Alberto Maggi. Pane al pane - Estratto

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Vincenzo Varagona

ALBERTO MAGGI

Pane al pane

Prefazione

Matteo Zuppi

Presentazione

Massimo Orlandi

Postfazione Ricardo Pérez Márquez

Le citazioni bibliche sono tratte da La Sacra Bibbia nella versione ufficiale a cura della Conferenza Episcopale Italiana © 2008, Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena

Per i materiali fotografici si ringrazia Fernando Palmieri

PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2025

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Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)

ISBN 978-88-315-5870 -9

Stampa : Àncora Arti Grafiche - Milano - 2025

Quando ho sentito parlare per la prima volta di padre Alberto Maggi, più di vent’anni fa, i social ancora non esistevano, o comunque non erano così diffusi. Una nomea, la sua, che si diffondeva a macchia d’olio, per le sue posizioni “aperte”, per la sua capacità d’accoglienza, per il suo parlare schietto arrivando dritto al cuore, per la sua capacità di risanare cuori e vite ormai spenti, dal dolore, dagli ostracismi.

Non ricordo neanche bene come me lo immaginassi, anche perché Internet ancora non rivelava le carte d’identità di tutto e tutti. Ricordo invece molto bene la prima volta che sono andato, mosso dalla curiosità, a Montefano. Era una domenica autunnale in cui si teneva uno dei famigerati incontri biblici, frequentatissimi.

Arrivato per tempo nel piccolo comune del maceratese, mi ero stupito perché l’aggettivo “frequentatissimo” stonava abbastanza con il “deserto” trovato nei piccoli vicoli del centro, in una giornata decisamente uggiosa.

Fu una signora, intercettata nella piccola piazza del Centro studi biblici Giovanni Vannucci, a rimettermi con i piedi per terra emettendo la sentenza: il frate sta male, l’incontro è saltato. Certo, allora non c’era WhatsApp e non c’erano nemmeno le pagine social a segnalare in tempo rea-

le i cambiamenti di programma. Appuntamento rinviato, ma solo di appena una settimana. Fino alla stagione del Covid-19, infatti, gli incontri mensili erano due, la prima e seconda domenica di ogni mese: un appuntamento per i marchigiani e uno per chi veniva da fuori regione.

Così, la settimana dopo, finalmente, è avvenuto il contatto che ha fatto scoccare la scintilla. Padre Alberto è come l’Africa: quando lo incontri, scatta un magnetismo che non ti molla più.

Così ho conosciuto questo fantastico mondo e la sua storia incredibile, quella di un giovane, fidanzato, con lavoro sicuro in Comune, ad Ancona, che improvvisamente, contro il parere di tutti, famiglia in primis, decide di farsi frate. Anche l’incipit della vita religiosa non è delle migliori: lo scoraggiano tutti, ma proprio tutti. E lui, un po’ per fede, un po’ per rivalsa, li ignora e va avanti, cosa che farà per tutta la vita. Non vogliono che venga ordinato prete? Accetta la sfida e – contro tutto e contro tutti – ci riesce.

Una volta ordinato, dal momento che nessun convento lo voleva, gli affidano il rudere più rudere esistente nelle economie dei Servi di Maria, a Montefano, dove tornerà, molti anni dopo, per fondare insieme a Ricardo Pérez Márquez il Centro studi biblici Giovanni Vannucci. Ho dedicato il capitolo di un mio libro, Comunicare Dio. Dalla Creazione alla Chiesa di Papa Francesco, a padre Alberto e al suo Centro, definendo il suo stile di comunicazione “glocal”: negli anni è riuscito, infatti, a raggiungere il mondo partendo da un comune di poche migliaia di abitanti. Il Centro è conosciuto ovunque: sito Internet plurilingue, compreso il cinese; commento al

Vangelo settimanale su YouTube, seguitissimo; centinaia di preti, vescovi e religiosi che confessano, chi apertamente, chi clandestinamente, di ispirarsi a lui per le omelie; incontri mensili seguiti in presenza da centinaia di persone, in una sala del Centro e in altre due collegate con maxischermo; migliaia, poi, i contatti nella trasmissione via streaming.

Il contrasto tra la Chiesa che si ferma e quella che avanza è visibilissimo nell’esperienza montefanese: nel Centro ho personalmente conosciuto il cardinale Matteo Zuppi, oggi presidente della Cei, il cardinale Walter Kasper e altre belle figure, come mons. Giancarlo Bregantini o padre Giulio Albanese.

A padre Alberto e alla sua esperienza è dedicato il bel film Un eretico in corsia, che trae spunto da un’esperienza forte, vissuta una decina di anni fa: la dissezione dell’aorta che ha condotto il religioso in fin di vita, ricoverato per tre mesi all’ospedale Torrette di Ancona. La lenta ripresa è stata caratterizzata da lacrime e risate, gli stati d’animo vissuti dalle decine di migliaia di persone che hanno letto il suo best seller Chi non muore si rivede, arrivato alla tredicesima ristampa. Un libro che i medici vorrebbero in vendita in farmacia. Chi, in quei mesi, tentava di andare a trovare, in terapia intensiva, padre Alberto, trovava una coda di sanitari, medici e infermieri. Si sarebbe pensato alla gravità delle condizioni, invece erano tutti lì, a rotazione, per confessarsi, confidarsi, fare anche solo due chiacchiere. Il giornale locale, il Corriere Adriatico, allora titolava: Il frate che rianima l’ospedale. Aggiungo solo un altro aneddoto, preso tra i mille: un giorno mi trovavo a pranzo, come spesso mi capita, in

convento, dove, come tradizione, si mangia divinamente. Davanti a me, a tavola, due donne che non conoscevo e con le quali mi sono piacevolmente intrattenuto, parlando di tante cose. Alla fine, Ricardo, confratello di Alberto, mi chiede: «Hai capito chi sono quelle due signore?». Mi spiega che sono le mamme dei due fidanzati marchigiani morti per un’esplosione in Lombardia. Un uomo, volendo uccidere la moglie, aveva fatto saltare l’appartamento, uccidendo anche i due ragazzi. «Ebbene», racconta Ricardo, «due famiglie distrutte, due mamme disperate, che a Montefano, incredibilmente, hanno ritrovato la vita e il sorriso».

Una delle due donne, Francesca, insieme al marito Giorgio accompagna Alberto nelle lunghe trasferte alle quali è frequentemente chiamato.

Di Alberto si possono dire mille cose. Ho pensato che quelle più interessanti, una specie di sinossi della sua vita e del suo pensiero, potessero essere riassunte in un libro-intervista. Eccolo.

Montefano da un paio di anni è un cantiere permanente. Le transenne che hanno a lungo vietato l’accesso alla stradina che arriva al Centro studi biblici sembrano metafora di quello che è successo da trent’anni a oggi: più si è cercato, da più parti, di tenere lontana la gente da questa culla dell’eresia, più la gente arrivava e arriva, da ogni Paese, da ogni luogo. Un tam tam che si è prolungato e rafforzato negli anni, creando un’onda di energia che ha portato in questo piccolo paese del maceratese, fino ad oggi, migliaia e migliaia di persone; una forma di epidemia, di contagio energetico, che ha stupito anche gli stessi frati che compongono questa piccola comunità.

Quando chiedi a padre Alberto come si spiega questo fenomeno, lui sorride, alza le braccia e risponde: «È la fantasia del Padreterno…».

Eh sì, di fantasia il Padreterno deve averne avuta tanta se, molti anni fa, chi aveva assegnato Alberto Maggi a questo convento diroccato, il più disagiato che i Servi di Maria avessero a disposizione, aveva giurato, forse fregandosi le mani, che il religioso anconetano avrebbe avuto vita breve.

Busso al convento – ormai un gioiello architettonico, recuperato anche grazie ai fondi del terremoto del 1997 –

e subito si sente abbaiare Sissi, l’inseparabile cagnolina del convento, convinta di fare la guardia ai due pacifici padroni di casa.

Si apre il portone, attiguo alla chiesa del Centro, e compare, sempre con il sorriso sulle labbra, Alberto. Da mesi parliamo di questa intervista, e lui non ne appare molto convinto perché, dice, «fare i libri sui vivi porta sfortuna…».

In questi mesi me la sono cavata in modo scientifico: ho documentato con libri e certificati di esistenza in vita che tutti i personaggi di cui mi sono occupato negli anni respirano ancora profondamente. Glieli cito uno a uno, spiegando, tra un sorriso e una battuta, che i reportage hanno portato più fortuna che sfortuna. Hanno, insomma, allungato la vita, accrescendo tutto quello che era possibile accrescere: opere missionarie in Africa, in un caso; interminabili serate di magia e notorietà internazionale, in un altro; diffuse guarigioni, cliniche e spirituali, in un altro ancora. Lo guardo: Alberto è sempre scettico perché, va detto una volta per tutte, il frate ha una testa molto dura, ma questa, vedremo, è anche la sua forza.

«Alberto», lo apostrofo, «ma di cosa hai paura? Lo sai che il peggio lo hai passato!».

Così il saluto iniziale si apre a una sonora risata. Alberto si richiude il portone alle spalle e apre la porta, a pochi centimetri, che dà sul tinello, con una piccola cucina e la famosa stanza del camino, il luogo veramente più familiare di tutto il convento.

Siamo soli, a parte Sissi, che si accuccia mansueta sulla sedia a dondolo, pronta a schizzare nel caso suonasse

nuovamente qualcuno alla porta. La cosa succede molto spesso, perché Montefano è diventato un porto di mare. Alle tante visite annunciate di singoli e gruppi, si aggiungono le improvvisate di amici di nuova e vecchia data, o di gente comune, di curiosi che magari fanno finta di “essere passati per caso”, arrivati anche da centinaia di chilometri di distanza, e ai quali Alberto e Ricardo, il confratello spagnolo – in questa giornata a Roma perché insegna alla Pontificia facoltà teologica “Marianum” –, non riescono mai a dire di no.

Da Roma telefona Pérez, come lo chiama affettuosamente Alberto, per sincerarsi che vada tutto bene. Ricardo Pérez Márquez è la seconda colonna di questo Centro.

La prima curiosità, riattaccato il telefono, è di sapere come queste due esistenze si siano incontrate…

Com’è successo, Alberto?

La mia “avventura” è stata da sempre abbastanza travagliata. Se sto a Montefano è perché hanno cercato in tutti i modi di dissuadermi dal continuare su questa strada, consegnandomi la struttura più fatiscente di cui l’Ordine dei Servi di Maria disponesse in quel momento.

Me lo dissero a Roma, dove avevo frequentato la Pontificia Università Gregoriana. Ricordo che piansi per tutto il viaggio in treno Roma-Ancona.

A Montefano la vita era durissima. Andava bene, perché le persone cominciavano a essere attratte da quello che si faceva, ma portavo via gente dalle altre chiese e parrocchie; e poi ancora la proibizione del vescovo di predicare nella sua diocesi…

Era il 1981. Poiché nessun convento mi voleva, chiesi il permesso di andare in Spagna, a Granada, a studiare dal grande biblista Juan Mateos, ospite della comunità dei Gesuiti, con Josè Maria Castillo. Un paradiso. Due anni di studio e lavori intensi. Quel che sono e quel che so lo devo a lui, Juan Mateos. Aveva un metodo rigorosissimo, che ci imponeva anche di rimettere in discussione mesi di studio in presenza di un minimo dubbio.

E poi Castillo mi affascinava con la sua sterminata cultura teologica, ma anche per la sua libertà e spregiudicatezza. In lui vedevo più la sapienza dello studioso che l’uomo; il professore, più che il fratello. Avevo soggezione di questo grande teologo dal sapere enciclopedico.

Poi, un venerdì di Quaresima mi aveva chiesto di accompagnarlo a Siviglia per una conferenza, e al ritorno ci siamo fermati in un ristorante. Si doveva osservare il precetto. Mi guardò sorridendo e disse: «Per osservare il precetto ordiniamo la trota, per trasgredirlo la chiediamo al prosciutto!».

Così la soggezione iniziale lasciò il posto a un’amicizia fraterna, durata tutta la vita.

Hai corso il rischio di diventare gesuita?

Non sarebbe stato difficile. Mi accoglievano a braccia aperte, anche perché con i miei frati avevo qualche difficoltà. Ci stavo pensando, ma all’improvviso, dopo due anni bellissimi, è arrivata la lettera del priore provinciale che mi richiamava in Italia, direzione, nuovamente, Montefano, dove c’era questo vecchio seminario abbandonato da anni.

Ricardo, allora?

Infatti, succede il contrario. Non entro nei Gesuiti, ma porto via con me un giovane di Granada che stava facendo i primi passi per entrare tra i Gesuiti! È, appunto, Ricardo. Lo invito a conoscere meglio i Servi di Maria, lui accetta, viene in Italia, a Montefano, e ci rimane!

Cosa ti colpiva dei Servi di Maria e cosa ha conquistato anche Ricardo?

Occorre tornare indietro nel tempo, tornare alla mia vocazione – che sarebbe meglio chiamare conversione –, che ricordo perfettamente. Era avvenuta quindici anni prima, a Padova, il 10 gennaio 1966. Facevo il servizio militare, ero di guardia in caserma, in una notte tanto fredda quanto chiara. Mi colpiva il cielo stellato. Lo osservavo intensamente e mi veniva da pensare che se c’era qualcuno che aveva fatto tutto questo, valeva la pena dedicargli tutta la vita. Se non c’era, avrei continuato la mia vita di sempre…

È la domanda di tanti. Com’è arrivata la risposta?

Ho cominciato, progressivamente, ad avvicinarmi alla Chiesa, alla lettura dei Vangeli. Non pensavo assolutamente di farmi frate, anche perché avevo un lavoro, al Comune di Ancona, ed ero fidanzato da quattro anni con una splendida ragazza con cui immaginavo di formare una famiglia cristiana. Invece, la lettura dei Vangeli e la conoscenza di Gesù hanno avuto un effetto dirompente. Ero innamorato della mia ragazza, ma sentivo che l’attrazione verso il Signore era irresistibile e mi ha

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dato la forza e il coraggio, dopo tre anni, di lasciare la fidanzata, la mia famiglia, il posto di lavoro, e andare verso una nuova vita.

Te ne sei mai pentito?

Mai. A quasi sessant’anni di distanza sono entusiasta più che mai di quella scelta. Non ho mai vissuto quello che ho lasciato come una perdita, una frustrazione; ho invece trovato tanta ricchezza, a partire dalla famiglia, con cui i rapporti si sono rinforzati, sono più veri.

La rinuncia al matrimonio ha lasciato il posto alla possibilità di amare ogni persona che incontro e accolgo, come un regalo che il Signore mi fa per rendere la mia vita più ricca e più bella.

La vita, comunque, è stata meno facile di quanto si intuirebbe da queste parole, segnate sempre dall’entusiasmo. La parola “obbedienza”, ad esempio…

Questa parola mi ricorda l’interrogatorio al quale fui sottoposto a Roma dal priore provinciale, dal suo vice e da un consigliere, che mi fecero una specie di processo canonico prima di concedere o meno l’autorizzazione all’ordinazione presbiterale. Dovevo rispondere alle domande del Credo, doveva essere una cosa facile facile…

E invece?

Stava andando tutto benino, fin quando arrivò una domanda, non prevista, che riguardava non tanto la Chiesa, quanto i documenti della Chiesa. Mi chiedevano: «Come li accetti?».

Risposi: «Con intelligenza». La risposta non era prevista, l’unica ammessa era: «Con obbedienza».

Volevano che obbedissi e basta, ma io ripetevo: «Con intelligenza». Il priore provinciale era furibondo: più insisteva nella domanda, più insistevo nella risposta. Niente. L’esito del Capitolo conventuale era chiaramente negativo, ma il priore, con la sua autorità che derivava dal ruolo, decide comunque di ordinarmi. La mia fama, in ogni caso, mi precedeva, e nessun convento mi voleva. Non restava che Montefano…

Quello che poi è successo a Montefano ha davvero del prodigioso, e anche questo è un cantiere permanente, sempre in movimento.

Tutto è cominciato da tre giovani, arrivati da Ancona per chiedere approfondimenti sulle letture bibliche del Vangelo. Al primo incontro organizzato eravamo appena una quindicina, al freddo, in un rudere. Oggi abbiamo il sold out, sempre, nella sala principale; piena anche la seconda, e centinaia di persone seguono in collegamento da remoto, attraverso i social e il sito, tradotto in undici lingue per centoquarantatré nazioni.

Questo valore aggiunto, che riempie Montefano mentre le parrocchie, ovunque, si spopolano, a cosa è dovuto? Immagino ve lo siate chiesti più volte, e la gente che arriva, con i suoi feedback, ve ne dia testimonianza…

Cerchiamo di vivere con autenticità ciò in cui crediamo: Dio è amore, ci ama indistintamente, previene i nostri bisogni e non si “concede” per merito. Se si incarna

quotidianamente questa verità, si offre un’immagine di Chiesa molto diversa da quella che la gente vive ogni giorno.

A Montefano chiunque si sente accolto, non giudicato. Anche questo è fondamentale. Ci sono categorie di persone che la Chiesa oggi accoglie con diffidenza, freddezza. Questo è contro lo spirito evangelico. Poi, la gente, specie quanti sono in crisi per tanti motivi – depressione, malattie, lutti –, ha bisogno di respirare amore.

In molte chiese si vede solo tanta fatica nel portare avanti un compito, spesso ridotto all’incombenza dell’amministrazione dei sacramenti.

Questo approccio sembra banale, quasi scontato, ma evidentemente non lo è. Perché?

Questa è una bella domanda. Penso che anche la Chiesa debba avere il coraggio di cambiare prospettiva. Incarnare il Vangelo significa abbandonare logiche di potere che, purtroppo, storicamente sono proprie della Chiesa, tradendo la missione che le è stata affidata.

Questi rilievi alla Chiesa, che nei tuoi messaggi appaiono abbastanza costanti, vengono avvertiti spesso come una provocazione. Qualcuno si chiede se siano proprio necessari…

Se qualcuno ha la coda di paglia, pazienza. Dico sempre cose non contestabili, che sono davanti agli occhi di tutti.

Tra le critiche più insistenti, ci sono gli attacchi alla religione, secondo te “ossessionata” dal potere…

Anche su questo terreno sfido chiunque a provare il contrario. Marx diceva che la religione è l’oppio dei popoli. La religione troppo spesso è stata usata come un’arma. Gesù non era certo un violento, anche se c’erano situazioni – appunto – che lo facevano infuriare, ma mai verso i peccatori, sempre verso i religiosi.

È vero che registravano le omelie a Montefano per avere le prove delle tue eresie?

Come no. Un giorno, noto che dal microfono dell’altare parte un filo “strano”. Interrompo la celebrazione e lo seguo. Arriva nientemeno che alla cassetta delle offerte, dove era stato piazzato un registratore.

Chi ce l’aveva messo?

Un frate! Un certo fra Donato, che poi consegnava tutto all’allora arcivescovo di Ancona, Carlo Maccari, molto conosciuto per le sue posizioni non proprio progressiste. Ricordo un nostro incontro, esilarante, in occasione di un funerale. Mi presentai come frate di Montefano, mi guardò con simpatia, parlammo con affabilità, mi chiese se fossi disponibile a collaborare nella sua diocesi, dalla quale pure provenivo.

«Di corsa», risposi. E lui, che non mi conosceva, proseguì: «Venga, allora, ma non mi mandi quel pazzo di padre Maggi, che è matto!».

Quando si accorse dell’errore, non mi guardò più in faccia e rifiutò, poi, anche il segno della pace…

D’altra parte, allora, io avevo riferimenti irresistibili, come Giovanni Vannucci (al quale è dedicato il Centro

biblico di Montefano) e padre David Maria Turoldo, che non hanno, nel loro tempo, avuto vita migliore. Erano considerati bizzarri, quando non addirittura eretici, fuori dalla Chiesa. Venivano ostacolati, derisi, emarginati, umiliati, isolati, anche puniti. Poi, ma solo dopo morti, sono stati e vengono celebrati come profeti.

Hai buone speranze, insomma… Nel frattempo, con i vescovi di Macerata non è andata meglio…

Guarda, Maccari mi aveva vietato di parlare in diocesi. Risultato: mi chiamavano anche (con successo) i laici, e addirittura l’UAAR, Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Analogo divieto, negli anni, anche nella diocesi di Jesi… La cosa simpatica è che, nelle diocesi dove non ero gradito, mi hanno invitato altri soggetti, persone o associazioni, non legati alle parrocchie, ed è arrivata tanta gente, per primi i parrocchiani, che facevano la fila per entrare e molti rimanevano anche fuori dalle sale.

Certo, l’ostruzionismo, o anche la mancanza di carità, sono atteggiamenti che non fanno piacere, ma il risultato è sempre diverso da quello desiderato: un crescendo di affetto, di attenzioni da parte della gente. D’altra parte, c’è stata, sempre, l’amicizia del Papa. Cosa vogliamo di più?

Ci mancava solo che il Papa fosse passato per Montefano… Francesco ne sarebbe stato capace. Intanto i suoi saluti ci sono arrivati attraverso il cardinale Walter Kasper. Il cardinale Matteo Zuppi era di casa già prima di essere eletto presidente della Cei. Dal Vaticano, poi, ar-

rivano diverse proposte, alcune concretizzate, di collaborazione.

L’atteggiamento degli altri preti?

Non hai idea dei preti che mi scrivono, anche, se non soprattutto, dall’estero. Mi confidano di trarre ispirazione dai miei scritti e dai miei commenti sui social per le loro omelie. Alcuni sono costretti a farlo di nascosto. Molti, sempre di nascosto, passano o vengono. Altri lo fanno apertamente, portando anche gruppi di adulti e giovani. Ci danno tanta energia.

Per capire Montefano non è possibile andare una volta sola, non basta un “mordi e fuggi”. Puoi, a tuo rischio e pericolo, passare per caso, come molti fanno, anche percorrendo centinaia di chilometri, senza appuntamento.

C’è sempre qualcuno che apre, anche se non è detto che sia presente tutta la “comunità”. Un saluto, un sorriso, una parola non sono negati a nessuno. La soluzione preferita è sempre quella di prendere appuntamento, quella privilegiata è riuscire a trascorrere qualche giorno nella piccola comunità. Poi, naturalmente, ci sono gli incontri mensili di divulgazione biblica, gettonatissimi, anche perché all’incontro segue l’eucaristia e, poi, il pranzo comunitario, che è una vera e propria chicca di Montefano.

L’eucaristia è un momento particolare e particolarmente originale. Innanzitutto, colpisce i partecipanti l’invito a restare seduti per tutta la durata della celebrazione, con due sole eccezioni: la preghiera del Padre nostro e – naturalmente – il momento della comunione.

Perché sempre seduti?

Nei Vangeli l’eucaristia è presentata come un banchetto e si stava tutti sdraiati. Nel Vangelo di Luca si spiega

il motivo: è il Signore che «li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (12,37). Parla di quanti si dedicano al bene dell’altro.

Alberto, all’inizio della celebrazione c’è una sorta di timbro, con cui il celebrante invita, sostanzialmente, a capire che nella vita del credente è necessaria una svolta, una specie di rivoluzione nel modo di pensare la fede e il nostro rapporto con Dio…

Nulla di nuovo, almeno secondo il Vangelo. Colpisce, forse, la distanza evidente fra un’impostazione naturale, evangelica, e l’educazione che ci è stata impartita e che condiziona visibilmente il nostro modo di pensare e anche di vivere la fede.

Un testo che dovrebbe entrare nella liturgia della celebrazione…

Gesù propone un altro volto di Dio che, se accolto, fa nascere un nuovo modo di vivere. A inizio celebrazione diciamo che il Padre di Gesù è un Signore che non punisce e non castiga nessuno, ma a tutti offre amore incondizionato, più grande di quello di una madre per il suo figliolo. È un Signore che previene i nostri bisogni, senza aspettare che noi li esprimiamo, che non si concede per particolari meriti, non è attratto dalle virtù, ma dalle nostre necessità, e concede il perdono prima ancora che questo venga richiesto.

Mentre nella religione si esige la conversione come condizione del perdono, nella fede la conversione è un effetto del perdono gratuitamente concesso. Se nella religione

l’accesso a Dio avviene dopo l’offerta di un sacrificio, nella fede è Dio che si offre, e chiede solo di essere accolto.

Perché questa immagine fa tanta difficoltà a passare?

Questa manifestazione è stata fonte di scandalo fin dal suo primo apparire. Le prime comunità cristiane hanno avuto difficoltà ad accogliere e praticare i suoi insegnamenti, specialmente l’atteggiamento di Gesù verso i peccatori. Insegnamenti evidentemente rivoluzionari che sono stati disattesi, annacquati e persino censurati. Chi cerca il potere e non il servizio non può che reagire in questo modo.

Quali responsabilità avrebbe la religione?

Presentare un Dio che mette paura, giudica, condanna, castiga: sono i verbi che stanno alla base del controllo, di cui una certa Chiesa ha bisogno. In realtà, il nostro

Dio non crea paura, ma libera da ogni paura. Offre a tutti, senza distinzioni, amore universale e incondizionato. Non solo: quando Gesù incontra i peccatori, non li schiaccia, ma li vivifica; non li punisce, ma li pervade con il suo amore.

Ancora: Dio non chiede agli uomini di purificarsi per essere degni di accoglierlo. Al contrario, sarà il fatto di accoglierlo a renderli puri.

Quando dici “incondizionato” significa che non dipende dal comportamento della persona?

L’amore di Dio non è condizionato dal nostro comportamento, ma è espressione della generosità del Padre,

che ama i suoi figli indipendentemente dalla loro condotta. Nessuno se ne deve sentire escluso, in particolare gli “ultimi”.

L’amore di Dio è infinito, ma ci sfida ad amare come ama lui. La posta in gioco diventa molto alta.

Eravamo abituati all’idea che Dio premiasse i più buoni e castigasse i cattivi…

È il passaggio dalla religione alla fede… Da una parte si codificavano le norme per ottenere il perdono, o comunque la benevolenza di Dio. Dall’altra, Gesù introduce un’epoca in cui non sono più gli esseri umani a servizio del Signore, ma è Dio a servizio degli esseri umani; un Dio che non pretende, ma dona, che non chiede, ma si offre per essere accolto da loro.

La gente non rischia di rimanere frastornata da questo cambio di prospettiva?

Certo, ma ne vale assolutamente la pena. Una volta che si fa esperienza di questo amore, e lo si accoglie, non esistono più barriere tra Dio e gli esseri umani, non si è più gli stessi di prima, perché Dio non è più lo stesso. Prendiamo i pastori, anticamente la categoria più reietta. Credevano di essere i più lontani da Dio e scoprono all’improvviso di essere i più vicini al Signore…

Prefazione di Matteo Zuppi pag. 5

Presentazione di Massimo Orlandi » 9

Introduzione » 17

I. Un cantiere permanente » 21

II. Il Padre, il sole, l’aldilà » 33

III. La rivoluzione di Montefano » 45

IV. La profezia » 49

V. La speranza » 61

VI. Eresia, meriti e bisogni » 67

VII. Natale, Pasqua e le provocazioni del Vangelo » 73

VIII. Il popolo di fra Alberto e il confine tra vita e morte » 91

IX. Mamma e papà » 101

X. Papa Francesco » 129

XI. Disarmiamo le parole… e la Parola » 137

XII. Gli amici e le amiche di Montefano » 151

Postfazione di Ricardo Pérez Márquez » 163

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