48 minute read

Oltre i confini della realtà: il fantastico, di Manuela Mazzi

OLTRE I CONFINI DELLA REALTÀ: IL FANTASTICO

Oltre i confini della realtà: il fantastico

di Manuela Mazzi

L'etimologia del lemma «fantastico» deriva dal greco phantastikòs, il quale a sua volta è un'estensione di phantasia, cioè immagine che appare, finto, non vero, immaginato. Già Sigmund Freud trattò in una conferenza del 1907 il tema legato alla fantasia di chi scrive (poi riportata nel libro «Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio», ed. Boringhieri).

In un capitolo specifico sottolinea l'origine infantile della stessa, laddove il bambino si inventa storie per gioco, godendone fin quando viene «costretto» suo malgrado ad abbandonare la propria «immaginazione», ma come dice Freud: «chi conosce la vita interiore dell'uomo, sa che non vi è cosa più difficile della rinuncia a un piacere già una volta gustato. ( ... ) Io ritengo - aggiunse - che la maggior parte degli uomini, in qualche epoca della vita, si dedichi a fantasie. È questo un fatto che è stato trascurato per molto tempo e di cui non è stata quindi valutata appieno l'importanza. ( ... ) L'adulto si vergogna delle sue fantasie e le nasconde agli altri, coltivandole entro di sé come cose assolutamente private e intime: in genere preferisce confessare le proprie colpe piuttosto che comunicare le proprie fantasie» perché sa che da lui ci si aspetta che agisca nel mondo reale.

Tra queste fantasie però non ci sono più i giochi del bambino che finge di essere adulto, ma verità nascoste nella realtà che trovano una loro voce. Da qui anche il perturbante (altro capitolo dedicato nel libro citato) o l'Horror, certe fiabe salvifiche che si fanno metafore di situazioni di vita, per non parlare delle profetiche paure nascoste nella fantascienza; tutte sfumature narrative che possono andare ben oltre il semplice intrattenimento. D'altronde è proprio nel nostro vissuto primordiale che risiedono le emotività più ataviche, e dunque più potenti.

Che l'uomo non abbia mai smesso di dare forma alle proprie immaginazioni rielaborando la realtà, lo attesta la produzione mondiale e l'apprezzamento di chi legge il fantastico. E anche nel nostro piccolo, fanno onore al genere gli inediti qui pubblicati che spaziano dalla favola, con evidente intento morale esplicito, al cosiddetto realismo magico. Una dozzina di racconti ricchi di inventiva, ma non per questo privi di significati gravidi di spessore, a dipendenza del livello di lettura. Perché questo è spesso uno dei grandi meriti del fantastico: la stratificazione di significati più o meno impegnativi, ma tradotti con una cer-

ta semplicità, che nella scrittura è sempre un valore aggiunto e non è da confondersi con la banalità. Rendere un testo accessibile al lettore, anche laddove non si miri a veicolare una morale ma solo al turbamento o alla sollecitazione dei sensi, è la sintesi più pura di ciò a cui dovrebbe aspirare l'arte della scrittura.

Un gioco, dunque, ma che si è fatto terribilmente serio e soprattutto credibile, cosa per nulla evidente quando ci si ritrova a manipolare materia fuori dal mondo del reale.

«Il bravo scrittore», scrive Giulio Mozzi nel manuale L'officina della parola - Dalla notizia al romanzo: generi, stili e registri di scrittura• (redatto con Stefano Brugnolo, Sironi Editore, 2014) 1 «sa persuaderci della verità di una certa storia anche se essa è inverosimile. Il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge scrisse che

la «fede poetica» consiste in una «volontaria sospensione dell'incredulità.» Quando un romanzo ci dà quell'impressione di autosufficienza, di essersi emancipato dalla realtà reale, di contenere in sé tutto ciò che gli occorre per esistere, ha raggiunto la massima capacità persuasiva. Riesce allora a sedurre i lettori e a far credere loro ciò che racconta, qualcosa che i buoni, i grandi romanzi non sembrano raccontarci perché piuttosto ce lo fanno vivere, condividere mediante la persuasività di cui sono dotati.»

Proprio sotto la guida di Giulio Mozzi (scrittore già pubblicato da Einaudi, Mondadori, e altri; docente di scrittura e fondatore della Bottega di narrazione di Milano; oltre che talent scout e consulente per Marsilio editore) hanno avuto modo di esercitarsi la maggior parte degli autori (esordienti e non) che sono presenti con i loro racconti in questa sezione tematica di Opera Nuova. Per dovere di cronaca li citiamo tutti, partendo dai titoli: Doc 498.000 di Sylvia Bagli; Le città circolari di Giovanni Bruno; Dies irae di Sabrina Caregnato; Il fiore rosso e la stella di Angela Curatolo; Mosca in bocca di Wanda Luban; Il tram di Anna Maria Di Brina; La leggenda della grande carestia e La rondine e l'allocco• di Duilio Parietti, L'ultima neve di Roberta Plebani.

Con loro, e una decina di altri corsisti, l'autunno scorso, si è tenuto un laboratorio di scrittura creativa, o come preferisco definirlo io, di scrittura narrativa, sotto il titolo La cura di un racconto. Un corso che ha permesso non solo di ragionare sui testi dei partecipanti provenienti da tutto il Cantone, dall'Italia e persino da Crono e Ginevra, ma anche di mettere in relazione gli stessi, in un ambiente che ha generato scambi reciproci di idee, lasciando ben intendere quanto sia sempre fertile il territorio della narra-

zione. Anche quest'anno si ripeterà il laboratorio, sempre a Locarno in Villa Scazziga ( www.scritturaenarrazione.wordpress.com).

Da territorio in territorio, lo stesso plauso spetta a Opera Nuova che riunisce a sua volta in uno stesso contenitore più voci, alcune fresche altre più mature, nazionali e internazionali, mettendole giocoforza in relazione o a confronto (e, si sa, il confronto genera sempre crescita artistica). Ai racconti di chi già ha avuto modo di incontrarsi dal vivo, si sono qui aggiunti Lo smemorato di Federico A. Realino; Il silenzio del verbo di Tiziano Uria; Il castello di Agliè di Edoardo Moncada.

Doc 498.000 di Silvia Bagli

XPerto si chiedeva se fosse stata davvero una cosa giusta. - Sentiva scricchiolare il grafix interno che ormai iniziava a diventare obsoleto. Archi luce dopo la scomparsa di Doc 498.000, ripensava al comunicato che aveva lui stesso inserito nella configurazione esterna dei chip, contenuti nel processore di ogni singolo abitante di Novaland. Faceva parte del kit database, sezione elementi storici, di nuova generazione. La prima volta che sentirono il discorso era stato diffuso da X-Perto che, rischiando la vita, aveva trasmesso quel messaggio lo stesso giorno della scomparsa di Doc 498.000. X-Perto, preso da una sorta di empatia, aveva premuto il tasto rete allargata, perché tutti potessero sapere quanto erano manipolati e ricuperassero un po' di memoria viva. Era stato lo spunto della rivoluzione. Gli abitanti di Novaland si erano organizzati per ritrovare frammenti di memoria che, messi insieme e condivisi, avevano permesso di ricostituire una mappa-data che consentisse di ricordare molti dettagli del vecchio mondo. Tante cose rimanevano ancora incomprese, frazionate e incomplete, ma facevano parte del Cervellovix di ogni cittadino di Novaland. X-Perto si diceva che Doc 498.000 era considerato come un eroe e se lo meritava, anche se c'era ancora qualcosa che non quadrava. Si chiedeva se avesse fatto bene ad assecondare le sue ultime volontà. Da allora ripassava la versione originale del discorso, nella sua spaventosa lentezza. Gli era talmente entrata nelle vene da rivoluzionare interi Archi generazionali. E l'ascoltava sempre più attentamente.

Abitanti di Novaland, vi parlo dal corridoio della distruzione e ciò che devo comunicarvi è grave. Vorrei dirvi che vivete in uno spazio senza tempo, senza memoria, senza dolore. Sono astrazioni di un tempo che non esiste più: quello degli umani, delle parole che ho imparato grazie al mio mestiere. Sono Doc 498.000 il mio lavoro consisteva nel far ripercorrere la memoria ancestrale di chi ne aveva conservato dei frammenti. Mi toccava rispondere alle domande dei cloni difettosi, dopo averli ripercorsi a rovescio, per poi tagliare il circuito 406. Questa operazione faceva scomparire ogni residuo. I cloni tornavano allo stato normale: sereni, tutti uguali. Solo in rarissimi casi l'operazione

non funzionava. Come sapete, i pezzi non ricuperabili vengono chiamati le grandi anomalie. ,Cos'era il tempo?, era una domanda tipo. Oppure: ,cos'era quella cosa disgustosa che gli umani vivevano per riprodursi?, Una cosa che li costringeva a toccarsi e mescolare la loro saliva, il loro sudore. Gli umani non avevano le configurazioni via Touch. Erano lenti, copulavano e dopo appena un secolo morivano. Non esistevano le camere di riproduzione via conduzione. Erano differenziati tra maschi e femmine e avevano creato una cosa strana chiamata attrazione. Con essa f abbricavano generazioni: individuo dopo individuo. Il processo comportava una gestazione di nove mesi e ne uscivano esserini contorti, pien.i di difetti, non autonomi che crescevano. Li chiamavano bambini. Era doloroso, sporco, schifoso. Hanno deciso di cambiare il sistema di creazione perché il tasso di domandite era diventato insostenibile. Si chiamava depressione e li conduceva sistematicamente a togliersi la vita. Gli umani avevano definito questo evento: suicidio. Il tasso di suicidio era così alto che nel 2034 hanno tentato un'operazione molto complessa, hanno scelto gli esemplari più perfetti e li hanno clonati per fabbricare noi. Siamo ottimizzati e resi calmi dalle cellule benessere. Le tonalità zen incorporate sono arrivate dopo. Ci sono state altre modifiche, ma in sostanza possiamo datare la nostra era a partire da quel momento. Gli umani entravano in guerra contro tanti gruppi e nemici diversi. Erano molto difficili da controllare. Allora per poter ottenere un mondo nuovo e docile hanno creato un nemico unico: Fovaland. Esiste Fovaland? Sì, esiste come organizzazione del vostro controllo, esiste come modello di repressione e per dirigervi. Ogni despota vuole controllare il suo prossimo. Oggi, non c'è più bisogno di sangue e nemmeno di dolore. Tutto è piatto. Stiamo bene ma siamo insulsi e grigi. Cittadini di Novaland, vi restituisco la vostra storia, perché senza storia non c'è azione, e senza azione non c'è rivoluzione. Ribellatevi, perché c'è una cosa che dovreste scoprire da soli: si chiama, libertà. Ribellatevi! Non ascoltate i discorsi del Grande Cervello. Non avrete mai volontà autonoma. Iniziate da subito: cambiate canali d'informazione, individualizzatevi. Non siete numeri! Datevi dei nomi e reintegrate dei segni distintivi. Fate dei gesti teneri. lo, Doc 498.000 ero riuscito a nascondere la mia passione per il passato, conducevo una vita normale. La mia vita è stata completamente stravolta quando ho incontrato il clone 2 ooo 263. Dovevo riconfigurarlo o piuttosto riconfigurarla. Fu la cosa più bella che mi fosse mai

stato consentito di vivere. lo, Doc 498.000, ero maschio, il clone 2 ooo 263 era femmina. So che per voi non vuol dire ancora niente, siete riprodotti in camere a conduzione. Per me invece voleva dire tutto. Era la mia operazione 9708; le avevo tagliato il circuito 406 ma voleva ancora rivedermi. Mi inseguiva, mi raggiungeva e faceva delle cose vietate. Insomma capii che aveva conservato ancora la memoria del vecchio mondo. Era per forza una grande anomalia: anche lei, esattamente come me. Le misi il casco di potenziamento della memoria. Premetti il pulsante. Quando le tolsi il casco fu un momento incredibile. La chiamai Priscilla. Era davvero unica. Unica! Potevo identificarla. L'avrei riconosciuta fra la folla. Le dissi: «Una tua parola e sarò salvato.» La mia Priscilla, però, era il capo 50 559 del servizio di sorveglianza. Ordinò agli sbirri numero 1 ooo 201 e numero 1 ooo 202 di arrestarmi. Ormai la amavo. L'amore esisteva prima che vivessimo sotto il beta A e B, poi è stato soppresso per sottomissione. Ma l'amore è come se la musica preferita fosse la voce di chi si ama. L'amore è la mia ultima libertà e la preferisco al nulla. Priscilla ha ordinato la reintroduzione del dolore per punire il mio attaccamento alla storia. Dicono che a volte il dolore sia peggio della morte. Dal corridoio della morte, io, Doc 498.000, ho rubato il microchip dello sbirro 1 ooo 201 per restituirvi la vostra storia contro il mio dolore, sperando che possa liberarvi. Domani all'alba griderò: rivoluzione o morte.

Doc 498.000

A X-Perto era apparso di una sconcertante chiarezza. Il fatto che Novaland potesse diventare qualche cosa di perfetto gli era sembrato evidente. Ma questi erano momenti bui e di sfinimento. X-Perto non riusciva nemmeno più a rendersi conto se non avesse percorso tutto questo Arco nell'inganno.

Intanto aveva visto morire Doc 498.000, nel dolore, con grida spaventose da far scoppiare un cervellovix. Ciò lo aveva indotto a mettere in circolazione il chip, anche a costo di fare la stessa fine. E poi c'era stata la ribellione.

Una volta raggiunto il traguardo, una volta eliminato il Grande Civix, quando toccava a lui e a chi la pensava come lui decidere riguardo a Novaland, si era ben guardato dal ripristinare il dolore per le genera-

zioni degli Archi a venire. Quelle urla terribili avevano causato in XPerto un tale shock da costringerlo ad andare in sala Cax per lisciare il tessuto superficit danneggiato.

Il Civix del grande controllo era sparito, annientando la paura e rendendo la clonusvitae ancora più grigia e monotona. Tutti novalandesi erano bravi, ma aldilà delle apparenze erano spenti e pieni di quella nuova morte che un tempo si chiamava noia.

Si ricordava anche lo sguardo acceso di Doc 498.000, che fino alla fine aveva gridato che amava. Sentiva che la risposta nell'allestimento di stanze Grotox contro grotox era lontana mille Archi, una percezione parziale e frenetica diversa da ciò che aveva visto animarsi in Doc. Qualcosa era fallito nella fase di individualizzazione. Essendo tutti originari di una medesima cellula staminale, continuavano a somigliarsi. Nessuno era riuscito a trasformare il proprio sguardo per diventare qualcuno speciale. Avevano nomi ma in fondo non cambiava molto.

Il dubbio attanagliava X-Perto con un soffox. Ci pensava da Archi. La specificità di quel desiderio così intenso era una combinazione di frustrazione, paura e forse anche dolore? E di cosa bisognava avere paura per essere vivi? Di un finix a breve?

Guardava dall'alto degli Archi Lumen, quello che aveva rimpiazzato il Civix del grande controllo: il Grande Memix. Vi erano conservati tutti i link della memoria interna degli abitanti di Novaland. Non era protetto perché non ce n'era bisogno. La placidità di Novaland era peggio del Ventre Molle Caratterizzato. Chi si sarebbe sognato di cambiare gli equilibri?

Probabilmente era l'ultimo di Novaland a poterci ancora pensare. L'unica memoria visiva, l'unico a conoscere la parte nascosta dell'universox. Aveva visto la paura, il dolore e l'amore. Avevano optato per la perfezione, le camere di riproduzione per conduzione erano state mantenute. Inutile fabbricarsi imperfetti. Invece avevano aperto le stanze Grotox contro grotox, dove tutti avevano scoperto il piacere. La prima volta era stata una cosa inaudita: brividix su brividix provando cosa fosse la felicità. Ben presto però le stanze erano state disertate, oppure usate freneticamente per creare qualche effetto sulla memoria, duplicarla. A poco a poco, erano rimaste deserte.

Nelle camere di riproduzione, fabbricarono pochi cloni. Man mano che gli Archi passavano smisero. Avevano migliorato la qualità fino a farli diventare infinitox. Forse l'assenza di finix toglieva ogni alternativa al grigiore. Forse c'era una cosa che avevano spento per sempre: la mancanza. Adesso X-Perto si ricordava e riusciva a mettere a fuoco ciò

che aveva mantenuto vivo Doc, sebbene fosse stato squartato in quel modo. Desiderava ciò che non poteva ottenere e lo desiderava davvero. Voleva continuare la sua clonusvitae, voleva riscrivere la storia, voleva amare ed essere amato. Voleva ciò che non aveva con tutte le sue forze. E forse l'amore era stato la risposta per superare ogni limite?

Adesso sì che X-Perto lo invidiava. Anche fra le urla, in mezzo a tanto dolore, Doc 498.000 aveva qualcosa di invidiabile.

Qual era stato l'errore più grande? X-Perto se lo chiedeva. Che cosa lo aveva condotto alla deriva, e con lui con tutta Novaland? Che cosa aveva sbagliato? Forse non avrebbe dovuto optare per la perfezione? Meglio rimanere imperfetti, doloranti ma diversi? Come poteva rimediare?

Voleva mantenere il scintillax nell'Arco che aveva impostato. Guardava il Grande Memix con sgomento. Sapeva che tirando il filo del pensiero avrebbe fatto scoppiare tutto. Che cosa sarebbe successo dopo? Non lo sapeva nessuno. Forse era proprio questa la paura? XPerto poteva solo constatare che un Arco senza Arco non aveva senso, a parte quello del vuoto. Il Memix diceva che da tempi immemorabili tutto era nato da uno scintillax. Bisognava distruggere per ricostruire. Questo concetto si fissava nel profondo del suo cervellovix.

Nel momento in cui decise di saltare, saltare in un vuoto pieno di speranze, si sentì come mai avrebbe creduto fosse possibile. Qualcosa si aprì in lui e gli permise di scoprire un'azione mai successa prima: si mise a ridere a crepapelle. Sentì il brividix percorrerlo, invaderlo, come la prima volta nel Grotox. Rideva, stupito di sapere che era una caratteristica umana. Umana! Improvvisamente si rese conto che la cosa più importante non è l'inizio ma la fine. La fine di un mondo paralizzato non è la rinascita? Si concentrò, amplificò le sue riflessioni fino a far tremare il Memix.

L'Arco si fermò un attimo. Su Novaland, tutti si sentirono liberati. Un vento di allegria penetrò le loro pompavitae, allora risero e ballarono assieme, ebbri di felicità. X-Perto riuscì a vederli. Un brevissimo istante, apoteosi di un piacere infinito. Capì in modo assoluto cosa fosse l'amore. Si dissolsero tutti i dubbi. Con gli occhi pieni di lacrime, seppe cos'era la verità. Tutto divenne tumulto e gioia, tutto fu palpabile, intenso. Disse: «Com'era stato scritto da tempi immemorabili nel Memix, come lo era stato anticipato da Tucidide nell'antica Grecia, la storia è un perpetuo ricominciare e in questo preciso istante temo di dovere credere.»

Rase a zero la radice della memoria. Si sentì un botto o piuttosto un boato dall'altra parte dell'universo, come un big bang. Poi il silenzio. Ci fu una palla di fuoco che dopo Archi e Archi iniziò a raffreddarsi. Ci fu la terra, ma era informe e deserta. Poi ci fu la luce e poi la notte, e fu chiamata giorno. Poi il firmamento, la terra e l'acqua. Poi la frutta e i semi. E fu sera e fu mattino. Ci furono le stagioni, le stelle. Ci furono le creature marine, quelle terrestri e gli uccelli che volavano, gli animali selvatici, i rettili e il bestiame. E poi ci fu la grande esitazione ... Ma contro ogni aspettativa, perché le cose più belle si fanno con la speranza, senza meta e senza senso, tutto poté ricominciare di nuovo, perché ci fu l'Uomo.

Le città circolari

di Giovanni Bruno

Sotterrerò questa città, ma non la nasconderò. Essa sarà per gli uomini un monumento della mia ira misteriosa, incastonato in luce azzurra per tutte le generazioni a venire; poiché la racchiuderò nella cupola di cristallo dei miei mari tropicali.•

Sulla superficie del grande deserto ne erano rimaste tre. Non possiamo dire quante fossero in origine, quante siano implose nel mare di sabbia o quante, in realtà, non siano mai esistite. Queste informazioni si sono perse nei palinsesti della memoria. Gli archivi, smantellati, tacciono. Gli abitanti, smemorati, ignorano. Di certo sappiamo che per sopravvivere le tre città dovettero adeguarsi alle nuove circostanze geografiche, geologiche, geomorfiche, geostatiche. Lo fecero, guidate dagli ultimi ritrovati della scienza e della tecnica, intervenendo sull'urbanistica.

Le tre città risistemate dovettero certamente far capo a un regime

di sostentamento ben articolato e perfettamente funzionante. Presuntamente dotate di una prosperosa economia interna, è altamente verosimile che esportassero materie prime e merci d'ogni tipo alle altre due città, importandone a loro volta. Le vie d'accesso in superficie erano tuttavia negate dalla conformazione del deserto, le cui dune mobili non permettevano alcuno spostamento di mezzi di trasporto. Sulle possibili soluzioni adottate a suo tempo per assicurare la logistica sono state avanzate le ipotesi più svariate, ma nessuna appare motivata in modo ragionevole.

La teoria più accreditata, benché difficilmente accettabile, prevede gallerie sotterranee che collegavano le tre città, situate a identica distanza l'una dall'altra.

Una congettura più spinta, e alquanto inverosimile, ridisegna un sistema di canali sotterranei che congiungevano gli alvei dei tre fiumi che circondano le città e dentro i quali le merci erano trasportate in cisterne a tenuta stagna trainate da spesse funi metalliche riavvolte in bobina da enormi carrucole montate sopra i fiumi.

• Thomas De Quincey, Suspiria, Garzanti, Milano 2018, p. 59 («Savannah-La-Mar»).

L'ultima tesi che merita d'essere ricordata, seppure del tutto inaudita, raffigura tre ponti che univano le città, da centro a centro, senza piloni di sostegno negli interspazi del deserto.

Le tre città superstiti avevano dunque affrontato la nuova situazione mettendo in campo tutti i mezzi e gli strumenti disponibili per tornare a condurre una vita sociale e commerciale che permettesse ai suoi abitanti di godere di un certo agio. I rinnovati assetti urbanistici avevano permesso loro di rimettersi in moto e stabilizzare strutture e procedimenti.

Non riuscirono però a scampare a un destino che le considerò alla stregua delle altre città, tante o poche che fossero, dal nome dimenticato, forse implose nel mare di sabbia, forse, in realtà, mai esistite.

Urbe tonda

Che il fiume fosse circolare, che scorresse cioè in tondo, non lo si vedeva a occhio nudo. Sembrava diritto. Un po' come la linea dell'orizzonte, che sembra diritta ma è curva. La città di Urbetonda, tutta racchiusa nel cerchio fluviale, era grande. E il fiume era lungo. Bisognerebbe forse dire, con maggiore e più plastica precisione, che il cerchio formato dal fiume era ampio. Perché dire che un fiume a forma di cerchio sia lungo non prescinde da una spinosa quanto insidiosa problematicità, tale da chiamare in causa i massimi sistemi, la relatività, l'adiaforia e la filosofia tutta.

Un fiume, normalmente, ha un inizio, la sorgente, e una fine, lo sbocco in un bacino di mare o di lago. Il fiume della città di Urbetonda non aveva né inizio né fine. Ma aveva un mezzo. Anzi, era tutto un solo mezzo. Ma non un mezzo che portasse a un fine. Il fiume era fine a sé stesso, per così dire.

G li abitanti della città di U rbetonda, ad usi alla circolarità del corso d'acqua che ne cingeva la vita quotidiana come una fascia da torero, erano consapevoli del loro stato di confino. Il fiume segnava il margine, il limite. Oltre, da quanto si riusciva a vedere dalla riva, c'era soltanto deserto.

Il fiume aveva una corrente, come tutti i fiumi. Ed esondava, anche, come tutti i fiumi. Esondava quando il livello dell'acqua superava

l'argine, come tutti i fiumi. E superava l'argine, come tutti i fiumi, quando pioveva abbondantemente.

Il Municipio di Urbetonda, nell'intento di far fronte alle esondazioni, aveva emanato la Circolare per la correzione del fiume Circolare, detta anche Circolare fiume per la sua ampiezza - ben 173 pagine fitte fitte-, in cui l'Autorità esecutiva ordinava una serie di «provvedimenti atti a sistemare il corso del fiume Circolare in modo tale che nei periodi di piena lo stesso non esondi a pregiudizio delle zone abitative rivierasche.»

Bisogna infatti sapere che il fiume si chiamava Circolare. Ma non si era sempre chiamato così. Nessuno ormai ricordava il nome originario. A un certo momento c'era stato un concorso popolare per dare un nuovo nome al fiume, al quale la cittadinanza aveva partecipato con vivo entusiasmo. E Circolare, scelto da una giuria di dodici savi, l'aveva spuntata, a maggioranza risicata, su Anello e Nimbo, gli altri due finalisti.

La vita commerciale della città di Urbetonda si alimentava, neanche a dirlo, dal fiume. In quattro punti a pari distanza tra loro vi erano dei dazi, con delle chiuse, che segnavano il confine fluviale tra una parte e l'altra. La città era infatti suddivisa in quattro parti d'identica superficie e forma. E per trasportare la merce sul fiume bisognava pagare ogni volta che si passava da una parte all'altra.

I Quartieri, come vennero poi chiamate le quattro parti, erano formati da settori circolari risultanti dal taglio a croce, orizzontale e verticale, praticato sulla città, che prendeva così, vista dall'alto, le fattezze di un mirino. All'intersezione, e quindi al centro assoluto della città e del cerchio del fiume, si trovava il Municipio.

Il Municipio della città di Urbetonda non era però sempre stato lì. Nessuno ormai ricordava dove fosse collocato in precedenza. Contestualmente alla formazione dei Quartieri l'Autorità esecutiva aveva deciso di porre il centro del potere al centro della città e quindi al centro, per così dire, del fiume stesso.

Non vi era peraltro, nella città di Urbetonda, un'autorità ecclesiastica che avesse potuto reclamare la centralità della propria istituzione rispetto alla pianta cittadina, come usava una volta. Gli ultimi religiosi erano stati cacciati dalla città secoli prima, imbarcati e mandati nel deserto.

Il reticolo di strade della città di Urbetonda era in perfetta armonia con la conformazione del fiume. Ma chiamarlo reticolo non rende giustizia al suo peculiare assetto. Le grandi arterie, quattro, correvano parallelamente e concentricamente rispetto al corso fluviale. Per passare da un'arteria all'altra, verso il centro o verso il fiume, bisognava imboccare quattro piccole strade che le collegavano di sbieco. Di modo che

la rete viaria della città di Urbetonda, vista dall'alto, sembrava una spirale al cui centro campeggiava il Municipio.

La città di Urbetonda, come si sarà immaginato, non si era sempre chiamata così. E nessuno ne ricordava più il nome antico. Una volta battezzato il fiume, l'Autorità esecutiva aveva indetto un concorso per dare un nuovo nome anche alla città. E Urbetonda si era imposto, di misura, su Sertopoli e Ghirlandia.

La città di Urbetonda, facile bersaglio del nemico venuto dall'alto, fu distrutta esattamente un secolo fa. A commemorare la tragica fine della città e dei suoi abitanti non c'è niente.

Guardando dall'alto si vede un fiume circolare, che scorre senza sosta, stretto sulla sponda esterna dall'immenso deserto e che racchiude in sé soltanto macerie.

A ben vedere, però, al centro esatto del cerchio si riconosce una sorta di croce. Si direbbe che la chiesa sia tornata al centro del villaggio.

Urbanello

La città di Urbanello era configurata secondo un'impostazione ciclica che vedeva alternarsi, entro il cerchio formato dal fiume, quattro corone concentriche: due aree abitativo-commerciali e due parchi. Contiguamente al fiume, dal quale la separava un alto argine, vi era la prima area abitativo-commerciale. L'anello successivo era costituito dal primo parco. Seguiva la seconda area abitativo-commerciale e infine il secondo parco. Al centro del parco interno, e quindi al centro della città, vi era un laghetto rotondo.

Le due aree abitativo-commerciali circolari, unitamente al parco anulare annesso, erano dette Circoli. Per distinguere i due Circoli nella prassi amministrativa l'Organo esecutorio della città aveva escogitato un'apposita nomenclatura: Circolo esterno e Circolo interno. Il laghetto centrale, che portava il nome di Oblò, rientrava nella giurisdizione del Circolo interno.

Lanciando un sasso nel centro del laghetto della città di Urbanello, si vedeva formarsi una lunga e continua serie di cerchi concentrici centrifughi che venivano risucchiati dalla sponda e, mossi da una spinta che attraversava impercettibilmente i quattro anelli dei parchi e delle

aree abitativo-commerciali, riaffioravano nel fiume circolare per terminare il loro corso sulla sponda esterna e smorzarsi nel grande deserto.

L'Organo esecutorio della città di Urbanello, a un certo momento, aveva promulgato le Direttive vietanti qualsivoglia accesso alla superficie del lago Oblò, note anche come Direttive lacustro-lacuali, in cui si comminavano «pene severissime a chiunque violi i disposti censuranti l'utenza della distesa lacustre e disattenda le intimazioni impartite dalle unità d'intervento della polizia lacuale.» La proibizione si era resa necessaria dopo che, sull'arco di alcuni anni, diverse imbarcazioni erano sparite nel nulla mentre attraversavano la parte centrale del laghetto, denominata nella dizione volgare Circolo delle Bermude.

Tre recinzioni circolari separavano le aree abitativo-commerciali dai parchi, essendo poste tra l'area abitativo-commerciale esterna e il proprio parco, tra questo e l'area abitativo-commerciale interna e tra questa e il proprio parco. Al fine di permettere agli abitanti di muoversi liberamente tra i diversi spazi anulari, in ciascuna delle tre recinzioni erano stati aperti quattro varchi pedonali, a nord-est, sud-est, sud-ovest e nord-ovest.

Per collegare l'area abitativo-commerciale esterna e quella interna erano stati realizzati quattro accessi stradali, a nord, est, sud e ovest. Le due recinzioni che separavano l'area abitativo-commerciale esterna e il proprio parco e quest'ultimo e l'area abitativo-commerciale interna erano state interrotte per costruire i quattro passaggi stradali attraverso il parco anulare esterno.

Tempo addietro, il fiume a corrente circolare che contornava la città di Urbanello aveva cambiato il suo primo nome, che nessuno ricordava più, ed era venuto a chiamarsi Coronario, nome che nell'ambito di un concorso idronomastico aveva avuto la meglio, grazie a un pugno di preferenze, su Girotondo e Giostrane.

Sul fiume Coronario erano di servizio due battelli che si muovevano in senso orario e si trovavano perennemente l'uno di fronte all'altro sul lato opposto della città, in linea retta sopra il Circolo delle Bermude. Percorrevano costantemente la stessa distanza nello stesso lasso di tempo, ventiquattr'ore su ventiquattro.

I battelli, sprovvisti di motore, procedevano lentamente all'immutabile velocità della corrente del fiume. Quattro aperture nell'argine del fiume, poste all'altezza dei passaggi stradali che attraversavano il parco anulare esterno, consentivano di accedere ai quattro punti d'imbarco dei battelli. Le soste ai punti d'imbarco, della stessa durata per i due battelli, lasciavano ai passeggeri giusto il tempo di salire e scendere. Ogni sei

ore, in punti d'imbarco diametralmente opposti, veniva cambiato l'equipaggio.

Gli abitanti di Urbanello, informati alla configurazione geometrica della propria città, avevano sviluppato e consolidato tecniche argomentative improntate al ragionamento circolare, che li invischiava in circoli viziosi senza scampo. Così, in virtù della loro forma mentale, a suo tempo avevano scelto Urbanello come nuovo nome per la propria città, preferendolo per una manciata di voti a Concentria e Anularia. L'Organo esecutorio aveva infatti indetto una votazione a suffragio universale, con i due Circoli a fungere da circoli elettorali, per cambiare il vecchio nome, di cui nessuno aveva più memoria, ritenuto inadatto al nuovo impianto urbanistico.

Sono passati esattamente cent'anni da quando enormi getti d'acqua, scaturiti da una sorgente termale situata negli abissi del Circolo delle Bermude, inondarono tutta la città fino all'argine rialzato del fiume, formando il bacino di una diga circolare.

La veduta a volo d'uccello mostra ora la città sommersa da una distesa d'acqua stagnante, mentre intorno due battelli girano incessantemente sul fiume che scorre con moto circolare. Si direbbe il quadrante della clessidra dell'eternità.

All'interno delle bolle roteanti espulse a getto continuo dal centro del laghetto sembra di riconoscere, come sotto una cupola di cristallo, una città circolare composta di spazi e corsi d'acqua anulari.

Urbetema

Il tratto distintivo della città di Urbeterna era la piazza pedonale a forma di triangolo, equilatero ed equiangolo, i cui vertici, posti a nord, sud-est e sud-ovest, toccavano la riva interna del fiume circolare che faceva da ghirlanda, e quindi circonferenza, a tutta l'area urbana.

Oltre i lati del triangolo si erano formati tre segmenti circolari, costituiti dal lato stesso del triangolo, a mo' di secante, e dal tratto della riva interna del fiume, a tracciare l'arco. I tre segmenti circolari rappresentavano le aree abitativo-commerciali della città di Urbeterna. Per dotarli di una congrua designazione sul piano amministrativo e istituzionale, i tre segmenti circolari furono denominati Lunette.

In ciascuna Lunetta vi erano due giardini circolari costellati d'innumerevoli piante sempreverdi e altre bisognose di continuo apporto idrico. Il funzionamento del sistema d'irrigazione in uso nella città di Urbeterna, palesemente performante, figura tra le conoscenze andate perdute.

Il fiume circolare era venuto a chiamarsi Carosello, nome per cui gli abitanti di Urbeterna avevano optato nel quadro di una consultazione popolare voluta dal Direttorio operativo della città. Gli altri due nomi in lizza, Rotativo e Circondario, erano stati scartati per un nonnulla. L'idronimo primitivo era stato emarginato irrecuperabilmente dai ricordi degli abitanti della città.

Il fiume Carosello era separato dalle tre Lunette, e quindi dalla città tutta, mediante alti muri di cinta. Dalla sponda opposta, sul limitare del deserto, la città di Urbeterna non sarebbe quindi stata visibile agli improbabili viandanti che si fossero avventurati fra le dune mobili.

La piazza triangolare, delimitata sui tre lati con alti muri di contegno che segnavano il discrimine tra i diversi spazi urbani, fungeva da luogo di ritrovo per gli abitanti della città di Urbeterna, che vi si riversavano dalle aree abitativo-commerciali.

A metà dei lati della piazza tre passaggi pedonali, collocati a sud, nord-ovest e nord-est, portavano dalle Lunette alla piazza centrale. A un terzo e ai due terzi di ciascun lato della piazza un accesso stradale collegava invece due aree abitativo-commerciali alla volta. A chi la considerava in un'ottica ravvicinata, che ne metteva a fuoco i lati più vicini, la piazza di Urbeterna appariva esagonalizzata dalle strade comunicanti tra le Lunette. A chi la contemplava in una prospettiva aerea, che ne sfocava lati e vertici, essa manteneva invece la sua globale triangolarità.

A seguito della costruzione dei tre collegamenti stradali che univano le Lunette erano venute a formarsi tre piazzette triangolari, equilatere ed equiangole, racchiuse tra i vertici della piazza principale, a contatto con la sponda interna del fiume, e il lato esterno dei tre accessi stradali. Per assicurare il traffico pedonale tra l'area centrale della piazza e le tre piazzette periferiche, tagliate fuori dalle stradine di comunicazione, erano stati scavati tre sottopassaggi.

La città di Urbeterna, nessuno se ne meraviglierà, non si era sempre chiamata così. Il nome primigenio è sepolto negli irraggiungibili anfratti della memoria, individuale e collettiva, degli abitanti di Urbeterna. Il Direttorio operativo aveva organizzato uno scrutinio popolare per munire la città di un nome che desse conto del nuovo assetto urbanistico.

Da Urbeterna furono battute, sul filo di lana, Tricicla e Temopoli, le altre due candidate in corsa.

Al centro della piazza triangolare si ergeva un monte a forma di cono, bocca principale di un millenario apparato vulcanico. Per il Direttorio operativo e gli abitanti di Urbetema, che ne ignoravano la natura, era meta di escursioni e spazio dedicato alle attività sportive.

Il monte al centro della piazza triangolare era stato chiamato dagli abitanti Colletondo, nome scaturito dall'urna nell'ambito di una votazione indetta dal Direttorio operativo per sostituire l'antico oronimo, dimenticato da tutti. Colletondo aveva prevalso, per pochi suffragi, su Montecono e Cimetema, le altre due proposte al vaglio del corpo votante.

A un certo momento, inspiegabili sparizioni di persone nella zona collinare avevano indotto il Direttorio operativo a decretare le Prescrizioni inibenti ogni e qualsiasi ascesa al monte Colletondo, chiamate anche Prescrizioni montano-collinari, che sancivano «norme cogenti volte a impedire il raggiungimento della vetta montana al fine di tutelare l'incolumità della cittadinanza nelle occupazioni oziose in luogo collinare.»

Anticamente uno sciame sismico aveva formato un cono avventizio al centro di ciascuna Lunetta. Anche queste sporgenze, al pari di quella principale della piazza triangolare, furono sempre ritenute semplici rilievi montuosi riservati al tempo libero, senza che si fossero mai prodotte sparizioni o altre anomalie nei loro paraggi.

È trascorsa esattamente una centuria da quando un'eruzione dal cono centrale ricoprì di materiale lavico la piazza triangolare fino agli alti muri di separazione, risparmiando le tre aree abitativo-commerciali.

I materiali piroclastici scaraventati nel fiume circolare dai tre coni avventizi nelle susseguenti eruzioni simultanee provocarono dapprima un collasso gravitativo subacqueo e quindi un'onda anomala con uno tsunami a moto circolare. Il fiume Carosello esondò su entrambe le sponde, allagando le tre Lunette e depositando le sue acque nella cintura limitrofa del grande deserto.

Vista dal cielo, la città di Urbetema evidenzia ora la sua configurazione tripartita. Nella piazza triangolare la bocca vulcanica è circondata di detriti fino ai lati rialzati, i tre segmenti circolari sono sommersi d'acqua stagnante e intorno scorre inarrestabilmente il fiume circolare.

Sembra di essere scrutati insistentemente da un provvidenziale bulbo oculare racchiuso in un triangolo equilatero ed equiangolo, a sua volta inscritto nel circolo della perpetuità.

Dies irae

di Sabrina Caregnato

Abruzzo, marzo 1529

Equella?» Chiese, tirando il compare dalla manica del giubbone ( ( ormai fradicio. «Mollala lì, chi se ne frega!» I fanti erano stanchi, camminavano da giorni e il cibo scarseggiava. Il loro manipolo era rimasto indietro: i prigionieri, tutte donne razziate da Vallescura, ritardavano la marcia. Le bestie da soma erano morte, il cuore schiantato dai monti di quelle terre inospitali, i pochi cavalli rimasti erano per i graduati, in testa all'esercito, quindi toccava scarpinare.

Pioveva a bigonce e il terreno era diventato una poltiglia.

Il più giovane, un biondino allampanato dagli occhi di ghiaccio, esitò:

«E se il capitano volesse ancora?» Fece un gesto volgare con la mano.

«Ma non vedi che sta crepando? Che cosa vuoi che se ne faccia? Ci sono le altre.»

Restavano quattro donne, non abbastanza da soddisfare le voglie di cinquecento uomini d'arme ... anzi per essere precisi quattrocentotredici, gli altri erano stati falcidiati durante i saccheggi di quel lungo viaggio. Una cinquantina erano malati o gravemente feriti: senza un riparo e delle cure adeguate, anche loro in poco tempo avrebbero tirato le cuoia. Ma dovevano arrivare all'Aquila: quelli erano gli ordini. Il principe Filiberto li stava aspettando e con lui l'offa.

«Meglio verificare.» Replicò scocciato e fece dietrofront.

Era inzuppato fino al midollo e non vedeva l'ora di scaldarsi accanto al fuoco. Se almeno il capitano avesse ordinato di montare il campo ...

Col piede girò il corpo sporco di fango. Aveva le labbra livide. <<Sveglia!

Non abbiamo finito con te.» Le assestò un calcio nel fianco aspettandosi un gemito. Scosse la testa: «Bah.» Urlò al commilitone.

L'altro alzò le spalle e gli fece cenno di tornare.

Una ragazza si staccò dalle altre sventurate e corse verso la donna caduta; avrebbe voluto abbracciarla ma i polsi legati stretti glielo impedivano. Allora le accarezzò il volto: «Madre» non aveva nemmeno più la forza di piangere, aveva già visto e subito troppo orrore.

Il fante l'osservò a lungo con un ghigno mostruoso: gli mancavano i due incisivi superiori, aveva il labbro spaccato e un taglio che gli sfregiava metà del volto.

Appena il capitano se ne fosse servito l'avrebbe presa lui, pensò compiaciuto. Era giovane e se doveva crepare in quella valle, tanto valeva concedersi un po' di piacere.

I bastardi montanari si erano difesi all'ultimo sangue: dopo un breve assedio, la porta della cittadella aveva ceduto sotto i colpi dell'ariete. I mercenari erano entrati in massa, ammazzando chiunque. Dopo l'assalto avevano razziato ogni casa, bruciando e distruggendo tutto ciò che non potevano portarsi via: «Nessun prigioniero, nessun superstite» era il loro motto.

In una stalla però avevano trovato tre vecchie e due mocciose: allora le avevano catturate. Un bottino magro ma comunque gustoso, perlomeno un diversivo per uomini che da troppi giorni camminavano sotto la pioggia gelida.

«Muoviti!» Intimò alla giovane strattonandola per il braccio.

Non reagi. Pregava inginocchiata accanto al corpo della madre, la testa reclina, i lunghi capelli sporchi appiccicati alla faccia.

«Allora?» La fece ruzzolare a terra con una pedata: né un lamento, né un grido. «Arrangiati, se vuoi schiattare anche tu .. . » Sguainò la spada ridendo e gliela puntò al petto. (<Ma che fai idiota?» L'altro uomo d'arme, esasperato, si affrettò a raggiungere il biondino.

Dal bosco, due occhi color ambra osservavano la scena con orrore. Tuttavia gli ordini di Ares erano stati tassativi: nessun contatto con quegli uomini, doveva solo spiarli e capire dove si stessero dirigendo, poi appena possibile tornare a riferire.

Che specie schifosa, gli venne da pensare; non conosceva nessun'altra creatura capace di simili nefandezze. Si acquattò dietro a un tronco e attese in silenzio. <(Noooo! Cazzo.»

Il lupo tirò su la testa di scatto. Non aveva visto cosa fosse successo ma l'odore del sangue fresco lo aveva messo in allerta. I due fanti stavano litigando. (<Il capitano ti ammazza. Cretino!» Urlava il più tozzo.

L'altro invece rideva: <(E chi se lo immaginava.» Puntellandosi con il piede, estrasse la lama: (<Non diremo niente al capitano.»

In risposta, ricevette un'alzata di spalle e un grugnito.

Il biondino gli dette una manata sulla spalla: «Lo prendo come un sì, vero Man&ed?»

«Fa quello che vuoi, Karl. Me ne fotto, voglio solo dormire. Asciugarmi, scaldarmi e dormire.»

«Allora, siamo intesi.»

Poco più in là, le altre piangevano e pregavano.

«Raaah!» Urlò Karl, facendo finta di minacciarle. «Forza, culone. Muovetevi.»

«Maledetti, Dio vi punirà.» Bisbigliò la più vecchia senza farsi sentire.

Si rimisero in marcia, il diluvio non accennava a diminuire.

Seth sporse la testa con circospezione, tutti i sensi allerta. Fra i rami, poteva intravedere i corpi delle donne. Un fremito gli fece rizzare il pelo: anche la più giovane stava morendo. Chiuse gli occhi e pregò affinché il loro spiro fosse accolto dalla madre di tutte le creature, poi pianse sentendosi impotente di &onte alla malvagità. Il muschio sottostante luccicò per un attimo tingendosi d'oro.

Appoggiò il muso &a le zampe. Nonostante la primavera fosse alle porte, non c'era nessun segno di vita. Né il canto di un uccello, né il bramito di un cervo, anche gli scoiattoli erano spariti. Il bosco taceva e soffriva: quegli uomini portavano solo morte e distruzione. Erano creature del male ed erano in tanti, anzi in troppi.

Appena si furono allontanati, Seth si alzò e trotterellò via: dalla collina avrebbe potuto valutare meglio la situazione.

Incorporeo come un'ombra, attraversò una macchia di sorbi e roverelle. Un grosso tronco d'acero era caduto sul sentiero. Ci balzò sopra e attese. Non voleva raggiungere il pianoro troppo in fretta: allo scoperto era meno protetto e lo avrebbero potuto avvistare. Doveva lasciarli andare via.

Gli uomini, da sempre, temono e detestano i lupi. Seth lo sapeva, anche se ne ignorava il motivo. Erano esseri pieni d'odio, anche per loro simili.

Dopo essersi guardato intorno, scese e riprese a camminare. Il suo mantello nero e bruno, tendente al rossastro, si confondeva perfettamente &a i colori del sottobosco.

Il ticchettio della pioggia sulle foglie degli alberi era l'unico rumore che accompagnava i suoi passi. Deviò verso destra e iniziò a risalire un morbido crinale, poi si addentrò &a i cespugli d'agrifoglio e di corniolo seguendo una pista immaginaria. Quanto raggiunse la faggeta secolare, annusò il terreno in più punti, ma anche lì non percepì alcuna presenza. Allora si fermò e guardando il cielo respirò a fondo: c'era qualcosa di sacro in quel luogo, immutato dalla notte dei tempi. Eppure stavolta non provava il so-

lito senso di pace e di plenitudine che quelle maestose colonne instillavano. Provava invece ansia. Paura che il mondo, il loro meraviglioso mondo, sarebbe stato devastato da quella malefica onda d'urto. Certo, altre volte gli uomini avevano calpestato quelle terre per uccidere e depredare. Ma mai un'orda così numerosa!

Un brivido gli fece rizzare il pelo. Si scrollò l'acqua di dosso e con essa quei pensieri tetri.

Arrivato in cima alla collina, si mise a osservare la vallata. Fra le centinaia d'odori che colpivano le sue narici, poteva distinguere il sudore, il sangue, lo zolfo, gli umori corrotti e più forte di tutti la morte. La fiumana di fanti aveva rallentato la marcia, erano all'imbocco dell'altopiano delle Cinquemiglia, ma mancava poco all'imbrunire e ben presto sarebbero stati costretti a fermarsi: loro non ci vedevano al buio.

Stava per fare dietrofront quando qualcosa l'insospettì. Spostò un orecchio: un flebile verso, roco e disperato, proveniva dalla forra. Sebbene la prudenza gli suggerisse di dileguarsi, decise di andare a vedere. Attraversò veloce il prato che declinava verso lo strapiombo. Molto più in basso, sottovento, una macchia fulva, immobile, gemeva di dolore. Seth si avvicinò con circospezione. Il capriolo era malconcio, quando vide il lupo non si mosse e lo guardò rassegnato.

«Arawan, cos'è successo? Dov'è il tuo branco?»

«Morti, tutti morti. .. »

Seth trasalì alla vista dello squarcio nella coscia: nessun animale avrebbe potuto causare quella ferita.

«Gli uomini ci hanno sterminato.»

«Arawan, non puoi restare qui, devi nasconderti.»

Il capriolo cercò di alzarsi ma le zampe non lo reggevano.

Il lupo allora si accucciò cercando di spingerlo con il muso: «Appoggiati a me, forza.»

Dall'alto, uno splendido corvo imperiale che osservava la scena emise una serie di crocidii prolungati, prima di posarsi a terra.

«Non puoi farcela da solo.» Disse al lupo, mentre si avvicinava zampettando. ((Che cosa suggerisci, allora?» Gli rispose Seth, disposto ad accettare qualsiasi idea. ((Almeno ci fosse anche Ares ... »

Il lupo lo fissò stupito: (<Conosci Ares? Chi sei?»

«Mi chiamo Rao, vivo in questi territori dalla notte dei tempi. E posso dirti che quelli laggiù sono una specie molto pericolosa. Li conosco bene.» Spiegò le ali sbattendole: uno stormo di pennuti neri sbucò dal bosco e atterrò accanto a loro.

Il capitano Urs si era appena ritirato nella tenda. Aveva freddo, fame e soprattutto era stufo marcio) Non vedeva l'ora d'incassare i denari e tornarsene nella sua Svizzera natale. Le piogge incessanti, il fango e il gelo, del tutto inabituale per il mese di marzo, erano riusciti a sfiancare la sua tempra di mercenario. Inoltre non ne poteva più dell'insubordinazione dei fanti: prima o poi quel malcontento sarebbe sfociato in risse e ammutinamenti. D'altro canto come dar loro torto? A parte qualche insulsa scaramuccia, vinta senza alcuno sforzo grazie al vantaggio numerico, non combattevano da decine di giorni, inoltre i viveri scarseggiavano. Anzi, erano a proprio a secco) Avevano depredato e cacciato, ma adesso non restava più niente.

Scalciò via i vestiti che si era appena sfilato: «Stefan, stendili vicino al fuoco.» Sbraitò al sottoposto, senza neppure sporgersi dal taglio nel telone che fungeva da ingresso. Il soldato entrò e raccolse gli abiti che puzzavano di marcio: «Piove, piove, piove ... Ma che cazzo di paese è questo?»

Urs gli fece cenno di andarsene. Aveva bisogno di riposarsi e riflettere.

Il borgo più vicino distava ancora parecchi giorni di marcia e non erano equipaggiati per affrontare un clima così rigido. D'altronde come avrebbe potuto prevederlo? Come poteva immaginarsi un tempaccio simile? Sembrava di essere in pieno inverno) Morire in battaglia era un rischio accettabile per un soldato ... ma crepare congelati! A quel punto però non potevano far altro che avanzare: dietro di loro non un paese, non una roccaforte, soltanto miglia e miglia di terre inospitali, senza anima viva, senza un riparo, senza selvaggina ... l'acqua invece non mancava! Non sarebbero di certo schiattati di sete! Prese a calci uno stivale: «Caz ... » Urlò tenendosi il piede coperto di vesciche.

Stefan fece capolino dai cortinaggi: <<Problemi?»

Urs non poté fare a meno di notare la malcelata ironia di quella domanda: sì, una caterva di rogne, avrebbe voluto rispondere, invece si accontentò di un «Portami da mangiare.» Si lasciò cadere su una sedia da campo pieghevole; il contatto delle natiche nude sul legno era sgradevole, ma più sopportabile dell'umidità che impregnava i cuscini. Un

tremito gli corse lungo la spina dorsale. Fece gli scongiuri, augurandosi di non avere la febbre, poi allungò i piedi verso il braciere.

Finalmente, Stefan entrò e gli porse una ciotola fumante. ((Che è?» Chiese, annusando la broda fangosa. <<Minestra di radici e caciotta.» E aggiunse sarcastico: «Poca.»

«Poca che?»

«Poca caciotta. Capitano, le vettovaglie ... »

Urs sospirò: «Lo so, ma non ti preoccupare. Ho un piano.»

L'altro fece un passo in avanti.

«Domani, noi graduati partiremo... in avanscoperta.» Sorrise, conscio che non sarebbero tornati indietro. Se la sarebbero svignata con i viveri rimasti. Pace e amen per gli altri: il fine giustifica i mezzi.

«Che vuoi dire?»

«Non t'immischiare.»

I corvi, dopo aver confabulato fra loro, avevano coperto il capriolo di rami e foglie cercando di mimetizzarlo.

«Dobbiamo avvisare Ares. I miei corax veglieranno su Arawan.» Rao balzellò qua e là sull'erba: «Se ci prendono, ci ammazzano tutti. Faremo la fine dei caprioli. Dobbiamo dare l'allarme. Non perdiamo altro tempo.» E spiccò il volo.

Il lupo diede un'ultima occhiata agli uccelli: enigmatici e imperturbabili nella loro livrea nera; salutò il capriolo e corse via.

Il cammino che portava al monte delle Crete rosse era deserto. Rao volava basso, sostando di tanto in tanto sulle cime degli alberi per aspettare il compagno appiedato.

Percorsero parecchie miglia, senza incontrare anima viva. A mano a mano che si addentravano nella foresta, la poca luce che riusciva a filtrare veniva assorbita dalla vegetazione. Era ormai sera quando Seth si piazzò su un promontorio e puntando il muso al cielo emise un lungo ululato.

La risposta non si fece attendere, decine di ululati si unirono al suo, rimbalzando nel buio.

Una lupa bianca, fu la prima ad avvicinarsi.

«Atka.» Sussurrò Seth, felice ma al contempo inquieto, mentre si leccavano il muso.

Poco dopo, arrivarono anche gli altri e per ultimo Ares, il capobranco.

«Che cosa hai visto?» Chiese interrompendo il cerimoniale dei saluti.

«È peggio di quanto temessimo.»

«La situazione è gravissima.»

Il lupo si guardò attorno incredulo, poi i suoi occhi ambrati scrutarono le foglie di un grosso ramo: «Rao? Tu, qui? Allora sei proprio l'uccello del malaugurio.»

Il corvo volò giù dalla cima di una roverella e con due virate strette si posò a terra: «Più di quattrocento uomini, armati e affamati. Hanno ucciso, depredato, incendiato ... »

Seth gli fece eco: «Tutto distrutto.»

I lupi si fissarono attoniti: in che modo avrebbero potuto contrastare quell'ondata di piena?

Ares sospirò prima di dar voce a ciò che tutti pensavano: «Dobbiamo metterci in salvo: non vogliamo la guerra. Saliremo sull'Amaro.»

«Moriremo di fame. Le cime sono ancora innevate.» Lo interruppe Atka, indicando i lupi più anziani.

«Se restiamo, moriremo per mano degli uomini.»

«Ma devasteranno tutto. Non ci sarà più vita in questa vallata.»

Rao gracchiò più volte per riportare la calma: «La natura non si è mai piegata di fronte agli uomini.»

Ci fu una certa agitazione fra i lupi, la sola idea di avvicinarsi a quegli esseri incuteva paura.

«Non possiamo sconfiggerli, sono in troppi.» Obiettò Seth

Il corvo si avvicinò: «Li faremo fuggire.»

«Che vuoi dire?» Ribadì incredulo.

«Che devono andarsene e noi li manderemo via.»

Ares si alzò di scatto: era il più maestoso del branco. Due lupi giovani indietreggiarono in segno di rispetto.

«Cioè?» Interrogò scettico.

Rao allungò il capo e, fissandolo di sbieco, sentenziò: «Terrorizzandoli. Gli uomini sono vigliacchi.»

«E poi?» «Poi, ci affideremo alla madre.»

La pioggia era cessata ma la temperatura era scesa ancora, e di molto. L'altopiano sembrava campo di battaglia. L'apparente ordine delle tende dei graduati, montate attorno a dei grossi falò per cercare di sfruttarne il calore, strideva col caos circostante. Una smisurata distesa di

corpi intirizziti e malconci accampati alla bene meglio. Tutto ciò che si poteva bruciare era stato sacrificato nel vano tentativo di riscaldarsi. Pochissimi fuochi ardevano ancora punteggiando quel bivacco fangoso.

Nonostante fosse notte fonda, Urs stentava a prendere sonno; per la prima volta nella sua carriera di uomo d'arme, aveva iniziato a considerare la possibilità di lasciarci la pelle. Non appena avesse iniziato ad albeggiare sarebbero partiti, con la speranza che i fanti non fiutassero l'inghippo troppo in fretta.

«Bisogna sapere quando battere in ritirata.» Borbottò fra sé, tanto per giustificare quella vigliaccheria. Un rumore, appena percettibile, l'insospettì: <<Stefan!» Tuonò alzandosi a fatica dal pagliericcio.

«È meglio se vieni.» Gli rispose l'altro da fuori.

Se il suo cervello non fosse stato così intirizzito, avrebbe capito subito. «Che cazzo succede?» Sbraitò, mentre cercava di infilarsi le braghe. Non fece nemmeno in tempo a sporgere la testa dalla tenda che una mazza, gli fracassò il cranio.

Poco prima dell'alba, il cielo nonostante la spessa coltre di nubi fulgeva lattiginoso.

«Vai a vedere!» Urlò Stefan al mozzo di stalla, innervosito dal continuo nitrire dei cavalli.

Il ragazzo, uno di Napoli arruolatosi più per pane che per vocazione militare, obbedì controvoglia.

I cavalli si trovavano in un piccolo recinto al limitare del bosco, ben distanti dai grandi falò dell'accampamento. Zigzagò veloce, cercando di evitare i tiratardi ancora ammucchiati a terra e i cadaveri. Alcuni uomini vagavano febbricitanti in preda alle allucinazioni: tra breve avrebbero tirato le cuoia senza nemmeno accorgersene. Il freddo era diventato insopportabile, attraversava i vestiti induriti dalla brina come stilettate. Anche respirare lacerava i polmoni, sembrava d'inghiottire aghi.

A circa venti metri dagli alberi si fermò atterrito: il recinto era vuoto! I cavalli erano fuggiti ma lui non aveva più forze. Una fitta al cuore lo fece stramazzare.

In quel preciso istante un coro agghiacciante squarciò l'aria.

«Lupi!» Urlò qualcuno in lontananza.

Chi poteva imbracciò le armi, pronto a vendere cara la pelle, molti invece non si mossero neppure: per loro, l'ultima ora era già arrivata durante la notte.

Gli ululati continuavano ad aumentare d'intensità risuonando in tutta la valle. In una babele di ordini e contrordini, i soldati si prepararono a smontare il campo in fretta e furia.

«Sono più di mille. Mille ... » Piagnucolava un alabardiere reso cieco dalla galaverna, troppo stremato per potersi alzare.

Stefan, che aveva assunto il comando, ordinò di suonare le chiarine per far avanzare l'esercito. I graduati intanto strillavano tassativi: chi non poteva marciare sarebbe stato abbandonato alla sorte.

I fanti s'incanalarono nel sentiero che tagliava il pianoro per il lungo. Cinque miglia, solo cinque lunghissime miglia, e in fondo il vallone che spaccava le montagne, dal quale dovevano passare.

L'aria diventava sempre più densa, dissolvendo i contorni del paesaggio circostante. All'improvviso, l'ululato dei lupi cessò: i soldati si fermarono sbigottiti. Dal nulla, squarciando la coltre di nubi, appari una gigantesca chiazza color pece. Alcuni brandirono i falcioni, altri i mazzafrusti, i più si segnarono votandosi ai pochi santi di cui ricordavano ancora il nome. Rimasero tutti in silenzio, sospesi a quello strano fenomeno che avanzava veloce verso di loro.

«Oddio, il giorno del giudizio.» Mormorò un vivandiere, con le dita tremanti cercò di toccare la croce che portava al collo.

Mentre il cielo si oscurava, un borbottio profondo e spaventoso ruzzolava giù come una frana.

«Ma,» esclamò Stefan incredulo, gli occhi fissi in alto, «sono ... »

Rao fu il primo a calare in picchiata, il suo becco affilato si conficcò nell'occhio del graduato. Il suo urlo disperato fu coperto dal gracidio infuriato dei corvi. I fanti iniziarono a correre all'impazzata, cercando di proteggersi dalla gragnuola di pugnalate che gli piombava addosso. Centinaia di volatili li attaccavano senza tregua, senza lasciargli il tempo di organizzare la difesa.

Dopo quarantacinque minuti l'altopiano era diventato un girone infernale.

Com'erano arrivati i corvi se ne andarono, lasciandosi dietro più di cento morti e altrettanti feriti. Nessun graduato era sopravvissuto e i fanti vagavano allo sbando non sapendo dove andare.

Iniziò a nevicare, dapprima qualche grosso fiocco leggero poi sempre di più. La nebbia aveva avvolto ogni forma rendendola invisibile. Di punto in bianco si alzò la Strina con le sue folate cariche di ghiaccio. I pochi superstiti si trovavano a metà strada, ma erano allo stremo. Confusi,

disorientati, cadevano uno dopo l'altro, sfiancati dall'algore. Chi non ce la faceva a rialzarsi sprofondava nel sonno della morte per congelamento. La temperatura continuava a scendere a picco non lasciando scampo a nessuno. Ben presto anche gli ultimi fanti si arresero. Si rannicchiarono uno contro l'altro, cercando invano di ripararsi a vicenda.

Quando il vivandiere si accorse di essere rimasto solo, capì che era giunta la sua resa dei conti. Il torpore che lo aveva assalito gli impediva di muoversi, non sentiva più nulla, aveva soltanto voglia di addormentarsi.

« ... dies tribulationis et angustiae. » però c'era quel brusio, quella nenia portata dal vento.

Non riusciva a capire da dove venisse, ma non aveva importanza. • ... dies calamitatis et miseriae. »

S'inginocchiò esausto.

Prima di morire, gli sarebbe piaciuto ricordare qualcosa di bello, una sola cosa ... ma per quanto si sforzasse, dalla memoria riaffioravano soltanto odio, distruzione, violenza. • ... dies tenebrarum et caliginis. »

Perché? Qual era stato il motivo di tutto quel male? • ... dies tubae et clangoris.»

Ci doveva essere un perché. Eppure non se lo ricordava o forse non l'aveva mai saputo. • ... dies nebulae et turbinis.»

Quale fosse il senso di quella vita ... della sua vita, non se l'era mai chiesto.

Mentre le tenebre gli inghiottivano l'anima, pensò che in fondo se l'erano meritato ...

<<Dies irae .. . »

Postfazione: Questo racconto è solo fantasia: né i corvi né i lupi sono pericolosi per l'essere umano. Sono animali selvatici e come tali vanno trattati e rispettati. Entrambi purtroppo hanno sofferto (e soffrono tuttora) della cattiva fama che l'uomo gli ha ingiustamente affibbiato. Niente di più sbagliato! Il corvo imperiale (Corvus corax) e il lupo (Canis lupus) sono animali intelligentissimi, con una capacità d'adattamento straordinaria. Socievoli e altruisti, vivono in gruppo ma sono monogami a vita. Anche loro sono tasselli indispensabili dell'ecosistema e hanno il diritto di vivere come qualunque altra specie, a prescindere dal giudizio dell'uomo.

This article is from: