizionale nasce dalla consapevolezza che il monopolio decisionale non può più appartenere a una sola delle parti della relazione di cura; occorre quindi definire forme e limiti della reciproca autonomia di medico e paziente.
Superato il modello paternalistico si è progressivamente affermato il principio del consenso informato. Qual è stato il percorso storico e culturale che ha portato a questo cambiamento? E in che modo il consenso informato ha ridefinito le responsabilità e i ruoli all’interno della relazione di cura?
Il consenso informato è diventato uno degli assi centrali della letteratura bioetica e degli ordinamenti giuridici dei Paesi non solo occidentali: è stata formalizzata l’idea che il paziente debba essere informato sulle sue condizioni di salute, che gli debba essere prospettata la possibile evoluzione della sua patologia, che debbano essere illustrati i trattamenti a cui si intende sottoporlo e che sia necessario il suo consenso per poter procedere con le terapie previste. In Italia, la legge 219 del 2017 definisce il consenso informato come forma della relazione medico-paziente, come processo e non come evento puntuale. Il tempo di comunicazione con il paziente è tempo di cura. Il rapporto con il paziente viene pensato come una relazione fiduciaria (la co-
Foto di Clive Kim / CC BY
IL PUNTO SULLA BIOETICA DI OGGI
siddetta “alleanza terapeutica” secondo la diffusa metafora di sapore veterotestamentario), in cui entrambi gli attori esercitano la propria autonomia. Ad essere tutelata non è più soltanto l’autonomia professionale del medico, ma anche la facoltà di autodeterminazione del paziente, considerata una precondizione essenziale per il mantenimento della fiducia che è caratteristica del rapporto di cura.
Qual è la logica profonda che ispira la 219 e quali implicazioni etiche e giuridiche comporta per la pratica clinica? Possiamo interpretare la logica sottesa alla 219 come una traduzione in ambito sanitario dell’ habeas corpus liberale classico: in assenza di una specifica disposizione di legge (per esempio una norma che obblighi determinate categorie professionali a vaccinarsi) affinché qualcuno abbia il diritto di esercitare una qualsiasi azione sul corpo di un paziente è necessario il permesso del paziente stesso. La sovranità di ciascun individuo sul proprio corpo, che è da sempre uno dei valori fondamentali di una società liberale, implica pertanto che il paziente abbia il diritto di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento che il medico gli proponga, anche se da tale rifiuto deriva la morte del paziente stesso. È importante ricordare che il rifiuto dei trattamenti può consistere sia nel non iniziare
La legge 219 rappresenta per i medici uno strumento prezioso per sottrarsi a pressioni esterne che possono condurre a forme, anche inconsapevoli, di accanimento terapeutico
una terapia (withholding) sia nell’interromperla (withdrawing). La legge equipara queste due possibilità e stabilisce che, se il paziente non può sospendere autonomamente il trattamento, spetta al medico farlo, senza possibilità di obiezione di coscienza. Il paziente non è tenuto a giustificare il proprio rifiuto, e non è lecito distinguere tra motivazioni sanitarie ed extra sanitarie, come nel caso di un testimone di Geova o di un detenuto in sciopero della fame che ha il diritto a non essere alimentato o rianimato forzatamente. In ogni caso, la scelta del paziente di lasciarsi morire non può mai tradursi in abbandono terapeutico: il malato ha in ogni caso il diritto di essere accompagnato alla morte tramite un’adeguata assistenza di tipo palliativistico che include anche la cosiddetta sedazione palliativa continua profonda, che in nessun caso può essere considerata un atto eutanasico.
Alcuni temono che la 219 trasformi la cura in un rapporto prevalentemente giuridicocommerciale. Cosa risponde?
A chi teme che la legge 219 possa trasformare il rapporto di cura in una relazione giuridico-commerciale, si possono dare due risposte. La prima è che norme di questo tipo riflettono un cambiamento sociale profondo: in una società fondata sull’autonomia individuale, la fiducia non è cieca ma si fonda su una vigilanza consapevole. Promuovere l’autonomia del paziente, quindi, non indebolisce il rapporto fiduciario, bensì lo rende possibile. La seconda risposta è che la 219 sancisce l’autodeterminazione ma non in modo assoluto, ponendo ad essa due limiti molto precisi: il paziente ha il diritto di rifiutare un trattamento tuttavia non ha il diritto di chiedere di essere ucciso o aiutato a morire (la 219 vieta l’eutanasia e anche il suicidio medicalmente assistito che è stato introdotto nel nostro ordinamento due anni dopo, nel 2019, con la sentenza 242 della Corte costituzionale) né può esigere trattamenti contrari alla legge, alla deontologia o alle buone pratiche clinico-assisten-
ziali. L’autonomia del paziente è dunque riconosciuta ma sempre in equilibrio con l’autonomia del medico e il quadro normativo vigente. La legge 219 rappresenta per i medici uno strumento prezioso per sottrarsi a pressioni esterne – talvolta da parte delle famiglie, talvolta interiorizzate dagli stessi operatori – che possono condurre a forme, anche inconsapevoli, di accanimento terapeutico. È una buona legge, ancora troppo poco conosciuta e applicata. Per questo è necessario promuovere una formazione capillare sui diritti e doveri del medico, alla luce delle norme introdotte negli ultimi dieci anni. In particolare, occorre rafforzare le medical humanities nei percorsi di formazione dei giovani medici, per aiutarli a orientarsi nella relazione con i pazienti e le loro famiglie. Un’urgenza resa ancora più evidente dall’invecchiamento della popolazione, che impone una concezione più ampia della cura: non solo trattamenti attivi, ma anche cure palliative e una cultura dell’accompagnamento al morire, che non è abbandono.
La bioetica è un campo intrinsecamente interdisciplinare che si muove tra filosofia, medicina, diritto, scienze sociali e politiche sanitarie. Quali competenze ritiene fondamentali per chi si occupa di bioetica oggi?
La bioetica non è una disciplina accademica tradizionale. Come ha raccontato Albert Jonsen in The Birth of Bioethics (1998), le prime conferenze di bioetica si tennero negli anni Sessanta su iniziativa di case farmaceutiche, coinvolgendo esperti provenienti da ambiti diversi: teologi, filosofi, giuristi, medici, scienziati, economisti. Questa multidisciplinarità è un tratto distintivo della bioetica che, però, rende complessa la definizione di competenze e percorsi formativi per i bioeticisti. È un nodo che in Italia, prima o poi, andrà affrontato seriamente, anche perché il contesto internazionale ed europeo richiederà sempre più la presenza della bioetica nelle università e negli ospedali.
IL PUNTO SULLA BIOETICA DI OGGI
La bioetica globale si configura oggi come una riflessione di medio lungo periodo sulle conseguenze della tecnica sulla vita di tutti gli enti che popolano il pianeta terra
La bioetica tradizionale connessa al modello neoliberista sembra ormai inadatta ad affrontare le nuove criticità in un contesto che dà un maggiore rilievo alle dimensioni interpersonale, sociale e ambientale. In quale direzione dovrebbe evolvere la bioetica per rispondere meglio alle sfide contemporanee?
Da un paio di decenni sta emergendo la tendenza a concepire la bioetica non solo come disciplina che si occupa delle conseguenze a breve termine della tecnica sulle vite dei pazienti ma sempre più come “bioetica globale”. Non si tratta solo di un mutamento legato al fatto che i temi di bioetica, originariamente nati in occidente, si siano diffusi in tutto il resto del mondo: sono in gioco dinamiche molto più profonde. È emersa la consapevolezza che i fattori che influenzano il percorso di malattia non siano solo individuali o sociali, ma siano anche fattori di carattere ambientale. Discipline come la global health e la planetary health hanno affiancato l’idea tradizionale di public health. La pandemia da covid-19 e, prima ancora, la consapevolezza della crisi ambientale hanno fatto sì che la bioetica non si concentrasse più esclusivamente sulla salute umana e che adottasse una prospettiva globale che chiama in causa la salute delle forme di vita non umane e dell’intero pianeta. La bioetica globale, in questo modo, si configura oggi come una riflessione di medio lungo periodo sulle conseguenze della tecnica sulla vita di tutti gli enti che popolano il pianeta Terra, in un’ottica One health che integra salute umana, animale e ambientale. y
Per coloro che si impegnano a dare risposte realistiche all’attuale crisi climatica, i risultati delle elezioni presidenziali rappresentano un importante passo indietro. Le nomine annunciate per la seconda amministrazione Trump indicano con forza un ritorno a politiche di negazione, greenwashing e smantellamento dei progressi compiuti negli ultimi anni. Un elemento positivo, in questo scenario altrimenti desolante, è che buona parte delle misure di mitigazione previste dall’Inflation Reduction Act dovrebbe essere attuata entro gennaio 2025, rendendo più difficile annullarle (ndr, l’articolo è stato pubblicato precedentemente e l’amministrazione Trump sta smantellando questo impianto normativo). Tuttavia, è legittimo chiedersi: e ora? È ancora possibile fare la differenza nei prossimi quattro anni? E, soprattutto, la bioetica ha un ruolo da svolgere in questo impegno?
Sostengo che ci sia un lavoro importante da fare e che la bioetica debba trovarsi pienamente al centro di questo impegno. Il lavoro da svolgere riguarda meno le politiche federali e più la persuasione dell’opinione pubblica. Il ruolo della bioetica è quello di portare il riscaldamento globale e le sue catastrofiche conseguenze sulla salute al centro dell’attenzione, come una crisi esistenziale che nessuno dei due schieramenti politici può permettersi di ignorare.
Gli effetti del cambiamento climatico sono profondi, travolgenti e sempre più gravi. Sono ben noti, ma credo che raramente riescano a colpire abbastanza in profondità da spingere all’azione. Lo scioglimento delle calotte polari, la riduzione delle regioni di permafrost, l’innalzamento e il riscaldamento degli oceani, l’aumento delle temperature medie, gli incendi boschivi sempre più frequenti e violenti, uragani, tifoni, tempeste e inondazioni senza precedenti sono fenomeni che già stiamo vivendo – e che peggioreranno. Le conseguenze sanitarie future di questi cambiamenti ambientali sono quasi
Bioetica e mitigazione dei disastri climatici
Per un’informazione onesta e un’azione collettiva efficace
inimmaginabili. Si verificheranno enormi perdite di vite umane, soprattutto tra le popolazioni più povere del mondo, a causa del caldo incessante, di terre inabitabili, della carenza di cibo e acqua e del collasso di economie e governi nazionali. Già oggi un quarto della popolazione mondiale non ha accesso ad acqua potabile sicura, con il risultato che quasi 2 miliardi di persone lottano quotidianamente per soddisfare i propri bisogni fondamentali di acqua pulita. Entro il 2030, la salinizzazione dei terreni irrigati, l’evaporazione dovuta all’aumento delle temperature e le inondazioni sempre più frequenti delle aree costiere faranno sì che un altro miliardo di persone resti privo di fonti sicure di acqua potabile.1
Inoltre, il cambiamento climatico influisce sulla diffusione, l’intensità e la stagionalità di malattie infettive come la malaria e il colera. In generale, esso determi-
Larry R. Churchill Professor of Medical ethics emeritus Vanderbilt university Medical center Nashville
(USA)
Gli effetti del cambiamento climatico sono profondi, travolgenti e sempre più gravi. Tuttavia, sebbene siano ben noti, raramente riescono a penetrare abbastanza da motivare azioni concrete
nerà un aumento significativo della trasmissione di malattie a livello globale. Le emergenze legate al caldo, i disturbi della salute mentale e i problemi sanitari più ampi – come il deterioramento della sicurezza alimentare e le sue conseguenze – si aggiungono ai danni crescenti provocati dal cambiamento climatico.2 Il peso del cambiamento necessario per evitare o mitigare esiti sanitari così disastrosi ricade sui principali responsabili dell’inquinamento. Stati Uniti, Cina e India sono i tre maggiori emettitori di gas serra, responsabili di oltre il 42 per cento delle emissioni globali. I bioeticisti statunitensi dovrebbero chiedere conto al proprio Paese del ruolo che ricopre come grande inquinatore, e rivendicare l’obbligo di contribuire alla mitigazione del cambiamento climatico e dei disastri sanitari che ne derivano, in nome dell’impegno bioetico per la giustizia. Una strategia fondamentale per chiamare gli Stati Uniti alle proprie responsabilità è quella di conquistare i cuori e le menti dei citta-
IL PUNTO SULLA BIOETICA
dini – ed è proprio qui che i bioeticisti possono fare la differenza. L’onere del cambiamento per evitare o mitigare questi esiti disastrosi sulla salute spetta ai principali inquinatori. Stati Uniti, Cina e India sono i maggiori emettitori di gas serra,3 responsabili di oltre il 42 per cento delle emissioni globali. I bioeticisti negli Stati Uniti dovrebbero ritenere il proprio Paese responsabile, in quanto grande inquinatore, con l’obbligo di mitigare il cambiamento climatico e i disastri sanitari che ne derivano, come parte degli impegni bioetici verso la giustizia. Una tattica chiave per responsabilizzare gli Stati Uniti è quella di lottare per i cuori e le menti dei nostri concittadini, ed è qui che i bioeticisti possono fare la differenza. Secondo il senso comune, chi nega il cambiamento climatico non può essere convinto con i fatti e con la ragione. Ma l’idea che la negazione sia un blocco psicologico monolitico, impermeabile alla persuasione, è più un dogma che una realtà. Propongo invece di distinguere tra chi nega il
DI OGGI
cambiamento climatico come parte della propria identità politica e chi lo fa per ignoranza, convenienza, rimozione, paura o senso di impotenza. Il primo gruppo è ideologicamente ancorato alla propria posizione e difficilmente sarà disposto ad accettare le evidenze scientifiche. Il secondo gruppo, invece, è il vero interlocutore della nostra azione persuasiva. È imperativo un rinnovato impegno dei bioeticisti per educare e persuadere il pubblico. È fondamentale iniziare con un ascolto attento e mostrare empatia per le molte ragioni che rendono la negazione ragionevole agli occhi di molte persone.
Nell’interazione dialettica della persuasione, i giudizi morali non hanno posto. La pazienza e la perseveranza saranno essenziali.
Suggerimenti per la bioetica e per i bioeticisti
I bioeticisti che lavorano in ospedali e istituzioni accademiche di area medica devono sollecitare i vertici a essere proattivi nella creazione di sistemi di cura più sostenibili dal punto di vista ambientale. Un buon punto di partenza è rappresentato da Practice Greenhealth (www.practicegreenhealth.org).
Devono contribuire a informare la stampa sul riscaldamento globale. Questo impegno può includere la collaborazione con scienziati del clima per organizzare workshop e attività di formazione continua.
Devono, inoltre, entrare a far parte dei consigli sanitari locali e portare l’attenzione sul riscaldamento globale come una delle principali minacce per la salute delle comunità.
Quando si è invitati a parlare o a scrivere, è bene scegliere il riscaldamento globale come argomento, sottolineando: { gli effetti disastrosi del riscaldamento globale sulla salute: l’etica della salute, intesa come bios-etica4 in senso ampio, deve oggi affiancare l’etica tradizionale della cura del singolo; { la necessità di contrastare attivamente la disinformazione e il greenwashing. Le
compagnie di combustibili fossili dispongono di ingenti risorse per promuovere affermazioni false sulla loro presunta transizione verso l’energia verde, mentre scaricano la responsabilità sulle scelte individuali invece che sull’inquinamento prodotto dalle industrie. Non si deve dimenticare che ExxonMobil ha nascosto5 e mentito per decenni sulle proprie ricerche che prevedevano con precisione gli effetti nocivi dei combustibili fossili; { l’importanza di una migliore comprensione di come funziona la scienza, di come raccoglie continuamente nuove evidenze sul cambiamento climatico per migliorare la precisione delle sue valutazioni sugli effetti catastrofici per la salute. Occorre ribadire che non esiste più un reale dibattito su ciò a cui andiamo incontro, ma solo su quanto presto si manifesteranno le conseguenze e quanto saranno gravi.
La bioetica è nata come risposta alle minacce rivolte all’umanità dei pazienti e dei soggetti coinvolti nella ricerca. L’integrità stessa di questo ambito dipende oggi dalla sua capacità di rispondere alle minacce ambientali che incombono sull’umanità e sul pianeta, invece di limitarsi a giocare in difesa ai margini della crisi che ci troviamo ad affrontare. y
Questo articolo è la traduzione del post di Larry R. Churchill pubblicato online, il 2 dicembre 2024, nella rubrica “Bioethics Forum Essay” dell’Hastings Center con il titolo “Now what? Bioethics and mitigating climate disasters”. Per gentile concessione dell’Hastings Center.
Bibliografia
1 United Nations. The United Nations World water development Report 2023: Partnerships and Cooperation for Water. Paris: Unesco, 2023.
2 Jameton A. Time frames for saving the planet. Ethics, Policy & Environment 2016; 19:136-40.
3 Friedrich J, Ge M, Pickens A, Vigna L. This interactive chart shows changes in the world’s top 10 emitters. World Resource Institutes, 2 marzo 2023.
4 Schenck D. Bios-ethics and the bios emergency: finding the real work. Perspectives in Biology and Medicine 2024; 67: 63-72.
5 New evidence of Exxon’s lies will boost accountability efforts. Center for climate integrity, 14 settembre 2024.
La bioetica come discorso sull’autonomia e strumento per l’autodeterminazione
Simone Pollo
Dipartimento di filosofia
Sapienza università di Roma
La bioetica è – come noto – un nuovo campo di discussione pubblica e di ricerca accademica. Sebbene alcuni dei problemi che definiamo “bioetici” si presentino prima, la parola “bioetica” viene coniata negli anni Settanta del secolo scorso. Solo da allora questo campo di dibattito e riflessione inizia a costituirsi, consolidarsi e istituzionalizzarsi in comitati, centri di ricerca, riviste, insegnamenti universitari e altri ambiti istituzionali. Dalla metà degli anni Ottanta del secolo scorso fino agli anni Dieci del nuovo secolo le discussioni della bioetica hanno conosciuto una grande fioritura tanto in campo accademico quanto nella scena pubblica. In seguito, e fino ad arrivare ai giorni nostri, l’interesse per la bioetica sembra essere in qualche modo declinato e relegato, soprattutto, ai confronti fra
studiosi e ai contesti istituzionali specialistici (come nei comitati etici). Sebbene questioni di pertinenza propria della bioetica siano ancora oggetto di vivace dibattito all’interno della società (un caso paradigmatico è quello della gravidanza per altri), il ruolo pubblico della bioetica e dei suoi studiosi sembra meno rilevante che in passato. Le ragioni di ciò sono molte e diverse, e qui se ne possono menzionare due che sembrano particolarmente rilevanti non solo per l’Italia, ma anche per altri contesti.
Anzitutto, c’è il fatto che molte pratiche su cui si sollevava un dibattito pochi anni fa sono oggi ampiamente presenti nella vita degli esseri umani. Le tecniche di riproduzione assistita, ad esempio, sono oggi un fenomeno assai comune e fanno parte dell’esperienza di tanti esseri umani. Al
tempo stesso, anche se in modi diversi a seconda dei luoghi, diversi ordinamenti giuridici hanno legalizzato molte di quelle pratiche (se, ad esempio, il suicidio assistito è ormai legale in molti Paesi, persino l’Italia ha fatto passi in avanti grazie alle decisioni della Corte Costituzionale).
In secondo luogo, è avvenuta una trasformazione del dibattito pubblico, nel quale il ruolo degli specialisti e degli intellettuali è stato sicuramente ridimensionato.
Se la prima ragione è sicuramente indicativa di uno sviluppo e un progresso della società, altrettanto non si può dire della seconda. Al netto di questa constatazione rimane da chiedersi se ci sia ancora uno spazio per la riflessione della bioetica nella società (e per il suo insegnamento). La risposta deve essere a mio avviso affermativa, per varie ragioni. Qui proverò ad articolarne una per sostenere che la bioetica non dovrebbe essere un sapere residuale destinato a sparire.
Per mostrare questa ragione bisogna andare alle origini stesse della bioetica, ovvero ricordare i motivi che hanno portato alla nascita di questo particolare campo di ricerca e dibattito. La bioetica, nella sua accezione più consolidata, si definisce come una riflessione su quell’insieme di nuovi modi di nascere, curarsi e morire degli esseri umani. Un elemento caratteristico della bioetica è proprio la novità delle questioni che essa affronta. Un modo di vedere questo dato di novità (spesso praticato nel nostro Paese) è quello della cosiddetta “Bioetica difensiva”, ovvero considerare queste innovazioni come problemi che minacciano valori morali consolidati e, di conseguenza, affermare la necessità di arginare queste novità (ad esempio articolando ragioni per limitarle o proibirle).
Un altro modo, che si può definire secolarizzato, è quello invece di considerare le nuove forme di nascita, cura e morte come un ampliamento delle possibilità di scelta degli esseri umani. In questa prospettiva, le novità di cui si occupa la bioetica non sono minacce a un ordine morale, ma sono
La bioetica può (e deve) essere un campo di ricerca e discussione focalizzato sulla promozione e tutela della possibilità di scelta e autonomia degli esseri umani
nuove occasioni di riflessione e decisione autonoma per gli esseri umani. In una visione secolarizzata dell’etica, infatti, il progresso morale è reso possibile dall’ampliamento della libertà di scelta degli esseri umani e dallo sviluppo dell’autonomia che consegue a tale ampliamento. Se si ha in mente questa idea di cosa sia la bioetica allora si può pensare che il suo esercizio, tanto come disciplina accademica quanto come declinazione del dibattito pubblico, sia tutt’altro che obsoleto e destinato alla residualità, se non alla sparizione. Al di là, infatti, dei casi specifici sui quali si può generare una discussione, la bioetica può (e deve) essere un campo di ricerca e discussione focalizzato sulla promozione e tutela della autodeterminazione e autonomia degli esseri umani. Avendo in mente questa idea di bioetica, è difficile pensare che essa possa essere destinata alla sparizione. La vita degli esseri umani contemporanei, infatti, è caratterizzata non solo da nuove possibilità di scelta offerte dallo sviluppo scientifico e tecnologico, ma, purtroppo, anche da serie minacce all’autonomia e alla libertà. Queste vengono tanto dal campo politico, con le nuove forme di autoritarismo che infettano anche le democrazie, quanto dalla più generale condizione di salute del pianeta. La crisi climatica, infatti, rappresenta un pericolo per il presente e il futuro, nella misura in cui depriva gli esseri umani di molte possibilità di scelta. Di fronte a queste (e altre) minacce lo stile riflessivo di una bioetica secolarizzata, che riconosce l’importanza dell’autonomia e riflette su di essa, può rappresentare un contributo alla difesa delle condizioni che rendono possibile l’autodeterminazione degli esseri umani. y
L’appropriatezza clinica: vent’anni dopo
Cosa (non) è cambiato e cosa andrebbe cambiato
Aldo Mozzone
Medico di medicina generale
ASL Città di Torino
Ottavio Davini
Medico radiologo
Già Direttore sanitario
Ospedale Molinette di Torino
Il tema dell’appropriatezza in ambito sanitario è ritenuto centrale da tutti gli esperti che, a vario titolo, si occupano di sanità pubblica. Apparentemente anche i decisori politici sembrerebbero convinti che per garantire qualità e sostenibilità del Servizio sanitario nazionale (Ssn) sia necessario privilegiare le prestazioni di dimostrata utilità, ma nei fatti l’attenzione che viene riservata al tema dell’appropriatezza sembra essere, nella migliore delle ipotesi, distratta e superficiale. Nel 2006 scrivemmo, sulla rivista Torino Medica dell’OMCeO della Provincia di Torino,
due articoli in rapida sequenza sul tema dell’appropriatezza, un concetto che stava affacciandosi con forza nel dibattito sanitario e che già allora dimostrava di essere elemento critico per la sostenibilità del Ssn. Oggi, in presenza di segnali di grave sofferenza del Ssn, ci pare vitale tornare sull’argomento, perché lo scenario – in specie dopo la pandemia Covid-19 – si è ulteriormente deteriorato.
Cronicità, domanda di salute, ansia sanitaria
Argomento cardine in quegli articoli era che le troppe prestazioni, qualora inappropriate, non determinino un guadagno di salute, ma rischino piuttosto di generare effetti che minano la sostenibilità del servizio sanitario, ai quali si associa un incremento dell’ansia e quindi una più scadente qualità di vita dei pazienti. Negli anni, il dibattito si è ampliato, coinvolgendo professionisti ed esperti di sanità pubblica. Alcuni determinanti “prossimali” noti erano già stati identificati: invecchiamento della popolazione, cronicizzazione, evoluzione delle tecnologie, medicina difensiva, pressione mediatica, ansia di immortalità. Oggi, questi fattori sono ancora più evidenti; si pensi che l’età mediana della popolazione italiana è passata da 41,2 anni (2006) a 47,5 anni (2023), con una previsione di 52 anni entro il 2040, il che comporta un inevitabile aumento di morbilità e cronicità. Parallelamente, il progresso tecnologico continua a incrementare i costi.
Dal nostro punto di osservazione clinico abbiamo notato una crescita delle motivazioni che spingono i cittadini a richiedere consulenze mediche, anche per problemi lievi. Dopo la pandemia, si è diffusa una maggiore ansia verso qualsiasi problema di salute, con ricorso frequente a controlli ripetuti in tempi ravvicinati, anche in assenza di indicazioni cliniche precise. Certamente ha il suo peso il descritto mutamento dello scenario demografico, con il conseguente incremento delle patologie croniche che comporta, specie nelle per-
sone affette da comorbilità, trattamenti complessi e prolungati per molti anni. Ma concorrono ad alimentare questa continua rincorsa alle cure molti altri fattori. Per esempio, strumenti digitali come e-mail e messaggistica istantanea hanno reso le richieste più accessibili, ma anche meno filtrate. In parallelo, la diffusione di informazioni sanitarie online (spesso di dubbia qualità) alimenta la domanda. In alcuni casi si osserva un atteggiamento di richiesta sempre più assertiva verso il medico, che può sfociare in tensioni e incomprensioni.
Tutto questo si traduce in un incremento della domanda di prescrizioni, esami diagnostici o visite specialistiche, non sempre giustificata dal punto di vista clinico.
Liste d’attesa e inappropriatezza: un circolo vizioso
L’aumento della domanda di salute, giustificata o meno, si scontra con il problema delle liste d’attesa nel Ssn. Le risposte messe in campo – come l’aumento straordinario dell’offerta di prestazioni – sono utili nel breve termine ma strutturalmente insufficienti, rappresentando uno sforzo importante ma marginale rispetto al
PER APPROFONDIRE
Carichi di lavoro e accessi inappropriati
Secondo il Rapporto Oasi 2024, la medicina territoriale sta vivendo una pressione crescente: a fronte di una popolazione sempre più anziana e con patologie croniche, che manifesta sempre più bisogni e aspettative in termini di salute, aumentano i contatti con i medici di medicina generale. Gli strumenti telematici che consentono di rivolgersi al proprio medico 24 ore su 24 e sette giorni su sette generano una crescita di contatti incontrollabile. Se poi pensiamo che il numero di medici di medicina generale è in fase di forte contrazione e, di conseguenza il rapporto assistiti per medico è in crescita, ci rendiamo conto di quanto questo carico di lavoro possa divenire ingestibile.
I dati del Cergas indicano che un medico di famiglia riceve in media da 70 a 87 contatti al giorno. Questo si traduce in circa 2 milioni di contatti giornalieri a livello nazionale, senza contare quelli dei servizi di continuità assistenziale o dei pediatri di libera scelta. Il consistente volume di contatti è confermato dal numero di prescrizioni farmaceutiche, di cui i medici di medicina generale sono senza dubbio i principali artefici: 567.315.316 prescrizioni in un anno.
volume complessivo, e non affrontano le cause sistemiche del problema. Inoltre, un generico aumento dell’offerta non solo non risolve il problema ma, anzi, rischia di amplificarlo, alimentando la domanda stessa: ogni visita o esame genera spesso ulteriori accertamenti, non sempre necessari. Questo meccanismo è virtuoso solo in presenza di bisogni clinici reali, ma si traduce in spreco di risorse quando le richieste derivano da domanda impropria o prestazioni a basso valore. Le differenze tra Regioni nella quantità e nel tipo di prestazioni erogate – spesso superiori al 50% – indicano indirettamente una diffusa, clamorosa inappropriatezza, sia in eccesso sia in difetto. Secondo dati internazionali e nazionali, oltre il 20% delle risorse sanitarie viene speso in prestazioni che non producono benefici significativi per la salute.
Di fronte a una domanda sovradimensionata, e in parte impropria, continuare ad agire solo sull’offerta è inefficace e rischioso, perché non fa che inseguire una richiesta che si autoalimenta. Inoltre, quando il sistema non riesce a rispondere, i cittadini ricorrono al privato (con una spesa out of pocket di 41 miliardi) o rinunciano alle cure, con conseguenti disuguaglianze e danni alla salute.
Il nodo centrale è dunque l’appropriatezza prescrittiva: selezionare le prestazioni realmente utili è l’unico modo per riportare in equilibrio domanda e offerta. Solo così è possibile garantire equità, sostenibilità e qualità delle cure, evitando di sprecare risorse preziose in un sistema già sotto pressione.
Gli effetti dell’inappropriatezza
Possiamo considerare tre dimensioni delle conseguenze dell’inappropriatezza. La dimensione economica si rifà al concetto di marginalità dell’effetto, segnalato già più di trent’anni fa dalla Banca Mondiale, quando evidenziava come il contributo marginale della spesa sanitaria al miglioramento delle condizioni di salute di una collettività è via via sempre più
modesto; ne deriva che se noi – a fronte di una dinamica di tipo asintotico per cui il progressivo incremento di spesa comporta un aumento sempre più piccolo della salute – investiamo la stessa cifra in prestazioni a basso valore invece che ad alto valore, rischiamo di ottenere quello che qualcuno ha preconizzato come l’appiattimento o persino l’inversione della curva (figura 1).
Le prestazioni a basso valore, cioè le prestazioni inappropriate, si collocano nella parte destra della curva mentre le prestazioni ad alto valore nella parte a sinistra; un buon esempio di quest’ultima tipologia è rappresentato dalla prevenzione evidence based che, a fronte di investimenti relativamente modesti, permette consistenti guadagni di salute. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quindi quello di spostare l’investimento da quello in prestazioni a basso valore a quello per prestazioni ad alto valore.
La dimensione etica: in un contesto di risorse finite, un intasamento dei servizi sanitari per erogazione di prestazioni a basso valore fa sì che molti cittadini che non riescono ad accedere alle cure si trovino di fronte a due alternative: la prima è quella di pagare di tasca propria; la seconda, per chi non è capiente, è quella di rinunciare alle cure, il che determina evidentemente una grave iniquità; ma la rinuncia alle cure e l’erogazione di meno prestazioni ad alto valore, o di meno interventi di tipo preventivo, determinano anche un serio danno alla salute.
La dimensione clinica si manifesta attraverso una cascata che parte dal sovrautilizzo (overuse) e conduce a sovradiagnosi e sovratrattamento. Sovrautilizzo significa, in primo luogo, esporre individui asintomatici a diagnosi di patologie che, con alta probabilità, non avrebbero mai causato sintomi o compromesso la sopravvivenza. Più in generale, la sovradiagnosi è espressione di una sovra-medicalizzazione, spesso alimentata da meccanismi come l’ampliamento dei criteri diagnostici, l’abbassamento delle soglie di normalità o
Figura 1. Marginalità dell’effetto e appiattimento della curva costobeneficio (modificato da: Donaldson C, Mitton C. Priority setting toolkit: Guide to the Use of economics in healthcare decision making. London: BMJ Books, 2004)
Il progetto Choosing Wisely è un buon esempio di come si possano individuare interventi privi di efficacia dimostrata
il disease mongering (traducibile in “mercificazione delle malattie”), che trasformano soggetti sani, o con problemi minimi, in pazienti. Tutto ciò è favorito dal progresso tecnologico, che permette di identificare con facilità alterazioni cliniche anche insignificanti, dando così luogo a trattamenti non necessari. A questi si aggiungono –e non vanno sottovalutati – i costi psicosociali: ansia, etichette diagnostiche non giustificate e, in alcuni casi, lo stigma che ancora accompagna certe condizioni. Il tema della sovradiagnosi è ormai oggetto di ampio dibattito da diversi anni. Editoriali del BMJ come “Too much medicine” (2002) e “Too much technology” (2015) hanno messo in luce i rischi di un uso eccessivo della tecnologia sanitaria. Già il bioeticista Daniel Callahan aveva previsto che i sistemi sanitari non sarebbero crollati all’improvviso, ma si sarebbero logorati lentamente: è quanto sta accadendo nei Paesi ad alto reddito, dove la progressiva limitazione dell’accesso ai servizi viene ormai vissuta come una nuova normalità.
Alle radici dell’inappropriatezza: determinanti culturali e sistemici Negli ultimi anni si è cercato di comprendere anche le cause più profonde dell’inappropriatezza, oltre ai noti fattori contingenti. Una revisione sistematica recen-
PER APPROFONDIRE
Tecnologia, soglie diagnostiche
e conseguenze a cascata
L’aumento delle tecnologie disponibili ha prodotto un preoccupante incremento delle diagnosi di condizioni non clinicamente rilevanti. Lo stesso meccanismo è indotto dall’intensificazione della ricerca, favorita da strumenti più potenti o dall’abbassamento delle soglie diagnostiche. È il caso emblematico dell’ecografia tiroidea di screening in Corea, che fece crescere di 14 volte le diagnosi di tumore: soglie più basse portano a individuare condizioni di scarsa gravità, spesso destinate a non manifestarsi clinicamente nell’intera vita di una persona. La combinazione tra l’apparente aumento della prevalenza e il presunto miglioramento degli esiti induce a intensificare ulteriormente la ricerca, alimentando un loop potenzialmente infinito (Figura 2). Con le tecnologie di oggi, è difficile che un individuo non presenti almeno un reperto di significato incerto. L’abbassamento delle soglie diagnostiche, spesso motivato dalle migliori intenzioni ma talvolta guidato da logiche di mercato, accentua il fenomeno: definire come patologici valori che prima erano considerati normali comporta inevitabilmente un’impennata del numero di “malati”, con vantaggi certi per il mercato dei farmaci necessari a correggerli, e benefici assai meno certi per le persone sottoposte a trattamenti.
Figura 2. Loop indotto da un aumento della intensità della ricerca negli screening
te (figura 3) ha evidenziato una pluralità di fattori cognitivi, emotivi, culturali e sistemici che influenzano la domanda dei cittadini e pazienti di cure a basso valore: distorsioni cognitive, come il bisogno impellente di conoscere la causa del problema o di agire sul problema (bias della conoscenza imperativa o dell’azione imperativa), una scarsa alfabetizzazione sanitaria (health literacy), l’attrazione per la novità tecnologica, le aspettative elevate e talvolta irrealistiche, così come la sfiducia nei servizi e l’influenza dei social media contribuiscono al fenomeno.
Determinanti altrettanto incisivi agiscono anche sul sistema nel suo insieme e sugli operatori: l’imperativo tecnologico; la pressione dei pazienti, spesso influenzati dal “dottor Google”, e quindi la medicina difensiva, con un impatto economico significativo; i condizionamenti dell’industria e del mercato; la crescente complessità della medicina; la scarsità di tempo per comunicare, sia tra medico e paziente che tra colleghi; e, per finire, i conflitti di interesse.
Un pericolo ulteriore per l’appropriatezza in sanità è rappresentato dall’intelligenza artificiale: strumento potente se a supporto del professionista, ma pericoloso se usato da inesperti o soggetti senza scrupoli in sostituzione del giudizio del medico, guidato dalle evidenze scientifiche. Questo quadro poliedrico di pregiudizi, condizionamenti, influenze, paure e bias merita di essere analizzato a fondo: non riteniamo che questo sia un esercizio accademico, ma che sia cruciale per capire quanto il problema dell’appropriatezza sia multifattoriale e che quindi gli interventi non possano essere estemporanei e puntiformi, ma sistemici ed estesi.
Proposte per il cambiamento
Da questo excursus risulta chiaro come non sia procrastinabile individuare degli strumenti di governo della domanda che si ispirino al rispetto dell’appropriatezza: in caso contrario il consumo di risorse umane ed economiche è destinato a gene-
Figura 3. Rappresentazione per categorie dei determinanti nel ricorso alla low-value care (modificato da Fraser et al. BMC Health Ser Res, 2024)
Bias cognitivi
{ Avversione al rischio
{ Confirmation bias
{ Imperative action/knowledge bias
{ Asimmetria rischio-beneficio
Fattori correlati con la conoscenza
{ Scarsa health literacy
{ Rifiuto del concetto di overuse
{ Eccesso di informazione
{ Imperativo tecnologico
{ Inconsapevolezza
Interazione con i servizi sanitari
{ Sospetto
{ Scarsa fiducia
Fattori economici
{ Consumismo
{ Marketing
{ Strategie di induzione al consumo sanitario (es. disease mongering)
Fattori socioculturali
{ Stadio della vita
{ Diritto alla cura
{ Idea di quasi-immortalità
{ Social media
{ Esperienze negative Emozioni
{ Insicurezza
{ Necessità di controllo
{ Paura e ansia
rare ulteriori iniquità, sottraendo una quota crescente delle risorse disponibili alle prestazioni di provata efficacia.
L’elenco delle proposte che segue non ha l’aspirazione di essere categorico o esaustivo, ma vorremmo rappresentasse una traccia utile a stimolare il dibattito.
1. Rilanciare una governance unitaria del Sistema Nazionale Linee Guida, per la produzione, diffusione e implementazione delle linee guida, definendo un format di riferimento che consenta una rapida interpretazione e un agevole utilizzo da parte dei prescrittori. Esistono molti documenti che utilizzano questo genere di strumento.
2. Effettuare un censimento delle linee guida e dei documenti già esistenti (non solo a livello nazionale ma anche regionale), validando quelli aggiornati e qualitativamente adeguati e mettendoli a disposizione dei prescrittori attraverso strumenti informatici di agevole utilizzo.
3. Predisporre, congiuntamente con gli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri e organizzazioni rappresentative dei pre-
Fattori biomedici
{ semplicità di uso della tecnologia
{ Dolore
{ Durata sintomi
{ Grado di multimorbidità
Preferenze e aspettative
{ Credenze
{ Aspettative smisurate
scrittori dei diversi ambiti, programmi formativi comuni per medici del territorio e ospedalieri finalizzati in primis alla corretta prescrizione di indagini strumentali e visite specialistiche. In una prima fase si potrebbe ricorrere al principio di Pareto, secondo cui circa il 20% delle cause provoca l’80% degli effetti, focalizzando la formazione e l’aggiornamento sulle prestazioni che maggiormente incidono sulla genesi delle liste d’attesa.
4. Estendere su tutto il territorio le buone pratiche capaci di razionalizzare le scelte (si pensi ai Rao – Raggruppamenti di attesa omogenei che hanno dimostrato reale efficacia sul campo).
5. Diffondere e condividere la cultura dell’appropriatezza con i cittadini e le loro associazioni più sensibili.
6. Sviluppare e diffondere un più intenso, evoluto e coordinato utilizzo degli strumenti informatici con il fine di evitare duplicazione di esami ed escalation ingiustificate e per supportare i prescrittori delle decisioni; in questa direzione, anche
per migliorare la comunicazione tra medicina di medicina generale e specialisti, favorire la diffusione del teleconsulto.
7. Introdurre modelli di gestione delle patologie croniche (tipo il Clinical decision support system proposto dal Cergas Bocconi) capaci di indirizzare le prescrizioni e le erogazioni di pacchetti di monitoraggio calibrati sullo studio di patologie tramite piattaforme condivise medici medicina generale/specialisti. Questo sistema consentirebbe un monitoraggio appropriato delle principali patologie croniche attraverso un accesso programmato ed agevolato alle prestazioni (un modello di presa in carico che si basa su questi principi è quello della Gestione Integrata del Diabete utilizzato in Regione Piemonte); 8. Dare mandato alle Asl di garantire la continuità del percorso assistenziale dei
Bibliografia di riferimento
pazienti a qualunque titolo presi in carico, rendendosi parte attiva nella organizzazione e gestione del percorso diagnostico e terapeutico, evitando così la dispersione dei pazienti e l’esecuzione di prestazioni a bassa affidabilità in contesti non sincronizzati clinicamente con i prescrittori. 9. Ultimo, ma non ultimo, lavorare su un grande progetto a lungo termine di alfabetizzazione scientifica delle nuove generazioni, a partire dai banchi di scuola: la mancanza di comprensione del metodo scientifico è alla base di molte delle derive complottiste e a-scientifiche, diffuse anche tramite i social network, cui stiamo assistendo, responsabili anche esse di induzione di percorsi di salute inappropriati. y
2 Cergas - Bocconi (a cura di). Rapporto OASI 2024. Osservatorio sulle Aziende e sul Sistema sanitario italiano. Milano: Egea Editore, 2024.
3 Ministero della salute. Annuario statistico del Servizio sanitario nazionale. Assetto organizzativo, attività e fattori produttivi del Ssn. Anno 2022.
4 World health organization, The World health report. Health systems financing. 2010.
5 O’Sullivan JW, Albasri A, Nicholson BD et al. Overtesting and undertesting in primary care: a systematic review and meta-analysis. BMJ Open 2018; 8: e018557.
6 Squires JE, Graham ID, Grinspun D et al. Inappropriateness of health care in Canada: a systematic review protocol. Syst Rev 2019; 8: 50.
7 Runciman WB. CareTrack: assessing the appropriateness of health care delivery in Australia. MJA 2012; 197: 100-5.
8 McGlynn EA, Asch SM, Adams J et al. The quality of health care delivered to adults in the United States. N Engl J Med 2003; 348: 2635-45.
9 Horvath AR. From evidence to best practice in laboratory medicine. Clin Biochem Rev 2013; 34: 47-60.
10 Moynihan R, Heath I and Henry D. Selling sickness: the pharmaceutical industry and disease mongering. BMJ, 2002; 324: 886-91.
11 Moynihan R, Smith R. Too much medicine. Almost certainly. BMJ 2002; 324: 859-60.
12 Hofmann BM. Too much technology. BMJ 2015; 350: h705.
13 Callahan D. Taming the beloved beast. Princeton University Press, 2009.
14 Ahn HS, Kim HJ, Welch HG. Korea’s thyroid-cancer “Epidemic”: screening and overdiagnosis. N Engl J Med 2004; 371: 1765-7.
15 Fraser GRL, Lambooij MS, van Exel J, et al. Factors associated with patients’ demand for low-value care: a scoping review. BMC Health Serv Res 2024; 24: 1656.
16 Davini O. La medicina che non c’è. Bari: Edizioni Dedalo, 2021.
L’eziologia della negazione, per il paziente e per il medico che cura sé stesso
Perché è difficile accettare le cattive notizie
Mary Braun Bates
Rehabilitation and nursing center
Contea di Rockingham New Hampshire (USA)
Mary Braun Bates è una medica internista che lavora in un Centro federale di salute qualificato situato in una zona rurale del New Hampshire. Nella sua rubrica “Doctoring Unpacked” su Sensible Medicine, racconta casi comuni attraverso la narrazione romanzata e coinvolgente degli incontri del medico con i pazienti. In questo articolo, descrive il dialogo con la signora Woycik, che personifica una pluralità di pazienti in stato di negazione (inclusa sé stessa). Qualsiasi somiglianza con pazienti reali è dunque del tutto casuale, mentre tutto ciò che Mary Braun Bates racconta di sé è rigorosamente vero. In una nota, l’autrice precisa che nulla di quanto scritto va inteso come consiglio medico personale – tranne forse un’unica raccomandazione, rivolta a colleghe e colleghi: non autoprescrivetevi esami clinici.
«Ho saputo che ha smesso di prendere tutti i farmaci per il diabete, signora Woycik.»
«Sì! Non ho bisogno di quelle pillole. Mi basta bere molta acqua e fare una camminata. Così la mia glicemia si abbassa.»
«Non le piace prendere le pillole?»
«No, dottoressa, non mi piace introdurre nel mio corpo delle sostanze chimiche, se non è strettamente necessario. E poi, sto troppo bene per avere il diabete. Ieri ho camminato per 9,7 chilometri. Nessuno può avere il diabete se è così in forma.»
«Capisco. E quanto era la sua glicemia ieri, prima della camminata?»
«Piuttosto alta, tipo 300, ma poi è scesa: quando sono tornata a casa era 175, e lei mi aveva detto che fino a 200 andava bene. E non ho avuto bisogno delle pillole per abbassarla. Pensavo che sarebbe stata orgogliosa di me per essere riuscita a liberarmi del diabete.»
Capivo che la signora Woycik sarebbe stata una paziente difficile, quella mattina. Dovevo trovare un punto d’appoggio per affrontare il suo rifiuto. Spiegherò più avanti come ci sono riuscita.
Ma prima, facciamo un passo in avanti, a quello che è successo subito dopo la sua visita.
Appena uscita dalla stanza dopo averla visitata, la mia segretaria è corsa verso di me piangendo: «Dottoressa, dottoressa, c’è un patologo in linea: chiede di parlare con un medico, ma non può essere lei… perché si tratta dei suoi esami del sangue!». E si è allontanata correndo.
Quel giorno la mia agenda era piena di appuntamenti. Così ho continuato a lavorare, ricevendo i miei pazienti, fino a quando uno non si è presentato. A quel punto, sono andata a cercare il collega o la collega a cui era toccato l’ingrato compito di parlare con il patologo.
Quella giornata in ambulatorio sarebbe andata molto diversamente se tre mesi prima non avessi pensato di poter essere la medica di me stessa. Un giorno mi ero sentita poco bene, così mi ero prescritta degli esami. I risultati erano anomali. Conoscevo il vecchio detto: “Il medico che cura sé stesso ha uno sciocco come paziente”, quindi li avevo rivisti con un amico medico, dicendogli: «Qualunque cosa fosse, ormai è passata. Mi sento già meglio. Farò un nuovo controllo tra un paio di settimane per assicurarmi che i valori siano tornati alla normalità.»
l mio amico concordò sul fatto che fosse una decisione ragionevole.
Beh… tranne il fatto che in realtà non gli avevo mostrato gli esami. Gliene avevo solo parlato, forse in modo un po’ selettivo. E, beh… gli avevo anche fatto capire chiaramente che non era sua responsabilità controllare se avessi rifatto o meno gli esami, né come fossero andati.
In ogni caso, lui non lo fece. Ero piuttosto compiaciuta di me. Non solo ero riuscita a non essere la mia stessa dottoressa, ma avevo anche evitato di dare ulteriore lavoro a qualcun altro. Che efficienza!
La collega che aveva risposto alla telefonata del patologo era una giovane dottoressa appena uscita dalla specializzazione, entrata da pochi mesi nel nostro ambulatorio. Anche lei aveva avuto un paziente che non si era presentato alla visita e così era venuta a cercarmi. Appena mi vide, scop-
Un giorno mi ero sentita poco bene, così mi ero prescritta degli esami. I risultati erano anomali. Conoscevo il vecchio detto:
“Il medico che cura sé stesso ha uno sciocco come paziente”
piò in lacrime: «Il patologo pensa che lei abbia la leucemia. Mi dispiace tanto. Ce la faremo insieme!»
La guardai scioccata. Era nuova nel lavoro, e poteva essere scusata per non capire. Non sapeva che io ero troppo impegnata per avere una leucemia. Non capiva che i miei pazienti erano troppo malati, troppo complessi, per essere semplicemente affidati a qualcun altro. Ma cosa stava pensando?
Nel frattempo, la giovane dottoressa mi informò che mi avevano fissato per il giorno successivo l’appuntamento per la biopsia del midollo osseo, e che avrebbe avvisato la responsabile dell’ambulatorio che sarei stata assente per un periodo.
La guardai con compassione. Avrebbe capito col tempo, dopo qualche anno di esperienza.
«No, dille solo che domani non ci sarò. Sono sicura che non è nulla. Meglio non dare troppo lavoro in più alle segretarie.»
Pensavo che tutto quel trambusto si sarebbe risolto in fretta. Molto probabilmente il tecnico di laboratorio aveva commesso un errore. Magari aveva persino etichettato male le provette. Avrei visto l’oncologo il giorno dopo, e ci saremmo fatti una bella risata.
Ora, torniamo a come ho gestito il rifiuto della signora Woycik di accettare la diagnosi di diabete.
Le dissi: «Sono davvero orgogliosa di come sta prendendo cura della sua salute! Vorrei che potesse cavarsela senza le pillole, ma temo non sia possibile. Credo che il suo diabete sia troppo grave. Vede, vogliamo trattarlo perché più a lungo il suo corpo è esposto a livelli alti di zucchero, più danni possono fare. E se i danni diventano troppi, le sarà difficile continuare a fare quelle camminate di quasi dieci chilometri.»
«Ma non voglio prendere le pillole. Hanno effetti collaterali.»
«Capisco bene, signora Woycik.»
All’epoca non lo sapevo ancora, ma di lì a due giorni avrei cercato di convincere il mio ematologo che quello che sembrava un evidente caso di leucemia mieloide acuta con leucopenia era in realtà un effetto collaterale molto raro dell’antistaminico Clarityn – basandomi sulla mia ricerca in letteratura, nella quale avevo trovato un caso clinico di soppressione idiopatica del midollo osseo da Clarityn simile ad alcune caratteristiche riscontrate nei miei esami di laboratorio.
Chiesi alla signora Woycik: «Quali effetti collaterali ha avuto con il farmaco?»
«Non ne ho avuti, ma ho letto che, a volte, può far andare in bagno spesso. E io non ho tempo per quello. Ogni giorno devo occuparmi dei miei nipoti quando escono dalla scuola. Devo esserci per mia figlia, così lei può andare a lavorare!»
«Ah, quindi non ha tempo di andare spesso in bagno. Scommetto che non ha nemmeno tempo per avere il diabete, vero?»
«Beh, sì, se avessi il diabete dovrei controllare la glicemia di continuo e avrei un sacco di appuntamenti medici, come mia cugina. Però posso fare una lunga camminata al mattino, mentre i bambini sono a scuola, e così evito tutto il resto mentre mi prendo cura di loro.»
Continuammo così per un po’. Alla fine, negoziammo un piano che interferisse il meno possibile con la sua routine e che ri-
tenevo potesse tenere sotto controllo la glicemia. Conclusi la visita e uscii dalla stanza.
Tre giorni dopo, stavo già facendo la chemioterapia. Sono stata abbastanza fortunata da poter tornare al lavoro subito dopo la cura – più magra, calva, e meno ingenua.
Il rifiuto è una reazione normale. Ne conosciamo i lati negativi, ma raramente ne riconosciamo quelli positivi: il rifiuto può essere un’affermazione di autonomia personale. La signora Woycik ha esercitato la sua libertà scegliendo di camminare per abbassare la glicemia. Era orgogliosa del suo risultato. E quel risultato le permetteva di occuparsi dei suoi nipoti, cosa che dava vero significato alla sua vita.
Se non è il senso della tua vita ad essere messo in discussione da una cattiva notizia, è facile vedere il rifiuto come qualcosa di sciocco e inutile. Ma quando la cattiva notizia colpisce davvero la tua esistenza o il suo significato, potresti sorprenderti di quanto siano convincenti certi ragionamenti – e di quanto possano spingerti a ignorare quei fatti scomodi che stanno per arrivare. y
Il rifiuto è una reazione normale. Ne conosciamo i lati negativi, ma raramente ne riconosciamo quelli positivi: il rifiuto può essere un’affermazione di autonomia personale
Questo articolo è la traduzione del post “ The Etiology of Denial” di Mary Braun Bates pubblicato su Sensible Medicine. Per gentile concessione di Sensible Medicine.
Il “volto empatico” dei chatbot medici. Tra fiducia e trasparenza
In un contesto sanitario sempre più digitale, i chatbot medici si affacciano sulla scena come nuovi interlocutori. Possiamo attribuire loro un volto empatico? E possono davvero comprendere le emozioni dei pazienti? Una recente analisi pubblicata su JAMA Network Open, co-firmata da Vardit Ravitsky, presidente dell’Hastings Center, ha coinvolto 2500 pazienti volontari che partecipano regolarmente a survey promosse dal Duke university health system. Lo studio esplora la percezione dei pazienti rispetto ai messaggi redatti dall’intelligenza artificiale (Ai) in ambito clinico. Dai dati emerge che, sebbene la maggior parte dei partecipanti manifesti una leggera preferenza per i messaggi scritti dall’intelligenza artificiale, la soddisfazione cala sensibilmente quando scoprono che non sono stati scritti da un essere umano. Una reazione che apre a un dilemma etico cruciale: i pazienti hanno il diritto di sapere chi ha scritto il messaggio? Gli autori sottolineano inoltre una seconda questione: quante e quali informazioni è opportuno fornire?
Se da un lato la trasparenza è fondamentale per garantire un consenso realmente informato, dall’altro un eccesso di dettagli tecnici rischia di ostacolare la comprensione e, quindi, la cura. Ne parliamo con Guido Boella.
I pazienti apprezzano i messaggi dell’intelligenza artificiale per chiarezza e tono empatico, ma si fidano di più se credono che a scriverli sia il medico. Come si spiega questa contraddizione?
«Dallo studio emerge un dato sorprendente: gli utenti percepiscono come più empatiche e migliori le risposte fornite da un chatbot rispetto a quelle di un essere umano. Questo colpisce. Meno sorprendente, invece, è il fatto che, una volta rivelata l’identità artificiale dell’autore della risposta, i pazienti si dichiarino meno
Una conversazione con Guido Boella
Vicerettore per l’Ai e i rapporti con le aziende Università degli studi di Torino
Comitato di coordinamento per l’intelligenza artificiale
Agenzia per l’Italia digitale
soddisfatti: è qualcosa che capita spesso anche in altri ambiti. Per esempio, nel mondo dell’informazione, se leggiamo un articolo ben scritto e poi scopriamo che non è del New York Times, ma di un blog o di un social media, la nostra valutazione cambia, anche a parità di contenuto. Lo stesso meccanismo può valere per l’Ai: la scarsa conoscenza che circola sulle potenzialità dei large language model rende plausibile che, anche di fronte a una risposta efficace, la soddisfazione cali nel momento in cui si scopre che è stata generata da un’intelligenza artificiale. Mi colpisce anche la scelta di focalizzarsi sulla “soddisfazione del paziente”: che cosa si intende esattamente? E perché dovrebbe essere centrale? E perché il paziente dovrebbe essere più o meno soddisfatto? Non sarebbe più importante concentrarsi su cosa viene comunicato e sull’impatto dell’informazione?
Una comunicazione automatizzata può davvero definirsi empatica? Anche se ben formulata, può compromettere la relazione di fiducia con il medico?
I modelli linguistici continuano a migliorare, e per questo sempre più persone preferiscono le risposte fornite da un’Ai. Dello studio del JAMA Network Open colpisce che venga valutato positivamente non solo il contenuto informativo ma anche il tono empatico. È una sorta di grande simulazione: questi sistemi non hanno una teoria della mente, non “provano” empatia ma, dato un certo input, restituiscono – su base statistica – la parola più probabile. Eppure, grazie ai dataset enormi su cui sono addestrati, riescono a risultare non solo accurati, ma anche reattivi, accoglienti, empatici.
C’è però un altro aspetto da considerare. Quando parliamo dell’empatia del medico, spesso ci riferiamo a un’idea ideale, molto lontana dalla realtà concreta. Il lavoro del medico è stressante, il tempo dedicato al
paziente è poco, le pressioni burocratiche sono tante. Sono esseri umani, e come tali possono avere una giornata storta. Al primo anno di Medicina, oggi già offrono un corso sulla relazione con il paziente –segno che si dà più attenzione a questi aspetti, mentre in passato venivano spesso trascurati. Ci sono generazioni di medici cresciuti con meno sensibilità relazionale, e anche il famoso medico condotto non esiste più. Oggi, la mia interazione con il medico di base avviene per il 99 per cento dei casi via WhatsApp. Per una prescrizione o per fissare una visita, un chatbot potrebbe essere del tutto sufficiente. Non a caso, è in corso una gara nazionale di Agenas per sviluppare chatbot “segretariali” proprio per questo tipo di interazioni. Questo potrebbe liberare tempo per relazioni più significative – a patto, ovviamente, che il medico abbia gli strumenti e il desiderio di coltivarle.
Ci troviamo quindi tra due poli: da un lato, macchine che funzionano sempre meglio
– a volte in modo misterioso – e che riescono persino a simulare empatia; dall’altro, un’idea quasi mitica dell’empatia umana, spesso disattesa nella pratica. Questo discorso vale anche per altri ambiti, come l’educazione. Si insiste molto sul rapporto umano tra docente e studente, ma poi ci si trova con classi da trenta persone, in cui quel rapporto non riesce a svilupparsi se non in casi eccezionali.
Vista la minore soddisfazione dei pazienti quando scoprono che a rispondere è stata una macchina, sarebbe giusto omettere questa informazione? O la trasparenza resta un principio etico irrinunciabile? Il punto è che, se l’Ai produce risultati migliori, si apre inevitabilmente il tema della trasparenza: come garantire che l’utente sappia se sta interagendo con un essere umano o con una macchina? Anche gli autori della survey affrontano questa questione: quanto deve sapere il paziente, o più in generale il cittadino? È necessario esplicitare sempre l’uso dell’Ai? È giusto che venga segnalato se una risposta è generata da un chatbot? Oppure sarebbe meglio evitare di dirlo, se questo contribuisce ad aumentare la soddisfazione del paziente? Questa seconda ipotesi, che gli autori lasciano in parte intuire, a me pare discutibile. Sarebbe come trattare il paziente come un bambino: non gli dici la verità per non turbarlo. E comunque l’art. 52 dell’AI Act della EU prescrive obblighi di trasparenza nei confronti degli utenti di sistemi Ai.
Un altro aspetto forse sottovalutato dallo studio è il ruolo del medico che usa l’Ai. Nell’immaginario collettivo, il chatbot viene spesso percepito come un oracolo, quando in realtà le applicazioni più promettenti riguardano l’esplorazione di ipotesi, il confronto di dati, la ricerca di eccezioni. C’è una differenza sostanziale tra il medico che delega passivamente alla macchina e quello che utilizza l’Ai per approfondire, riflettere, verificare. Penso, ad esempio, al mio vecchio medico di base: ogni volta che prescriveva un farmaco,
Il
paziente si fida di più del medico che usa l’intelligenza artificiale o di quello che non la usa?
Si
fida di più della macchina o dell’umano?
È un intero universo da esplorare
consultava l’informatore farmaceutico cartaceo che teneva sulla scrivania, per controllare con precisione la posologia. Alla fine, non è così diverso. Discorsi analoghi si fanno anche in campo militare. Penso all’inchiesta sull’uso dell’Ai nella guerra a Gaza per identificare obiettivi. Il problema non è tanto la tecnologia in sé, ma il modo in cui viene integrata nel sistema. Prima ogni possibile bersaglio veniva esaminato da esseri umani con attenzione prima di ordinare l’attacco, ora a un bersaglio identificato dall’Ai –scrive la rivista +972 Magazine – vengono dedicati pochi minuti. Lo stesso vale per la medicina: un medico sotto organico, oberato, può scegliere la scorciatoia non per pigrizia, ma perché il sistema non gli dà alternative.
Quindi, più che chiedersi se l’Ai funziona o meno, dovremmo chiederci come viene usata. Quando il paziente chiede al medico: “Lei cosa ne pensa della diagnosi fatta dall’Ai?”, il medico si può trovare in difficoltà. È tutto ancora un terreno da esplorare. Anche il problema della responsabilità resta aperto. Come ho scritto sul Magazine Intelligenza Artificiale, I sistemi di Ai stanno dando ottimi risultati in molti ambiti – anche nella medicina – pur rimanendo delle “scatole nere”. Perché fanno certe previsioni, ma funzionano? Perché riescono a cogliere la complessità di sistemi caotici – dal meteo al corpo umano alla nostra cognizione – meglio dei modelli analitici tradizionali?
Probabilmente ci troveremo davanti a sistemi che daranno diagnosi migliori, ma che non potranno spiegare il loro ragionamento. E paradossalmente, è per questo che sono così efficaci. Lo studio su JAMA,
però, sembra concentrarsi più sull’Ai come strumento di informazione che come supporto decisionale – che è un ambito ancora più delicato.
Ci chiederemo: il paziente si fida di più del medico che usa l’Ai o di quello che non la usa? Si fida di più della macchina o dell’umano? È un intero universo da esplorare.
Con il tempo i pazienti si abitueranno ai chatbot medici e in generale l’Ai entrerà sempre più nella nostra vita sociale. Quali fattori influenzeranno questa transizione? E come possiamo guidarla fin da ora?
Siamo chiaramente in una fase di transizione. Quando arrivò il primo personal computer, nessuno immaginava dove saremmo arrivati oggi. L’innovazione inizia sempre con incertezza, poi gli strumenti diventano parte della quotidianità. Siamo in quel momento, e dobbiamo chiederci quali fattori guideranno questa transizione. L’Ai non è solo una questione tecnologica. È anche (e forse soprattutto) una questione economica, politica, sociale. La stessa tecnologia, in contesti diversi, porta a risultati completamente diversi. Se i medici non sono formati, se lavorano sotto pressione, se rischiano di essere sostituiti per risparmiare, l’introduzione dell’Ai cambia radicalmente volto. Anche il tema della responsabilità legale si fa più complesso: cosa accadrebbe se le compagnie assicurative scegliessero di coprire solo le risposte che avrebbe dato un’Ai, escludendo quelle del medico? È un’altra rivoluzione, già in atto.
Il punto è che non è la tecnologia in sé a determinare il nostro futuro, ma piuttosto l’uso che ne facciamo. Come ci ricorda l’economista Daron Acemoglu, l’Ai – per com’è progettata oggi – tende a sostituire le persone più che ad affiancarle. Ma si potrebbero costruire sistemi realmente collaborativi, se solo la ricerca non fosse nelle mani quasi esclusive di grandi aziende. È dunque il contesto economico e politico a determinare la direzione e a fare la differenza. Sul fronte della trasparenza, è probabile che si arrivi a richiedere trac-
ciabilità delle interazioni tra medico e Ai, anche per ragioni prettamente legali e assicurative. Alcuni strumenti già certificano e registrano ciò che accade in una televisita: potremmo arrivare a fare lo stesso anche con le visite in presenza. Come con le bodycam dei poliziotti. Insomma, il cambiamento è in corso. Ma spetta a noi far sentire la nostra voce e guidarlo. Altrimenti, rischiamo di trovarci in un mondo che non ci somiglia affatto. y
L’intelligenza artificiale non è solo una questione tecnologica. È anche
(e forse soprattutto) una questione economica, politica, sociale
Etica e intelligenza artificiale: tra fiducia e responsabilità
L’intelligenza artificiale generativa è entrata rapidamente nei nostri orizzonti quotidiani, sollevando interrogativi che non sono solo tecnici, ma profondamente etici. In che modo queste nuove sfide si intrecciano con i dibattiti tradizionali della bioetica? Quali rischi comporta l’esternalizzazione del pensiero e delle scelte a sistemi artificiali? E quale ruolo possono – e devono – giocare le democrazie nel regolare il rapporto tra umano e tecnologico? Ne parliamo con Piergiorgio Donatelli, direttore del Dipartimento di filosofia e professore ordinario di Filosofia morale alla Sapienza università di Roma. I suoi interessi ruotano attorno alla storia dell’etica e alle questioni cruciali della filosofia contemporanea. Ha approfondito in particolare il tema della vita umana, sia in ambito bioetico sia nel pensiero teoretico e politico, con attenzione anche alle questioni ambientali e alle sfide poste dalle nuove tecnologie.
«Macchine
che pensano, umani che decidono?
Intervista a
Piergiorgio Donatelli
Direttore del Dipartimento di filosofia Sapienza università di Roma
Con l’introduzione dell’intelligenza artificiale generativa emergono anche nuove sfide etiche. In che misura queste sfide somigliano a quelle che la bioetica ha affrontato in passato?
Ci sono elementi di analogia. È una tecnologia che entra nella vita personale, anche quotidiana, e non solo professionale. Entra nei nostri corpi. E quindi ci sono molte analogie che riguardano l’elaborazione dell’autonomia personale, della possibilità di scelta, a contatto con una tecnologia
molto invasiva. L’autonomia, il principio del non nuocere, la giustizia e l’equità sono tutti temi già affrontati dalla bioetica che tornano anche nel caso dell’intelligenza artificiale.
Ma, naturalmente, ci sono anche differenze importanti. Qui abbiamo a che fare con strumenti cognitivi, una tecnologia che imita il ragionamento umano. È una sfida nuova, che la bioetica classica – concentrata su situazioni all’inizio o alla fine della vita – non aveva previsto.
Oggi il processo tecnologico ci spinge a rivedere le nozioni tradizionali di etica come autonomia, libertà e privacy, e la concezione stessa di ciò che consideriamo umano.
Quali sono i rischi e quali le opportunità di una crescente dipendenza da strumenti di intelligenza artificiale?
Ci sono sia rischi sia opportunità. L’opportunità è che possiamo fare meglio e più rapidamente in molti campi. In medicina, ad esempio, la diagnostica per immagini è già oggi trasformata – e lo sarà ancora di più – dall’intelligenza artificiale. La capacità di individuare malattie, per esempio
Abbiamo a che fare con strumenti cognitivi, una tecnologia che imita il ragionamento umano. È una sfida nuova, che la bioetica classica – concentrata su situazioni all’inizio o alla fine della vita – non aveva previsto
in oncologia, si sta spingendo verso orizzonti prima impensabili.
Ma ci sono anche rischi. L’idea di autonomia e di personalità individuale, che nei contesti democratici è fondamentale, dipende dalla capacità di padroneggiare il proprio pensiero, non dal delegarlo a sistemi artificiali: se ci abituiamo a demandare intere sfere del ragionamento a dispositivi tecnologici, ci disabituiamo a pensare con la nostra testa. Ciò che l’Illuminismo, con Kant, ci ha insegnato è che pensare da sé è alla base dell’autonomia,
un principio che è entrato anche nel quadro costituzionale delle nostre democrazie. Quindi sì, i rischi ci sono.
Gli sviluppi dell’intelligenza artificiale suscitano, da un lato, grande fiducia, dall’altro una certa sfiducia nella capacità dell’umanità di guidare questo processo. Come vede il rapporto tra il potenziale rivoluzionario delle tecnologie e i limiti umani?
Chi affronta seriamente questi temi si trova spesso a oscillare tra entusiasmo e sospetto. Occorre stare lontani sia dal tecno-ottimismo facile sia da un atteggiamento di diffidenza pregiudiziale. I rischi, come dicevo, ci sono. La ricetta è, in fondo, semplice – e proprio per questo difficile: in contesti democratici maturi, dove le persone sono messe nelle condizioni di comprendere e conoscere questi strumenti, e quindi di accordare loro fiducia, l’intelligenza artificiale può entrare nel dibattito pubblico, essere regolata, discussa, accettata o rifiutata consapevolmente. È qui che entra in gioco una parola centrale anche nell’AI Act approvato dal l’Unione europea nel 2024: “trustworthiness”, l’affidabilità. È importante potersi fidare dei sistemi artificiali, ma è altrettanto importante poter ritirare la fiducia se questi non si dimostrano più degni. E dare o togliere fiducia richiede formazione, educazione, maturità civica. Penso che le democrazie ricche abbiano gli strumenti per affrontare questa sfida. Tuttavia è anche vero che oggi la democrazia è sotto attacco, e questo getta un’ombra sullo sviluppo stesso dell’intelligenza artificiale. y
L’intervista video a Piergiorgio Donatelli
L’editoria scientifica è sempre stata all’avanguardia nel cercar di tradurre l’innovazione in procedure utili alla propria attività, e più in generale, nell’individuazione delle novità utili per lo sviluppo del proprio business industriale. Pensiamo per esempio a come sono cambiate le riviste scientifiche negli ultimi trent’anni e alla riuscita transizione dalla carta al digitale, oppure alla gestione avanzata delle banche dati bibliografiche o, ancora, al monitoraggio delle citazioni bibliografiche e alla costruzione degli indici bibliometrici, sempre più raffinati.
Oggi, l’intelligenza artificiale (Ai) si candida a un ruolo importante nella gestione di uno dei problemi che angustiano chi lavora nel campo dello science publishing: la gestione delle submission alle riviste medico scientifiche. L’aumento esponenziale dei periodici – che oggi sono arrivati a essere oltre 30.000 solo contando le riviste indicizzate sui database bibliografici più importanti – è dovuto alla necessità di assecondare il progressivo aumento della produzione di articoli, arrivati oggi alla incredibile cifra di oltre 3 milioni l’anno.1
Da molti osservatori interni al mondo dell’editoria, l’Ai è vista come uno strumento potenzialmente assai utile per il governo di una situazione difficile da gestire. Ma, per diverse ragioni, si fatica ad ammetterlo pubblicamente.
L’utilità dell’Ai si mostra per esempio nella ottimizzazione della cosiddetta desk rejection, vale a dire il processo di filtro delle proposte editoriali già al tavolo redazionale. Gli editor delle riviste possono avvalersi in modo intelligente dell’Ai per la verifica della coerenza delle submission con le istruzioni per gli autori e ancor prima con gli obiettivi stessi dei periodici da loro curati. Allo stesso tempo, l’Ai può essere preziosa per lo screening del possibile plagio di testi e immagini, una problematica sempre più frequente. In primo luogo, l’Ai può essere utilissima nell’identificare potenziali referee degli articoli pervenuti. Pensiamo ancora alla
La qualità della conoscenza e l’innovazione
L’intelligenza artificiale e revisione scientifica: strumenti, sfide e scenari futuri
revisione della bibliografia e alla sua formattazione corretta secondo uno dei numerosi format editoriali propri dell’editoria scientifica. Oppure, alla sintesi dei contenuti e alla summarization per la preparazione di comunicati stampa per i media. Allo stesso modo, l’Ai è già ampiamente utilizzata per approntare una prima versione dei contenuti in altre lingue da sottoporre successivamente a una revisione approfondita da parte di un traduttore o di un curatore esperto. In definitiva, ciò che sembra già accettato dalla comunità scientifica internazionale e anche dai grandi player dell’editoria scientifica è l’uso dell’Ai per assolvere a compiti di tipo semi segretariale fino a oggi di competenza delle redazioni.2
È possibile pensare a un passo ulteriore e all’applicazione dell’Ai alla valutazione nel merito dei contenuti scientifici? È un argomento molto attuale ma – prima di affrontarlo – è importante essere consapevoli di un’evidenza che può aiutarci anche a contestualizzare il punto di vista che Robert Golub esprime rispondendo alle domande che gli ha rivolto la redazione de il punto durante un recente congresso svolto a Roma (vedi p. 43). Golub è stato per 19 anni tra le persone che hanno diretto il JAMA, la rivista dell’American medical association.
Ci sono tanti modi di fare la revisione critica
L’evidenza di cui dicevamo è che non esiste “la” peer review, ma convivono invece tanti modi diversi di svolgere la revisione critica dei contenuti scientifici. Il tipo di peer review dipende dal genere di rivista (da quelle di medicina generale a quelle di ambito specialistico), dal gruppo editoriale (dai più noti alle nuove case editrici di recente fondazione), dagli obiettivi stessi della rivista. Quindi, il punto di vista di Golub non può non essere valutato alla luce della storia del settimanale dell’American medical association che –non dimentichiamolo – è tra i promotori della principale attività di formazione e aggiornamento sui temi della peer review, ormai da oltre trent’anni.3
Le forme della peer review sono dunque diverse: basti pensare, per esempio, che una rivista molto conosciuta come Plos One è nata con il dichiarato obiettivo di rivoluzionare la metodologia della revisione
critica, decidendo di non chiedere ai propri revisori di valutare l’attendibilità complessiva e la rilevanza del tema affrontato da un articolo proposto ma di limitarsi alla verifica della solidità dei metodi utilizzati dagli autori per la conduzione dello studio oggetto di rendicontazione. Consapevoli dunque che il tipo di peer review può essere differente a seconda della rivista – non solo per il tipo di valutazione ma anche per la qualità e l’approfondimento del critical appraisal del contenuto – e che spesso la qualità può lasciare a desiderare, possiamo forse azzardare che – in media – il risultato di una revisione condotta dall’Ai può essere sicuramente promettente.
... e tanti modi di usare l’intelligenza artificiale
Allo stesso tempo, però, c’è modo e modo di usare l’Ai per effettuare una revisione critica di un contenuto. L’Ai, allo stato attuale, va certamente guidata dalla persona che, aiutandosi con degli agenti opportunamente costruiti, deve indirizzare la valutazione artificiale in maniera da rendere il risultato più credibile possibile. Una delle possibilità per esempio è quella di chiedere al chatbot di utilizzare le griglie di valutazione preparate dalle riviste stesse o a livello internazionale; pensiamo alla checklist del Consort4 per gli studi randomizzati controllati, alla checklist Strobe5 per migliorare il reporting degli studi osservazionali, alla lista Prisma6 per la verifica se non altro preliminare delle caratteristiche di una revisione sistematica e così via.
Pertanto, anche se oggi le riviste medico scientifiche mostrano atteggiamenti diversi nei confronti dell’uso dell’Ai nella peer review7 è più che probabile che nel prossimo futuro lo scenario cambi. Con l’affinamento degli strumenti e con la sempre maggiore familiarità che avremo con gli strumenti di Ai si potrebbe determinare una situazione in cui l’uso dell’Ai sarà non solo possibile, ma forse indispensabile. “Al momento non ci sono dati sufficienti per affermare che l’Ai sia in
grado di svolgere da sola la revisione tra pari – hanno scritto Howard Bauchner –già direttore del JAMA – e Frederick P. Rivara – ma è molto probabile che la situazione cambi con la maturazione dei sistemi”.8
Anche perché la crescita senza misura della produzione di articoli scientifici sta rendendo quasi impossibile il reclutamento di revisori non soltanto tra i professionisti più esperti. Non è un caso che aprendo molte delle riviste scientifiche internazionali, si aprono dei pop-up per la ricerca di nuovi referee, che invitano a sottoporre la candidatura anche giovani ricercatori, giovani medici, addirittura studenti in medicina.
“Immaginiamo un futuro in cui l’intelligenza artificiale sia utilizzata per effettuare una prima scansione di tutti i contributi inviati e fornire una sintesi della qualità del manoscritto” scrivono Howard e Rivara, “che verrà poi esaminata dai redattori prima di decidere se richiedere una revisione tra pari. (…) Anziché evitare l’intelligenza artificiale, i redattori dovrebbero accoglierla con favore. Il compito sarà quindi quello di valutarne l’efficacia e rassicurare gli autori che il loro lavoro è stato valutato in modo equilibrato e appropriato dalla rivista”. y
Più agenti per supportare la revisione
Un agente di un chatbot è una parte del sistema che si occupa di svolgere un compito specifico all’interno della “conversazione” tra la persona e l’Ai. In un chatbot complesso come quello che può supportare il processo di revisione critica di un articolo scientifico, ci possono essere più agenti, ciascuno con una funzione diversa, ma coordinati tra loro per offrire al revisore un’interazione fluida e coerente. L’agente principale gestisce la conversazione generale, mentre gli altri entrano in gioco quando serve affrontare aspetti più specifici della revisione.
Esempio pratico
Per esempio, in un chatbot per lo svolgimento della peer review si potrebbe prevedere: { l’agente di valutazione della bibliografia analizza la completezza dei riferimenti e la coerenza dei record, { l’agente della metodologia valuta la rispondenza tra interrogativo di ricerca e disegno di studio, e la completezza del reporting, { l’agente della forma fornisce indicazioni su come migliorare la leggibilità dei contenuti, { l’agente principale coordina tutto e gestisce il dialogo.
In sintesi
Un agente è un’unità funzionale autonoma o semi-autonoma, all’interno di un chatbot, incaricata di gestire specifici aspetti dell’interazione con l’utente. In sistemi avanzati, gli agenti possono anche comunicare tra loro per offrire un’esperienza coerente e fluida.
Bibliografia
1 Hanson MA, Barreiro PG, Crosetto P, Brockington D. The strain on scientific publishing. Quantitative Science Studies 2024; 5: 823-43.
2 Kousha K, Thelwall M. Artificial intelligence to support publishing and peer review: A summary and review. Learned Publishing 2024; 37: 4-12.
3 Ci riferiamo al congresso internazionale sulla peer review di cui si svolgerà nel settembre 2025 la 10° edizione.
5 von Elm E, Altman DG, Egger M, et al. The Strengthening the Reporting of Observational Studies in Epidemiology (STROBE) statement: guidelines for reporting observational studies. BMJ 2007; 335: 806.
6 Page MJ, McKenzie JE, Bossuyt PM, et al. The PRISMA 2020 statement: an updated guideline for reporting systematic reviews. BMJ 2021; 372: n71.
7 Li ZQ, Xu HL, Cao HJ, Liu ZL, Fei YT, Liu JP. Use of artificial intelligence in peer review among top 100 medical journals. JAMA Network Open 2024; 7: e2448609.
8 Bauchner H, Rivara FP. Use of artificial intelligence and the future of peer review. Health Aff Sch 2024; 2: qxae058.
L’intelligenza artificiale (Ai) è uno strumento utile per automatizzare compiti tecnici e ripetitivi, ma non può sostituire l’esperienza e il discernimento umano nella valutazione della ricerca scientifica. Se usata bene, può liberare tempo prezioso per concentrarsi su ciò che conta davvero: la qualità, l’integrità e l’impatto degli studi pubblicati. È il punto di vista di Robert Golub della Northwestern university, medico internista generale, con interessi specifici nell’analisi decisionale, nell’analisi costo-efficacia e nell’insegnamento della valutazione critica. Editor del JAMA Surgery, Golub è stato vicedirettore esecutivo del JAMA.
L’intelligenza artificiale può fare la peer review?
È un valido aiuto tecnico, ma non un sostituto dell’editor umano
Intervista a Robert Golub Northwestern university Editor del JAMA Surgery
Dottor Golub, l’intelligenza artificiale può aiutare gli editor delle riviste mediche? Sono dell’idea che, allo stato attuale, l’Ai sia utile per quelle attività di tipo algoritmico, come ad esempio verificare se un manoscritto inviato a una rivista rispetta le regole di formattazione previste. Oppure controllare eventuali casi di pubblicazione duplicata o di plagio: per questi aspetti, credo che possa essere molto efficace. Quanto alla possibilità che possa realmente contribuire alla peer review, penso che sia ancora prematuro. Il problema è che, così com’è ora, l’Ai non è in grado di fornire un contesto per interpretare uno studio. Può forse analizzare alcuni aspetti tecnici del disegno di ricerca ma non è in grado di offrire una revisione che tenga conto del contesto: oggi non abbiamo ancora gli strumenti per questo. E anche se li si volesse utilizzare, sarebbe comunque necessario un editor esperto che sappia valutare le informazioni fornite dall’Ai, considerandole provvisorie, e affidarsi ancora ai revisori umani come veri e affidabili consulenti. Quindi, al momento, il ruolo dell’Ai è molto limitato. Certamente sta evolvendo molto rapidamente e in futuro potrebbe avere un ruolo più importante.
Una ricerca migliore e un numero minore di sottomissioni aiuterebbe il lavoro degli editor scientifici?
L’intervista video a Robert Golub
Assolutamente sì, non ho dubbi. Credo che oggi molta ricerca venga condotta a causa della pressione a pubblicare, spesso da parte di persone che forse non sono veramente motivate a fare una ricerca di qualità. Le riviste sono sopraffatte dalla quantità di lavori ricevuti, e questo rende il processo di revisione intrinsecamente più difficile. Penso che, se ci fossero meno sottomissioni e se la qualità generale della ricerca fosse più alta, sarebbe più facile per le riviste sia svolgere al meglio il proprio lavoro di revisione sia selezionare le ricerche migliori da pubblicare. y
Foto di Mike González / CC BY
LIBRI, CINEMA, ARTE
Come è nato e cambiato il Servizio sanitario italiano
Il tema della sanità in Italia è stato oggetto, negli ultimi anni, di una diffusa trattazione in riferimento alla rilevanza che tale questione ha assunto nel dibattito politico –tuttavia con scarsi risultati – e nell’opinione pubblica, anche a seguito dell’evento pandemico che ha caratterizzato il quadriennio 2020-2023: una pubblicistica che ha affrontato temi specifici e ricca di testimonianze.
Chiara Giorgi, professoressa di Storia contemporanea alla Sapienza università di Roma, nel suo libro Salute per tutti. Storia della sanità in Italia dal dopoguerra a oggi, affronta il tema da una prospettiva originale, offrendo un’accurata e al contempo piacevole ricostruzione del lungo percorso che, dall’immediato dopoguerra in poi, ha portato il nostro Paese alla realizzazione del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e, nei decenni successivi, a una sua lenta ma continua carsica erosione.
Si tratta di un libro di storia, non solo per l’ampio arco temporale che viene esaminato, ma per altre due ragioni che ne definiscono il valore. La prima è l’approccio metodologico usato in modo sistematico: Chiara Giorgi parte dai dati offerti dai documenti, dalle testimonianze, da un’analisi della normativa, cosicché i risultati prodotti da questa attività di ricerca consentono di conferire attendibilità scientifica al lavoro, documentato dalla citazione puntuale delle fonti, che consente di distinguere il “vero” (da cui scaturiscono conoscenze effettive) dal “falso”. Un “vero” che può
naturalmente essere oggetto di diverse interpretazioni e valutazioni.
La seconda ragione distintiva di questo lavoro è la correlazione che l’autrice stabilisce tra la storia della sanità – dalla gestazione alla realizzazione del Ssn fino alla sua trasformazione (e in parte, involuzione) – e le profonde trasformazioni sociali e politiche in atto nel Paese. Ne emerge così una lettura originale della storia italiana degli ultimi ottanta anni, dalla prospettiva dei cambiamenti del sistema sanitario.
La salute è un diritto sociale e collettivo
Il libro documenta come, già nel 1945, all’interno del Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia, venne elaborata una prima ipotesi di Ssn, con la definizione delle Unità sanitarie locali. Ne furono estensori due figure della Resistenza: Egidio Meneghetti,
farmacologo, e Augusto Giovanardi, igienista. Come evidenzia chiaramente l’autrice, tali proposte, che emergono sia in Italia sia in Inghilterra, rappresentano un cambiamento di paradigma rispetto alle politiche precedenti. Infatti, la tutela della salute dei cittadini, compito che gli Stati si attribuiscono finalizzandolo al potenziamento della propria potenza bellica e produttiva, viene ora garantita per il benessere dei cittadini e si esplicita come diritto di cittadinanza. Tale principio troverà pieno riconoscimento nell’articolo 32 della nostra Costituzione, in cui si rafforzerà ancora di più, essendo riconosciuto come diritto fondamentale non più dei cittadini, ma dell’individuo.
Come nasce il Servizio sanitario nazionale
I primi due capitoli del libro esaminano il periodo precedente la riforma sanitaria, evidenziando in particolare la forte e consapevole correlazione, per larga parte della classe dirigente progressista, fra politica economica e una politica di sicurezza sociale fondata, come evidenziava la Nota di Ugo La Malfa, del 1962, sui pilastri della redistribuzione, della fiscalità e della programmazione: una programmazione che si concretizza in quegli anni con il Rapporto Saraceno e con il Progetto di programma di sviluppo economico del ministro socialista Antonio Giolitti.
Segue, nel decennio successivo, una progressiva mobilitazione, per giungere a una riforma, dei sindacati, di parte del mondo medico, di uno schieramento politico che amplia i propri confini e di alcune Regioni che danno vita ai Consorzi sociosanitari in cui si aggregano le competenze di Comuni e Provincie, anticipando le Unità sanitarie locali fino a giungere alla legge di riforma 833 del 1978,
sostenuta con coerenza dalla ministra Tina Anselmi.
Una riforma tardiva – come evidenzia l’autrice – rispetto al clima internazionale che sta cambiando. Anche la situazione politica italiana si modifica e il nuovo Ministro della sanità a cui viene affidata l’attuazione della riforma proviene dal Partito liberale, unica formazione contraria a tale provvedimento.
Il servizio sanitario tra trasformazioni e involuzione
Puntualmente documentata, in questo libro, è l’evoluzione successiva della sanità italiana e della riforma che il ministro De Lorenzo (Governo Amato) modifica profondamente dando luogo al processo di aziendalizzazione, alla estromissione dei Comuni dalla sanità e a una prima ipotesi di
“secondo pilastro” con possibile uscita dei soggetti assicurati dal Ssn.
Il testo ricostruisce puntualmente anche i successivi interventi del Governo Ciampi e del Governo Prodi che dà luogo agli ultimi provvedimenti significativamente riformisti, fra cui il sistema di accreditamento, la introduzione di limiti e incompatibilità alla libera professione intramoenia, introdotti dall’allora ministra della sanità Rosy Bindi.
Un esame attento è dedicato alla crisi del welfare, a partire dalla fine degli anni Ottanta, con l’egemonia del reaganismo e del thatcherismo e con gli orientamenti assunti dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, portando così a un cambiamento di paradigma, che pone al centro la compatibilità economica, la
Scavare per recuperare, trarre,
per non dimenticare
Occhio alla prima sequenza. Non prendete come inutile avvertimento questa ben nota regola di regia, finalizzata a catturare immediatamente l’attenzione degli spettatori. Il consiglio nasce dal fatto che nel Maestro che promise il mare, primo lungometraggio della regista spagnola Patricia Font, l’incipit è preziosa pista di lettura.
Cerchiamo di esplicitare meglio. Il film si apre sul lavoro di anonimi ricercatori che, con meticolosa cura archeologica, stanno tirando fuori dalle macerie e dal fango occhiali, pettini, cinte, orologi, ossa, scheletri. Non sappiamo ancora che si tratta di una fossa comune risalente all’epoca della guerra civile spagnola, ma le immagini
suggeriscono già che non assisteremo di certo a qualcosa di distensivo. La conferma arriva di sequenza in sequenza, quando l’intreccio di personaggi, date e luoghi, indirizza in tre “direzioni” (la famiglia, la scuola, la storia) e si fa strada la convinzione che quello “scavare” va inteso anche come sinonimo di “recuperare, trarre, non dimenticare”. A voler recuperare il passato è Arianna, una giovane donna intenzionata a rintracciare, dopo settantacinque anni, notizie del bisnonno, vittima del regime franchista. La coltre del tempo, l’incuria, la voglia dei sopravvissuti di archiviare per sempre i brutti tempi non le faciliteranno le ricerche, ma quello
riduzione del ruolo dello Stato e una visione della sanità quale ambito redditizio di investimenti finanziari.
Il testo affronta poi gli anni Duemila con un titolo significativo: “Arretramenti della politica e logiche di mercato”, con un’analisi del diffondersi del privato e della finanziarizzazione della sanità. Un servizio sanitario che, negli ultimi anni, si è così sempre più allontanato dai suoi principi fondati sull’uguaglianza sostanziale e su criteri redistributivi e solidaristici propri della nostra Costituzione.
Marco Geddes da Filicaia Associazione Salute Diritto Fondamentale
che per gli altri è scarso bottino –una vecchia foto, un libro di appunti, i nomi e le frasi dei compagni di scuola del nonno Carlos, la commozione provocata dal ricordo – per lei sarà tesoro da custodire nello scrigno degli affetti.
Da oggi a ieri; da Arianna al maestro che ospitò a casa sua l’adolescente Carlos.
Correva l’anno 1935. Il giovane Antonio Benaiges accetta l’incarico di maestro di una pluriclasse e da Terragona si trasferisce a Bañuelos de Bureba, un paesino vicino Burgos. La casa in cui si stabilisce e l’aula dove confluiranno alunni dagli 8 ai 12 anni sono mal ridotte, ma Antonio si industria a renderle subito accoglienti. Convinto seguace della validità didattica del “metodo naturale” elaborato dal “visionario” pedagogista francese Célestin Freinet, dà priorità alla partecipazione attiva degli alunni e trasforma le ore di studio in
momenti piacevoli e distensivi. “I bambini – dice – devono essere soprattutto bambini”. Ovvero: “scavare” per educere, “tirare fuori” quello che hanno dentro. Le sue novità metodologiche, pur accolte con entusiasmo dai diretti interessati, vengono interpretate da alcuni genitori analfabeti e dalle autorità paesane (sindaco e parroco in primis) come idee rivoluzionarie, in aperto contrasto con la tradizione e con le disposizioni governative del momento. La critica si estende persino all’utilizzo della “tipografia in classe”, finalizzata a facilitare l’apprendimento della scrittura, e alla proposta di organizzare una gita scolastica per far vedere ai bambini quello che non hanno mai visto: il mare. Ammonizioni, ispezioni e divieti diventano una lezione punitiva da impartire pubblicamente a chi osa opporsi al regime. Libri e oggetti finiscono al rogo e Antonio Benaiges, dichiarato “pericoloso maestro”, viene sequestrato, torturato e condannato a morte senza processo e senza appello.
Per collegare le due storie ambientate in epoche diverse, Patricia Font non utilizza flashback e dissolvenze, ma stacchi netti,
quasi a voler suggerire l’attualità di ciò che non va seppellito nella fossa dell’oblio. In altre parole: “scavare” per “non dimenticare”. La foto sbiadita del gruppo classe e il libro con le note dei bambini non sono invenzioni di regia: Antonio Benaiges è esistito, ha realmente promesso ai suoi alunni di portarli in gita al mare, è stato barbaramente giustiziato a Briviesca e quello che è successo deve servire da monito. Invece di svuotarsi, l’aula di Bañuelos de Bureba si riempie di alunni di ogni età e sale in cattedra un’altra Maestra: la Storia. Le sue lezioni dovrebbero essere di perenne attualità, ma basta leggere i quotidiani e vedere la tv per fare un lungo elenco di moderni alunni “asini” da bocciare con una sfilza di zeri.
A rinfrescare la memoria ben venga, allora, un film come questo che richiama, di certo non casualmente, due capolavori di François Truffaut: Fahrenheit 451 –dove i libri sono considerati, da chi detiene il potere dell’insegnamento, nocivi e vanno bruciati nella pubblica piazza – e la sequenza finale dei 400 colpi, con il bambino protagonista (Antoine, anche lui) che fugge dal riformatorio e corre a
vedere (ancora il caso?) quel mare che non aveva mai visto.
Se l’inizio di un racconto ha il compito di catturare l’attenzione, la conclusione ha quello di riassumere, invitare alla riflessione personale, lasciare un messaggio. Nel nostro caso, dopo avere visto la figlia di Arianna correre felice in riva al mare e prima dello scorrere dei titoli di coda, ecco un’altra serie di inquadrature. La parentesi aperta all’inizio si chiude con il ritrovamento e l’esposizione di altri reperti: foto, diari, banchi e oggetti semidistrutti, muri screpolati, lapidi, la lettera di denuncia per la condotta sovversiva del maestro, la proposta della commissione depuratrice, la copertina del libro Il mare. Visto dai bambini
Difficile immaginare quello che avrebbero scritto i bambini di Antonio Benaiges se quella sua promessa si fosse concretizzata. Forse avrebbero detto con parole loro che “Nel mare non c’è passato, presente o futuro, solo pace” (Jacques Cousteau); che “Il mare è come una grande biblioteca, ricca di storie da scoprire” (detto svedese); che “Il mare non ha paese ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare” (Giovanni Verga). Forse. Ci piace fantasticare, però, su quello che, come suggeriva Alda Merini, avrebbero potuto fare: “Mettere la paura dentro le conchiglie e il rumore del mare dentro i cuscini”.
Italo Spada
Comitato per la Cinematografia dei Ragazzi di Roma
Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Quaderni acp dell’Associazione culturale pediatri e qui riproposto nell’ambito della collaborazione tra Quaderni acp e il punto
Un frame scena del film “Il maestro che promise il mare”
@SergiBernal OFFICINE UBU
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