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Prefazione
Paolo Ruffini
Le citazioni bibliche sono tratte da La Sacra Bibbia nella versione ufficiale a cura della Conferenza Episcopale Italiana © 2008, Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena
PAOLINE Editoriale Libri
© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2025
Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it • www.paolinestore.it
edlibri.mi@paoline.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)
ISBN 978-88-315-5883-9
In origine c’è l’Incontro. Devo tutto a lui.
Mi trovo a fare uno spettacolo, a Gaeta, quando Riccardo e sua sorella Enza mi attendono con vivace entusiasmo e mi dicono: «Dobbiamo farti un invito».
Perdonatemi la spocchia, ma di inviti me ne capitano tanti, tantissimi.
Loro insistono dicendomi che quest’invito è speciale.
Perdonatemi la presunzione, ma di “inviti speciali” me ne capitano tanti, tantissimi.
Loro insistono dicendomi che è difficile raccontare il posto dove mi volevano invitare a presentare il mio libro Posso solo amare.
Perdonatemi la superbia, ma di inviti in posti che “è difficile raccontare” me ne capitano… qualcuno. Ecco, non tanti, ma qualcuno mi è capitato.
Di trovare invece un pacco con dei libri e segnalibri che indicano testi che potrebbero pia-
cermi e una lettera scritta a mano, no. Non mi era mai capitato.
Tra questi c’era anche Cuore Umano di Francesco Fiorillo.
Lo leggo e mi migliora la qualità del battito.
Enza e Riccardo avevano conquistato la mia fiducia.
Decido allora di accettare l’invito.
Stavo vivendo un momento di grande stress. Ricordo ancora il viaggio da Roma in cui Riccardo cercava di introdurmi a quello che sarebbe accaduto da lì a poco e io, cafonissimo, decisi di smorzare la conversazione addormentandomi clamorosamente. Il che da una parte è segno di grande fiducia (dormire in macchina con qualcuno significa che metto la mia vita nelle sue mani), ma dall’altra è un atteggiamento assai scorbutico, soprattutto se va a interrompere il “fanciullesco giubilo” dell’organizzatore, e non me ne sono mai scusato abbastanza.
Arrivo così al Monastero San Magno a Fondi, in provincia di Latina.
Al suo ingresso leggo un pezzo di legno dove c’è scritto:
Entra. Entra chiunque tu sia, sognatore, cercatore, vagabondo, devoto.
Entra anche se sei caduto, deluso, inquieto, entra.
Da qualsiasi luogo tu provenga, dall’est dall’ovest, dal sud o dal nord.
Entra, se cerchi la pace, una sosta, una strada.
Entra, con tutto quello che sei, con i dubbi, le domande, le incertezze e le tue debolezze.
Entra anche se hai infranto i tuoi voti mille volte.
Entra nonostante tutto.
Entra, ti aspettavamo!
Ecco di che cosa avevo bisogno. Per troppo tempo mi ero concesso solo il cartello «divieto di sosta».
Non mi fermavo più, né su di me, né sul mio cuore, né sul mio tempo.
Mi viene incontro un uomo che mi accoglie a braccia aperte, col sigaro in bocca e una maglietta blu sopra i jeans e i sandali.
Come prima cosa mi dice «Grazie!».
Ho pensato: «Ok, sarà meglio che accenda la telecamera». Ecco perché riuscirò a essere meno approssimativo del solito nel racconto che segue.
Mi porta subito a vedere l’orto incompiuto, che è praticamente un giardino di erbacce, e mi legge il cartello:
Sii come queste erbacce, piante che hanno imparato tutte le abilità di sopravvivenza tranne quella di mettersi in fila.
Sii come queste erbacce.
Quello che apparentemente ti sembra inutile nella realtà è una grande risorsa.
Sii come queste erbacce.
Difficili da estirpare e sradicare, capaci di crescere in situazioni difficili, a cui basta solo un po’ di sole e di pioggia per vivere.
«Aggiungerei anche un po’ d’amore, ma questo tu lo sai già, Paolo» mi dice.
Poi si presenta. Si chiama Francesco, ed è un prete diocesano.
Mi racconta la storia di questo Monastero.
Io lo definirei un posto che ha proprio voglia di esistere.
Fu edificato nel 522 per volere di sant’Onorato per ricordare il martirio di 2597 cristiani, che con san Magno e san Paterno si rifugiavano negli anfratti del monte per sfuggire alle persecuzioni dell’imperatore Decio.
Poi fu saccheggiato da Napoleone nel 1807 e solo negli ultimi anni è stato acquisito e restaurato dalla Regione Lazio e infine affidato all’arcidiocesi di Gaeta.
Adesso è un porto di terra, aperto sempre.
All’interno c’è anche una bottega, senza commessi, in cui si possono acquistare prodotti e og-
getti fatti dai volontari della Fraternità. Volendo si può anche rubare, certo. Ma il Monastero San Magno è un posto di fede: in Dio, e nell’essere umano.
Il prete è Francesco, che mi racconta la sua storia e che vive di provvidenza e si affida.
È in totale controtendenza con il mondo che viaggia. Al Monastero bastano il tempo, la natura, il ruscello che scorre, il suono dell’arpa che nasconde alcune cripte.
Entro in chiesa, anche se tutto il Monastero mi sembra una grande idea di tante piccole chiese, sottoscala, anfratti bui, zone sommerse; tutto è sacro, e ovunque c’è arte scomposta.
Vedo che ci sono piccole sedute e Francesco mi dice che sono per i bambini, perché quando lui dice Messa i bambini sono liberi di giocare, di disegnare, di fare merenda, di disturbare.
Io resto basito: da buon bambino vivace, «ho fatto le suore» e la mia allergia alla disciplina clericale è sempre stata particolarmente accesa. Rimango quindi attonito dalla larghezza dello sguardo di Francesco.
La mia interpretazione è che per lui Dio è in primis Libertà.
Forse è la stessa parola.
Annuisce continuamente, Francesco.
È l’accoglienza fatta persona, e mentre lo vedo sgattaiolare veloce verso immensi corridoi angusti, non provo nessun cenno di claustrofobia o di inquietudine per la poca luce che filtra.
Tutto è aperto, tutto è illuminato.
Forse perché è la luce del viandante o del pellegrino che trascorre il suo tempo all’interno a determinare il grado di intensità visiva.
E io sentivo di avere un fuoco buono dentro, mentre passavo su quell’antico pavimento. Mi sentivo abbagliato da questa sosta che non avevo chiesto, ma di cui avevo profondamente bisogno.
Francesco poi mi racconta che gestisce un gruppo di persone che hanno subìto la più grande tragedia innaturale che un essere umano possa vivere: la morte di un figlio.
Anche lì, se c’è un ripostiglio in cui la fede può vacillare, Francesco è pronto a esserci.
Perché Dio potrebbe permettere un dolore così immenso, e perché dovrebbe concedere che un figlio venga a mancare a un genitore amorevole? Non è la sede per azzardare ipotesi, ma ricordo ancora il dialogo che ho avuto con lui: «Se perdo un padre o una madre divento orfano, se perdo la moglie divento vedovo, se perdo un figlio cosa divento?».
Non esiste una parola nella storia umana che racconti quello stato. Forse perché la genitorialità è davvero uno stato eterno o, contrariando il bellissimo concetto buddista dell’impermanenza, assolutamente permanente. L’essere genitore (e quindi creatore) è qualcosa che supera la morte: esattamente come Dio, una madre non può morire e quindi non può smettere di essere madre, anche se il figlio non c’è più.
Ricordo sempre la bellissima poesia del mio amico Lamberto Giannini:
Quando morirò non voglio un Dio estraneo che mi accoglie.
Voglio la mia mamma.
Sarebbe una delusione trovare il Paradiso.
Vorrei ritrovare le tue braccia che mi stringono e appoggiare la testa al tuo seno.
Perché solo in quei momenti non avevo paura.
Se mi dicessero che anche solo per un attimo ritroverò questo, non avrei più paura della morte, mi sentirei sicuro e forte.
Come mi sento sicuro e forte quando mi sembra di vederti e mi viene da piangere.
Un Dio dovrebbe abbracciare troppe persone. Una madre solo i figli.
Ed è proprio sulle mamme che il Monastero pone l’accento. A partire dalla fratellanza col Santuario Madonna della Rocca sul monte Arcano, per arrivare al grosso quantitativo di mamme che ho incontrato a San Magno.
Ecco che torna la mia domanda: «Un genitore che perde un figlio, cos’è?».
Francesco mi risponde subito: «Un funambolo. Perché sono lì, a camminare su un filo sottile, avendo sotto l’abisso, ma un cielo sopra di loro, con tante belle strade. Io cerco di indirizzare il loro sguardo verso l’Altrove e andare oltre».
Francesco ha scritto un bellissimo libro che si intitola proprio Funamboli. Genitori che camminano sul filo dell’oltre, in cui si approfondisce questa condizione devastante.
I giovani e i bambini che sono venuti a mancare, invece di una tomba o di un pezzo di marmo, hanno un albero di mandorlo a ricordarli.
Il mandorlo è il primo albero a fiorire ed è l’ultimo a fare i frutti.
È l’albero posto sulla terra per annunciare l’arrivo della primavera. In ebraico la parola “mandorlo” si dice shaked, che significa “sveglio”.
Il mandorlo è il simbolo della fiducia, della rinascita. Ci insegna che la primavera arriverà di
sicuro e l’albero è il primo ad accorgersene. Non importa quanto possa essere freddo e pungente l’inverno, il mandorlo fiorirà. È così.
«Che cosa vedi, Geremia?» gli chiese il Signore. «Vedo un ramo di mandorlo» rispose il giovane ragazzo.
Il Signore allora aggiunse: «Hai visto bene, poiché io vigilo sulla mia parola per realizzarla».
Francesco mi ha invitato a fare una rincorsa verso la mia spiritualità. Mi ha spogliato del tempo, e mi ha vestito di vita. In un momento in cui la maggior parte del mio tempo non lo usavo per vivere, ma per fare. Una delle sue parole preferite è kenosi, che significa proprio spogliarsi, tornare al proprio «io essenziale», direbbero i miei amici del Metodo Hoffman.
«Trasformare le proprie ferite in feritoie», indica una scritta in un legno, dove passa la luce nuova per riprendere il proprio cammino e illuminarsi con la consapevolezza di essere un miracolo d’amore.
«Quando soffia il vento del cambiamento, alcuni costruiscono dei muri e altri dei mulini a vento, tu da che parte stai?». Anche questa è una grande domanda che ho letto passeggiando nel Monastero San Magno.
Ecco, il libro che avete in mano vi aiuterà a capire da che parte stare. Francesco non vi dice cosa fare, cosa evitare, cosa pensare. Vi dice che lui c’è. E ci può essere per tutto il vostro anno. Esattamente quello che dovrebbe fare una persona amorevole nei confronti di qualcuno che si tormenta a causa di problemi più o meno grandi. «Io ci sono».
Anche perché spesso quelli che noi vediamo come problemi nell’altro, in realtà sono equilibri.
Alcune persone non vogliono uscire dal vortice, al massimo ti tirano dentro. Conviene, per il bene di tutti, diventare testimone empatico: qualcuno che è in grado di ascoltare attivamente e comprendere profondamente le emozioni e le esperienze dell’altro, creando uno spazio sicuro in cui si possa sentire accolto e libero di esprimersi.
Il contrario di amore e luce non è odio, ma paura. E questo libro ha 365 consigli per non avere paura. E casualità vuole che la frase più ripetuta nella Bibbia sia proprio «Non avere paura», ed è ripetuta 365 volte.
Le cose non si vedono per ciò che sono, ma per ciò che siamo. E se abbiamo paura, cambiamo noi, e cambiano anche le cose. Bisogna avere memoria non di ciò che avevamo, ma di ciò
che abbiamo. Accorgerci dell’occasione di esserci svegliati stamani, di poter sorridere, di poter mangiare un cornetto e un cappuccino, e possibilmente dire «grazie» in Alto, al di là di chi ci ascolta, avendo fede che Qualcuno ad ascoltarci c’è davvero.
È quello che ho imparato intervistando i bambini, con il mio format Il Babysitter.
I bambini credono.
In Dio, negli unicorni, in Babbo Natale, nei genitori, nell’essere umano.
Una bambina mi ha portato un libro e mi ha chiesto di leggerle una favola. A un certo punto si parlava di un drago, e lei mi dice: «Ma te non sei un bravo attore, si vede che non ci credi ai draghi». Aveva ragione lei.
I bambini ci credono.
E tutti quanti noi siamo stati bambini.
«Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3).
Che poi dire bambini è troppo giustificativo. Per me sono persone basse. In crescita.
Giustamente una volta una bambina che si chiama Sara mi chiese: «Ma perché i vecchi si chiamano vecchi e i bambini non si chiamano nuovi?».
Ho chiesto a Simon, un bambino di quattro anni, chi è Dio e lui mi ha detto: «Non lo so, non me lo ricordo, ma l’ho salutato quattro anni fa».
È stupenda, la memoria. Quando nasciamo non ci ricordiamo niente, nemmeno di averlo salutato, e iniziamo il viaggio. E allo stesso modo negli ultimi periodi della vita sospendiamo la memoria perché stiamo per salutarlo di nuovo, alla fine del viaggio.
Ma la cosa per cui devo ringraziare Francesco maggiormente è per avermi aperto una feritoia importante. Quando citai il famoso precetto di Gesù «Ama il prossimo tuo come te stesso», mi disse che la traduzione non è esatta. Quella più corretta è «Ama il prossimo tuo perché è te stesso», o meglio ancora, aggiunse, «Ama il prossimo tuo perché è te esteso ». Incredibile e meraviglioso!
È stata una rivelazione, tanto che mi ha portato a fare un nuovo progetto insieme ai miei colleghi della Compagnia Mayor Von Frinzius di Livorno, con cui feci già Up and Down, dal titolo Din Don Down - Alla ricerca di (D)Io.
Perché forse se da Dio levo la prima lettera della parola, resto comunque Io che sono la parola di Dio. E allora quello che è nell’alto dei cieli può essere dentro ognuno di noi, al di là del
dolore, delle disabilità, dei cromosomi, degli errori, dei peccati, al di là di noi.
Grazie, Francesco, grazie per questa fioritura che mi hai regalato. E grazie per questo Fiorisci in pieno inverno.
Qui dentro ci racconti tante cose che ci sono: nel cielo, in noi e in Dio.
E le racconti come farebbe un bambino, credendoci col sorriso.
Fiorisci in pieno inverno non è solo un libro, è anche un amico di cui non sapevamo ancora di aver bisogno. È un fiore che non si coglie, si legge, si vive, e si colora. E alla fine la fioritura siamo noi, grazie a te. D’altronde, cosa ci dovevamo aspettare da uno che è nato Fiorillo…
Così come il mandorlo fiorirà, questo libro vi emozionerà.
Sono cose sicure, naturali.
Ah, e grazie anche a voi che mi avete letto in questa prefazione; io sono soltanto il portinaio di questa bellissima casa senza porte, senza tempo e senza limiti.
Entrate, vi stavamo aspettando.
Paolo Ruffini
Secondo un antico proverbio indiano un fiore non pensa di competere con il fiore che gli sta accanto, semplicemente fiorisce.
Troppo spesso viviamo guardando chi ci sta accanto, paragonandoci e misurando il nostro valore in base agli altri. Perdiamo tempo a scrutare il giardino degli altri, invece di guardare e curare il nostro.
Il fiore, di certo, non si chiede perché quello accanto a sé ha petali più grandi, colori diversi dai suoi, posto migliore del suo: fiorisce. Fiorisce e basta. È nella sua natura fiorire.
Ma noi ci stiamo perdendo e annientando nella gara a chi ha di più, a chi fa più cose, a chi le fa meglio. E così, invece di crescere, appassiamo e ci spegniamo.
Ognuno ha il proprio tempo e il proprio spazio per sbocciare, non c’è nessuna gara da vincere, nessuna competizione da vivere. Smetti di
guardare gli altri giardini, perché il tuo fiore è qui che ti sta aspettando. Smetti di andare in cerca di farfalle da portare nel tuo giardino: piuttosto curalo e nutrilo e saranno le farfalle a venire da te.
Fiorisciti.
Per fiorire non è importante conoscere la strada o raggiungere una meta, ciò che conta è la compagnia. Il mio invito a fiorire non riguarda esclusivamente te stesso. Per fiorire nella vita c’è bisogno di una compagnia. Non necessariamente umana. Una compagnia per il viaggio verso la fioritura può essere anche animale o vegetale, perfino spirituale. Ma non pensare mai di farcela da solo, da sola. È un grande inganno credere di salvarsi da soli. Ci si salva almeno in due.
Fiorisciti è un invito a continuare a credere nel meglio possibile che possiamo fare ed essere, in questo tempo di vita che ci è stato concesso. È un lavoro da fare tutti i giorni – e soprattutto tutte le notti – che inevitabilmente attraversiamo. È un lavoro di attesa e pazienza, proprio come i semi che piantiamo. Il seme che deve sbocciare e fiorire non ama la fretta, non ama le scorciatoie, non ama la furbizia. Ha bisogno di fedeltà e lentezza. Ha bisogno, dapprima,
di stare al buio. Quello che spesso può apparire come un periodo buio e terribile della nostra vita, molto probabilmente è la terra in cui stare e di cui abbiamo bisogno, per iniziare il processo di fioritura vera della nostra esistenza. Per imparare a fiorire in pieno inverno, non dobbiamo pensare la nostra vita come una perla preziosa da riporre e nascondere, un oggetto di lusso da lustrare e difendere, per paura di sprecarlo o deturparlo. La vita è un seme, quindi va gettato, così che possa germogliare, crescere, maturare e infine generare frutti e altri semi. «Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce, come egli stesso non lo sa» (Mc 4,27).
Vi auguro di imparare a dire «Non lo so», di sentirlo vibrare dentro, per diventare terra umile e fertile, in un tempo dove tutti mostrano il loro sapere e hanno le risposte a ogni domanda. Se vuoi davvero fiorire devi essere disposto a frequentare il mondo dell’invisibile, ad accogliere il mistero. Non è il sapere, ma il sapore che spinge avanti la vita: il sapore della gioia vale di più del sapere cos’è la felicità. Il sapore di un abbraccio conta più della grammatica delle emozioni. Questi eccessi di nozionismo spesso sono come zizzania per il nostro raccolto: ci impedi-
scono di occuparci del grano buono. Impegniamoci invece a curare di più il grano buono e lasciar perdere la zizzania, o a non darle nutrimento per crescere. Fiorire significa abbandonare lo sguardo su ciò che non va in te, prendere le distanze da chi continuamente si lamenta di ogni cosa, allontanarsi dai mormoranti e dai catastrofisti. Lascia pure che crescano nel tuo stesso giardino, lascia pure che la zizzania ti singhiozzi accanto, come il Vangelo ci racconta, ma nel tempo della mietitura e della fioritura, separa il grano dalla zizzania.
Fiorisciti, appunto.
Io voglio occuparmi del grano, non della zizzania.
Mi hanno sepolto molte volte, ma quello che non sapevano è che io sono un seme!
Quando tutto ti sembra crollare addosso, tu fiorisci.
Quando tutto è buio dentro di te, tu fiorisci.
Quando tutto sembra non aver senso tu fiorisci.
Quando c’è freddo e gelo attorno a te, tu fiorisci.
Quando il dolore sembra non lasciarti più, tu fiorisci.
Quando la morte sembra essere l’ultima parola, tu fiorisci.
Come i mandorli.
Puntuali d’inverno, di notte.
Al freddo, sotto l’uragano.
Fioriscono senza mai deludere.
Ecco.
Metti i primi fiori.
Ti spingeranno a sperare e a gridare: NON È ANCORA FINITA!
Non aspettare che si realizzi il tuo sogno.
Comincia a vivere.
Non aspettare che tutto vada bene. Comincia a vivere.
Non aspettare che si «tranquillizzino» le cose. Comincia a vivere.
Non aspettare di trovare la persona giusta. Comincia a vivere.
Non aspettare che sia il tuo momento. Vivi. Vivi più forte che puoi.
La vita è troppo breve.
Perdona in fretta.
Ringrazia subito.
Dona bellezza a caso.
La vita è troppo breve.
Fa’ le cose che ti piacciono.
Ama chi ti libera.
Libera chi è schiavo.
La vita è troppo breve.
Non rimandare mai il bene che puoi fare oggi a domani.
Perché domani potrebbe essere troppo tardi.
Quanto sono tristi
le persone che vogliono far cadere la responsabilità sempre su di te e invece loro la fuggono sempre.
Quanto sono infelici
le persone che fanno finta di cercarti per stare con te e invece hanno sempre una scusa.
Quanto sono mediocri
le persone che mentono a sé stesse pur di non sembrare bugiarde e invece non sanno che la menzogna non passa mai.
Quanto voglio stare vigile e attento per non essere triste, infelice e mediocre.


