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Mosca in bocca, di Wanda Luban
from Opera Nuova 2019-1
Mosca in bocca
di Wanda Luban
Accadde in primavera. Avevo cinque anni e mi stavo dondolando sull'altalena del parco, vicino a casa. Mi piaceva volare sull'altalena. La mosca si posò dapprima sulla mia guancia. La scacciai, ma lei insistette posandosi sulle mie labbra, più e più volte. So di certo che mi entrò in bocca. A lungo mi parve di avvertire il suo saliscendi dentro di me. Cercava all'impazzata una via di fuga.
Il peggio era quel gusto: gommoso e acido al contempo. Per molto tempo mi perseguitò. Senza remore lo attribuii alla mosca. Si presentava nei momenti meno opportuni, in classe o a tavola, prima di cena. Allora spalancavo la bocca nella speranza che la mosca trovasse la strada e se ne andasse.
Volevo che morisse e al contempo volevo liberarla. Il più delle volte la mosca volava su e giù nel mio ventre, colonizzando paesaggi rossastri. Ma mi capitava anche di sentirla salire e scendere delle scale, nello spasmodico tentativo di vedere la luce.
Di quella lotta all'ultimo sangue e della mia paura non parlai con nessuno.
Però a volte parlavo con la mosca, cercando di ammaestrarla, di dirigerla verso l'uscita. Un bel giorno la mosca trovò la via e questo doppio supplizio finì.
A vendo forse percepito i miei sforzi e ritenendomi quindi in parte sua alleata, la mosca si trasformò nella mia consigliera.
Che ci fossero cose indicibili me lo insegnò la mosca. Perlomeno così mi parve. La chiamai in causa altre volte. Ci osservavamo a vicenda: non so che cosa notasse lei, di certo io ero come ipnotizzata dal suo grande occhio vorace e attento. Dalla cima della precoce miopia di cui soffrivo, invidiavo un po' la sua vista lungimirante in 3D.
Dopo aver scoperto delle fotografie dell'ultimo zar, al quale mia nonna paterna era devota al punto di averne disseminato il salotto, posi fra le sue agili zampe uno scettro e l'ammantai d'ermellino. Quanto alla corona, avrei preferito tenerla per me, ma la mosca me la confiscò.
Un giorno venni convocata al cospetto dei miei genitori. C'era «una bella notizia,» così la definirono. Sarei stata spedita in un college americano in Romandia, «per familiarizzare con la lingua inglese.» A dodici
anni anelavo piuttosto a familiarizzarmi con i miei, ma il tempo passava, così come la speranza che un bel giorno ciò potesse accadere. Del resto, l'apprendere lingue straniere, in casa nostra, era considerato un nobile obiettivo. Il comunicare invece era cosa comune: in altre parole era destinato alle masse.
A darmi la notizia ci pensò mio padre; mia madre si unì a lui con una distratta carezza ai miei capelli.
Quella sera la mosca s'indignò. Mi suggerì di vendicarmi, non ricordo con quali aliene strategie.
Sarà stato il caso? Sta di fatto che il giorno dopo - in concomitanza con una schermaglia particolarmente agguerrita fra di noi - mia madre mi definì «noiosa come una mosca.» Dapprima mi sentii colpevole. Poi scoperta.
La sera stessa trovai tutto quel sangue. Sarei morta prima di giungere al college, ne ero certa. Interpellai la mosca. Forse neppure lei sapeva di che si trattasse, ma di certo mi disse di non farne parola.
Del collegio ho solo un vago ricordo. Non so se qualcuno s'inquietò per le ore che trascorrevo in bagno. Per cinque giorni il sangue colò. Seppellii le mutande sporche nel bosco, ai margini della scuola.
E sopravvissi al college. E al sangue.
Il tempo passava e la mia arnica con le ali iniziò a disertare i nostri appuntamenti. Fortunatamente un nuovo divorante interesse fece capolino nella mia vita.
Oltre alla miopia, da mia nonna paterna avevo ereditato una propensione alla nostalgia e il gusto dell'ornamento. No, io non collezionavo anacronistici cappellini bensì qualcosa di ancora più antiquato: !es rnouches. In questo caso non si trattava di animali volanti, bensì di piccoli nei, in taffetà, raso e velluto. L'idea - retaggio del Settecento - mi era certamente stata bisbigliata dalla mia di mosca.
D'altronde, il destino volle che durante l'adolescenza inciampassi a più riprese in raffigurazioni di donne con copricapo di piume e nei a forma di cuore, di fiore, di stella. Manciate di rnouches, spolverate non a casaccio - sul volto di belle sconosciute. Una in particolare mi colpì: a forma di mandorla, la rnouche era posta alla radice del naso, tanto da dare l'impressione che la sua detentrice avesse un unico grande occhio, il che mi riportò alla memoria la mia antica guida. Nell'era dell'abbronzatura selvaggia, il contrasto fra l'oscuro di quel tocco civettuolo e la pelle bianca mi conquistò.

Ormai diventata una giovane adulta, appresi che ciò che la mia mosca non diceva, poteva comunque essere letto e interpretato dalla strategica posizione di una sua omonima in velluto nero.
Certo, se avessi avuto inclinazioni scientifiche, mi sarei probabilmente rivolta verso studi più elevati, quali l'entomologia per intenderci, o avrei collezionato ditteri. Malauguratamente invece, oscillavo equamente fra l'amore per l'ozio e quello, smodato, per gli abiti e gli accessori. In altre parole, primeggiavo nell'arte dell'abbellire.
Pertanto appresi che, nel Siècle des Lumières, i nei posticci avevano adornato i volti, le scollature, le mani e i piedi di molte dame, ma che neppure gli uomini li avevano disdegnati. E che, grazie alle mouches, uomini e donne si comprendevano alla perfezione.
Mi parve quindi di buon auspicio l'aver trovato Vincent in un pomeriggio di tarda primavera mentre sedevo in un caffè del Marais, a Parigi, una mouche a forma di stella sullo zigomo destro. Dinoccolato ed elegante, lui sedeva al tavolo di fronte al mio.
Fissò la cometa per un bel po'. Scoprii che, a differenza dei suoi compagni di genere, Vincent conosceva il linguaggio delle mosche.
Solo più tardi intuii che neppure a lui avevano insegnato un gran che a comunicare.
Dimenticavo ... Due secoli prima, la stella sullo zigomo aveva fama letale: era detta l'Assassina.
Fu proprio Vincent, che di professione faceva l'imprenditore, a finanziare il mio start-up. L'idea era vincente. Si trattava di riportare alla moda le mosche dei secoli trascorsi. Non certo di risvegliare quelle che dormivano (del resto le mosche sono ditteri non canidi e noi non ambivamo a trasformare i nostri simili in dalmata), bensì di trovare il modo per coniugare quella sottile arte di seduzione con i tempi moderni.
Addio alla Discreta, poco visibile sul labbro inferiore, alla Provocante, alla Sfacciata, alla Maliziosa e all'Orgogliosa, sparse con cognizione di causa dai nostri abili predecessori.
Inutile perdere tempo spremendosi le meningi di fronte ad un cuore nero posto sulla fronte o, ancor peggio, ad un fiore posticcio, appena socchiuso, infilato fra i seni della prescelta. Per non parlare della mezzaluna che, con i tempi che corrono, avrebbe rischiato di dare adito alle più ambigue interpretazioni.
La scelta cadde dunque sugli smilies, ma non mi fu suggerita dalla mosca. Comunque riscosse un successo folgorante.

La produzione, rigorosamente cinese, non riusciva a stare al passo con la domanda. Mercati ed essere umani di tutte le età furono inondati da ammiccanti tondi gialli e sorrisi più o meno larghi, strizzatine d'occhio e lacrime nei giorni no. Si trattava di autocollanti, ma badai bene che fossero antiallergici.
Grazie alle mosche, l'empatia si diffuse a macchia d'olio. Ormai tutti facevano a gara nel leggere sul viso altrui anche il più piccolo corruccio. Per i cinesi, inventammo delle mosche di un colore albicocca, che s'intonavano alla perfezione con la loro carnagione.
Nel frattempo a Vincent era venuto l'uzzolo dell'inglese. Mi parve un tradimento. Non lo sopportai.
Indecisa sul da farsi, invocai la mia antica consigliera. Lei accorse. Mi sussurrò che, oltre ad avere assunto un accento british, Vincent aveva fatto altre innovazioni.
Non tardai a capire cosa intendesse. Un mattino d'estate lo trovai nel nostro letto, in compagnia di una biondina slavata. A giudicare dai mormorii, lei credeva di essere Jane Birkin.
La mosca era indignata.
Prese la mira. Vincent si gonfiò come un pallone: non riusciva a respirare.
Spirò nel giro di pochi minuti.
A giudicare dal certificato di morte, il decesso era stato causato dalla puntura di un non meglio identificato insetto. Decisi di costituirmi. La mosca non era d'accordo, ma io mi ribellai al suo volere. Mi sentivo complice dell'assassinio e raccontai tutto. Il commissario mi ascoltò a bocca aperta, ma non mi credette. Imputò la mia confessione allo choc per aver perso Vincent. La mosca insisteva: dovevo ritrarre. Non le diedi retta. Gli interlocutori che si susseguirono mi guardavano bonariamente. U rlaì la mia colpa. Venni internata.
La mia guida sparì. L'avevo offesa. Di quei mesi in manicomio ricordo soprattutto la sua mancanza.
Non menzionai mai più la mia consigliera. Dopo sei mesi mi lasciarono andare, ma lei non tornò.
Rimpiangevo le nostre conversazioni.
Vincent ed io fummo insigniti della medaglia della Mosca d'oro, medaglia con il quale il governo ci premiava per il ruolo svolto dalla nostra impresa allo scopo di salvaguardare la comunicazione fra i sessi. Per V incent fu un riconoscimento postumo.

Far parte dell'Ordine della Mosca d'oro, ordine che risale all'Antico Egitto, è un vero onore.
Monili a forma di ditteri sono stati rinvenuti nelle piramidi. Pare che fossero i soldati particolarmente valorosi a essere insigniti con questo premio dal Faraone in persona. Come le mosche, i soldati non stanno mai fermi. Perlomeno finché la morte non li coglie.
Ora sono vecchia. Vincent è morto da tanto tempo così come la nostra florida impresa.
Strano a dirsi, ma da qualche settimana la mosca è tornata a farmi visita. Non sapevo come accoglierla ma in fondo è stato tutto molto naturale. Lei si è posata sulle mie labbra, ad ali spiegate. Non è entrata ma lo farà.
Per il momento mi dice di tacere. E mi rassicura. Dice che, anche dopo, lei continuerà a volare.

