113. AMAKURU MAR. 2019

AMAKURU NÂş 113

marzo 2019

Da cinque anni questo Ospedale è diventato la mia seconda casa. Marzo, mese del mio arrivo a Kiremba (2014), ma anche mese, nove anni prima, del mio approdo in Burundi (2005) e del mio ingresso nel mondo della Cooperazione. E infine marzo mese della nascita del mio primogenito (2007).

Un mese davvero speciale, per il quale posso solo essere grato.

L’EDUCAZIONE, QUESTA SCONOSCIUTA Parliamo di scuola, cominciando dalle strutture largamente insufficienti.

L’anno scorso il ministero dell’istruzione aveva previsto la costruzione di 850 aule scolastiche con il contributo di mano d’opera della popolazione, ma ne sono state realizzate solo un centinaio, con il risultato che in una classe si possono ritrovare 50, 60, anche 80 alunni. Ma il problema non è solo quello degli edifici. Si può studiare anche sotto un albero, purché si impari qualcosa di utile da insegnanti motivati e preparati. Invece…

Ogni lunedì mattina, quando verso le 9 arrivo a Ngozi diretto a Kiremba, si ripete la stessa scena: insegnanti che chiedono un passaggio per raggiungere la scuola di qualche villaggio lungo la strada, dove le lezioni dovrebbero cominciare alle 7,30. Che c’è da aspettarsi? Inoltre dicono che

quando un’insegnante scrive alla lavagna o sul registro, il più delle volte le frasi sono infarcite di errori di ortografia inguardabili.

Altro problema sono i libri di testo: la media è di uno ogni sessanta alunni!

In pratica l’insegnante detta quanto c’è scritto sul libro, e tutti devono scrivere nei rispettivi quaderni (a prova di intemperie) per poi ripetere come i pappagalli. Non è importante capire quel che si studia, ma l’essenziale è saperlo ripetere a memoria. Si imparano definizioni, senza la più pallida idea di che cosa vogliano dire. Che sia il metodo migliore?

Ma tra tante desistenze (un bambino serve di più per far pascolare le capre che per studiare…), c’è anche chi non demorde: questa vecchietta di 95 anni, Chebelina Mukumuga, si è messa a frequentare la prima elementare per imparare a leggere e scrivere. Della serie: non è mai troppo tardi!

UN PEZZO DI STORIA QUASI SCONOSCIUTA Era i lontano 1930 quando un esploratore tedesco di nome Burkhart Waldecker si mise in testa di risalire dalla foce del Nilo fino alla sua sorgente più remota. Realizzò questa titanica impresa nel corso di quattro anni, percorrendo 6853 chilometri fino ad arrivare alla sorgente situata sul monte Kikizi, ad un’altezza di 1134 metri slm, a quella che è appunto la sorgente più meridionale del fiume più lungo del continente africano, attraversando nell’ordine Egitto, Etiopia, Eritrea, Sudan, Uganda, Tanzania, Kenya, Ruanda, Burundi (dove si trova la famosa sorgente!).

Peccato che qualche anno fa la storica sorgente, che si trovava in mezzo alla natura, fu “abbellita” con una vasca – per raccogliere il fiotto d’acqua della sorgente - rivestita di piastrelle azzurre: un vero pugno in un occhio!

L’audace esploratore tedesco non si limitò a questo. Quattro anni dopo la sua scoperta volle costruire, in memoria di quell’impresa, una piccola piramide sulla cima della montagna da cui sgorga la sorgente. L’idea era quella di ricordare simbolicamente la “Terra dei Faraoni” nella quale sfociano le acque della sorgente, dopo un lunghissimo e tortuoso percorso lungo il quale esse si gettano anche nel lago Vittoria per poi continuare la loro corsa verso il Sudan. Qui, nella capitale Khartoum, si riuniscono le acque di quelli che sono chiamati “Nilo bianco” e “Nilo azzurro”. È dunque proprio nel piccolo Burundi che il maestoso Nilo prende vita.

Dopo 14 anni di Burundi, solo pochi giorni fa abbiamo avuto l’occasione di visitare questi luoghi turistici a meno di tre ore d’auto dalla capitale. Quel sabato mattina, come credo succeda spesso, eravamo noi gli unici “turisti”.

I MIRACOLI SUCCEDONO (MA – AHIMÈ – NON SEMPRE) Il mio giro mattutino dell’Ospedale inizia sempre dal Pronto Soccorso, per verificare se c’è qualche caso grave arrivato durante la notte. I dieci letti del Pronto Soccorso sono tutti occupati, e su qualcuno si stringono due malati. All’ingresso la fila dei nuovi arrivati incomincia ad allungarsi.

piccola tribù di affetti da osteomielite che solitamente restano ricoverati per lunghi periodi.

Enoch è un ragazzino vivacissimo, che riesce a correre anche con le stampelle (mi domando cosa farebbe se il suo piede non fosse malato).

Prima ancora di chiedere come è trascorsa la notte ad uno degli infermieri di turno, mi accorgo di un nuovo caso che sembra essere decisamente grave. Si tratta di un bambino che può avere si e no un anno (tre quarti dei malati che arrivano al Pronto Soccorso sono bambini, anche molto piccoli).

Questo ranocchietto con gli occhi fuori dalle orbite è sotto ossigeno e respira visibilmente a fatica. Domando all’infermiere che l’ha accolto che cos’ha. “È arrivato stamattina alle quattro con un’anemia acuta e problemi di respirazione; gli abbiamo fatto subito una trasfusione ed ora gli stiamo dando l’ossigeno, ma resta un caso grave”.

La mia raccomandazione, anche se può aver poco di strettamente medico, è sempre la stessa: “Sorveglialo come se fosse tuo figlio, e per qualsiasi cosa non esitare a chiamare il medico di guardia”.

Il mio giro prosegue. Sotto il portico del reparto di Ortopedia sono colpito da una scena commovente. Un bambino di otto o nove anni sta spingendo una carrozzina, dove è seduto un suo coetaneo, che evidentemente non può camminare. Ma quello che spinge ha una gamba sola e si regge su due rudimentali stampelle di legno. Nonostante questo sta aiutando il suo amico che non può camminare. Mi viene un nodo alla gola: è il miracolo della solidarietà.

Devono essere due bambini arrivati in questi giorni, perché non li conosco.

Invece conosco bene altri che a modo loro mi fanno festa quando mi vedono e si mettono in posa per farsi fotografare. Fanno parte di quella

Poi ci sono due ragazzine, Oreia e Mireille, che si danno da fare per aiutare gli ausiliari a tagliare le garze da un grosso rotolo. È spettacolare vedere come tutti si aiutino, cercando di fare qualcosa per rendersi utili.

Passo in Neonatologia. L’infermiere Jéremie sta compilando le schede di alcune minuscole creature avvolte nei panni che le rispettive mamme tengono tra le braccia. Da quando abbiamo costruito questo reparto, poco più di un anno fa, vi sono già passati più di cinquecento neonati, che purtroppo in alcuni casi non ce l’hanno fatto. Impossibile, a detta del

medico, “salvarli” con i mezzi che abbiamo quando vengono al mondo con un peso di un kg o poco più. Ma i risultati raggiunti in quest’ultimo anno sono già qualcosa di eccezionale.

Un altro reparto sempre pieno è la Maternità. Lo scorso anno abbiamo viaggiato su una media di 260-270 parti al mese, che significa nove al giorno. E questo in un “piccolo” ospedale di periferia come il nostro. Mi affaccio nella sala di attesa, dove uno stuolo di donne sta aspettando le doglie, e qualcuna già si contorce e geme per il dolore. Cerco di sdrammatizzare con qualche battuta, e resto sempre colpito dall’estrema naturalezza con la quale vivono questi momenti. Sarà che per molte di loro ormai si tratta del terzo, quarto, quinto figlio, ma sono da ammirare per la compostezza con la quale affrontano un evento che non può comunque che essere doloroso.

Grazie al contributo dei nostri benefattori (spesso anonimi) in questi giorni l’Ospedale ha potuto acquistare la preziosa apparecchiatura di grande utilità per il reparto che ospita i neonati prematuri e affetti da altre svariate patologie.

Finisco il giro degli altri reparti, ma il mio pensiero ritorna continuamente a quel bimbo tenuto in vita da un tubicino di ossigeno al Pronto Soccorso.

Prima di mezzogiorno ripasso per controllare la situazione. Sul letto dove giaceva il piccolo resta solo un fagottino con dentro il suo corpicino ormai inanimato. L’infermiere si avvicina con un biglietto dove c’è scritto il nome del bimbo e lo depone sul fagotto, mentre mi sussurra sconsolato: “Non siamo riusciti a fare di più: se n’è volato in cielo…” È così: qualche volta l’ospedale riesce a fare miracoli, altre volte si resta muti di fronte ad un mistero che ci avvolge e ci supera.

UN DONO QUANTO MAI NECESSARIO Da tempo il nostro servizio di Neonatologia necessitava di una lampada per la fototerapia, che sfrutta la proprietà che la luce ha nel ridurre l'ittero nel neonato, il quale deve restare (con gli occhi bendati) esposto a questi raggi ultravioletti che si presentano con una particolare luce blu.

PER FINANZIARE I VARI MICROPROGETTI, effettuare bonifico bancario a Aggiungi un posto a tavola – GAIA, c/c N. 49000 CIN: S - ABI: 05584 - CAB: 32380 IBAN: IT98 B 05034 32380 0000 000 49000 Nella causale si può specificare il nome o il numero del Progetto: 1) Idrocefali; 2) Neonatologia; 3) Osteomieliti; 4) Orfanotrofio Un grosso e caloroso saluto come sempre dall’intera tribù:

Gigi, Evelyne, Jonas, Antonio, David, Caleb