Venti giorni - Estratto

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Caterina Pavan VENTI GIORNI

Illustrazioni di Rosalia Radosti

PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2025

Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it • www.paolinestore.it edlibri.mi@paoline.it

Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.

Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)

ISBN 978-88-315-5841-9

A chi ci prova ancora una volta.

• PRIMO GIORNO • IL PEGGIO DEVE ANCORA ARRIVARE

«Lascialo in pace, sottospecie di paramecio!»

Questo è Diego.

«Non t’immischiare, secchione!»

Questo è Antonello. Cioè Tony.

«Cos’è, Dario, hai bisogno della babysitter?»

La domanda è per me, ma non rispondo.

Cerco con gli occhi mio fratello per chiedergli, come sempre invano, di lasciar perdere. Ma

Tony mi sovrasta dondolando e non vedo oltre le sue spalle. Perché sono così basso? Sento cadere qualcosa, forse uno zaino, e sono ormai

con la schiena al muro, in attesa di colpi o pizzicotti o tutt’e due, quando le vedo. Le mani di mio fratello sbucano sotto le ascelle di Tony e lo trascinano di lato.

«Mollami, quattrocchi! Questo rammollito ha bisogno di una lezione!»

«Sei tu che meriti una lezione, ameba sottosviluppata!»

Attorno a loro si sono già radunati quattro o cinque ragazzi e ragazze. Io non mi stacco dal muro.

I duellanti si spintonano soltanto, finché Tony esagera e Diego mi si spiaccica addosso.

Risate di tutti. Diego, alto come me ma molto più atletico, scatta a testa bassa e Tony smette per qualche istante di respirare, colpito in pieno stomaco.

A Diego cadono gli occhiali. Crack! La suola di Tony reagisce sul più debole, come sempre, non importa se ragazzo o oggetto.

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«Ehi!»

Margherita spunta al mio fianco e minaccia

tutti con la sua macchina fotografica digitale. «Finitela o dico a mia sorella di postare queste foto su Instagram, taggando il preside e i vostri genitori!»

«La baby-sitter della baby-sitter. Che smidollati che siete, gemellini!» canticchia

Tony risistemandosi il cappellino in testa e voltandosi.

Diego recupera i resti degli occhiali e gela il sorriso di Margherita: «La prossima volta stattene zitta, okay?». Afferra lo zaino da una spallina e se lo tira dietro senza troppi riguardi.

«Come ultimo giorno di scuola non c’è male!» scherzo io, per niente convinto.

Margherita fa spallucce e se ne va delusa con un ciao della mano a me e alla schiena di Diego. Rincorro mio fratello.

«Avevamo deciso di andare al mare con lei, oggi. Se la tratti così…»

«Non me ne importa niente! Andiamo a casa».

Insomma, la prima media è finita da meno di un’ora e ho già all’attivo un pestaggio, un tot di insulti e un mancato pomeriggio in spiaggia con mio fratello e Margherita. In questo momento, però, non so che il peggio deve ancora arrivare.

Diego scaraventa quel che resta degli occhiali nel primo cestino che incontriamo.

Per fortuna non gli servono sul serio, vede benissimo anche senza, li usa unicamente per distinguersi da me. «Secondo me devi fare un fumetto, un diario per ragazzi sfigati».

«Esiste già» gli rispondo.

«Se quello ha fatto i milioni raccontando la vita di una schiappa, pensa cosa farai tu se scrivi il diario di due schiappe!»

Quando entriamo in casa c’è papà che scola la pasta.

«Papà?»

«Ciao, ragazzi! Buone vacanze».

«Grazie. Che ci fai a casa a quest’ora?»

«Ne parliamo poi. Adesso mangiamo».

«Come vuoi».

«Ah, non svuotate le cartelle, d’accordo? Lo farete dopo».

Dopo non lo facciamo. Dopo riempiamo due borsoni con vestiti, scarpe, libri e altre cose.

Da questa sera abiteremo da zio Duccio.

Papà ha perso il lavoro e noi stiamo per perdere il padre.

Beh, è forse meno tragica di come sembri, la faccenda. La fabbrica ha chiuso e ha lasciato tutti a casa, ma la crisi era nell’aria da tempo e lui aveva già mandato il curriculum dappertutto, così ha trovato subito un posto

come inserviente generico sulle navi da crociera.

Licenziato alle nove del mattino e assunto dalle nove di sera. Dice che è andata bene, che non capita a tutti una fortuna simile.

L’unico che possa occuparsi di noi è zio

Duccio, il fratello maggiore di papà. Ha quasi sessant’anni e da sempre, che io sappia, lavora come custode a Villa De Floris.

«Io non ci voglio andare. Punto e basta».

«Non ci sono alternative».

«Ma lui è... Uffa, lo sai».

«Vi vuole bene e il posto è bello».

«Saremo ancora più presi di mira di adesso, se andiamo là».

«Diego».

«Lo so. Non ci sono alternative».

Diego china la testa e agguanta il borsone. Io scalpito. Adoro il posto dove vive lo zio!

• SECONDO GIORNO •

LA GALLINA DI ZIO DUCCIO

Così da ieri viviamo da zio Duccio, a Villa De Floris.

Si tratta di un enorme edificio colonico su tre livelli. Sembra una torta nuziale un po’ squadrata e scrostata. Si trova sulla sommità di una collina e il suo giardino ne occupa quasi tutto il lato sud. Ci sono anche un bosco, alcuni prati, un viale alberato, un orto, un frutteto e una piscina che non usa nessuno, purtroppo, ed è stata declassata a laghetto per rane e pesci rossi.

Nella villa abitano due vecchi signori in

guerra perenne. Il cavalier Ortensio, che ha ottantanove anni, occupa la metà sinistra

della palazzina; sua sorella, madame Petunia, di anni novanta, la metà destra. Alla morte

della madre, che ha raggiunto la pazzesca età di centocinque anni, hanno litigato al punto da dividere la proprietà a metà in senso verticale, dal soffitto della villa al muro di cinta. Una siepe sempreverde taglia in mezzo i prati davanti e dietro l’edificio.

Il portone di ingresso, maestoso, in legno scuro intarsiato è unico e indivisibile e questa pare una scusa sufficiente ai due inquilini per litigare ogni volta che si incrociano sull’uscio. Ciascuno dispone di una chiave in bronzo, ma lui dice che lei non ha diritto di usarla perché la serratura si trova nella sua metà, lei controbatte che la maniglia è dalla sua, quindi quello in torto è lui.

Sono entrambi secchi secchi, lei ingobbita

e munita di bastone, lui dritto e altezzoso anche se parecchio sordo. Con quell’aspetto, dai due vecchi non ti aspetteresti urla quando si incontrano in zona portone, eppure sono pronto a scommettere che le loro voci si sentano fino al porto.

Villa De Floris comunica con la casa del custode, cioè zio Duccio, attraverso due campanelli di ghisa attaccati al muro in soggiorno. Quello di sinistra corrisponde agli alloggi del cavaliere, l’altro a quelli di madame: se suona il campanello di sinistra, lo zio corre alle stanze del cavalier Ortensio, se tintinna quello di destra... beh, si è capito.

La casetta di Duccio, piccola e graziosa, si trova a metà del viale che dal cancello conduce alla villa. Lui occupa soltanto il pianterreno e ha organizzato la mansarda per ospitarci.

A me piace tanto zio Duccio, Diego invece gli è affezionato «in modo critico» come dice lui,

perché «è un grave torto che ci fa» quello di essere fidanzato con Ernesto, il bibliotecario.

Io adoro disegnare e qui ci sono un mucchio di fonti di ispirazione. Oggi, per esempio, c’è una gallina marrone che razzola sul prato. Mi siedo a poca distanza e faccio qualche schizzo cercando di non turbarla e di non attirare l’attenzione dello zio sulla sua fuga dal pollaio.

«Cosa fai?» ringhia Diego sbucando dall’alto della siepe.

«Disegno».

«Sei fuori di testa? La gallina! Dobbiamo riportarla in gabbia».

«Perché?»

«È scappata, mi sembra evidente».

«Embè?»

«Confermo, sei fuori».

«No, dai, va bene, dopo la rimettiamo a posto, adesso lasciamela copiare».

Ma chiedere a mio fratello di rimandare il ripristino dell’ordine è fiato sprecato. Difatti raggiunge di corsa il prato e scatta verso l’animale a braccia tese. La pennuta lo ignora per qualche secondo, poi, proprio quando Diego sta per afferrarla, spicca un voletto e si allontana di qualche metro.

«Viene da te. Prendila!»

Richiudo il notes e lo guardo.

«Come la prendo?»

«Dalle zampe. Dal collo no e dalla coda nemmeno. Credo».

«E se mi becca?»

«Prendila e basta».

La gallina fa con me lo stesso giochetto, mi scarta, e manco pure io la presa. Ma ce la fa Diego, avvolgendola nella felpa, perché si è distratta per tenermi d’occhio.

La poverina starnazza e si dimena, una zampa esce dalla stoffa e gli graffia il braccio.

«Aiutami!»

Lo raggiungo, insacchiamo meglio la preda

e ci avviamo a passo svelto verso il pollaio.

«Cosa avete lì?» ci dice allegramente zio

Duccio, in arrivo con un cesto di insalata in mano.

«Era scappata e l’ho ripresa» ansima Diego.

«L’abbiamo presa» sottolineo io.

«Oh, bravi, fatemi vedere. Lilla! Povera Lilla!» geme lui e ci strappa il fagotto dalle mani, liberando la gallina.

«La lasci andare? Con la fatica che abbiamo fatto per acchiapparla!» urla Diego tenendo la mano sul graffio.

«Lilla?» chiedo io arricciando il naso.

«È la mia bambina, l’ho covata io» borbotta lo zio.

«Bambina?»

A cena ci racconta tutta la storia: l’uovo era un regalo di Ernesto. Pensava fosse un

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