

PAOLINE Editoriale Libri
© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2023
Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it • www.paolinestore.it edlibri.mi@paoline.it
Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)
ISBN 978-88-315-5598-2
Ai miei genitori, che sono l’alfa e l’omega, e a tutti i Samir, ovunque nel mondo.
Il ragazzino si guarda intorno, inebetito, le orecchie che fischiano. Le urla di concitazione, i clacson impazziti e la sirena dell’ambulanza giungono attutiti, quasi che il mondo non stia crollando lì, ma a centinaia di metri di distanza. Eppure tutto questo non c’era, nelle fiabe che la madre gli raccontava da piccolo. Il boato che scuote la terra e squassa il torace, le fiamme e il sibilo delle schegge incandescenti. Il muro di polvere che si alza fino al cielo e avvolge ogni cosa, come un sudario. La pioggia sorda di detriti. Il puzzo di bruciato e nafta che entra nei polmoni, in profondità, facendoti tossire così forte che pensi di sputarli fuori da un momento all’altro.
«Ahmad!» grida, sforzandosi di isolare i rumori.
Tutto questo non c’era, nelle fiabe che la madre gli raccontava da piccolo. La nube di cenere che si dirada, svelando cumuli di carne informe e pozze di sangue scuro. Corpi smembrati, mutilati, disarticolati. Persone agoniz-
zanti che strisciano invocando aiuto, che tendono la mano verso di lui, non si capisce se per essere salvate o per trascinarlo con sé, nel loro incubo.
Il ragazzino si guarda le mani e le gambe. Si tasta il viso. C’è ancora. Per qualche strana ragione, c’è ancora. È stato sbalzato contro il muro di un edificio, a diversi metri dal luogo in cui si trovava pochi istanti prima; dove c’era il negozio del calzolaio c’è un grosso buco nero.
«Ahmad!» torna a gridare.
Cerca di alzarsi, puntando la schiena sulla parete. Si sente indolenzito.
«Ahmad!» grida per la terza volta.
Come attratto da una forza invisibile, comincia a vagare fra le macerie, scivolando fra i mille fantasmi che popolano quell’inferno. Chiama a gran voce un nome che gli rimbomba dentro, al ritmo accelerato del suo cuore. A poco a poco, l’udito torna normale. Suoni, sirene, urla: è tutto così confuso. Tutto così caotico.
Scavalca i resti di un divano precipitato da chissà dove e aggira la carcassa in fiamme di un’automobile, facendosi strada verso ciò che rimane del negozio del calzolaio. Mentre si avvicina, il fetore di bruciato e morte si fa più intenso. Sta entrando nella bocca del drago: la creatura più mostruosa che riesca a ricordare, delle fiabe che gli raccontava la madre.
Un uomo corre in direzione opposta; tra le braccia, il corpo esanime di una giovane donna, che oscilla come
una bambola. Singhiozza disperato e continua a ripetere: «Alla hu akbar»1.
Ora il ragazzino si trova proprio nel punto in cui, solo pochi minuti prima, stava con il fratello, intento a osservare il ciabattino che sistemava la suola di uno scarpone. Dalla bottega escono alte lingue di fuoco. Cerca di non guardare all’interno. S’impone di non farlo. Occhi bassi, ha già visto troppo.
All’improvviso gli sembra di riconoscere un suono: il pianto di un bambino. Il cuore sobbalza, un’esplosione di adrenalina lo scuote.
Si lancia con quanto fiato ha in gola dall’altra parte della strada ed entra in un edificio semidistrutto. Ormai
la cenere si è depositata, eppure fatica a distinguere quello che lo circonda: un ammasso di detriti, soprammobili in frantumi, tubature rotte e grovigli di ferro che oscillano nel vuoto. In un angolo della stanza, gli pare di scorgere anche i resti di un essere umano, ma non è sicuro. È tutto così confuso. Cerca di non soffermarsi su quel dettaglio, preferisce non guardare: occhi bassi, ha già visto troppo.
«Ahmad, sei qui?»
Il pianto cresce d’intensità. Sembra provenire da sotto un pezzo di muro crollato, a un paio di metri da lui. Il ragazzino si avvicina, tenendosi a fatica in equilibrio sui de-
1 «Dio è grande» in lingua araba.
triti. Si china e lo vede: è lì, all’apparenza illeso. È terrorizzato, come avesse visto un drago anche lui.
«Sono qui, Ahmad». Gli tende una mano, ma il piccolo non reagisce: non fa che piangere, impietrito dalla paura. Si allunga più che può, fino quasi a slogarsi una spalla. Fino ad afferrarlo per la manica del giubbotto. Lo trascina a sé con delicatezza, un occhio alla parete in bilico sopra di lui.
«Tranquillo, sono qui» ripete.
Ci mette un po’, ma alla fine riesce a liberarlo. Lo ripulisce da polvere e frantumi e lo scuote per accertarsi, una volta di più, che sia vivo. Non si vedono segni o ferite. Sul corpo, almeno. Dentro, è un’altra storia.
Lo abbraccia stretto, con le poche energie che gli rimangono. Perché non ha più nessuno al mondo, oltre a lui. Perché è l’unica ragione che gli è rimasta per vivere. E perché loro due ci sono ancora, nonostante tutto.
«Puoi smettere di piangere, adesso. Sono qui con te».
Ma quello di Ahmad è un flusso ininterrotto di lacrime e singhiozzi, che è impossibile arginare.
«Ci siamo ancora, fratello mio. Ci siamo ancora, alh . amdulilla¯h 2 ».
Lo prende in braccio ed escono, insieme, verso la luce.
2 «Grazie a Dio».
L’
uomo è comparso dal nulla, con la barba impolverata e un giaccone logoro, sopra una camicia a scacchi. È alto, scheletrico, gli ricorda un albero del giardino di casa sul quale si arrampicava da piccolo. Sembra osservarlo con particolare attenzione.
«State bene?» chiede, chinandosi e posandogli una mano sulla spalla.
Il ragazzino si scansa, indietreggia e stringe a sé il fratello.
«Non ho intenzione di farvi del male» lo rassicura lo sconosciuto, alzando le mani e ritirandosi a sua volta. «Voglio solo sapere se state bene». Dietro di lui, due uomini arrivati a bordo di un’ambulanza scendono di fretta, scaricano una barella e si lanciano diretti nella gola del drago.
«Waleed» dice. «Il mio nome è Waleed. Tu come ti chiami?»
Il ragazzino arretra di un altro passo. Muto.
«È tuo fratello?» domanda l’uomo indicando Ahmad, che non pare voler smettere di piangere.
Il ragazzino accenna di sì con la testa. A quello può rispondere. Quello, in fondo, non può negarlo: Ahmad è sangue del suo sangue; è la sua stessa carne. E non si può negare l’evidenza del sangue e della carne.
«I vostri genitori dove sono? Avete parenti? Una casa?»
Il ragazzino non fiata: quel tizio fa troppe domande, una più dolorosa dell’altra. Penetrano in profondità, come i canini aguzzi e incandescenti di un drago. Grazie ad Allah, l’Onnipotente e il Misericordioso, lui non è mai stato colpito da quelle che gli adulti chiamano «bombe», ma ha conosciuto persone che non sono state così fortunate. Ripensa alla madre del suo amico Moustafa: molto tempo prima, un pezzo di metallo rovente le si era conficcato nella spalla, mentre raccoglieva pomodori nel cortile, a centinaia di metri dal luogo dell’esplosione. La piaga non si era mai rimarginata. Rispondere a certe domande può provocare un dolore simile.
«Acqua» è tutto quello che riesce a sussurrare.
«Come dici?». Waleed gli fa cenno di parlare più forte, toccandosi l’orecchio. Sembra che il suo udito non abbia ripreso a funzionare in pieno.
«Acqua. Mio fratello ha bisogno di acqua» ripete, indicando il viso di Ahmad, coperto di polvere e rigato dalle lacrime. Con una mano gli spazza via dei frammenti dai capelli.
«D’accordo» replica Waleed. «Venite con me, vi porto a prendere da bere».
Il ragazzino indietreggia per la terza volta. Dietro di lui, il ventre dell’inferno continua a sfiatare puzzo di morte. Ovunque è caos, intreccio confuso di voci, gemiti, pianti.
Waleed piega il capo e lo fissa con tenerezza. Al ragazzino pare di riconoscere lo sguardo del padre, per il poco che ricorda di lui.
«Non devi aver paura di me. Non ho intenzione di farvi del male, davvero. Aspettatemi qui, se preferite. Ma non restate in mezzo alla strada». L’uomo si alza e si guarda intorno. «Sedetevi lì, dietro quel muro. Non parlate con nessuno. Faccio più in fretta che posso, la macchina si trova a qualche decina di metri».
Waleed si allontana a passo veloce, scavalcando detriti. Il ragazzino lo osserva e si chiede se lo rivedrà ancora. Se può veramente fidarsi di lui e delle sue promesse. Da quando sua madre è morta, venendo meno al giuramento di stargli sempre accanto, non ha più creduto a nessuno. Perché ora dovrebbe credere a quel tizio dalla barba impolverata, comparso dal nulla?
«Vieni, Ahmad, andiamo a sederci dove ci ha detto quel signore. E smetti di piangere, su. Ci sono io con te».
«Tieni, pulisci il viso di tuo fratello». Waleed gli porge una bottiglietta. Il ragazzino lo squadra perplesso: l’uomo ha mantenuto la parola. Non sa quanto tempo sia passato:
potrebbero essere trascorsi dieci minuti o una giornata intera, poco importa. Alla fine è tornato con l’acqua, proprio come aveva detto.
«Prendi» insiste Waleed, a metà tra il premuroso e l’impaziente. «Non conviene rimanere qui a lungo, gli elicotteri potrebbero tornare».
Il ragazzino fissa l’uomo: sa che non mente neppure su quello. Meglio andarsene al più presto, perché i mostri del cielo sono crudeli e impietosi. Ormai ha imparato anche lui come funziona: attaccano e se ne vanno, lasciando che la gente assapori fino in fondo l’orrore. Che le grida e le sirene delle ambulanze riempiano il vuoto provocato dall’esplosione, finché l’aria non è satura di disperazione. Ed è allora, quando meno te lo aspetti, che i mostri del cielo tornano a colpire, per schiacciare una volta per tutte vittime e soccorritori. Uomini e donne, bambini e anziani, buoni e cattivi, senza distinzione.
Il ragazzino afferra la bottiglia, svita il tappo e versa parte del contenuto sul viso del fratello, che non ha ancora smesso di piangere. Lo pulisce con molta cura, raccoglie un po’ di acqua nell’incavo della mano e la porta alla bocca di Ahmad. «Bevi, forza. Hai bisogno di bere». Il piccolo si disseta come può, sorseggiando in modo rumoroso. «Bravo, così. Ecco, prendine un altro po’».
Un sorso alla volta, Ahmad si calma. I singhiozzi diminuiscono, il petto smette di sussultare. Ha gli occhi ancora rossi, si asciuga le ultime lacrime con il dorso della mano.
È tornato a sembrare quello che dovrebbe essere: un bambino, niente più.
«Mi farebbe piacere se veniste con me. Se non avete un posto dove andare, s’intende» dice Waleed, che ha assistito alla scena in silenzio. Non si è intromesso, li ha lasciati fare. Li ha trattati da adulti, con rispetto. Ma il suo tono tradisce una certa irrequietezza. «Io e mia moglie abitiamo non lontano da qui. Cosa ne dici?»
Il ragazzino risponde con un cenno della testa. Poi si alza e prende in braccio il fratello.
«Samir» mormora.
«Come?»
«Samir» ripete. «Il mio nome è Samir. Lui si chiama Ahmad».
«Piacere, Samir. Io sono Waleed».
«Lo so» ribatte il ragazzino. «Me l’hai già detto».
L’uomo con la barba impolverata e il giaccone logoro sorride. «Seguitemi».
L’ auto, una vecchia familiare, è comoda. Era un pezzo che Samir non sedeva su qualcosa di così confortevole. Qua e là, il veicolo porta i segni della guerra. Sul tettuccio c’è un foro, che potrebbe essere di proiettile.
Waleed lo osserva dallo specchietto retrovisore e pare leggergli nel pensiero. «Un cecchino» dice. «Neanche uno dei migliori, a dire il vero. Forse dovrei chiudere il buco per evitare che entri l’acqua quando piove».
Samir non reagisce. Si tiene una mano, che ha cominciato a tremare senza controllo. Ha il respiro corto: sente che vorrebbe piangere, ma non può permetterselo. Lancia un’occhiata al fratello, intento a giocare con la bottiglia di plastica, poi attacca il naso al vetro dell’auto, cercando una via di fuga.
Fuori, la vita e la morte sembrano essersi abbracciate, e camminano tenendo lo stesso passo. Dalla gola di fuoco del mostro giungono ormai suoni distanti; mentre si al-
lontanano, a poco a poco il mondo ritrova il suo colore naturale.
«Io faccio l’insegnante» riprende Waleed, che non sembra volersi dare per vinto. «O meglio, facevo. Adesso mi arrangio e cerco di sbarcare il lunario. Ogni tanto uso questa macchina come taxi per raccogliere qualche soldo. Ti piace?»
«Mi piace» risponde Samir, intento a contare le finestre sfondate sui palazzi che gli scorrono davanti.
A un certo punto Waleed estrae dal cruscotto un walkietalkie , lo avvicina alla bocca e preme un tasto: «Sono io, mi ricevi? Passo».
Dopo alcuni secondi, una voce gracchia dall’altro capo della radio: una voce di donna. «Ricevuto. Stai bene? Abbiamo sentito l’esplosione, eravamo preoccupati. Passo».
«Sto bene, alh . amdulilla¯h . Sto tornando e non sono solo. Siamo in tre, poi ti spiego. Ci vediamo fra poco. Passo e chiudo». Waleed getta il walkie-talkie sul sedile del passeggero. «Non sei curioso di sapere dove vi porto?» chiede dopo qualche attimo di silenzio.
«Me l’hai già detto» replica brusco Samir. «Ci stai portando da tua moglie».
Waleed si gira e lo guarda, abbozzando un sorriso. Quindi rimette gli occhi sulla strada dissestata.
«Esatto: da mia moglie, Faya. E dai nostri bambini».
«Avete dei figli?»
«No, non ne abbiamo».
«Allora perché dici che sono vostri?»
«Perché erano rimasti soli al mondo e noi li abbiamo accolti».
«E questo fa di loro i vostri figli?»
L’uomo fa una pausa. «Be’, noi li trattiamo come se lo fossero».
«Loro non sono i vostri figli».
Waleed non risponde. Tiene fisso lo sguardo davanti a sé: procede a zig-zag, attento a evitare le buche. Non pare toccato dalla provocazione di Samir, che torna a guardare fuori dal finestrino.
«E quanti sarebbero, questi bambini?»
«Sei».
«Dovete avere una casa grande».
«Non è proprio una casa. O comunque non la chiamerei così. Tra poco la vedrete».
«Tfaddal»1.
Faya ha un viso bellissimo, incorniciato da un hijab 2 verde mare, che fa risaltare i tratti delicati, e illuminato da un sorriso rassicurante. Dietro le pieghe del suo abaya 3 si nasconde un bambino che indossa un maglione rosso e blu,
1 «Benvenuti».
2 Comunemente usato dalle donne musulmane, è un velo che copre la testa e il collo.
3 Caratteristico capo di abbigliamento indossato dalle donne musulmane: consiste in un lungo camice di tessuto leggero, che copre tutto il corpo eccetto la testa, i piedi e le mani.
tutto rattoppato; ha una buffa frangetta e li osserva con curiosità, mordicchiandosi una mano.
«Come ti chiami?» chiede lei, chinandosi leggermente in avanti.
«Samir».
«E lui è tuo fratello?»
Samir fa cenno di sì e stringe a sé il piccolo, che tenta di divincolarsi. Forse ha stretto troppo forte.
«Il suo nome è Ahmad».
«Prego, accomodatevi». La donna li invita a varcare il portone dell’edificio con un ampio gesto del braccio.
«Ma questa non è una casa» obietta Samir, irrigidendosi. Lui sa bene come è fatta una casa: quali sembianze ha, che odore emana. Una casa che si rispetti, tanto per cominciare, profuma di accoglienza. Certo, è da molto tempo che non ne vede una vera, dal momento che lui e Ahmad hanno trascorso l’ultimo anno rimbalzando tra la strada e quelli che gli adulti chiamano «orfanotrofi». Ma di una cosa è sicuro: quella non è una casa.
«No, non è una casa nel senso proprio del termine» conferma Waleed, prendendo in braccio il bambino dalla buffa frangetta. «È una vecchia madrasa 4 , ma ci viviamo da così tanto tempo che ormai la consideriamo tale. Abitavamo a qualche centinaio di metri da qui, ma la nostra casa – quella vera, intendo – è stata gravemente
4 «Scuola».
danneggiata durante un bombardamento. Non è più possibile viverci».
Samir fissa il lungo corridoio che gli sta di fronte. Ci sono alcuni bambini che giocano a rincorrersi, entrando e uscendo dalle classi, mentre una donna li richiama ad alta voce.
Un anziano signore seduto su una sedia a sdraio usurata lo scruta con espressione severa.
«Anche la nostra casa non esiste più» mormora Samir. «Da un pezzo».
«Allora sai di cosa parlo».
Lui annuisce. «Avete il televisore?» chiede. Gli sguardi di Faya e Waleed s’incrociano, Samir non capisce bene il perché. «Non è per me, ma per mio fratello» si affretta a precisare. «Gli piacciono i cartoni animati. Lo distraggono, lo fanno ridere».
«Non abbiamo il televisore, ma possediamo un tablet» lo rassicura Faya, con un sorriso. «La corrente c’è solo per poche ore al giorno, ma quando funziona la connessione internet guardiamo anche noi i cartoni animati insieme ai bambini».
«Bene». Con delicatezza, Samir scuote il fratello, che sembra attratto dal movimento proveniente dall’interno dell’edificio. «Hai sentito, Ahmad? Potrai vedere i cartoni animati. Sei contento?». Il piccolo fa cenno di sì, ma chissà se ha capito davvero.
«Ora venite» dice Waleed. «Vi mostriamo dove dormi-
rete e vi facciamo conoscere gli altri. A proposito, lui è Ali. Ali, saluta Samir e Ahmad».
«Marhaba» 5 bofonchia il bambino con la frangetta, tornando a mordicchiarsi la mano.
«Marhaba» risponde Samir. Quindi varca esitante l’ingresso della scuola, tenendo stretto a sé il fratello.
5 «Ciao».
I. Ci siamo ancora pag. 7
II. Il mio nome è Samir » 11
III. Non sono i vostri figli » 16
IV. L’inverno sta per finire » 22
V. Tu di cosa hai bisogno? » 27
VI. Il marchio del drago » 31
VII. Boom » 37
VIII. Una bella storia » 43
IX. Voglio costruire case » 49
X. I clown non piangono » 56
XI. Non essere fiera di me » 65
XII. Tempi oscuri » 74
XIII. C’è aria di temporale » 79
XIV. Non è rimasto alcun luogo sicuro » 84
XV. Non andrà tutto bene » 91
XVI. Bang! » 96
XVII. Qui non ci sono mostri pag. 102
XVIII. Per la maggior gloria di Allah » 107
XIX. Non è una bambola » 111
XX. Questi sono i tuoi fratelli » 119
XXI. Bomba umana » 127
XXII. Ti senti un debole? » 132
XXIII. L’arma segreta » 139
XXIV. Murtadd, Samir, murtadd » 143
XXV. Shukran, mama » 149
Ringraziamenti » 155
Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano - 2023