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L’Alligatore - La Rivista degli studenti di giurisprudenza della Statale di Milano (Anno 7 Numero 1)

Anno 7 Numero 1


In questo numero i redattori de L’Alligatore hanno spaziato in ambiti particolarmente eterogenei: dall’analisi della Carta di Milano, il manifesto su nutrizione e cibo di Expo 2015, si passa al vaglio della giurisprudenza comunitaria in tema di “turismo sociale”, per poi tornare sul piano nazionale nell’analisi dell’imposizione sui redditi delle famiglie italiane e dei nuovi voucher introdotti per far fronte al lavoro nero. Si sono inquadrati temi controversi come il know-how e il concetto di “tempo libero”, per poi tornare su argomenti più canonici come quello dell’abolitio criminis nell’ambito del reato di associazione a delinquere. Il numero si chiude con una disamina dall’interesse particolarmente attuale, sulle class actions che negli Stati Uniti sono state avviate nell’ambito del Dieselgate di Volkswagen.

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L’Alligatore - La Rivista degli studenti di giurisprudenza della Statale di Milano (Anno 7 Numero 1)

L’Alligatore è una rivista di approfondimento giuridico dei fatti d’attualità politica, economica e giudiziaria, gestita dagli studenti con la collaborazione di professori, ricercatori e dottorandi. L’intento della rivista è quello di dar vita ad un dibattito critico e ben argomentato all’interno della nostra Università, ispirandosi al modello anglosassone delle student legal review, fondate sull‘interazione tra studenti e professori. Il progetto si è recentemente arricchito, muovendosi su nuove direzioni volte a farne un aggregatore di qualità, a partire dal progetto radiofonico di Legality su Radio Statale, volto ad analizzare con un diverso formato la realtà politica e giuridica, fino ai cicli di conferenze organizzate con l’obiettivo di studiare scientificamente e in profondità il fenomeno criminale, passando infine per il profondo restyling che ha interessato la rivista.


REDAZIONE direttore vicedirettore caporedattori redazione

collaboratori revisione a cura di

Niccolò Scremin Francesco Bertolino Giulia Pirola • Giacomo Dalla Valentina Paolo Petralia Camassa • Adriana Spina • Valentina Todeschini • Roberta Zappalà • Caterina Paone • Ferdinando Vella Dario Valoncini • Filippo Fiore • Fabio Maggio • Clara Pirchio • Silvia Rossi Prof.ssa Di Pascale • Prof. Ludovico • Prof. Albertini • Prof. Maniaci • Prof. Basile

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regime Rivista iscritta presso il Tribunale di Milano con registrazione n.34 del 07.02.2014 Tale pubblicazione è stata realizzata con il contributo dell’Università derivante dai fondi per le attività culturali e sociali. L’Alligatore


INDICE

anno settimo, numero primo FOOD LAW

DIRITTO DEL LAVORO

03

La Carta di Milano: l’insostenibile leggerezza di un manifesto

Francesco Cazzini

DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA

DIRITTO PENALE

15

Il welfare tourism nuovamente al vaglio della giurisprudenza europea: il caso Alimanovic

Giacomo Dalla Valentina

DIRITTO TRIBUTARIO

23 Clara Pirchio

L’imposizione sui redditi delle famiglie italiane

47

L’abolitio criminis del reatoscopo nell’associazione a delinquere: qualche breve cenno

Filippo Fiore

DIRITTO PRIVATO

56

Il tempo libero: diritto “immaginario” o allucinazione dei giudici?

Giulia Pirola

DIRITTO DELLA PROPRIETÀ INTELLETTUALE

30

41 Caterina Paone

Voucher e lavoro nero: qual è il vero nemico?

DIRITTO COMMERCIALE

Know-how: fenomenologia di un bene immateriale e della sua tutela

60

Dieselgate: indagine sulle class action negli Stati Uniti e il caso europeo

Dario Valoncini

Fabio Maggio 2

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food law

La Carta di Milano: l’insostenibile leggerezza di un manifesto di

Francesco Cazzini

Introduzione

I

n occasione di Expo 2015, in vista di un dibattito su alcuni nodi cruciali delle politiche alimentari globali, è stata presentata la Carta di Milano, documento che elenca principi e obiettivi riguardo al tema della nutrizione, della sostenibilità e dei diritti umani. Si tratta di uno strumento di guida al dibattito ed è considerata come la dichiarazione conclusiva dell’Esposizione Universale, consegnata al Segretario Generale dell’ONU Ban Ki-moon quale atto di indirizzo in-

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ternazionale. La Carta di Milano si presenta come un documento di impegno collettivo rispetto alle principali sfide che la società contemporanea dovrà affrontare riguardo al cibo. Food security1, spreco alimentare2 e utilizzo 1 Secondo i dati FAO 2015 quasi 800 milioni di persone soffrono di fame cronica, più di 2 miliardi sono malnutrite o comunque soffrono di carenze di vitamine e minerali e 160 milioni di bambini sono affetti da malnutrizione e crescita ritardata. 2 FAO, Global Food Losses and Food Waste, 2011. Circa un terzo del cibo prodotto globalmente viene perso o sprecato, per un ammontare annuo di 1.3 miliardi di tonnellate.

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sostenibile del suolo, delle acque e delle varie fonti energetiche sono i temi centrali di questo manifesto programmatico. La rivendicazione principale riguarda il diritto ad un cibo sano, sufficiente e nutriente, considerato come uno dei diritti umani fondamentali. Le analisi, le riflessioni e gli impegni nascenti, sono il frutto di un processo inclusivo e partecipativo che ha coinvolto organi istituzionali, politici e soprattutto la società civile. Si tratta dunque di un manifesto collegiale di sensibilizzazione e di assunzione di responsabilità sul diritto al cibo e sulle questioni ad esso interconnesse. Un protocollo concreto e attuabile, che esplora il tema di Expo Milano 2015 -Nutrire il pianeta, energia per la vita- e vuole costituirne l’eredità immateriale. La Carta, oltre che strumento di legacy, è espressione della proposta italiana sul problema di come sfamare un numero sempre crescente di persone senza compromettere l’ambiente, le risorse naturali e la dimensione culturale tipica di ogni società. La cornice ideale e programmatica nella quale si inserisce la Carta comprende -oltre al sopra menzionato tema dell’Esposizione Universale- i contributi offerti dall’Human Development Report 3, gli obiettivi 3 Human Development Report 2011: Sustainability and Equity – A better future for All. In questo rapporto sono presenti diversi

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promossi dall’Agenda 2030 for Sustainable Development4 e le opportunità offerte dall’anno europeo per lo sviluppo, dedicato all’azione esterna dell’Unione Europea, impegnata ad eliminare la povertà a livello mondiale. Il percorso che ha portato alla Carta è iniziato nel febbraio 2015, con “L’Expo delle Idee”, riunendo cinquecento esperti presso l’Hangar Bicocca, ponendo le basi per la stesura. La seconda e terza tappa, rispettivamente a Firenze e Pompei, hanno ospitato un continuo confronto che è culminato con la presentazione ufficiale del documento il 28 Aprile presso l’Università degli Studi di Milano. Gli argomenti affrontati sono molteplici e strettamente correlati. Centrale è il diritto/ accesso al cibo, alle risorse e alle energie, in modo equo ed efficiente. La gestione sostenibile dei processi produttivi e le scelte consapevoli dei consumatori rappresentano due lati della stessa medaglia. Il mosaico dei temi esaminati comprende lo spreco alimentare, la biodiversità, il valospunti per il dialogo globale promossi in vista della Conferenza ONU sullo sviluppo sostenibile tenutasi nel giugno 2012 a Rio de Janeiro. Rispetto al cibo sono stati affrontati il problema dei prezzi, della produzione, del consumo e della food security. 4 Presentata e adottata dalle Nazioni Unite tra il 25 e il 27 settembre 2015 a New York, comporta la sostituzione degli Obiettivi del Millennio con i 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. Il secondo riguarda direttamente la food security, ma sono svariati quelli connessi al cibo.

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re sociale e culturale del cibo, il ruolo delle donne e l’educazione alimentare, tutti quanti presentati sul tavolo della riflessione, della consapevolezza e dell’impegno. L’analisi si svilupperà su due dei temi principali, il diritto al cibo e lo spreco alimentare. Verrà presentato prima un quadro generale sul right to food cui seguirà un esame su come sia affrontato l’argomento nella Carta. In seguito, fornito un background e una panoramica del dibattito sullo spreco alimentare in sede europea, presentando anche le proposte di Italia e Francia, si cercherà di capire l’approccio fatto proprio dalla Carta.

Right to food: origine, sviluppi, problematiche e prospettive Nell’ambito della congiuntura globale apertasi in seguito alla fine della seconda guerra mondiale, il right to food compare per la prima volta nell’ordinamento internazionale in una dimensione principalmente economica. Considerato come un diritto legato alla carenza di risorse alimentari e, come tale, tutelabile solo attraverso un aumento della produzione o in virtù di aiuti economici solidaristici. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 5

1948, con l’art. 255, sancisce il primo, seppur embrionale, riconoscimento di tale diritto, visto come necessariamente connesso con il diritto alla salute. L’elaborazione successiva, contenuta nell’art. 116 dell’International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights, dimostra un’analisi più puntuale e un riferimento più esplicito alla questione. Rispetto al contenuto prescrittivo ivi presente, l’opportunità di un’ulteriore e più completa definizione materiale del diritto al cibo è stata colta dal Comitato di controllo del Covenant7 stesso. Questo riconosce come il diritto al cibo sia indissolubilmente legato alla dignità della persona e come la sua realizzazione sia fondamentale per il godimento di tutti gli altri diritti umani. Sottolinea inoltre che esso è profondamente collegato al concetto di giustizia sociale, e per questo necessita l’adozione di politiche, a livello nazionale e internazionale, ri5 Esso riconosce il diritto di ogni individuo ad avere un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, limitandosi a richiamare a tale riguardo anche l’alimentazione. 6 In tale articolo è possibile cogliere l’affermazione di due diritti distinti. Da un lato il diritto al cibo correlato allo standard di vita, dall’altro il diritto alla libertà dalla fame, considerato come diritto fondamentale ed elaborato con un approccio tipico degli Human Rights. 7 General Comment No. 12: The Right to Adequate Food (Art. 11 of the Covenant), 12 maggio 1999.

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volte all’eradicazione delle poverto, e allo stesso tempo prevedere tà. Fondamentale è l’adozione di soggetti deputati al controllo e un’ampia nozione di ‘cibo adeguato’ attuazione dello stesso. Il terzo com-cioè sufficiente in quantità, sano e porta l’obbligo statale di prendere rispettoso di principi culturali e reli- provvedimenti concreti, soprattutto giosi- capace dunper le classi sociaIl diritto al cibo que di rispondere li più vulnerabili, è il diritto a un e mettere in opera ai bisogni di tutti. Strettamente correpolitiche indirizaccesso regolare, lati sono i concetti zate ad assicurare di disponibilità e l’accesso ad un’apermanente accessibilità (sia limentazione adee illimitato, in senso fisico che guata favorendo la economico) che capacità del singoa un cibo accedono al right lo di provvedere ai quantitativamente to food. L’adeguapropri bisogni alitezza è significati- e qualitativamente mentari. vamente connessa In linea con le insufficiente anche alla sostedicazioni interprenibilità, poiché tative del Comitato l’accesso alle risorse alimentari deve di controllo del Covenant, lo Special preservare le possibilità di nutrirsi Rapporteur sul diritto al cibo9 ha per le generazioni future8. A partire proposto una sua definizione della da questa impostazione gli Stati sono fattispecie in esame. “Il diritto al tenuti a rispettare tre tipi di obblighi: cibo è il diritto ad un accesso regolarispettare, proteggere e implementa- re, permanente ed illimitato, diretto re il diritto all’alimentazione. Il pri- o sostenuto finanziariamente, ad un mo è un tipo di obbligazione negativa cibo quantitativamente e qualitativache consiste nell’astenersi da tutte le 9 Il mandato di questo esperto indiazioni che possano ostacolare l’eser- pendente sul right to food e stato stabilito in cizio del diritto. Il secondo implica ambito ONU dalla Commissione sui Diritti che lo Stato sia tenuto a promulgare Umani con la risoluzione 2000/10. Il ruolo leggi che impediscano a privati o ad dello Special Rapporteur è molto ampio, il suo compito è quello di promuovere la piena altri organismi di violare tale dirit- realizzazione del diritto all’alimentazione a li8 Questo seguendo la definizione prevalente di sostenibilià (o più correttamente di sviluppo sostenibile) che iniziò a delinearsi in seguito al Brundtland Report - Our Common Future rilasciato nel 1987 dalla World Commission on Environment and Development.

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vello globale, potendo intervenire sia in campo internazionale che regionale e nazionale. Le sue analisi mirano a individuare i maggiori ostacoli alla compiuta realizzazione del diritto e a fornire rapporti e raccomandazioni per indicare i possibili steps da seguire.

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mente adeguato e sufficiente, nel rispetto delle tradizioni culturali del consumatore, e tale da assicurare una condizione di benessere fisico e mentale, sia individuale che collettiva, ed una vita dignitosa”10. Alla luce dei principali interventi sul tema, come riportati in precedenza, si può comprendere come le questioni attinenti al right to food siano svariate e complesse. Innanzitutto la difficile definizione del contenuto materiale e della natura giuridica del diritto stesso. Ricollegandosi proprio a quest’ultimo aspetto risulta determinante stabilire il bilanciamento con altri diritti, sia con quelli definiti fondamentali, sia con i diritti di seconda e terza generazione, e in particolar modo quelli a matrice prettamente economica. Il tema che è maggiormente al centro del dibattito attuale è quello inerente alla giustiziabilità (esigibilità) del diritto al cibo. Le ipotesi di violazione di tale diritto in termini di accesso diretto al prodotto alimentare e dunque l’esigenza di prevedere a carico delle autorità di governo dello Stato una vera e propria responsabilità hanno sollecitato l’attuale Special Rapporteur Hilal Elver. La sua attività ha visto come prioritaria l’individuazione delle criticità conseguenti la violazione del diritto al cibo nella disciplina giuridica internazionale e nei sistemi legislativi nazionali,

con il fine ultimo di identificare buone pratiche utili per lo sviluppo di strumenti e mezzi giudiziali. Quanto esposto illustra i tentativi di costruire, attorno a una dimensione essenziale del diritto, un embrione di governance mondiale efficace. Nello sforzo di individuare una soglia irrinunciabile di tutela dei diritti, particolare rilevanza è data al ruolo delle ONG e di altri membri della società civile, come possibili protagonisti di garanzia per l’effettività del right to food.

10 Report of the Special Rapporteur on the right to food, Jean Ziegler.

11 Si veda tra i vari KNEEN, The Tyranny of Rights, Ottawa 2009.

Partendo dalle disposizioni dell’International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights è possibile individuare un fil rouge nell’approccio al diritto al cibo, approccio che potrebbe rivelarsi vincente nelle sfide del futuro. Dalla lettera del testo sopracitato diversi autori11 hanno ritenuto che tali disposizioni siano in linea con gli ideali universalistici di stampo illuministico, ipotesi confermata dai vari rimandi alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, che ne costituisce l’origine ideale e programmatica. Tuttavia è importante rimarcare come l’avvio alla piena valorizzazione di queste disposizioni, per l’elaborazione del più moderno right to food, sia avvenuto con tempi lunghi, nei primi anni della globalizzazione economica. Le prime riflessioni portarono alla con-

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sapevolezza che la presenza della fame nel mondo non dipendeva, come in passato, dalla mancanza in assoluto di cibo, ma da complesse situazioni sociali, quali la carenza di diritti individuali e la mancanza di controllo nelle scelte da parte della collettività. Tutto ciò sia rispetto alle modalità produttive, che nella scelta delle colture e nella destinazione finale delle merci. Nel giro di pochi decenni si è così giunti ad una complessa situazione giuridica soggettiva, rilevante a livello individuale e collettivo, tanto nei confronti dello Stato, quanto verso altri soggetti privati. Questo è stato reso possibile grazie all’elaborazione del diritto al cibo con un approccio definito human-rights based. Approccio tra l’altro condiviso e favorito dalla FAO. I vantaggi che ne derivano sono: il poter enfatizzare l’aspetto di interdipendenza e indivisibilità dei diritti umani; la rilevanza data agli Stati e agli altri stakeholders rispetto all’esigibilità, la forte dimensione pubblicistica12. La valenza specificatamente umana del diritto al cibo ha potuto evidenziare tanto il suo innegabile legame con il principio democratico dell’autodeterminazione, quanto la sua correlazione con gli altri diritti fondamentali. È maturato il tempo per vedere al 12 Gli elementi principali che caratterizzano questo approccio sono: la partecipazione; la responsabilità; la non discriminazione; la trasparenza; la dignità umana; la rule of law.

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centro della riflessione non tanto il consumatore di cibo ma il cittadino, in una food democracy fatta di dimensione individuale e collettiva, di universalità e territorialità.

Il diritto al cibo nella Carta di Milano Per quanta riguarda il contenuto e la natura del diritto al cibo, sorprende il mancato riferimento agli atti internazionali fondamentali che hanno contribuito alla definizione di tale nozione. Questo nonostante sia prassi affermata nei vari strumenti di soft law richiamarsi ai principali accordi internazionali precedenti, come per esempio nelle Linee guida sul diritto all’alimentazione della FAO13, in quanto essi rappresentano un importante punto di partenza e di condivisione per poter poi proseguire nell’elaborazione del diritto stesso. Nella Carta il right to food viene definito come ‘diritto umano fondamentale’, e ‘il mancato accesso al cibo’ viene considerato ‘una violazione della dignità umana’. A più riprese è ribadita l’importanza ‘dell’accesso uguale ed equo ad un cibo sano, sicuro, sufficiente in quantità e nutriente, 13 Voluntary Guidelines to support the Progressive Realization of the Right to Adequate Food in the Context of National Food Security, adottate dal Consiglio della FAO nel 2004. Esse sono basate sulla definizione di diritto al cibo fornita dal General Comment No. 12, che diventa, in tal modo, base comune accettata dalla comunità internazionale.

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in grado di soddisfare tutti e che permetta una vita attiva’. Viene ribadito inoltre il suo ‘valore sociale e culturale’. Già da una prima analisi, alla luce dell’iter descritto nel paragrafo precedente, è possibile comprendere come sul piano della definizione del contenuto poco o nulla sia stato fatto. Oltre a non riprendere tutti gli elementi che si sono affermati nell’elaborazione del right to food, non vi è stato alcun tentativo di esplorazione e analisi delle tematiche più attuali quali l’esigibilità/giustiziabilità. A mio avviso è in questo senso che si devono muovere le maggiori critiche alla Carta. Non tanto il fatto che non vi siano quantificazioni o priorità espresse, non trattandosi né di un protocollo intergovernativo né di un’agenda di policies, ma di un “documento di cittadinanza globale”. Proprio per tale ragione, essendo strumento non vincolante ma di indirizzamento al dibattito, era auspicabile aspettarsi scelte più creative e coraggiose e più improntate alle problematiche del futuro. Altro aspetto problematico si rinviene nella presenza contemporanea di una rivendicazione alla sovranità alimentare e al contempo di uno sviluppo di un sistema di commercio internazionale aperto. Senza doverose precisazioni, la convivenza di entrambi i sistemi risulta quantomeno poco praticabile; la sovranità alimentare14 propo14 La definizione di sovranità alimentare più comunemente accettata è quella risul-

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ne uno smantellamento dell’attuale regime commerciale alimentare, riconoscendo priorità a economie e mercati locali e nazionali, decisamente in antitesi ad un sistema liberale improntato al libero scambio. Da valutare positivamente la volontà di includere nel processo di affermazione del diritto al cibo una vasta platea di soggetti, dai cittadini, ai membri della società civile, dalle imprese ai governi, istituzioni e organizzazioni internazionali. A tal proposito una maggior definizione dei ruoli e dei poteri di ciascun soggetto e una conseguente chiarificazione sulle responsabilità che gravano su ciascuno di essi avrebbe permesso di compiere un passo avanti nell’affermazione del right to food.

Spreco alimentare: background, quadro europeo e due proposte sul tema La questione degli sprechi alimentari è attualmente al centro di un intenso dibattito a livello internazionale ed europeo, ed è parte intante dal Forum di Nyéléni, Mali (2007) ‘La Sovranità alimentare è il diritto dei popoli a un cibo salubre, culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi sostenibili ed ecologici, in forza del loro diritto a definire i propri sistemi agricoli e alimentari. Pone le aspirazioni e i bisogni di coloro che producono, distribuiscono e consumano alimenti al cuore del sistema e delle politiche alimentari..’

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tegrante dell’agenda politica in diversi paesi dell’Unione. Organizzazioni internazionali quali FAO, UNEP (United Nations Environment Programme) e WRI (World Resource Institute) hanno lanciato negli ultimi anni iniziative di grande portata sul tema, contribuendo a sollevare l’attenzione sulla necessità e l’urgenza di definire un quadro normativo comune per l’elaborazione di politiche efficaci. I report più recenti, pubblicati dalla stessa FAO15, sugli impatti socio-ambientali ed economici dello spreco alimentare a livello globale, confermano il ruolo di primo piano della lotta a questo fenomeno nel quadro delle politiche sulla sostenibilità delle filiere produttive, sull’efficienza nell’uso delle risorse naturali e sulla food security. Negli studi sul tema vengono presi in considerazione aspetti inediti come i conflitti legati al controllo delle risorse naturali, la progressiva modifica dei regimi alimentari in molti paesi verso diete a maggior consumo di prodotti di origine animale, l’erosione dei suoli e l’inquinamento causato dall’utilizzo di sostanze chimiche in agricoltura. Tutte questioni connesse allo spreco di cibo, che dimostrano l’interrelazione dei diversi problemi e il bisogno di adottare politiche ad ampio respiro. L’Unione Europea, pur non essendosi 15 Tra essi il più importante consultabile in: http://www.fao.org/docrep/018/i3347e/ i3347e.pdf.

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ancora dotata di un quadro di riferimento comune sulla prevenzione degli sprechi alimentari, ha espresso a livello istituzionale la volontà di sviluppare una politica condivisa sul tema. Uno dei primi passi in tal senso è stato fatto con la Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse16, che invitava gli Stati membri ad affrontare il problema all’interno dei piani nazionali di prevenzione dei rifiuti. Da allora il tema del contrasto agli sprechi alimentari è stato ripreso e ri-attualizzato in diversi strumenti di politica comunitaria: dalla Risoluzione del Parlamento Europeo del 19 gennaio 201217, incentrata sulle strategie per migliorare l’efficienza della catena alimentare, al progetto di ricerca europeo FUSIONS18. All’inter16 COM(2011) 571. 17 In essa il Parlamento Europeo chiedeva alla Commissione di avviare azioni concrete volte a dimezzare il “food waste” entro il 2025. La risoluzione faceva però presente che la questione andrebbe affrontata nel contesto più ampio delle strategie per il miglioramento dell’efficienza nell’uso delle risorse naturali, uno dei sette pilastri portanti della strategia “Europa 2020”. 18 “FUSIONS Definitional Framework for Food Waste”, pubblicato il 3 luglio 2014. Sorprendentemente la definizione di spreco proposta dal progetto FUSIONS si discosta in maniera sostanziale dalla definizione proposta dalla FAO - questa ‘comprende qualsiasi sostanza sana e commestibile che, invece di essere destinata al consumo umano, viene sprecata, persa, degradata o consumata da parassiti in ogni fase della filiera agroalimentare’ - e si avvicina molto a quella di “rifiuto alimentare”.

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no del pacchetto ‘circular economy’ si possono collocare le comunicazioni 397/2014 e 398/2014, importante la prima per il tentativo di dare un’ampia definizione di spreco alimentare, la seconda perché incentrata su diverse fasi, dalla filiera produttiva, alla ristorazione al consumo domestico. La prospettiva, e al tempo stesso la sfida, che comprende anche il dibattito attualmente in corso sulla modifica della direttiva europea sui rifiuti19, è che a livello

diverso approccio, e con tempi di riuscita probabilmente differenti, affrontano la questione dello spreco alimentare. Nel nostro paese è di stretta attualità la proposta di legge ‘Norme per la limitazione degli sprechi, l’uso consapevole delle risorse e la sostenibilità ambientale’20, strumento normativo che ha lo scopo di promuovere modelli di consumo alternativi capaci di limitare gli sprechi e l’utilizzo delle risorse ed incentivare la ridistribuzione di

europeo ci si doti al più presto di una strategia complessiva sugli sprechi alimentari in cui, a partire da una definizione condivisa di “food waste” e di metodologie uniformi di quantificazione, siano chiaramente indicate le azioni da intraprendere, i target da raggiungere e le modalità di monitoraggio nel tempo dei risultati conseguiti. Nel panorama europeo sono da segnalare due recenti proposte, da parte di Italia e Francia, che con

prodotti, anche alimentari, invenduti e non utilizzati, per fini di solidarietà sociale. Il testo nello specifico prevede un quadro di riferimento normativo che regola le donazioni

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Direttiva 2008/98/CE.

20 Proposta di legge C. 3057, presentata il 17 aprile 2015. Il provvedimento è stato presentato dai deputati Pd Maria Chiara Gadda (relatore) e Massimo Fiorio, che seguiranno direttamente l’iter del testo nella Commissione competente Affari Sociali. Visto il carattere partecipativo della proposta sono previste diverse audizioni coinvolgenti diverse realtà sociali.

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degli alimenti invenduti e di altre tipologie di prodotti con misure di semplificazione, armonizzazione ed incentivazione. La proposta di legge intende infatti colmare alcune lacune ed inadeguatezze del nostro ordinamento: dalla definizione di un nuovo quadro regolamentare chiaro ed omogeneo in materia igienico-sanitaria, all’introduzione di procedure standardizzate, allo snellimento burocratico penalizzato oggi da troppi adempimenti di natura fiscale e alla definizione di incentivi mirati per i soggetti donatori. Il provvedimento raccoglie indicazioni, sollecitazioni e proposte provenienti dal mondo del volontariato, dagli enti locali virtuosi che su questo tema hanno attivato buone pratiche sul territorio, dalla grande distribuzione sensibile ai progetti di donazione delle eccedenze e dalle imprese che fanno dell’innovazione un vantaggio competitivo. Ha suscitato diverso clamore e interesse la proposta di legge francese21 che istituisce il reato di spreco alimentare, prevedendo il divieto di smaltire l’invenduto prima della data di scadenza. Dal momento che si tratta di una consuetudine diffusa purtroppo soprattutto nella grande

distribuzione, la norma penale trova applicazione nei confronti dei supermercati con più di 400 metri quadrati di superficie. Severe le pene istituite, fino a due anni di carcere e 75.000 euro di multa per chi continua a sprecare le eccedenze alimentari. È inoltre previsto un piano di educazione alimentare che parte dalle scuole primarie. Tra gli aspetti più innovativi è da evidenziare che, oltre ad essere donato a poveri e a senzatetto, il cibo recuperato sarà utilizzato per la produzione di mangimi animali e di compost agricoli. Un’altra rilevante peculiarità consiste nella non obbligatorietà della data di scadenza, almeno sulle derrate a lunga conservazione, quali pasta, zucchero, riso e conserve. L’indicazione “da consumarsi preferibilmente entro il” che in Francia viene chiamata DLUO (date limite d’utilisation optimale), segnalava il limite entro il quale il prodotto mantiene le sue caratteristiche ottimali. Questa segnalazione non va comunque confusa con un’altra, quella della DLC (date limite de consommation), ovvero il limite per consumare gli alimenti freschi quali latticini, carni e pesci, la cui obbligatorietà resta sancita per legge.

21 Per quanto riguarda l’iter legislativo, la proposta ha incontrato censure soprattutto di tipo procedurale, con l’intervento del Conseil constitutionnel, con la decisione n° 2015-718 DC (partiellement conforme), il cui esito finale è sfociato nella Loi n° 2015-992 del 17 agosto 2015.

Lo spreco alimentare nella carta di Milano

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Il tema dello spreco alimentare nella Carta viene presentato in termini di paradosso, cioè nella contempora-

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nea presenza di 1.3 miliardi di tonnellate di cibo che ogni anno vengono gettati o persi nella filiera, e di quasi 800 milioni di persone che soffrono la fame. L’utilizzo di questi numeri ha lo scopo di sensibilizzare e far comprendere la dimensione del problema, e del resto tra gli obiettivi della Carta vi è sicuramente quello di creare dibattito e raggiungere consapevolezza. Gli spunti offerti dal testo derivano da una visione che affronta il problema dello spreco nel duplice binario della produzione, in tutte le fasi della filiera, e della conservazione e consumazione finale del prodotto alimentare. Sono temi centrali, la cui importanza è ribadita in diversi punti, la donazione degli alimenti invenduti o comunque in eccesso e il risparmio idrico in ambito industriale e domestico. L’approccio complessivo al problema è da considerarsi tendenzialmente positivo, anche alla luce del fatto che si tratta di un fenomeno su cui ci si è concentrati solo di recente, poiché sono stati messi in risalto la maggior parte degli elementi salienti ed è stata compresa la necessità di un’analisi che segue il prodotto alimentare in tutte le sue fasi. Tuttavia si possono rilevare alcune criticità, come si è avuto modo di vedere in riferimento al right to food, non è stato fatto alcuno tentativo di definire in cosa consista lo spreco alimentare; questo è tuttavia un passaggio indispensabile, e il dibattito in sede europea lo 13

conferma, per la previsione di un quadro di riferimento organico per le politiche di prevenzione. Sarebbe stato utile un maggior approfondimento della fase che coinvolge direttamente il consumatore - visto il continuo richiamo nella Carta alla partecipazione dei cittadini e considerato che gli sprechi maggiori sono quelli domestici – proponendo misure nel campo dell’etichettatura, seguendo magari l’esempio della proposta francese. Tra i vari temi al centro della Carta quello dello spreco alimentare è forse uno di quelli che più può beneficiare dell’intervento e della partecipazione della società civile nella ricerca di soluzioni al problema. Questa impostazione è quindi da accogliere positivamente, tuttavia, una generica invocazione all’impegno, pur mettendo in risalto la tematica, non fornisce alcuno strumento ulteriore per affrontare la questione.

Conclusioni Da uno sguardo complessivo al testo della Carta di Milano emerge come sia stato adottato un approccio sistemico verso l’insieme dei temi presenti in questo manifesto di impegno collettivo, che seppur necessario per affrontare i diversi problemi del diritto del cibo, ha prodotto un documento fatto di enunciati che declinano in termini generici le riflessioni e le proposte sulle questioni affrontate

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con analisi poco approfondite e scelte poco coraggiose. Poco coraggio è strato dimostrato in sede di definizione di alcune nozioni, nel non aver nemmeno accennato a un tema tanto attuale quanto spinoso come quello degli OGM, così come quelli del land grabbing e delle commodities agricole, dimostrando oltretutto cecità in ambiti che avranno un grande impatto sul futuro dell’alimentazione. In questo quadro di generale criticità l’elemento positivo è da cogliersi nel ruolo di primaria importanza attributo alla società civile in fase di elaborazione del documento, con contributi provenienti da ambiti eterogenei in grado di fornire sguardi diversi ma sempre attenti su tematiche che li coinvolgono da vicino, confermando un trend di grande attualità nel diritto internazionale e in particolar modo negli strumenti di soft law quali la Carta. Vista la centralità del diritto al cibo in questo manifesto, era lecito aspettarsi almeno in questo senso uno sforzo maggiore. La promozione e la protezione del diritto al cibo assume oggi un rilievo centrale non soltanto se viene letta nella dimensione astratta ed in relazione alla necessità di riaffermare la titolarità collettiva del diritto di accesso al prodotto alimentare, ma anche in una accezione ampia e complessa, infatti un peso maggiore assume so14

prattutto la componente dinamica e concreta di tale fattispecie. La Carta di Milano, vista la collocazione temporale dell’Esposizione Universale nel 2015, in concomitanza con la definizione della nuova Agenda per lo Sviluppo, avrebbe ben potuto costituire un esercizio preliminare dal quale poteva prendere avvio, nell’ambito delle Nazioni Unite -anche con il contributo dello Special Rapporteur- il processo teso alla piena giustiziabilità del diritto al cibo. È per tali ragioni che la consegna ufficiale al Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon della Carta di Milano, avvenuta ad Expo il 16 ottobre in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2015 e del 70° anniversario della FAO, ha rappresentato più che altro uno sfoggio di forma che testimonia la perdita di una grande occasione nel percorso di affermazione del right to food.

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diritto dell’unione europea

Il welfare tourism nuovamente al vaglio della giurisprudenza europea: il caso Alimanovic di

Giacomo Dalla Valentina

Premesse

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on sentenza del 15 settembre di questo anno, la Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea ha statuito in merito a un tema ormai caro alla giurisprudenza comunitaria e che lo stesso Avvocato Generale Wathelet, preposto alla causa, non ha esitato a definire “un problema sensibile in termini umani e legali”. Si tratta della questione del c.d. turismo sociale, intorno alla quale in questi ultimi anni la giurisprudenza europea sta

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facendo proprio un particolare rigore interpretativo, con la conseguenza di porre nella dottrina alcuni interpretativi sulla reale portata, alla luce delle recenti restrizioni1, del diritto fondamentale alla circolazione e del principio dell’equo trattamento. Il tema –la possibilità per i cittadini europei residenti in uno stato dell’Unione diverso dal proprio di godere 1 F. Capotorti, LA CORTE si schiera contro il fenomeno del turismo sociale: la sentenza Dano, in eurojus.it, 17/11/2014.

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di quei social benefits2 che spettano ai cittadini dello stato ospitante– ha assunto una sempre maggiore rilevanza a seguito dell’esponenziale aumento di flussi migratori non solo provenienti dai paesi africani e del mediorientali ma anche tra paesi dell’Unione. A titolo di esempio, dal 2010 al 2013 il numero di cittadini europei espulsi dal solo Belgio perchè “non economicamente indipendenti” è aumentato da 502 a 2712; allo stesso modo, nel Regno Unito è entrato in vigore nel 2014 un Immigration Bill che prevedeva, tra le altre cose, diverse misure restrittive intese a contrastare proprio il fenomeno del turismo sociale3; la Commissione europea, che già in una comunicazione del 20134 (contenente cinque diverse azioni utili agli stati per applicare gli strumenti forniti dall’Unione nell’ottica del ri2 Ossia tutte quelle prestazioni di assistenza sociale delineate dal Regolamento n.883/2004 (che annovera, tra gli altri, le prestazioni di malattia, di maternità e paternità assimilate d’invalidità, di vecchiaia, per infortunio sul lavoro e malattie professionali, gli assegni in caso di morte, le prestazioni di disoccupazione, di pensionamento anticipato e quelle familiari). 3 È con riferimento a questa legge che nel giugno del 2014 è stata attivata dalla Commissione europea una procedura d’infrazione (Causa C-308/14), su cui si tornerà più avanti. 4 Comunicazione COM(2013) 837, intitolata Free movement of EU citizens and their families: five actions to make a difference.

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congiungimento delle famiglie in situazioni di “dispersione geografica”), aveva evidenziato “una stretta correlazione statistica tra la generosità dei sistemi di sicurezza sociale e i flussi di cittadini dell’Unione”, si è occupata l’anno seguente di elaborare delle vere e proprie guidelines5 volte a facilitare l’applicazione pratica delle norme sulla sicurezza sociale nei confronti di cittadini trasferiti da un altro stato europeo, in particolare mediante la chiara individuazione di criteri di individuazione della residenza. In realtà, secondo quanto emerso da approfondite analisi a cura delle stesse istituzioni comunitarie6, l’effettivo impatto sulle finanze degli stati ospitanti dei “non-active intra-EU migrants” sarebbe molto meno incisivo e deleterio di quanto paventato. Ciò nonostante, la logica di chiusura che caratterizza i sistemi di welfare (i quali “presuppongono l’individuazione di una comunità solidale al cui interno è possibile l’i5 Commissione Europea, D.G. “Occupazione, affari sociali e inclusione”, Practical guide on the applicable legislation in the European Union, the European Economic Area and in Switzerland, dicembre 2013. 6 In particolare il paper della servizio di ricerca del Parlamento europeo intitolato Freedom of movement and residence of EU citizens. Access to social benefits , pubblicato nel giugno 2014, e un equivalente ad opera della Commissione.

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stituzione di meccanismi di redistribuzione per far fronte a rischi e necessità comuni”7) intimoriti dal costo dell’estensione delle prestazioni sociali anche a cittadini di altri stati, ha portato questi a reagire veementemente e con posizioni talvolta bellicose, forse anche a causa della pregnanza politica che il tema ha assunto nelle dinamiche nazionali, dove movimenti xenofobi hanno assunto sempre maggiore centralità nella vita politica degli stati europei. I tribunali nazionali, di conseguenza, si sono trovati a sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione un gran numero di rinvii pregiudiziali: la negazione da parte di uno stato delle prestazioni assistenziali agli intra-EU migrants è infatti in grado di determinare un attrito con il diritto alla libera circolazione dei cittadini europei e soprattutto con quell’assunto fondamentale per il diritto comunitario che è il principio di parità di trattamento tra cittadini dell’Unione. L’incremento del numero delle cause, di fronte ai giudici nazionali, aventi ad oggetto provvedimenti di espulsione di cittadini “economicamente non autosufficienti” oppure atti di diniego di prestazioni assistenziali, si è dunque risolto in un frequente esperimento da parte di tali organi giurisdizionali 7 M. Ferrera, The Boundaries of Welfare. European Integration and the New Spatial Politics of Social Protection, OUP, 2005.

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dello strumento del rinvio pregiudiziale interpretativo, volto a interrogare la Corte lussemburghese in merito al bilanciamento tra i diritti e i principi suindicati, con la conseguenza di ridefinire, per certi versi, il campo di applicazione e i limiti di alcuni principi fondamentali del sistema costituzionale comunitario.

La normativa di riferimento Le istituzioni europee non sono nuove a un bilanciamento come quello appena enunciato: nel 2004 Parlamento europeo e Consiglio pervennero a tal fine all’emanazione della Direttiva 2004/38/CE –in modifica di un Regolamento del 1968 e “relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare libera- mente nel territorio degli Stati membri”– e del Regolamento (CE) N. 883/2004. La prima imponeva agli stati l’adozione di misure idonee a istituire una disciplina generale del diritto di soggiorno nei Paesi dell’Unione, sulla base dell’espressa considerazione che “la cittadinanza dell’Unione conferisce a ciascun cittadino dell’Unione il diritto primario e individuale di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri” e che “la libera circolazione delle persone costituisce una delle libertà fondamentali”. Il Regolamento, d’al-

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tro canto, era volto a normare nel dettaglio il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, prevedendo adeguate procedure per il riconoscimento in capo agli “stranieri comunitari” di benefici sociali nel rispetto dei limiti cogenti derivanti dal principio di equal treatment. Il sistema che viene così creato nel 2004, se da una parte vuole tutelare i cittadini europei e i relativi nuclei famigliari trasferitisi per motivi di lavoro in un altro stato dell’Unione, garantendo loro prestazioni di sicurezza sociale, dall’altra parte cerca di evitare che la presenza di questi si risolva in “onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale dello Stato membro ospitante” e far sì che il sistema stesso non venga sfruttato con finalità fraudolente mediante la “duplicazione” delle erogazioni assistenziali da parte dello stato ospitante e di quello di provenienza. Sotto il profilo delle fonti del diritto, tali atti legislativi si collocano nella sfera decisionale lasciata dal Titolo IV del TFUE8 e dall’articolo 34 8 Il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea aveva effettivamente previsto che si sarebbero dovute approvare con procedura legislativa ordinaria le “misure necessarie per attuare la libera circolazione dei lavoratori” (art. 46); ma anche un sistema di sicurezza sociale “per l’instaurazione della libera circolazione dei lavoratori, attuando in particolare un sistema che consenta di assicurare ai lavoratori migranti dipendenti e autonomi e ai loro aventi diritto” (art. 48) .

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della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea9, con lo scopo di rafforzare il sistema della circolazione della forza lavoro nel contesto europeo attraverso l’aggiornamento degli strumenti giuridici tradizionali a ciò deputati: a questo proposito la Direttiva 2004/38/ CE si occupa di delineare un “diritto di soggiorno” articolato nel tempo e nelle modalità attuative e finalizzato a inquadrare il jobseeker ai fini dell’eventuale erogazione di un sussidio o di altra prestazione assistenziale. Nello specifico, pur premesso a tutela del richiedente che “una misura di allontanamento non dovrebbe essere la conseguenza automatica del ricorso al sistema di assistenza sociale”, la Direttiva ammette la possibilità per lo stato di allontanare il cittadino che sia di eccessivo onere per il sistema di assistenza sociale, subordinandola al rispetto di una particolare scansione temporale. Entro i primi tre mesi di permanenza, infatti, lo stato ospitante non può allontanare il cittadino, anche se non è comunque tenuto nei suoi confronti ad alcuna prestazione assistenziale. Trascorso questo periodo, il cittadino mantiene il diritto a soggiornare nello stato ospitante solo qualora abbia 9 Laddove prevede che “l’Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale […] secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali”.

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trovato un’occupazione, abbia dimostrato di disporre di risorse economiche sufficienti al sostentamento oppure si trovi in una situazione di involontaria disoccupazione e sia registrato presso un ufficio di collocamento con provate chances di trovare un lavoro. Superati i tre mesi, poi, sebbene l’art.24, co.1 della Direttiva riprenda il principio generale della parità di trattamento (“ogni cittadino dell’Unione che risiede, in base alla presente direttiva, nel territorio dello Stato membro ospitante gode di pari trattamento rispetto ai cittadini di tale Stato nel campo di applicazione del trattato”), è tuttavia previsto in via derogatoria dal secondo comma che lo stato ospitante non è tenuto ad attribuirgli il diritto a prestazioni d’assistenza sociale. E anche qualora siano definitivamente spirate le condizioni per l’erogazione dell’assistenza, la Direttiva prevede che lo Stato ospitante “dovrebbe esaminare se si tratta di difficoltà temporanee e tener conto della durata del soggiorno, della situazione personale e dell’ammontare dell’aiuto concesso prima”: viene così ragionevolmente lasciato uno spazio di discrezionalità valutativa e operativa agli organi nazionali. Il modello così costituito, pur nell’intento di dare una disciplina completa alla materia, è però fragile e in certi punti lacunoso: si veda ad esempio il problema di compa19

tibilità latu sensu costituzionale dell’esperibilità dello strumento dell’allontanamento coatto in quanto al di fuori dell’orbita della previsione dell’art. 45 TFUE che restringe il campo alle sole “limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica”10. Con la conseguenza di aver lasciato diverse aree controverse e destinate a dover essere regolate in via pretoria dalla giurisprudenza nomofilattica della Corte di giustizia dell’Unione europea.

La giurisprudenza in materia fino alla sentenza Alimanovic A segnare un punto fisso nella giurisprudenza comunitaria, la sentenza emessa dalla Corte l’11 novembre del 2014 nel caso Dano11 riguardava il caso di una cittadina cittadina rumena che, stabilitasi a Lipsia con il figlio, aveva deciso di richiedere prestazioni assistenziali previste dalla normativa tedesca per i residenti abituali in territorio tedesco: contro il diniego emesso dal Jobcenter Leipzig –dovuto all’assenza in capo alla signora Dano di un diritto di soggiorno ai sensi della Direttiva 2004/38/CE– era stato fatto ricorso 10 Si veda su questo C. Margiotta, La chiamavano Europa… Cittadinanza e libera circolazione in tempi di crisi in www.euronomade.info, 4/2/2014. 11 Causa C-333/13 dell’11/11/2014.

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e il giudice adito, il Sozialgericht Leipzig, si era rivolto alla Corte formulando quattro quesiti pregiudiziali. In particolare, preme soffermarsi sulla particolare rilevanza che nella sentenza Dano la Corte dà alla nozione delle “risorse sufficienti” del cittadino che richiede assistenza sociale: infatti la giurisprudenza precedente (in particolare i casi Brey12 e Grzelczyk13) aveva sempre sottolineato che la semplice richiesta di un aiuto sociale rappresentasse un mero indizio sulla mancanza di risorse economiche sufficienti in capo al cittadino e che questo fosse da bilanciare con una valutazione globale dell’onere per l’economia dello Stato. Nel procedimento Dano, invece, la Corte “esclude in radice tale possibilità, facendo del requi12 Causa C-140/12 del 19/09/2013, dove al punto 64 si affermava che “le autorità nazionali competenti non possono trarre una tale conclusione [che il cittadino non disponga di risorse sufficienti] senza aver proceduto a una valutazione globale dell’onere che, concretamente, la concessione di tale prestazione rappresenterebbe per il sistema nazionale di assistenza sociale nel suo complesso, a seconda delle circostanze individuali che caratterizzano la situazione dell’interessato”. 13 Causa C-184/99 del 20/09/2001: la Corte, in un contesto antecedente le riforme del 2004, già aveva statuito che (punto 44) il diritto dell’Unione “consente pertanto una certa solidarietà finanziaria dei cittadini di tale Stato con quelli degli altri Stati membri, specie quando le difficoltà cui va incontro il beneficiario del diritto di soggiorno sono di carattere temporaneo”.

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sito delle risorse sufficienti un limite invalicabile alla costruzione di una (seppur limitata) solidarietà sovranazionale”14: la sola richiesta di assistenza sociale e il conseguente esame concreto della situazione economica dell’interessato sarebbero quindi sufficienti a qualificare il richiedente come economically inactive e per questo giustificare un deroga al principio di equo trattamento sulla base degli articoli 24(2) e 7(1)(b) della Direttiva15. Tale approccio restrittivo si è rivisto in tempi più recenti nel processo Alimanovic16, dai tratti simili al caso Dano e avente ad oggetto anche qui il diniego di prestazioni sociali da parte di un Jobcenter tedesco (in questo caso di Berlino): nel caso di specie la Corte si focalizza ancora una volta sui limiti della deroga prevista dall’art.24(2) della Direttiva, interrogandosi di conseguenza su quali siano i margini entro i quali il richiedente possa reclamare il principio di equo trattamento. Il risultato di questo ragionamento è una classificazione casistica, alla luce della quale la Corte opera un’utile distin14 F. Costamagna, “Chi non lavora…”: Alcune considerazioni su cittadinanza europea, solidarietà e accesso ai benefici sociali a margine della sentenza Dano, in www.sidi-isil.org, 25/11/2014. 15 M. Moustakali, Case C-333/13 Dano: Free movement – yes; welfare tourism – no, in www.eulitigationblog.com 12/11/2014 16 Causa C-67/14 del 15/09/2015.

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zione sul pano soggettivo: • I cittadini in stato in disoccupazione involontaria dopo aver lavora per meno di un anno ma che si siano registrati presso centri di collocamento e abbiano buone chances di trovare lavoro mantengono lo status di lavoratori e il diritto di residenza per un periodo di sei mesi, durante il quale possono invocare il principio di equo trattamento. • Nei confronti dei cittadini che non hanno ancora lavorato nello Stato ospitante o che si trovino disoccupati da più di sei mesi, sebbene questi non possano essere allontanati coattivamente dallo stato finchè provino di essere in cerca di un’occupazione, lo Stato ospitante può rifiutare di erogare nei loro confronti alcuna prestazione assistenziale. La Corte elabora così, a completamento di quanto già previsto dalla Direttiva 2004/38/CE, un sistema graduale per il mantenimento dello

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status di “lavoratore” che a sua volta si apre alla valutazione di numerosi fattori inerenti la situazione soggettiva del soggetto richiedente assistenza sociale.

Il caso del Regno Unito Nonostante la formulazione di un’autonoma disciplina europea in tema di welfare migration risalga a più di dieci anni fa e l’irrigidimento della giurisprudenza sembri mirare a consolidare i principi contenuti al suo interno, non manca una certa confusione, sia nella fase attuativa della disciplina da parte degli Stati, sia all’interno dell’apparato istituzionale comunitario, dove le istanze politiche –sempre più spesso volte a un restringimento dell’accesso ai benefici sociali emanati da uno stato nei confronti di chi non ne è cittadino– si confondono con l’attività giurisdizionale e istituzionale. A testimonianza di ciò può essere portata la vicenda che ha interessato l’adozione da parte del Regno Unito

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di un Immigration Bill che, come si diceva sopra, conteneva misure particolarmente restrittive in tema di ottenimento dei benefici sociali: nello specifico, è stato introdotto in capo a chi presenta domanda di assegni familiari o di credito d’imposta per figli il requisito di avere diritto a risiedere (letteralmente right to reside) nel Regno Unito. Questa previsione ha spinto la Commissione a ricorrere presso la Corte di Giustizia, nel giugno dell’anno scorso17, adducendo come motivazione la circostanza che il Regno Unito –introducendo una condizione non consentita dal Regolamento (CE) n. 883/2004– sia venuto meno a uno degli obblighi ad esso incombenti ai sensi del diritto europeo e, posto che il requisito è automaticamente soddisfatto dai suoi cittadini, abbia creato una situazione di discriminazione diretta contro i cittadini di altri Stati membri. Quello che colpisce di questa vicenda è però il fatto che, sentito sulla causa, l’avvocato generale Cruz Villalón abbia proposto alla Corte di archiviare l’iniziativa della Commissione, sulla base della considerazione che il right to reside posto come “condizione aggiuntiva” dal Regno Unito non sia altro che una diversa formulazione di quel “diritto di soggiorno” già previsto dal diritto europeo e in particolare dalla direttiva 2004/38/CE. Egli poi 17 2014

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Causa C-308/14 del 29 giugno

afferma che, nonostante vi sia effettivamente una discriminazione indiretta tra cittadini britannici e altri cittadini europei, questa sia pienamente giustificata dall’interesse dello Stato membro a proteggere le proprie finanze da spese eccessive. In conclusione, nell’attesa della risoluzione della questione attinente l’Immigration Bill inglese si può sicuramente affermare, come qualcuno ha già rilevato18, che la questione di garantire un accesso non discriminatorio ai sistemi di sicurezza sociale nei confronti dei cittadini europei sia di particolare difficoltà politica ancor prima che giuridica, e a questo si aggiunge una normativa comunitaria la cui nebulosità ha determinato la necessaria applicazione di tali ambigui concetti da parte degli Stati membri secondo una logica di case-by-base. L’inevitabile conseguenza di tutto ciò è che nonostante essa si premuri di dar vita a un sistema aperto e non discriminatorio, la disciplina positiva della cittadinanza europea in tema di social benefits rischia di dare un contributo deleterio alla pericolosa crescita di nazionalismi e politiche di chiusura dei propri stati membri, andando a mettere a repentaglio la politica di solidarietà creata con tanta fatica tra di essi. 18 M. Blauberger and S. K Schmidt, Welfare migration? Free movement of EU citizens and access to social benefits, in SAGE. Research & Politics, dicembre 2014.

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diritto tributario

L’imposizione sui redditi delle famiglie italiane di

Clara Pirchio

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egli ultimi anni si è assistito ad un notevole cambiamento della “famiglia italiana”, preoccupate indagini ISTAT hanno registrato nell’ultimo anno un decremento delle famiglie numerose e dei matrimoni che si annovera tra i peggiori mai censiti: sempre meno figli e pochissime coppie sposate1. 1 Sono 509 mila le nascite nel 2014, cinquemila in meno rispetto al 2013, il livello minimo dall’Unità d’Italia. Decresce il numero delle nascite ma aumenta quello degli anziani: i morti sono 597 mila unità, circa quattromila in meno dell’anno precedente. Il numero medio di figli per donna è pari a 1,39, come nel 2013 e l’età media al parto

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All’analisi dei mutamenti dei modelli familiari, si unisce la rilevazione sale a 31,5 anni. Inoltre nel 2014 sono stati celebrati in Italia 189.765 matrimoni, circa 4.300 in meno rispetto all’anno precedente. A diminuire sono soprattutto le prime nozze tra sposi di cittadinanza italiana: 142.754 celebrazioni nel 2014. Diminuisce anche la propensione a sposarsi. Nel 2014 sono stati celebrati 421 primi matrimoni per 1.000 uomini e 463 per 1.000 donne, valori inferiori rispettivamente del 18,7% e del 20,2% rispetto al 2008. Al primo matrimonio si arriva sempre più “maturi”: gli sposi hanno in media 34 anni e le spose 31. (Dati provenienti da sondaggi ISTAT riferiti all’anno 2014)

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di nuovi squilibri sociali e di un aumento delle fasce di povertà. Nella ricerca delle tante cause che possono aver favorito il drammatico deficit della bilancia demografica non è da ignorare l’aspetto economico e può essere interessante analizzare una delle questioni coinvolte in vario modo in questo periodo di “infecondità” italica: la politica fiscale italiana in relazione alle famiglie. In che modo quest’ultima ha reagito e sta reagendo all’impoverimento delle famiglie e all’arresto delle nascite? Come il sistema di imposizione fiscale sostiene la famiglia e tiene conto dei carichi familiari? In materia di imposte personali sul reddito è noto che la normativa tributaria italiana cerca di tutelare le famiglie prevedendo, in presenza di persone il cui reddito è inesistente o ridotto2 all’interno della famiglia, detrazioni d’imposta che riducono l’Irpef in modo progressivo (minore è il reddito, maggiore è la detrazione). Queste misure hanno l’effetto di diminuire l’irpef dovuta e aumentano all’aumentare del numero dei figli, ma ci si chiede se siano sufficienti a determinare un significativo 2 Per soggetti fiscalmente a carico, ai sensi dell’art. 12, comma 2, del TUIR, si intendono i soggetti che possiedono un reddito non superiore a 2.840,51 euro. Tali detrazioni spettano nella misura del 50% a ciascun coniuge ovvero (in caso di accordo) a quello con il reddito complessivo più elevato.

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sgravio fiscale ed un equo trattamento delle famiglie, specialmente quelle numerose e quelle monoreddito (quest’ ultime recentemente in crescita). Il meccanismo per la determinazione dell’Irpef dovuta inizia con il calcolo del reddito complessivo lordo dei soggetti passivi. Questo è un momento fondamentale e determinante per identificare la fascia di reddito a cui il soggetto appartiene e in base alla quale verrà tassato. Tuttavia nel calcolo del reddito dei componenti di un nucleo familiare sembra non rilevare il vincolo di “coniugio”, in quanto ciascun consorte è tassato individualmente, per i redditi da esso prodotti, come qualsiasi soggetto passivo irpef. In questo frangente, unico cenno al nucleo familiare si rinviene nel disposto dell’art. 4 del testo unico delle imposte sui redditi3, che si intitola “Coniugi e figli minori”. Le lettere A e B del primo comma di questo articolo4 stabiliscono che 3 Il cosiddetto TUIR emanato con D.P.R., 22/12/1986 n° 917. 4 Lettere A e B del comma 1 dell’art. 4 del Tuir: “ Ai Fini della determinazione del reddito complessivo o della tassazione separata: a) i redditi dei beni che formano oggetto della comunione legale di cui agli articoli 177 e seguenti del codice civile sono imputati a ciascuno dei coniugi per meta’ del loro ammontare netto o per la diversa quota stabilita ai sensi dell’articolo 210 dello stesso codice; I proventi dell’attivita’ separata di ciascun

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solo in presenza di un matrimoche fruiscono di redditi prodotti nio sottoposto al regime legale da più componenti5. della comunione dei beni o solo se Questo accade principalmente peri coniugi abbiano costituito un fondo ché il criterio di tassazione utilizpatrimoniale, il reddito prodotto dai zato in Italia è a base individuale beni “comuni” e da quelli oggetto e il legislatore sembra restio ad del fondo, sono imputati a ciascuno introdurre un criterio cumulativo, dei coniugi per metà del loro am- nonostante nell’art. 53 Cost. non vi montare netto. sia alcun riferimento di natura “perCiò significa che, esclusi i redditi di sonale” della capacità contributiva. cui all’art. 4, la tassazione avviene Un criterio cioè che consideri il nuseparatamente sui redditi dei singoli cleo familiare nella sua interezza al componenti del numomento dell’impol’attuale cleo familiare. Potrà sizione fiscale, desuaccadere, quindi, che mendo l’attitudine a sistema di moglie e marito risulcontribuire non solo imposizione tino appartenenti a cada circostanze imputegorie reddituali diftabili ai singoli ma penalizza ferenti o, addirittura, anche con riguardo a i nuclei che una famiglia con elementi comuni ad un solo reddito, venga alcuni di essi, come familiari collocata in una fascia l’appartenenza al numonoreddito reddituale superiore a cleo familiare a la sua quello che è l’effettinumerosità. vo tenore di vita. Il sistema vigente In realtà in passato l’Italia ha già arriva, perciò, spesso a penalizzare i conosciuto, seppur infelicemente, nuclei familiari in cui vi è un unico un tentativo di elaborare un metopossessore di redditi rispetto a quelli do cumulativo per la tassazione dei coniuge sono a lui imputati in ogni caso per redditi della famiglia. Curiosamente, infatti, il sistema previgente (del l’intero ammontare. b) i redditi dei beni che formano oggetto del 1973) prevedeva il cumulo obbligafondo patrimoniale di cui agli articoli 167 e torio dei redditi ma, risultando ancor seguenti del codice civile sono imputati per meno sensibile ai temi in questione, meta’ del loro ammontare netto a ciascuno dei coniugi. Nelle ipotesi previste nell’arti- tassava in maniera patriarcale tutcolo 171 del detto codice i redditi dei beni ti i redditi prodotti dai componenti che rimangano destinati al fondo sono imputati per l’intero ammontare al coniuge superstite o al coniuge cui sia stata esclusivamente attribuita l’amministrazione del fondo.”

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5 Corte Cost. 24 luglio 1995, n. 358. La questione di legittimità costituzionale, sollevata su tale punto, è stata ritenuta illegittima in occasione di questa sentenza.

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della famiglia in capo ad un solo soggetto: il marito; finendo paradossalmente per svantaggiare le coppie sposate6. Infatti i metodi cumulativi, ormai adottati dalla maggioranza dei paesi europei, non bastano a se stessi e necessitano di correttivi per attenuare l’onere aggiuntivo e consentire che, a parità di reddito familiare, l’imposta decresca all’aumentare dei componenti. A seguito di un intervento della Corte Costituzionale (nel 1976) è stato dichiarato incostituzionale7 l’isitituto del cumulo (a prescindere dalle particolari modalità di applicazione previste dalla legge) ed è entrato in vigore l’attuale sistema di tassazione disgiunta che, tuttavia, non tiene conto della numerosità del nucleo familiare nel calcolo dell’aliquota applicabile ai redditi dei suoi componenti, in quanto la progressività dell’imposizione rimane invariata al crescere dei componenti della fami6 Il sistema di cumulo originariamente previsto dalla disciplina Irpef, che finiva per “punire” le famiglie, muoveva dall’idea secondo cui l’appartenenza al nucleo familiare avrebbe rivelato una maggiore attitudine a contribuire derivante dalla maggiore disponibilità finanziaria assicurata dalla vita in comune. Inoltre tale retrogrado sistema privava la donna di una propria autonomia patrimoniale obbligandola a comunicare tutti i suoi redditi al marito essa risultava , per il solo fatto di essere sposata, “giuridicamente inferiore” all’uomo. 7 Per violazione degli artt. 3, 29, 31 e 53 Cost.

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glia.8 La necessità di un sistema di sgravio fiscale che tenga conto della capacità contributiva espressa dalla situazione familiare è stata compresa, come già detto, in diversi paesi europei: primi fra tutti la Francia e la Germania, che hanno modellato in questo senso, seppur con metodi differenti, la struttura impositiva e hanno sostituito la tassazione individuale con il cumulo dei redditi. In Germania, per ridurre l’incidenza della progressività sui redditi delle famiglie, è stato adottato un correttivo, chiamato suggestivamente “Splitting”, secondo il quale i redditi dei componenti del nucleo familiare sono fittiziamente sommati e imputati per metà a ciascun coniuge. Questo al solo fine di determinare l’aliquota da applicare, in quanto moglie e marito rimangono in ogni caso separatamente debitori delle imposte sui redditi prodotti da ciascuno. In Francia invece, allo stesso fine e già dal 1950, è stato congegnato un metodo di calcolo cosiddetto “Quoziente familiare”, in cui si fa della numerosità del nucleo familiare, indice indispensabile per garantire equità fiscale. Il Quoziente familiare in presenza dei soli due coniugi 8 La tassazione disgiunta dei redditi all’interno di situazioni familiari può offrire uno stimolo all’elusione della prograssività attraverso fittizie attribuzioni di reddito al coniuge titolare di redditi minori.

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è equivalente al metodo dello Splitting, mentre in presenza di figli minori a carico prevede la ripartizione dei redditi per tutti i membri della famiglia. In questo modo, in un sistema di aliquote progressive (peraltro meno penalizzanti di quelle italiane) , il carico fiscale si riduce al crescere delle dimensioni della famiglia. La comparazione con i paesi che adottano i sistemi dello Splitting e del Quoziente fa comprendere come la tassazione su base individuale, a parità di reddito, ha l’effetto di penalizzare le famiglie con figli a carico, in primis ed in modo preoccupante quelle in cui vi è un solo produttore di redditi (per le quali l’onere fiscale è equivalente a quello proprio del cumulo del 1973). Tutto ciò sembra contravvenire al principio di equità fiscale che oggi, in Italia, si realizza solo verticalmente (con le aliquote progressive) e non in modo orizzontale dato che un contribuente, con coniuge e figli a carico, dovrà pagare la stessa quota di imposte di chi non ne ha ma percepisce un reddito identico. Il sistema Italiano purtroppo, ancora non si muove nella direzione del collegare l’imposizione fiscale all’effettiva capacità contributiva del nucleo familiare. E’ così che la politica fiscale italiana fronteggia l’impoverimento delle famiglie? E’ cosi che cerca, non tanto di incentivare, ma quantomeno 27

di non inibire ulteriormente la crescita demografica di un Italia sempre più “isterilita”? Ovviamente nel corso degli anni non sono mancati dei tentativi di riforma del sistema di imposizione, per cercare di porre fine al periodo di sterilità prolungata del popolo italiano, tuttavia sempre tristemente archiviati. Attualissimi sono i propositi (rimasti ancora tali) del governo Renzi che, tra le ipotesi di riforma fiscale, prende in considerazione anche quella di introdurre in Italia il quoziente familiare. Per comprendere meglio se e quanto sarebbe vantaggioso, in Italia, introdurre un apposito metodo di tassazione della famiglia attribuendole, così, autonoma soggettività tributaria, può essere utile mettere a confronto i risultati dell’attuale sistema delle detrazioni con quelli di un eventuale Splitting o Quoziente familiare, conservando le aliquote italiane (in ogni caso più sfavorevoli di quelle tedesche e francesi). Partendo dall’evidente svantaggio che in Italia subiscono le famiglie ove, a parità di imponibile, vi è un solo soggetto produttore di reddito rispetto a quelle in cui ve ne sono due o più, indaghiamo come muterebbe il carico fiscale proprio in capo a questi soggetti con l’applicazione dei metodi cumulativi.

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Consideriamo un nucleo familiare monoreddito di 5 persone con coniuge a carico e figli con un reddito di 80000 Euro annui:

IRPEF (ricavata dall’applicazione delle aliquote) DETRAZIONI CONIUGE DETRAZ. FIGLIO 1 DETRAZ. FIGLIO 2 DETRAZ. FIGLIO 3 TOT DETRAZIONI IRPEF (al netto delle detrazioni per carichi familiari)

TASSAZIONE INDIVIDUALE

SPLITTING QUOZIENTE DEI REDDITI FAMILIARE

27570

23040

18600

23040

18600

690 342 342 342 1716 25854

Consideriamo ora un nucleo familiare di uguale composizione ma con un reddito annuo di 50000 Euro: TASSAZIONE SPLITTING QUOZIENTE INDIVIDUALE DEI REDDITI FAMILIARE IRPEF (ricavata dall’applicazio- 15320 12300 11500 ne delle aliquote) DETRAZIONI 690 CONIUGE DETRAZ. FIGLIO 1 570 DETRAZ. FIGLIO 2 570 DETRAZ. FIGLIO 3 570 TOT DETRAZIONI 2400 IRPEF (al netto delle detrazioni 12920 12300 11500 per carichi familiari) 28

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Si osserva come il confronto tra i vari sistemi metta in luce differenze sempre più grandi al crescere del reddito: nel primo caso tra quoziente familiare e detrazioni intercorrono più di settemila euro in più di tasse, mentre nel secondo circa mille e quattrocento. Ciò è dovuto al fatto che le detrazioni per figli a carico diminuiscono notevolmente al crescere del reddito, ma il dato in questione non è comunque sufficiente a distogliere l’attenzione dalla notevole incidenza (notevole in quanto trattasi di migliaia di euro) che il Quoziente familiare avrebbe sul carico fiscale delle famiglie numerose e monoreddito, contribuendo ad eliminare alcune delle distorsioni sociali che si verificano con l’attuale sistema delle detrazioni fiscali. Ovviamente l’applicazione del metodo francese comporterebbe, di contro, un costo pesantissimo per le casse dello stato, ma lo sgravio andrebbe in particolar modo a favore dei nuclei familiari monoreddito, che attualmente sono i più penalizzati dal nostro fisco. Questo tanto discusso metodo è stato sempre accantonato dai riformatori del sistema fiscale, sebbene non sia azzardato sostenere che il sistema vigente sia capace di influire sulla libertà di scelta 29

dei contribuenti, che sono disincentivati (o addirittura impossibilitati) ad avere più figli. Il problema rimane ancora oggi aperto e, nonostante il diffondersi di una società sempre più “geriatrica”, ancora si stenta a capire che non ci può essere miglioramento o ripresa che non passi anche dal rilancio della famiglia.

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diritto della proprietà intellettuale

Know-how: fenomenologia di un bene immateriale e della sua tutela di

Fabio Maggio

Il bene: riconoscibilità e qualificazione

D

a qualche anno a questa parte, ad opera del processo di integrazione europea, il nostro ordinamento ha recepito la figura dei così detti “contratti di know-how” con i quali è possibile regolare il trasferimento di conoscenze ed esperienze pratiche a terzi e tutelare al contempo l’esclusività e il valore economico che da esse discende. Il quadro normativo di riferimento deve essere sinteticamente ricostruito a partire dalla

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nota Legge sulle Invenzioni (R.D 29 giugno 1939 n.1127), integrato dal Codice sulla Proprietà industriale, cui sovraintende l’intervento comunitario dei Regolamenti CE n.240/961 e n.772/20042 rubricato “Accordi di trasferimento di tecnologia”, che sostituisce il precedente. Le indicazioni dottrinali e giurisprudenziali su tali tipi di contratto non sono, in vero, compiutamente sviluppate, malgrado la casistica si presenti quanto mai utilizzata nella prassi e apra costantemente nuo1 2

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In http://eur-lex.europa.eu In http://eur-lex.europa.eu

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vi fronti di ricerca. Non si può prescindere da una definizione generale dell’oggetto di tutela: dal know-how inteso generalmente quale “qualunque tipo di conoscenza od esperienza non necessariamente segreta, relativa al settore dell’industria o del commercio, in grado di apportare miglioramenti alle tecniche di produzione o distribuzione, che pur essendo brevettabile, è sfruttata dall’imprenditore senza copertura brevettuale” si deve tener distinto il know-how in senso stretto comprensivo di conoscenze ed esperienze che presentano i requisiti della novità e della segretezza, indipendentemente dal fatto che siano soggette a brevetto o meno.3 In premessa si vuole agire in modo metodologicamente corretto per affrontare una questione di indubbia rilevanza e di non facile soluzione come quella in esame. Va per questo invertito il punto di vista che normalmente l’interprete assume di fronte alla tematica della tutela. Non si partirà allora dalla possibile fonte di pericolo, ma viceversa dal bene che si intende tutelare, per questo ribadendo non pedissequamente, in punto di dottrina, quale sia la natura del know how al fine di consentire una maggior coerenza sistematica alle conclusioni a cui gli interpreti sono giunti in tema di 3 C.f.r Cass. Civ., 20-01-1992, n. 653, in Foro It., 1992, I, p. 1021 ss.

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tutela ed opponibilità. Si pensi per esempio al caso in cui si acquisti un quadro d’autore, se ne stimerà dapprima il valore, qualificandone la reale importanza e successivamente si penserà a tutelare la ricchezza così stimata con ogni mezzo. In questo senso la riconoscibilità della natura del know-how quale bene degno di tutela, può essere eminentemente rinvenuta con riferimento al pronunciamento della Suprema Corte di Cassazione nella causa SPA P.Z.I. c. SPA CIVIDINI PREFABBIRCATI, nella quale non solo i giudici forniscono una definizione esaustiva dell’istituto in oggetto, ma ne tracciano i contorni di riconoscibilità e i requisiti al ricorrere dei quali ne è ammessa la tutela. Andando per ordine i Supremi Giudici qualificano lo know-how quale “bene economico che assume rilievo come autonomo elemento patrimoniale, anche se derivi da invenzioni brevettabili che il titolare non intende brevettare e preferisce sfruttare in regime di segreto, o da ideazioni minori non costituenti, cioè, vere e proprie invenzioni, quindi , non brevettabili.” Appare fin da subito rilevante l’aspetto della segretezza, su cui diremo ampiamente oltre, ma interessa ora segnalare la natura di bene economico dello know-how.

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Dottrina e giurisprudenza hanno susseguentemente concordato sul fatto che di know-how si parli in relazione al fatto che riguardi un complesso unitariamente considerato di ben immateriali (la cui trasmissione deve avvenire tramite supporti materiali) che possiedano il requisito della segretezza o perlomeno della riservatezza, ovvero non siano immediatamente accessibili a chiunque. A questa definizione, malgrado la dottrina dapprima tendesse ad escluderle, la Cassazione ha voluto far accedere anche le informazioni di natura commerciale, che potrebbero attenere ad un generico concetto di avviamento. Recita infatti il dettato della sentenza 20 gennaio 1992, n.659 “le conoscenze per le quali è questione sono quelle che nell’ambito della tecnica industriale sono necessarie per produrre un bene, per attuare un processo produttivo o per il corretto impiego di una tecnologia e, altresì, le regole di condotta che, nel campo della tecnica mercantile, vengono desunte da studi ed esperienze di gestione imprenditoriale attinenti al settore organizzativo o a quello meramente commerciale”. Un’interpretazione definitivamente estensiva dunque, che ha inoltre precisato che le conoscenze ascrivibili al concetto di know how possiedono il requisito essenziale della novità o della se32

gretezza e non devono necessariamente essere brevettate o brevettabili.4Sulla segretezza allora è bene soffermarci, trattandosi dell’attributo di maggior momento in tema, non solo qualificandone la natura giuridica ma garantendone anche quel valore economico da cui discende, in ultima istanza, l’esigenza di tutela che l’ordinamento statuisce.

Il requisito della segretezza Il Codice della Proprietà Industriale ha, nell’ultima sua versione, attuato una sostanziale parificazione dei diritti c.d. titolati (marchi, brevetti ecc.) e dei diritti c.d. non titolati, quale è il know-how, riconoscendone la tutela legale. Questa è accordata come abbiamo già detto al ricorrere di talune condizioni tra cui fondamentale è che le informazioni oggetto di tutela giuridica siano sottoposte a misure da ritenersi ragionevolmente adeguate a garantirne la segretezza. Il legislatore non usa a caso il termine “adeguato”intendendosi per tali quelle misure che rispondano ai criteri di normale diligenza e prevedibilità. L’adeguatezza delle misure che l’imprenditore sviluppa a tutela del 4 Cass. 20 gennaio 1992, n.659“Lo know how prescinde dal diritto di esclusiva e privativa del possesso ed è collegato direttamente alla loro novità e segretezza”

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suo patrimonio industriale qualifica il valore economico di tali informazioni e manifesta anche la precisa volontà di mantenere segrete tali informazioni. Rilevano dunque i comportamenti dell’imprenditore tesi a dimostrare la propria volontà di mantenere segrete dati, documenti, informazioni. Scendendo nel dettaglio, l’art. 39 dell’accordo TRIPs5 ha sancito una tutela efficace nei confronti di quelle informazioni che siano: • segrete, ovvero non generalmente note o facilmente accessibili a persone che si occupano di quel tipo di informazioni; • siano dotati di valore commerciale proprio perché segrete; • siano state sottoposte da chi le detiene a misure adeguate a mantenerle segrete; Quanto al criterio con il quale la giurisprudenza si è orientata nell’interpretare tale requisito, non può non essere citata la sentenza ASJA AMBIENTE ITALIA S.P.A. c. B.J.L. nella quale la sola circostanza della custodia in archivio particolare dei dati oggetto della lite, è stata sufficiente a integrare il carattere aziendale degli stessi, dunque di per sé riservato alla conoscenza e disponibilità dell’imprenditore e 5 Trade Related aspects of Intellectual Property rights , definizione identica è stata poi recepita dall’art. 6-bis del r.d 29 giugno 1939, n. 1127, così modificato dal d.lgs. 19 marzo 1996 n.198.

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dei suoi collaboratori. L’attributo della segretezza non va dunque inteso in senso stretto, essendo tali quelle conoscenze che non sono generalmente note e dunque arrechino all’imprenditore un vantaggio temporale nel processo produttivo.6Riassumendo quanto detto fin ora alla luce di dottrina e giurisprudenza consolidate, il know-how inteso quale insieme di conoscenze ed esperienze necessarie per produrre un bene, attuare un processo produttivo, o per rendere più efficiente e competitiva un’attività commerciale, accede alla tutela giuridica laddove partecipi dei requisiti della novità e della segretezza. Quando questi sussistano esso è suscettibile di valutazione economica, identificato come un bene immateriale non riconducibile ad una tipologia disciplinata dall’ordinamento giuridico ma ugualmente degno di una tutela che vedremo si possa qualificare in termini “quasi dominicali”.

La tutela: profili generali La tutela riconosciuta al bene knowhow accede contemporaneamente sia alla categoria della tutela erga omnes, sia a quella inter partes. Quanto a quella inter partes, viene 6 Ottonello, La tutela civile e penale del know how alla luce della recente sentenza 25008/2001.

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attuata per mezzo di un contratto di concessione o licenza, atipico per definizione, ma riconosciuto a norma dell’art.1322 c.c. e nel quale le parti devono considerarsi ampiamente libere di stabilire caso per caso le tutele necessarie a garantirne le legittime istanze. A tali contratti accede, solo per esplicita previsione, un obbligo di riservatezza e viene nel contempo determinato il termine della durata di questa clausola. Tale tutela potrà essere esercitata a norma dell’art. 1218 c.c..

nel caso in cui un imprenditore sfrutti illegalmente e senza titolo i segreti, i risultati del lavoro altrui, l’esperienza del legittimo titolare del know-how, ovvero compia atti contrari alla correttezza professionale. Infine va notato che alla categoria di terzi in grado di arrecare nocumento al titolare delle informazioni degne di tutela, sono inseriti anche i dipendenti, in forza degli art. 2105 c.c. e 2125 c.c.

La tutela erga omnes, invece, ritenuta attivabile in sede civile e penale, trova la sua fonte normativa anzitutto nell’art. 2598 c.c. e nell’art. 6-bis della Legge Invenzioni, oltre alle norme per il risarcimento del danno subito di cui agli art. 1223, 1226 e 1227 c.c.. Queste norme introducono il concetto di concorrenza sleale

Nel momento in cui il know-how si diffonde esso perde valore come bene economico in qualche misura volgarizzandosi e privandosi del suo potenziale monopolisitico. La sottrazione di informazioni e la concorrenza sleale che ne discende possono essere posti in essere attraverso molteplici condotte: ci si può

La tutela civile.

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avvalere della collaborazione di un dipendente “infedele”, o ancora si può assumere un ex dipendente del detentore al solo fine di carpire il know-how del concorrente (così detto storno di dipendenti). La divulgazione abusiva può anche essere operata dal contraente del detentore che per sé o su istigazione di un terzo, provveda a trasferire o divulgare in spregio al contratto le conoscenze in suo possesso. Ipotesi più complessa e rara è quella dello spionaggio industriale che comunque trova copertura nell’ambito dell’art. 2598 c.c. 3° comma, norma di particolare importanza atta ad assommare a sé condotte molteplici. Le indicazioni di tale eminente dottrina sono state riprese pari pari dalla Suprema Corte che proprio l’art. 2598 comma 3° ha invocato per identificare, caso per caso, le fattispecie lesive della riservatezza dello know-how. 7 In via di sintesi, senza in questa sede soffermarci sugli sviluppi giurisprudenziali della vasta casistica in materia di concorrenza sleale, é dunque possibile affermare che l’ordinamento punisce chi consegua o tenti8 di conseguire in maniera il7 C.f.r Cort.App.Bologna, 19 giugno 1985; Trib. Orvieto 4 luglio 1996; Trib. Mantova 12 luglio 2002, ; Trib. Cagliari, 21 settembre 1998; Cass.24 febbraio 1983, n.1413; Cass., 15 marzo 1974, n.750 et altre. 8 Si è ancora in fase di grande dibattito sulla configurabilità di una potenziale

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lecita lo know-how detenuto da altri e per “maniera illecita” deve intendersi, fuori dal caso di un contratto di cessione, quell’insieme di condotte che violano la correttezza professionale. Non è considerato illecito cercare di acquisire nuove conoscenze tramite l’osservazione e lo studio di prodotti e delle caratteristiche funzionali del concorrente. Ciò che è illecito ai sensi dell’art. 2598 c.c. e dell’art 6-bis Legge Invenzioni, è la riproduzione pedissequa dei prodotti o dei metodi organizzativi, la violazione dei diritti di privativa, la sottrazione di conoscenze riservate con mezzi fraudolenti. Quanto alla prova della violazione è opportuno sottolineare che la Suprema Corte con la sentenza sentenza 18 maggio 2012 ha avuto modo di chiarire che questa può anche essere raggiunta in via presuntiva. La tutela penale. Alla tutela civile si affianca, per altro verso, anche la tutela penale lesione derivante dal tentativo di concorrenza sleale. Si sottolinea che una parte rilevante della dottrina ammette la punibilità del tentativo di storno allorché sia potenzialmente idoneo a pregiudicare l’altrui azienda, pur se l’evento dannoso non si verifichi per causa non imputabile al soggetto agente. Quanto al tentativo di spionaggio si affermato che esso è potenzialmente idoneo a provocare danno, avendo riguardo alle ripercussioni attuali ed eventuali del comportamento nella sfera dell’impresa concorrente.

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accordata al detentore del know how dagli artt. 622 e 623 c.p. che sanzionano il comportamento di chi sia appropri di segreti professionali, scientifici o industriali, per proprio o altrui profitto. La sanzione e dunque l’offesa penalmente rilevante, si manifesta quando dal fatto derivi nocumento in quanto la rivelazione o l’uso da parte di un soggetto diverso dal titolare già implica una diminuzione dell’elemento della segretezza ed esclusiva disponibilità, che è essenziale nella configurazione del valore economico dell’entità immateriale. Fino alla sentenza Cass.,19 maggio 2001, n.25008, l’estendibilità della tutela penale al know-how era fortemente in discussione. Con tale pronuncia la Suprema Corte ha avuto modo di statuire che “oggetto della tutela penale del reato in questione deve ritenersi il segreto industriale in senso lato, intendendosi per tale quell’insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e dunque la compressione dei tempi di produzione.” Sembra potersi dire che la Suprema Corte abbia fatto un passo in più, intravedendo, nell’ambito della tutela penale accordata al know how, il diritto personale dell’imprenditore alla organizzazione dell’attività economica (intesa nel più ampio senso possibile), a 36

tutela della capacità produttiva dell’impresa di cui è titolare. La tutela inter partes nell’ambito del contratto tipo. Abbiamo avuto modo di chiarire come alla tutela erga omnes riconosciuta dalle norme del Codice e da quelle previste dalla normativa di settore, si affianchi la tutela che le parti di un contratto di know how possono garantirsi ricorrendo alle specifiche clausole in esso apposte. Non è impedito infatti ai soggetti di un tale contratto di prevedere contrattualmente forme di tutela della segretezza del medesimo. Sarebbe buona regola per la parte interessata, provvedere, fin dalla fase delle trattative, ad attuare accorgimenti preventivi come ad esempio la sottoscrizione, da imporre alla controparte, di una lettera di intenti nella quale si dichiari di non possedere il know how e di non aver intrapreso ricerche per ottenerlo, di aver altresì intrapreso trattative al fine di acquisire le conoscenze oggetto del futuro contratto per un importo determinato. Strumento principale quale misura di segretezza è l’accordo di segretezza che accede accessoriamente al contratto, per espressa previsione e la cui violazione può, e consigliabilmente deve, essere sanzionata da una clausola penale.

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La tutela dei principi Unidroit Particolare forma di tutela è quella accordata nel caso in cui il contratto preveda un esplicito richiamo ai principi Undiroit9, o nel caso in cui li richiami indirettamente tramite il rinvio ai principi generali del diritto. Fondamentale a questo fine è il richiamo dell’articolo 2 punto 16 di detti principi il quale, in via di sintesi prevede che la parte che riceve informazioni riservate da controparte non possa rivelarle o servirsene scorrettamente a proprio vantaggio. In buona sostanza una previsione assimilabile alla tutela offerta dall’art. 2598 comma 3°.

La valutazione economica del bene know how. Un approfondimento, seppur in via di sintesi, merita la problematica della quantificazione del danno, ovverosia del valore perso a seguito della divulgazione abusiva del know-how o del suo uso privo di au9 Trattasi di un elenco di principi generali dedotti dalle pratiche commerciali usualmente adoperate dagli operatori internazionali. Tali principi possono essere optati dalle parti al fine di imbastire e concludere la trattativa, onde evitare la necessità di riferirsi alle reciproche norme nazionali, inserendo apposita clausola arbitrale al contratto. Possono altresì richiamarsi a tali principi ad integrazione di una normativa nazionale.

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torizzazione del detentore. Varie sono le metodologie adottate ad opera di dottrina e giurisprudenza. L’esperienza e le conoscenze peculiari maturate da un’azienda a seguito di processi di esperienza, ricerca, sviluppo e formazione, rientrano indubbiamente nell’ambito di un asset immateriale, ancorché valutabile economicamente. I principali metodi per la stima del valore di mercato di tali asset si suddividono in via di prima approssimazione in due categorie: i metodi empirici e i metodi analitici. I metodi empirici basati sull’osservazione pratica dei prezzi di mercato dei beni immateriali sufficientemente simili e, in quanto tali, comparabili. I metodi analitici, che hanno invece un fondamento scientifico più solido e una maggiore apprezzamento sul versante professionale, in quanto fondati su di un criterio reddituale-finanziario, per stimare quanto vale oggi un asset sulla base dei rendimenti futuri attesi ovvero una stima dei costi sostenuti o di riproduzione / rimpiazzo. Tra i tanti si segnalano: la determinazione dei costi di realizzazione della risorsa immateriale o da sostenere per la sua riproduzione, l’attualizzazione dei redditi o dei flussi di cassa derivanti dallo sfruttamento della risorsa immateriale, la determinazione delle “royalties presunte” che il titolare di una risorsa immateriale

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avrebbe richiesto per autorizzare dei terzi allo sfruttamento dello stesso.

Conclusioni La questione della prova e le “good practices”. Sebbene la giurisprudenza si sia ampiamente prodigata nel trattare l’argomento, abbiamo premesso quante problematiche si celino dietro la possibilità stessa di configurare un determinato insieme di competenze come know-how, ma anche circa la possibilità stessa di opporre la titolarità esclusiva di dette competenze, in assenza di un contratto o di altro titolo. Ci si intende riferire cioè alla possibilità di provare il proprio diritto al “preuso” di quelle competenze, di quelle particolari esperienze pratiche e industrialmente, quand’anche commercialmente, rilevanti, che offrono un vantaggio economico a colui che le detiene. Come provare la legittimità di questo titolo in assenza di forme di pubblicità codificate? Va ribadito che la Corte ha chiarito come la prova della titolarità del know-how possa essere raggiunta anche in via presuntiva. In fatto si è ritenuto che la circostanza che le aziende convenute (cui si imputava di aver sottratto abusivamente spe38

cifiche competenze e metodi di produzione) non avessero prodotto alcuna documentazione progettuale, studi di fattibilità ecc. a prova di uno specifico metodo di produzione di un determinato impianto, risultasse sufficiente a dichiararne la subordinazione al preuso dell’effettivo titolare. Di qui appare allora possibile all’interprete, de jure condendo, tracciare i confini di quelle che, senza pretese codificatorie, definiremo “buone pratiche” utili ad identificare, alla bisogna, elementi sufficienti a provare la titolarità del “primato” all’uso di un determinato know-how. La riconoscibilità dei processi aziendali : il primo elemento prodromico all’opponibilità del know How. L’imprenditore avveduto in primis, laddove abbia consapevolezza del vantaggio economico potenziale del particolare complesso di competenze ed esperienze maturate nell’ambito della sua attività(siano esse ascrivibili ad un particolare metodo industrial produttivo, o ad un particolare apparato organizzativo, o ancora a progressi tecnologici), dovrà fin da subito operare nel senso di rendere ricostruibili i passaggi che l’hanno portato a raggiungere quella determinata “invenzione”

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oltre che tracciare un ideale “filo d’Arianna” che definisca tali competenze quale conseguenza delle politiche aziendali e in ultima istanza quali elementi qualificanti l’azienda stessa. In questa misura appare utile che dei processi aziendali,all’interno dei quali e in funzione dei quali il know how matura, si lasci una traccia, ancorché coperta da riservatezza. A titolo di esempio, si ritiene che l’investimento operato in ricerca e sviluppo, genericamente inteso ed iscritto a bilancio, non potrà essere addotto quale titolo al preuso, ma se tale investimento viene opportunamente corredato da una relazione ad uso interno nella quale si descrive il particolare patrimonio di conoscenze ed esperienze, considerandolo unitariamente, si potrà ben ritenerlo conseguenza diretta dell’investimento, a cui agganciare dunque un primo segno della possibilità di “prenotare” il diritto in questione. Per altro verso ed ad integrazione, se tale investimento venga capitalizzato, magari scomputando gli ammortamenti grazie ad una normativa fiscale di favore, l’indicazione puntuale degli investimenti nella nota integrativa al bilancio (a quel punto obbligata), potrebbe ben d’onde costituire la prova di quanto stiamo dicendo. Le scelte aziendali che 39

riguardano il know how: il secondo elemento prodromico. In secondo luogo, è possibile che nelle sedi deputate a definire le politiche aziendali si prenda coscienza del particolare vantaggio economico offerto dal know-how caratterizzante un particolare processo produttivo maturato in seno all’azienda e si discuta della possibilità proprio di investire su tale know how, imprimendogli dunque un carattere d’originalità che ben si potrà eccepire a chi, venutone a conoscenza, ne sfrutti senza fatica. Ecco ancora che tornerà utile all’imprenditore che voglia rivendicare la titolarità di quel particolare know-how addurre e quantificare, tramite l’utilizzo della documentazione contabile, il vantaggio economico e concorrenziale conseguenza diretta dello stesso, a partire da una data certa e in confronto ai principali concorrenti. La riconoscibilità “esterna”di uno specifico know how : il terzo elemento prodromico. In terzo luogo, sebbene si sia anticipato in precedenza che la riservatezza e la segretezza siano elementi qualificanti la stessa esistenza del bene giuridico in oggetto, si potrebbe ipotizzare che la pubblicazione degli esiti (e si noti bene solo degli

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esiti, non del processo preordinato e che rimane coperto da riservatezza) di una ricerca condotta in seno all’azienda, presso riviste specialistiche, o anche presso il pubblico nelle sedi di una fiera o di un’esposizione specializzata, possa esser utile a provare il fatto che quel determinato know-how contraddistingua l’azienda. In altre parole il fatto di rendere conoscibile a terzi non tanto lo specifico contenuto delle competenze o dei processi che riguardano lo know-how, quanto i risultati e le innovazioni che con questo si sono ottenute, potrebbero costituire valido titolo da opporre a conferma della prenotazione, in capo all’autore, di tali competenze.

che tali conoscenze entrino a far parte a buon diritto di quelle attitudini e specificità che risultano indistinguibilmente connesse all’azienda e che la distinguono inequivocabilmente dai concorrenti.

Principio generale: la vocazione caratterizzante del know how. Volendo trarre un principio generale e di sintesi da queste “buone pratiche” si potrebbe dire che l’imprenditore dovrà vestire quel particolare insieme di competenze ed esperienze, di quell’originalità atta a qualificarle come criteri distintivi della propria attività ed eventualmente dei prodotti o del prodotto commercializzato. Il know-how in ultima istanza dovrà apparire come un tutt’uno con l’azienda stessa e i suoi prodotti di modo che esso ne possa esser considerato al contempo premessa ed esito. Cioè a dire 40

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diritto del lavoro

Voucher e lavoro nero: qual è il vero nemico? di

Caterina Paone

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na studentessa che fa la baby sitter, una casalinga che aiuta la nonna nei mestieri di casa una volta a settimana, un disoccupato che arrotonda consegnando le pizze al sabato sera. Queste attività lavorative non sono altro che di uno dei numerosissimi settori dell’economia italiana in cui il lavoro nero è quasi la regola. Nel corso degli ultimi due anni i dati, inevitabilmente indicativi, dell’occupazione non dichiarata hanno sforato il tetto del 30% dell’occupa-

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zione totale, con una stima nazionale di oltre 2 milioni di soggetti che ogni anno svolgono un’attività completamente ignota alle autorità. 1 Come tentare di fare uscire parte di queste professioni dall’illegalità del lavoro nero e come garantire una tutela adeguata a questi lavoratori, in particolar modo quelli occasionali? Di fronte a questa sfida si è posto il legislatore nel 2003, ponendosi 1 Fondazione studi del Consulenti del lavoro sull’attività ispettiva di Ministero del Lavoro-Inps-Inail del 2014 e de primi 6 mesi 2015.

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come obiettivo proprio quello di tutelare la sicurezza dei lavoratori occasionali permettendo altresì ai datori di lavoro di usufruire di tali prestazioni in tutta legalità. Gli originari articoli 70 e seguenti del d.lgs 276/2003 disciplinavano appunto le c.d. “prestazioni occasionali di tipo accessorio rese da particolari soggetti”, dove, con il termine “prestazioni occasionali”, si intendevano tutte quelle operazioni rese da soggetti “a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne”.2 Il sistema dei “buoni lavoro” permetteva al datore di acquistare presso tabaccherie, uffici postali o rivendite autorizzate un voucher del valore nominale di 7,50 euro valido per un’ora di prestazione lavorativa. Il lavoratore avrebbe ottenuto 5,68 euro di guadagno netto, mentre il resto sarebbe stato versato a INPS e INAIL per fini previdenziali e assicurativi. Inizialmente, la legge Biagi aveva limitato tale sistema nell’ambito di piccoli lavori domestici, ripetizioni private, giardinaggio e collaborazione con enti e associazioni, per un limite di retribuzione massima annuale al lavoratore pari a 3000 euro. 2 Art. 70 c.1 D.lgs 276/2003, prima delle modifiche.

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Modifiche alla disciplina originaria Nel 2012 la riforma Fornero ha esteso la retribuzione tramite voucher fino ad un limite di 5000 euro annui per ogni lavoratore, con un limite ulteriore di 2000 euro percepiti da un unico datore. Inoltre divenne possibile ricorrere ai “buoni lavoro” per tutte le categorie di attività. Il legislatore, attraverso l’immediatamente successiva riforma Giovannini, ha eliminato dall’art.70 c.1 del D.lgs 276/2003, che definisce le prestazioni accessorie, le parole “di natura meramente occasionale”. Questo tipo di rapporto di lavoro è ora definito dai soli limiti economici dei compensi, a prescindere dalla tipologia della attività svolta. Oltre, quindi, ai committenti privati, la disciplina è estesa anche a imprenditori e liberi professionisti, nonché enti pubblici in tutte le attività produttive. L’unica eccezione è rappresentata delle imprese agricole, le quali possono fare ricorso al lavoro occasionale accessorio solo se con volume d’affari superiore a 7.000 euro e se impiegano in questo ambito e per lo svolgimento di attività agricole di carattere stagionale, pensionati e giovani con meno di 25 anni di età regolarmente iscritti ad un ciclo di studi. Le aziende agricole con volume d’affari inferio-

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re a 7.000 euro possono invece ricorrere al lavoro occasionale accessorio per qualsiasi soggetto in qualunque tipologia di lavoro agricolo, non solo stagionale.

La disciplina del D.lgs 81/2015 Ad oggi, Il D.lgs 81 del 2015, attuativo della legge delega 183/2014 denominata Jobs Act, ha ulteriormente ampliato i termini delle prestazioni accessorie. All’art 48, co. 1 di tale decreto si osserva un innalzamento del limite massimo del compenso che il prestatore può percepire, esteso da 5.000 a 7.000 euro (rivalutabili annualmente secondo gli indici ISTAT) con riferimento alla totalità dei committenti nel corso di un anno solare. Mentre la prestazione dal lavoratore per ciascun imprenditore, fermo restando il limite totale dei 7.000 euro, non può comunque superare i 2.000 euro annui. Il Decreto Legislativo 81/2015 ha inoltre previsto una stabilizzazione dell’utilizzo dei voucher per i percettori di sostegno al reddito, prevedendo che le prestazioni di lavoro accessorio possano essere rese, in tutti i settori produttivi, nel limite complessivo di 3.000 euro per anno. Si dispone altresì il divieto di ricorso a prestazioni di lavoro accessorio “nell’ambito della esecuzione di ap43

palti di opere o servizi”, ad eccezione di specifiche ipotesi individuate con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali da adottare nei sei mesi successivi all’entrata in vigore del decreto. Tale previsione conferma il precedente orientamento dell’INPS3 e del Ministero del lavoro ponendosi invece in contrasto con alcune pronunce giurisprudenziali.4 Quali vantaggi dunque porta oggi il lavoro retribuito tramite voucher? È indubbio il vantaggio arrecato ai datori di lavoro che possono agilmente sostituire i propri dipendenti assenti o utilizzare manodopera solo all’occorrenza, senza dover stipulare alcun tipo di contratto e godendo comunque di una copertura assicurativa contro gli infortuni. Anche per i soggetti prestatori di lavoro risulta vantaggioso poter integrare le proprie entrate compatibilmente con eventuali indennità di disoccupazione, senza essere obbligati a ulteriori adempimenti fiscali e con la garanzia di una copertura sia assicurativa che previdenziale. Inoltre, per i lavoratori stranieri, i 3 Circolare n. 88/2009 e Circolare n. 49/2013 4 sentenza del Trib Milano n. 318/2014 “…non si rinvengono nella normativa vigente indicazioni che confinino, come sostiene il ricorrente, la liceità del lavoro accessorio nell’ambito della utilizzazione diretta dei lavoratori da parte dell’utilizzatore con esclusione dei rapporti di appalto o di somministrazione”.

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redditi percepiti attraverso i buoni lavoro, concorrono anche al fine del raggiungimento del reddito necessario per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno5.

Abuso della disciplina Attualmente, le associazioni sindacali segnalano, però, un inevitabile uso distorto dello strumento dei buoni lavoro da parte dei committenti. Nella prassi, infatti, i datori di lavoro mantengono alle proprie dipendenze lavoratori retribuiti soltanto per una minima percentuale delle ore giornaliere attraverso i voucher, provvedendo alla restante retribuzione in contanti. In caso di controlli i datori possono mostrare i buoni lavoro e affermare che quel dipendente è lì solo per quel tempo; salvo poi trattenerlo per ulteriori ore lavorative pagate in contanti. Nel corso del 2015 i buoni lavoro venduti sono stati ben 71 milioni. E così, quello strumento che doveva coprire una minima parte di prestazioni lavorative, è diventata una delle fonti principali di retribuzione comportando altresì “un aumento di mestieri ultra-precari. Di impieghi barattati al ribasso, che anziché essere regolarizzati, vengono pagati con uno strumento che non garantisce alcun diritto al lavoratore se 5

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Art. 48 c.5 D.lgs 81/2015

non quell’1,2 euro di contributi versati all’Inps per una futura pensione”6. Il voucher non dà infatti diritto alle prestazioni dell’INPS a sostegno del reddito quali: la disoccupazione, la maternità, la malattia, gli assegni familiari, né, tanto meno, ferie, tredicesima, TFR o altri permessi retribuiti che spettano a un lavoratore regolarmente assunto. I mezzi per combattere parzialmente questi abusi sarebbero in realtà previsti. All’art. 49 c.5 del D.lgs 81/2015 si prevede espressamente l’introduzione di una procedura telematica per registrare i voucher. I committenti imprenditori o professionisti sono infatti tenuti, prima dell’inizio della prestazione, a “comunicare alla direzione territoriale del lavoro competente–oltre che a INPS e INAIL-, attraverso modalita’ telematiche, i dati anagrafici e il codice fiscale del lavoratore, indicando, altresi’, il luogo della prestazione con riferimento ad un arco temporale non superiore ai trenta giorni successivi”7. Il decreto attuativo che espliciti tali procedure telematiche però non è tutt’ora stato emanato e non ci sono scadenze obbligatorie per presentarlo. La circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali n° 3337 6 Corrado Ezio Barachetti, responsabile nazionale per il mercato del lavoro della Cgil. 7 Art.49 c.5 Dlgs 81/2015

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del 25 giugno 2015 ha infatti chiarito che, nelle more dell’attuazione, la comunicazione viene effettuata agli istituti previdenziali secondo la disciplina precedente. Ossia, i datori acquistano presso le rivendite autorizzate uno o più carnet di buoni orari, numerati progressivamente, operando una comunicazione iniziale in cui si informa di avere alle proprie dipendenze un lavoratore pagato con i buoni lavoro, non sussistendo, però, l’obbligo di specificare né ora né giorno dell’effettivo svolgimento della prestazione. L’unico obbligo successivo sarà quello di comunicare l’effettivo pagamento della prestazione al termine della stessa. Le prassi abusive risultano quindi molto semplici, ma il tutto viene mantenuto in nome di una “salvaguardia della flessibilità”8 che questo tipo di retribuzione è volto a garantire.

I reali obiettivi del legislatore Sebbene a primo impatto la disciplina sembra rappresentare l’ennesima scappatoia che permetta ai datori di risparmiare sul costo del lavoro operando una inevitabile compressione dei diritti dei lavoratori, nonché un ulteriore occasione di evasione fiscale, gli intenti del legislatore potrebbero essere letti 8 Paolo Pennesi, segretario generale del Ministero del Lavoro.

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secondo una ratio differente. Lo strumento del voucher si pone infatti nell’ottica di far affiorare una parte di quel lavoro nero, che di per sé è presente nel panorama economico italiano da tempo immemore, ma con l’obiettivo di fondo della realizzazione dell’aumento totale dell’occupazione dei lavoratori italiani. Si tratta dello stesso obiettivo alla base dell’art. 529 del medesimo decreto che prevede una rilevante eccezione all’abolizione dei contratti parasubordinato (co.co.co) per il settore dei call center. Vista la tendenza delle compagnie telefoniche italiane a servirsi di call center situati all’estero, in ragione del minor costo del lavoro, si è propeso per il mantenimento di questo tipo di contratti per far sì che il settore rimanesse rivolto a un mercato del lavoro italiano. Allo stesso modo l’agevolazione che il legislatore opera attraverso una tassazione con aliquota del 25% nei buoni lavoro a fronte di un’aliquota standard del 33% non rappresenta che l’ennesimo tentativo di 9 Art. 52 (Superamento del contratto a progetto) 1. Le disposizioni di cui agli articoli da 61 a 69-bis del decreto legislativo n. 276 del 2003 sono abrogate e continuano ad applicarsi esclusivamente per la regolazione dei contratti gia’ in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto. 2. Resta salvo quanto disposto dall’articolo 409 del codice di procedura civile.

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riportare il fenomeno del lavoro nero entro limiti minori facendo in modo che a pagarne le spese non sia una diminuzione dell’occupazione in generale. E sempre nella stessa ratio si pone, molto probabilmente, il ritardo nell’attuazione delle procedure di attivazione telematica dei voucher. Quello che si vuole scongiurare sembra quindi essere la diminuzione drastica della vendita dei voucher e in generale una diminuzione del lavoro accessorio con la conseguente ri-sommersione di tutte queste prestazioni lavorative nell’ombra del lavoro nero senza nemmeno “quell’1,2 euro di contributi versati all’Inps per una futura pensione”10.

stimata di 25 miliardi di euro 11, il voucher non è, ad oggi, la soluzione. A differenza di altre economie europee, in Italia rappresenta solo uno dei tanti e insufficienti argini al fenomeno del lavoro nero che sembra ormai connaturato all’economia di molti settori produttivi.

Ecco quindi delinearsi un panorama piuttosto aberrante dal punto di vista sia giuridico che etico in cui il legislatore, anche con quest’ultima riforma del lavoro, si pone in competizione con l’evolversi delle prassi evasive del lavoro nero, in un perenne e forse inevitabile tentativo di raggiungere il “male minore”, operando con la stessa logica sottesa ai condoni fiscali. Per un sistema come il nostro, caratterizzato da oltre due milioni di lavoratori completamente inesistenti per le autorità e una conseguente evasione fiscale 10 Corrado Ezio Barachetti, responsabile nazionale per il mercato del lavoro della Cgil.

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11 Fondazione studi del Consulenti del lavoro sull’attività ispettiva di Ministero del Lavoro-Inps-Inail del 2014 e de primi 6 mesi 2015.

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diritto penale

L’abolitio criminis del reato-scopo nell’associazione a delinquere: qualche breve cenno di

Filippo Fiore

L’

associazione a delinquere è una fattispecie delittuosa prevista dall’art. 416 cod. pen., che la delinea nel seguente modo: “(Co. 1) Quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre

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a sette anni. (Co. 2) Per il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della reclusione da uno a cinque anni. (Co. 3) I capi soggiacciono alla stessa pena stabilita per i promotori” (seguono altri quattro commi con la previsione di alcune circostanze aggravanti). Come è facile vedere, la fattispecie in esame è caratterizzata da due elementi: una pluralità

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di soggetti associati tra di loro, con un minimo di stabilità ed organizzazione, e lo scopo di commettere un numero indeterminato di delitti1. Questi delitti, che costituiscono la finalità dell’associazione, vengono chiamati in dottrina reati-scopo o delitti-fine. Occorre, peraltro, notare che la fattispecie delittuosa di cui all’art. 416 cod. pen. viene a perfezionarsi con la mera costituzione dell’associazione, prescindendo dalla realizzazione dei delitti che il sodalizio si propone come finalità2. Pertanto il reato di associazione per delinquere è una fattispecie autonoma, volta a tutelare un bene giuridico, distinto da quello tutelato dalla norma sanzionante il delitto-scopo, ovverosia l’ordine pubblico, tutelato, peraltro, già da una mera esposizione a pericolo (il reato in esame, infatti, è unanimemente considerato reato di pericolo). Ora, la questione, non semplice, che si cerca di affrontare in questo articolo, è quali effetti comporti l’abolitio criminis dei delitti-scopo perseguiti dagli associati sulla configurabilità del reato cui all’art. 416 cod. pen. Chiaramente, se dopo la abrogazione (o anche solo la deru1 F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. II, Giuffrè, Milano, 2008 (edizione aggiornata a cura di C.F. GROSSO), pp. 248-249. 2 F. ANTOLISEI, op. cit., p. 251.

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bricazione a contravvenzione3) di una data fattispecie di reato viene costituita una associazione che la persegue come scopo, non è configurabile un’associazione a delinquere; tutt’altro discorso occorre, invece, fare, qualora vi sia un’associazione a delinquere finalizzata alla commissione di un determinato delitto, il quale in un momento successivo viene abrogato4: può in questo caso avere applicazione l’art. 2, secondo comma, cod. pen., che prevede l’impossibilità di perseguire una condotta qualora una legge successiva non la preveda più come reato, anche all’associazione a delinquere? Già in generale la modifica mediata di una norma penale è una questione controversa, tanto più lo è nel caso dell’associazione a delinquere, per le particolari caratteristiche della fattispecie sopra ricordate. Riguardo al problema della applicabilità dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., nel caso di un’associazione per delinquere che abbia perseguito un delitto-scopo poi abrogato, 3 F. ANTOLISEI, op. cit., p. 249. 4 Ad esempio, un’organizzazione volta a praticare l’aborto a donne consenzienti entro il novantesimo giorno di gravidanza sarebbe stata perseguibile certamente prima del 1978, anno della abrogazione dell’art 546 c.p. che prevedeva l’aborto come reato, e certamente non lo sarebbe stata qualora costituita dopo tale data. Ma sarebbe stata perseguibile dopo il 1978 la stessa organizzazione qualora fosse stata costituita ed operativa prima di tale abrogazione?

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la dottrina si divide in tre indirizzi diversi: il primo che nega l’abolitio criminis, il secondo che la ammette a determinate condizioni che vedremo più avanti, il terzo che tende ad ammetterla nel senso più ampio possibile. Il primo indirizzo, che è probabilmente quello prevalente tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, sostiene che non è possibile che l’abolitio criminis del delitto-scopo possa precludere la configurabilità dell’associazione a delinquere. Il reato-scopo costituisce, infatti, all’interno della previsione incriminatrice di cui all’art. 416 c.p., un “elemento normativo”, ovvero, un elemento della fattispecie che fa riferimento ad un’altra norma che può essere tanto giuridica, come nel nostro caso (il termine delitti presente nell’art. 416, co. 1), quanto extra-giuridica.

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come quella determinata norma richiamata dalla norma incriminatrice che contribuisce a delineare la figura astratta del reato, in questo modo agendo sulla fisionomia della fattispecie stessa. Norme integratrici sono ritenute, ad esempio, le norme definitorie che hanno la caratteristica di chiarire il significato di termini usati nella norma penale che le richiama, o le norme penali in bianco volte proprio, nel nostro ordinamento, alla integrazione tecnica della norma penale da parte di atti dell’esecutivo6. Solo la modifica di norme aventi questa capacità di “integrare” la norma incriminatrice può modificare la legge penale che le richiama, abrogandola anche, parzialmente o totalmente.

Le norme che riempiono di significato gli elementi normativi non sono generalmente considerate “norme integratrici” della norma al cui interno l’elemento normativo compare, non contribuendo esse a delineare la scelta politico-criminale del legislatore5. In questo filone dottrinale, infatti, la norma integratrice è definita

Pertanto, mancando all’elemento normativo del delitto-scopo (indicato dal termine “delitti”, la natura di norma integratrice) esso è da considerare contestualmente e funzionalmente autonomo7. Data quindi questa autonomia del concetto “delitti” nel dettato dell’art. 416 cod. pen., concetto che serve unicamente a determinare la configurabilità dell’associazione al tempus commissi delicti, l’eventuale mutamento del disvalore legislativo verso una condotta che costituiva lo scopo dell’as-

5 G.L. GATTA, Abolitio criminis e successione di norme integratrici: teoria e prassi, Milano, Giuffrè, 2008, p. 470.

6 G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, parte generale, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 109-112. 7 G.L. GATTA, op. cit., p. 475.

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sociazione a delinquere non porta alla modifica strutturale della fattispecie legale astratta, richiesta per l’abolitio criminis8. Inoltre, come detto sopra, l’associazione a delinquere è una fattispecie delittuosa autonoma, che minaccia il bene giuridico «ordine pubblico»9. Esso è un bene giuridico totalmente autonomo da quello che viene offeso dal delitto-scopo, ed altrettanta autonomia vi è tra il giudizio di disvalore vertente sul delitto-scopo e quello vertente sulla associazione in oggetto, i cui componenti sono puniti, è bene ricordarlo, per il solo fatto di averla costituita10. Infatti è proprio la condotta dell’associarsi, allo scopo di perseguire una condotta delineata al tempo come delittuosa, che offende il bene giuridico ordine pubblico ed integra la fattispecie di associazione a delinquere, non constando successivi mutamenti del giudizio di disvalore sulla condotta che, al tempus commissi delicti, era sanzionata come delittuosa11, permanendo l’interesse del legislatore verso la tutela dell’ordine pubblico ex art. 416 cod. pen.12. 8 G.L. GATTA, op. cit., p. 476; F. PARDINI, Vecchi e nuovi problemi in tema di successione di norme integratrici, in Dir. pen. e proc., 2006, p. 618. 9 Come ben risulta dal titolo sotto cui è posto l’art. 416 cod. pen. 10 vd. art. 416, comma primo, cod. pen. “... sono puniti, per ciò solo ...” 11 G.L. GATTA, op. cit., p. 479. 12 M. POLVANI, Associazione per

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Il rischio che corrono coloro che sostengono l’abolitio criminis, per questo orientamento dottrinale, è quello di negare appunto che l’associazione a delinquere costituisca una specifica forma di minaccia ad un autonomo bene giuridico13, vedendola forse, in realtà, più come una forma di manifestazione del reato che come un titolo autonomo di reato, quale de jure e de facto è. In questo senso è utile ricordare come in caso di condanna per associazione a delinquere, se da un lato gli appartenenti alla societas scelerum vengono condannati ex art. 416 cod. pen. per la loro mera appartenenza al sodalizio, dall’altro vengono condannati singolarmente per i delitti-scopo personalmente perpetrati a titolo di mandante, autore materiale, concorrente, a seconda dell’effettiva modalità personale di attuazione del reato. Dunque, per questo orientamento è impossibile l’abolitio criminis perché la previsione dello scopo dell’associazione come delitto consta solamente al momento del costituirsi dell’associazione14, e qualora muti il giudizio di disvalore sul sindelinquere ed abolitio criminis del delitto-scopo, Cass. pen., 1992, p. 2512. 13 G.L. GATTA, op. cit., p. 477; D. MICHELETTI, Legge penale e successione di norme integratrici, Torino, G. Giappichelli, 2006, p. 510, cit. in G.L. GATTA, op. cit., p. 477, nota 276. 14 G.L. GATTA, op. cit., p. 471.

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golo delitto-fine, esso non muta riguardo all’attentato all’ordine pubblico perpetrato nel dato momento storico in cui l’associazione è sorta. Il secondo orientamento dottrinale, invece, è incentrato non sulla fisionomia della norma richiamata dalla parola “delitti”, per vedere se avrà o meno influenza sulla configurazione della fattispecie legale astratta, ma sull’influenza o rilievo che detta norma richiamata avrà sul disvalore astratto del fatto15. Dunque, per questo orientamento, il precetto penale resta immutato nel caso di successione di elementi normativi, magari rilevanti al fine dell’individuazione dei fatti tipici, ma che non concorrono ad individuare la scelta politico-criminale del legislatore16. Quando, però, l’elemento richiamato incide sul disvalore ed esso venga depenalizzato è da ritenere configurabile l’abolitio criminis, in quanto una visione con15 D. PULITANÒ, Diritto penale, Torino, G. Giappichelli, 2007, p. 686; A. CAVALIERE, Associazione per delinquere, in S. MOCCIA (a cura di), Delitti contro l’ordine pubblico, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2007, pp. 317-318; F. PARDINI, op. cit., p. 618. 16 Cfr. ad es. per il rapporto tra norme cautelari riguardo la circolazione stradale e l’omicidio colposo, C.F. GROSSO, Successione di norme integratrici di leggi penali e successione di leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, pp. 1206-1213

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traria sarebbe da ritenere contraddittoria con il senso di fondo del mutamento dell’ordinamento17. In questo senso c’è, per questa corrente, una netta distinzione tra i casi spesso accostati della depenalizzazione del delitto-scopo dell’associazione a delinquere e della depenalizzazione del delitto oggetto di calunnia18, in quanto nel primo caso con la depenalizzazione viene meno anche il disvalore legislativo, mentre nel secondo caso resta inalterato19. Il terzo orientamento, partendo in parte da basi comuni con il secondo ed in parte da basi autonome, propugna una più ampia visione dell’applicabilità dell’abolitio criminis, non solo riguardo all’ambito dell’art. 416 cod. pen. Infatti da un lato la teoria appoggiata dai sostenitori del secondo orientamento viene fatta propria, per un certo verso, anche da questa corrente, che però rileva, come già qualche sostenitore del secondo orientamento20, la mancanza di univocità dei criteri utilizzati per stabilire quando venga meno il disvalore 17 D. PULITANÒ, op. cit., p. 687. 18 Altro caso per il quale correnti minoritarie ritengono configurabile, con motivazioni affini a quelle dell’associazione per delinquere, l’abolitio criminis. 19 F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, CEDAM, 2011, pp. 84-85 20 A. CAVALIERE, op. cit., pp. 317318.

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legislativo21. Pertanto rimanendo costante l’incertezza interpretativa è ritenuto, in quest’ambito dottrinale, preferibile ritenere applicabile l’art. 2, II comma, cod. pen.22 ad ogni caso di modifica mediata del precetto penale. Ciò viene sostenuto attraverso la teoria dell’incorporazione della disposizione integratrice dell’elemento normativo nella stessa norma incriminatrice, ovvero sostenendo che la disposizione integratrice finisce per far corpo con la stessa norma incriminatrice che la richiama, nel limite in cui contribuisce a delineare i presupposti della rilevanza penale della fattispecie23. Da un altro lato questo orientamento dottrinale viene sostenuto attraverso l’identità tra la nozione di “fatto” di cui al comma primo dell’art. 2 cod. pen. e la nozione di “fatto” di cui al comma secondo del medesimo articolo. Ovvero, poiché nessun fatto può essere punito (ai sensi dell’art. 2, comma 1) se non è previsto dalla legge come “fatto” nel senso di “fatto storicamente determinato” in tutti i suoi aspetti rilevanti ai fini dell’applicazione della disposizione incrim21 G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, Zanichelli, 2014, p. 107. 22 A. MANNA, Corso di diritto penale. Parte generale, Padova, CEDAM, 2007, pp. 84-85. 23 G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 108.

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inatrice24, comprendendo quindi, ai fini della individuazione, tutti gli elementi presenti nella norma, il terzo orientamento25 non vede perché, permanendo il medesimo significato riguardo alla nozione di “fatto” pure nel secondo comma (riguardante la non punibilità dei fatti non più previsti come reato), una modifica di un elemento normativo qualsiasi, richiamato anche indirettamente dalla fattispecie, non debba portare a ridisegnare i confini del precetto penale ex art. 416 cod. pen. Guardando ora alla giurisprudenza, c’è da notare come essa sia piuttosto scarna, tantoché le sentenze che possono essere definite rilevanti sono solamente due, di cui una di merito. La prima in ordine cronologico è la sentenza della Corte d’Appello di Firenze del 21 giugno 199126, vertente, per quel che interessa questo articolo, sulla configurabilità dell’associazione a delinquere nel caso del Cisa (Centro informazioni sterilizzazione ed aborto), un’organizzazione che prima della emanazione 24 T. PADOVANI, Diritto penale, Milano, Giuffré, 2012, p. 46. 25 G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 108; A. RESTIGNOLI, Esclusa la configurabilità del reato di associazione per delinquere per la sopravvenuta depenalizzazione del reato fine, in Cass. pen., 2006, pp. 2070-2072. 26 C. app. Firenze, 21 giugno 1991, Conciani e Spadaccia, in Foro it., 1992, cc. 301-305.

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della legge n. 194/1978 forniva supporto logistico, organizzativo ed assistenziale per il compimento di aborti entro il novantesimo giorno di gravidanza all’estero. In questo caso la Corte prosciolse gli imputati dall’accusa cui all’art. 416 cod. pen., riguardo al delitto-scopo di aborto27 sostenendo che “l’abolitio criminis concernente i reati fine proietta i suoi effetti anche sulla punibilità del delitto associativo, precludendo allo Stato di insistere nella propria pretesa punitiva in ordine ad un’ipotesi incriminatrice non più avvertita come lesiva degli interessi protetti dall’ordinamento, per la sopravvenuta irrilevanza penale degli originari reati fine”28. La seconda è invece la sentenza n. 13382 del 2005 emessa dalla prima sezione della Corte di Cassazione, vertente sulla configurabilità di un’associazione a delinquere nel caso di un’organizzazione volta alla sofisticazione vinicola, dopo che il suddetto delitto era stato derubricato ad illecito amministrativo dal d.lgs. 507/1999. In questo caso, la Suprema Corte ha deliberato sostenendo che, operando la depenalizzazione del delitto-scopo ex tunc, essa svuota di contenuto penalmente rilevante 27 Previsto all’epoca dei fatti dall’art. 546 cod. pen. 28 C. app. Firenze, 21 giugno 1991, Conciani e Spadaccia, cit., c. 303.

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il sodalizio, non rendendo perciò configurabile la fattispecie cui all’art. 416 cod. pen., tantoché – sostiene la Corte –in caso la sentenza di condanna fosse già divenuta irrevocabile, gli imputati avrebbero potuto azionare il meccanismo giuridico previsto dall’art. 673 cod. proc. pen. e ottenere la revoca della sentenza per abolizione del reato29. Terminata questa breve panoramica e concludendo questi cenni, mi permetto di esternarne qualche modesto parere personale. Certamente l’argomento è tanto interessante quanto complesso, poiché da un lato è presente la questione degli elementi normativi della fattispecie e della loro controversa portata integrativa (già di per sé una vexata quaestio) e dall’altro vi è una fattispecie particolare come quella dell’art. 416 cod. pen. Leggendo, infatti, è facile vedere come la contrapposizione sia netta tra i vari filoni dottrinali, senza però che nessun orientamento manchi di pregio. Tuttavia, dal punto di vista logico-formale della disciplina della norma integratrice, mi sembra dotato di un maggior rigore il primo orientamento, in quanto inizia dalla individuazione del concetto di norma integratrice, come norma richiamata dal precetto penale capace di contribuire a descrivere fattispecie 29 Cass. pen., Sez. I, 9 marzo 2005, n. 13382, Screti, in DeJure.

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astratta del reato ed a esprimere di ledere l’ordine pubblico, ma la scelta di ordine politico-criminale magari gli è addirittura riconosciuto del legislatore30. Allo stesso tempo, come diritto. Non può essere trascuse tale indirizzo è dal punto di vis- rato inoltre come la condanna per ta teorico difficilmente attaccabile, associazione per delinquere possa vi è, in caso di abolizione del rea- essere controproducente dal punto to scopo, quanto meno una situazi- di vista politico-criminale. La radice one abbastanza incresciosa. Se per di questo problema sta anche nella questo orientamento la delittuosità scelta di fondo della codificazione dello scopo dell’associazione consta del 1930, ovvero, il fine di reprimere solo al momento della sua costituz- con viva forza ogni minimo embriione per la configone di organizzaziurabilità del reato Vi è, nel caso one potenzialmente cui all’art. 416 cod. anti-statale. Una di abolizione scelta che, se da pen., allo stesso tempo, il persegui- del reato-scopo, un lato è astrattamento dello scopo mente giusta, può una situazione delittuoso del soportare ad effetti dalizio, da cui deridiscutibili sul piabbastanza va geneticamente ano della politica incresciosa per il suo persecriminale. Infatti guimento in forma il Codice Rocco organizzata, la minaccia all’ordine ha ridotto i requisti per la configupubblico, può, col mutare del giu- razione dell’associazione a delindizio del legislatore, non solo essere quere al limite del concorso: non è considerato penalmente irrilevante, stato infatti previsto un quantum di ma persino elevato a diritto31. Il che pericolosità per il delitto scopo ed il può tradursi nell’espiazione da par- numero dei membri è stato abbassate di alcuni soggetti di una pena per to dai cinque del codificazione del associazione a delinquere, avendo 1889 ai tre del 1930. Questo, ovessi perseguito in forma organizzata viamente, da un lato ha il pregio di ciò che mentre scontano la loro con- permettere la efficiente repressione danna, non solo è ritenuto incapace di minacce all’ordine pubblico meno 30 G. MARINUCCI, E. DOLCINI, evidenti e più subdole, ma dall’altro op. cit., p. 109; G.L. GATTA, op. cit., p. 470. rischia di portare a condanne pesan31 Basti pensare allo sciopero, delitto ti per reati di minima pericolosità per l’originaria codificazione del 1930 ed el- sociale, magari anche solo tentati, evato a diritto con la Costituzione repubblipurché vi partecipino con un minicana. vd. F. MANTOVANI, op. cit., p. 85. 54

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mo di collaborazione organica tre persone, il che dal punto di vista politico-criminale può portare a condanne non piccole, con possibili effetti criminogeni certamente indesiderabili. Riguardo a ciò il primo orientamento, purtroppo, non offre una soluzione interpretativa che elida almeno in parte questi problemi, mentre gli altri due orientamenti, forse avvertendo questa necessità, cercano di porvi rimedio. Allo stesso tempo, però, questi ultimi due indirizzi non offrono criteri ermeneutici assolutamente incontrovertibili, validi tanto per l’abolitio criminis nel caso di associazione a delinquere, quanto in altri casi affini, e non appare possibile neanche distinguere caso per caso (scelta che non contribuirebbe certo all’univocità dei criteri interpretativi)32. Pertanto, sembrandomi impossibile trovare altri criteri interpretativi soddisfacenti riguardo alla successione di norme integratrici oltre a quelli del primo orientamento, ma presentando indubbiamente la sua applicazione il rischio di condurre a delle situazioni incresciose, anche dal punto di vista politico-criminale, sarebbe forse auspicabile una soluzione de jure condendo. Essa potrebbe, magari, restringere la configurabilità dell’associazione a delinquere a delitti di particolare gravità, aumentando an32 G. FIANDACA, E. MUSCO, op. cit., p. 107 e nota 132.

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che il numero minimo dei componenti, come era nel Codice del 188933. In tal modo sarebbe forse possibile conciliare la chiarezza logico-teorica del primo orientamento con la necessità di porre un rimedio ai problemi sopra citati, evitando da un lato - il disordine nei criteri interpretativi delle norme che potrebbe sorgere e - dall’altro - escludendo la configurabilità quali vere e proprie associazioni a delinquere in casi che sono attualmente al confine tra il concorso e la fattispecie trattata in questo articolo, specialmente in materie di non grave pericolosità criminale e sociale.

33 vd. art. 248, comma primo, del Codice penale del 1889: “Quando cinque o più persone si associano per commettere delitti contro l’amministrazione della giustizia, o la fede pubblica, o il buon costume, o l’ordine delle famiglie o contro la persona o la proprietà, ciascuna di esse è punita, per il solo fatto dell’associazione, con la reclusione da uno a cinque anni.”

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diritto privato

Il tempo libero: diritto “immaginario” o allucinazione dei giudici? di

Giulia Pirola

I

n tempi piuttosto recenti la nostra giurisprudenza di legittimità è stata chiamata a pronunciarsi sul cosiddetto “diritto al tempo libero” e, in particolare, sulla risarcibilità del danno derivante dalla sua eventuale lesione1. Se, da una parte, si è assistito ad 1 Facciamo riferimento alle decisioni (pressoché identiche nella motivazione) di Cass. 27 aprile 2011, n. 9422 e di Cass. 4 dicembre 2012, n. 21725.

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una progressiva evoluzione delle posizioni che fanno capo al soggetto inteso come persona fisica, dall’altra si sono affacciati all’esame dei giudici numerosi casi di confine, dove non sempre risulta agevole accertare se sia in gioco o meno un interesse meritevole di protezione mediante lo strumentario dei rimedi offerti dal sistema giuridico.

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L’istituto del risarcimento del danno alla persona negli ultimi anni è stato interessato da diversi cambiamenti, avvenuti nell’ottica di una profonda rivalutazione della personalità umana e della portata assiologica dei diritti soggettivi alla stessa connessi2. La stessa giurisprudenza di legittimità ha conosciuto oscillazioni, rimanendo oggi tuttavia fermo il principio della la risarcibilità aquiliana del danno non patrimoniale cagionato dalla lesione di interessi costituzionalmente garantiti, e cioè di situazioni giuridiche soggettive che rivelino “indici idonei a valutare se nuovi interessi, emersi nella nuova realtà sociale [siano] non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana”3. Invero, la Corte di Cassazione ha proceduto ad una rilettura costituzionale del sistema risarcitorio del danno, sulla base del catalogo “aperto” dei diritti inviolabili dell’uomo contenuto nell’art. 2 Cost., che rimanda ad una realtà 2 Sul ruolo e sul valore (unitario) della persona nell’ordinamento giuridico, soprattutto alla luce delle direttive ermeneutiche provenienti da una lettura funzionalistica della Costituzione, v. già P. PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli-Camerino, 1972. 3 È ormai un leading case in materia il precedente rappresentato da Cass. S.U. 11 novembre 2008, n. 26972.

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sociale in continua evoluzione. Tuttavia, la Suprema Corte, probabilmente sospinta dalla preoccupazione di contenere la proliferazione di istanze risarcitorie che traevano linfa dalla prima affermata, e poi appunto rinnegata, configurabilità di nuove voci di danno (c.d. danno esistenziale), nel 2008 precisava al contempo che devono ritenersi “palesemente non meritevoli di tutela risarcitoria […] i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti della vita quotidiana”, non valendo il riferimento a diritti “del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità” e, cioè, alla felicità. Le due decisioni di legittimità del 2011 e del 2012, cui si è fatto riferimento nell’incipit del presente scritto, più che contenere o ridimensionare l’apertura alla tutela aquiliana delle posizioni soggettive individuali, rappresentano una brusca e inopinata battuta d’arresto nel cammino evolutivo della lettura, costituzionalmente orientata, del danno non patrimoniale alla persona. Ed invero, la Suprema Corte ha voluto premettere che i diritti inviolabili della persona sono quelli positivizzati, e cioè quelli riconosciuti e garantiti dalla Costituzione, dalla Convenzione europea sui diritti fondamentali dell’uomo

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(così come interpretati dalla Corte di Strasburgo), dal Trattato di Lisbona e dalla Carta di Nizza. In questa cornice, però, non troverebbe spazio - ad avviso dei giudici di legittimità - il diritto al tempo libero, dal momento che l’esercizio delle stesso risultava in qualche modo subordinato all’esclusiva “autodeterminazione” della persona, “libera di scegliere tra l’impegno instancabile nel lavoro e il dedicarsi, invece, a realizzare il suo tempo libero da lavoro e da ogni occupazione” (sic!). La Suprema Corte sancisce così la esclusione del diritto in questione dal novero dei diritti inviolabili4, e dunque meritevoli di tutela risarcitoria aquiliana in caso di lesione, pur fonte di pregiudizi non patrimoniali. Anzi, il diritto al tempo libero viene icasticamente definito dalla Suprema Corte un diritto “immaginario”, perché la sua idea risiede soltanto nella immaginazione del danneggiato (nella specie: un avvocato, che ha dovuto dedicare tempo ed energia per sopperire all’inerzia e all’inefficienza di un servizio su cui aveva fatto affidamento, privato in un caso, pubblico nell’altro). 4 Va da sé che l’intento sotteso all’orientamento in esame rimane quello di evitare la creazione e il riconoscimento di pretestuosi e nuovi diritti inviolabili (cfr. C. BONA, Studio sul danno non patrimoniale, Milano, 2012, 84).

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Chiarita la recente presa di posizione da parte della giurisprudenza di legittimità in materia di risarcimento da lesione aquiliana del tempo libero, resta, però, da chiedersi se quello al tempo libero rivesta la dignità di situazione giuridica soggettiva meritevole di protezione da parte dell’ordinamento giuridico. Or bene, che il tempo libero, e cioè il tempo liberato dagli impegni e dall’attività produttiva, sia un connotato essenziale della dimensione della vita, tanto da assurgere a sua inalienabile componente, è indubbio5. Così come appare indubbio che il tempo libero rappresenti uno dei “luoghi” di esplicazione della persona, la cui autodeterminazione è, più che e oltre che un fondamentale diritto dell’uomo, il perno attorno a cui ruota l’intero sistema giuridico costituzionale ed europeo. Come è stato recentemente sottolineato con particolare nitore da un illustre giurista, in un’opera significativamente al fenomeno della “eclissi” del diritto civile, è pacifico che “il tempo libero sia uno dei modi in cui si esprime o si declina la libertà del soggetto, della quale non si può negare che 5 Il tempo libero è, anzi, di più: è, cioè, “il tessuto stesso della vita personale, l’ambiente in cui si cerca di affermarsi in quanto individui privati” (E. MORIN, Lo spirito del tempo, Meltemi, Roma, 2005, 81).

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costituisca il primo seme dei diritti fondamentali. Contrariamente a quanto (…) ha ritenuto la Cassazione, niente impedisce di liquidare il danno da violazione del tempo libero secondo i parametri del tempo lavorativo, che del primo costituisce l’alternativa commensurabile”6. Dunque, l’argomentare dei giudici di legittimità presenta un vizio: perché il diritto al tempo libero è giuridicamente configurabile, sulla base sia della Costituzione italiana sia delle fonti sovranazionali, e quindi il danno derivante dalla sua eventuale lesione è (in via aquiliana) risarcibile. Del resto, gli stessi giudici della Suprema Corte lasciano intravedere una apertura nel qualificare, in via alternativa, la lesione del tempo libero come perdita di chance o di aspettativa, che, com’è noto, può integrare fonte di responsabilità ex art. 2043 c.c.7, anche se in una prospettiva patrimonialistica. 6 Così, C. CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, 41, nota 60. 7 Cfr. ad es. Cass. S.U 22 luglio 1999, n. 500. Si tratta della storica sentenza con la quale la Suprema Corte ha riconosciuto la risarcibilità ex art. 2043c.c. di posizioni giuridiche soggettive diverse dai diritti soggettivi, come ad esempio gli interessi legittimi e altre situazioni quali, appunto, la chance, “intesa come probabilità effettiva e congrua di conseguire un risultato utile, da accertare secondo il calcolo della probabilità o per presunzioni”.

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In conclusione, la continua evoluzione giurisprudenziale nel riconoscimento delle posizioni giuridiche individuali meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento giuridico non deve mai far offuscare la dimensione della persona. Altrimenti, rischia di smarrirsi il senso dell’intero sistema, che, benché elevi il lavoro a fondamento della Repubblica (art. 1 Cost.), non considera l’uomo confinato in una dimensione produttivistica e patrimonialistica8, ma lo iscrive in un mondo rappresentato da più alternative di autorealizzazione, di cui quella connessa alla fruizione del tempo libero rappresenta una manifestazione significativa e comunque ineludibile.

8 Cfr. per tutti P. PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, 2006, 10: “è indiscutibile che a livello costituzionale la persona sia in posizione primaria rispetto agli interessi patrimoniali, e che la stessa iniziativa economica debba essere funzionalizzata a questo valore (art. 41, comma 2, Cost.)”.

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diritto privato

Dieselgate, indagine sulle class action negli Stati Uniti D’America e il caso europeo di

Dario Valoncini

Premessa

I

l sistema statunitense, data anche l’estrema estensione della nazione, è dotato di diverse agenzie, poste a salvaguardia di differenti settori ritenuti vitali per l’andamento delle politiche nazionali e federali. Una di queste agenzie è la Environmental Protection Agency (EPA) che, traducendone il nome in lingua nostrana, è posta a salvaguadia della tutela ambientale. Il 18 Settembre scorso l’EPA ha dichiara-

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to in una conferenza stampa di aver portato a termine un’inchiesta che vede la compagnia automobilistica tedesca Volkswagen rea di aver violato gli standard di emissioni di CO2 su determinati modelli di autoveicoli. Secondo l’agenzia infatti, la casa automobilistica di Wolfsburg avrebbe installato, tra il 2008 e il 2015, un software in grado di superare i test di inquinamento ed emissioni relativi al settore automobilistico americano. EPA sostiene che, dal 2008, Volkswagen abbia installato

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il software su almeno 482.000 auto dotate di tecnologia diesel a “basso inquinamento”, in modo da ovviare la regolamentazione federale per le emissioni di gas inquinanti e dimostrare che i motori in questione fossero compatibili con il Clean Air Act (CAA). La popolazione statunitense è stata esposta ad emissioni 40 volte superiori di quelle dichiarate da VW nei report ufficiali. L’agenzia sostiene inoltre che, a causa dell uso del software “ritoccato”, Volkswagen abbia ampliato esponenzialmente il suo mercato, in particolare nei confronti dei cosumatori attenti alle tematiche ambientali. Questo tipo di atteggiamento avrebbe aumentato le vendite delle automobile diesel negli Stati Uniti, mercato particolarmente difficile a riguardo, in quando il nord America è sempre stato piuttosto conservatore nell’utilizzo di automobili alimentate a benzina. Sulla base della semplice logica economica, ad un ampliamento del mercato è seguito un normale innalzamento delle vendite, e quindi dei profitti. A causa delle dichiarazioni e della condotta sviante della società tedesca, le azioni ordinarie e pivilegiate della compagnia, contenute nell American Depositary Receipts (ADRs)1 sono state scambiate sul mercato statunitense ad un tasso fal-

sato. Questa manipulazione artificiale dei prezzi ha raggiunto dei picchi di $54.84 e $56.55 per ADR il 30 Dicembre 2013. In seguito ai recenti eventi e alla notifica di EPA nei confronti di Volkswagen, I prezzi dei titolo ordinari di Volskwagen sono crollati di oltre il 33% chiudendo ad un prezzo di $25.44 per azione nella giornata del 22 Settembre 2015. Lo stesso giorno, i titoli preferenziali di hanno chiuso ad un prezzo di $23.98 per titolo. Questa incredibile ricaduta dei prezzi ha portato molti investitori ad organizzaarsi in Class Action non solo negli Stati Uniti d’America ma anche nel resto del mondo2. Diverse class action sono state depositate presso i tribunali di diverse giurisdizioni, sia da parte di investitori in cerca di compensi sia da parte di proprietari di veicoli in cerca di rimborsi. Ai fini di questo articolo verranno analizzate solo le class action relative al mercato finanziario statunitense. Tuttavia, è interessante citare il fatto che siano state deposite, solo negli Stati Uniti d’America, oltre 300 azioni giudiziare che presumibilmente porteranno alla creazione di class action dai profili civilistici e infra--giurisdizionali, le cosiddette “multidistrict class action”. Questo processo

1 Trattasi di un titolo di credito unitario che rappresenta sul mercato finanyiario statunitense i titoli di credito di una compagnia straniera.

2 Class action sono state depositate di fronti alle Corti delle seguenti nazioni US, Germany, Italy, Netherlands, Canada, Australia, Francia e Olanda.

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potrebbe meccanismo potrebbe essere già stato attivato. L’automobilista californiano Christopher D’Angelo, è stato infatti il primo a depositare una class action nello stato della California e allo stesso tempo a chiedere alla Corte di garantire alla sua domanda lo status ufficiale di class action civile. Dal punto di vista soggettivo, nel suo atto di deposito, i soggetti coinvolti e quindi liberi di aderire all’azione civile, sono divisi in due categorie: coloro che hanno acquistato un auto da un rivenditore Volkswagen autorizzato e coloro che invece hanno acquistato un’autovettura attraverso altri canali, ad esempio concessionari multimarca. Mr D’Angelo eß stato inoltre il primo a domandare alla Corte di poter consolidare la sua domanda con le altre azioni legali che sono state depositate in altre giurisdizioni federali. La questione ora passa alla corte del Central District of California3.

U.S. Securities Class Action´s Claim Le class action iniziate negli U.S.A. sono fondate su violazioni basate sul Securities Exchange Act del 1934 (Exchange Act) e in particular modo dalle sezioni §§10(b) e 20(a), violazioni della sezione §§78t(a) del 15 U.S.Code, le regole sancite in base 3 Volkswagen Diesel Cases Should Land In Calif., JPML Told, Law 360, 23 September 2015

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ai paragrafi 10b-5, 17 Code of Federal Regulations e la sezione §240.10b-5 del U.S. Securities and Exchange Commission (SEC). L’istituto della class action negli Stati Uniti richiede, tra i vari requisiti, di definire un lasso temporale ben preciso all’interno del quale considerare gli eventi rilevanti (class period). Nel caso di specie, il lasso temporale è stato definito tra le date del 19 Novembre 2012 e il 21 Settembre 2015. I titoli di credito presi in considerazioni sono quotati sul mercato Americano sotto I codici VLKY e VLKAY. Ad oggi, “solo” due class action sono state depositate contro Volkswagen per le violazioni sopra elencate. Entrambe sono state depositate nello stato del New Jersey. Come spesso accade nel mondo legale la scelta della giurisdizione non è stata affatto casuale, lo stato del New Jersey è infatti famoso per la sua giurisdizione particolarmente veloce ed efficiente in ambito di class action. I casi correntemente depositati sono City of St. Clair Shores Police and Fire Retirement System v. Volkswagen AG et al4 e The George 4 Filed: September 25, 2015 as 1:2015cv01228, Plaintiff: City of St. Clair Shores Police and Fire Retirement System, Defendant: Volkswagen AG, Volkswagen Group of America, Inc., Audi of Martin Winterkorn, Herbert Diess, Michael Horn, Jan Bures, Mark McNabb, Jonathan Browing and Scott Keogh Court: Fourth ›Virginia ›Virginia Eastern District Court

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leon Family Trust v. Volkswagen AG et al5. Entrambi I casi convocano a giudizio non solo Volkswagen AG6 ma anche il ramo d’azienda statunitense e diversi personaggi agli apici del controllo della società. Tra questi è bene ricordare Martin Winterkorn ex-ammistratore delegato del gruppo VW, che ha dato le dimissioni il 23 Settembre, e Michael Horn, Presidente e A.D. di Volkswagen of America che in data 8 ottobre è stato chiamato a presentarsi di fornte al Congresso per fornire spiegazioni.

La situazione Europea Sul fronte Europeo il marchio non se la passa sicuramente meglio. Il 17 ottobre 2015, due importanti nomi nel mondo del Trial Litigation7 hanno iniziato a cooperare per depositare una class action in giurisdizione tedesca. i danni che sono stati 5 Filed: October 2, 2015 as 2:2015cv07283, Plaintiff: THE GEORGE LEON FAMILY TRUST Defendant: VOLKSWAGEN AG, VOLKSWAGEN OF AMERICA, INC., Martin Winterkorn, Herbert Diess, Michael Horn, Jan Bures, Mark McNabb, Jonathan Browing and Scott Keogh Court: Third Circuit ›New Jersey ›New Jersey District Court 6 Volkswagen AktionGesellschaft, la capogruppo tedesca 7 Si tratta di una pratica prettamente nord-americana. Fondamentamlemte consiste nel approfittare di queste grandi cause, possibilmente in MDJ o class action per poter trarre il massimo profitto da una negoziazione tra le parti all’interno o meno delle mura della Corte.

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richiesti supernio i 40 miliardi di euro. Prima di andare oltre e bene spiegare un momento chi sono i soggetti in questione. Bentham Ventures B.V. è una società finanziaria specializzata nel concedere ampi finanziamenti per importanti casi giuridici. Questa società opera da diversi anni nel mondo delle grandi, e quindi profittevoli, dispute in ambito finanziario e commerciale. Recentemente è divenuta famosa per aver finanziato la class action contro il gigante britannico Tesco, tristemente noto per i suoi pessimi sandwich. Lo studio legale che si occupa invece di rappresentare in giudizio i soggetti coinvolti in questa class action è Quinn Emanuel Urquhart & Sullivan, LLP. Si tratta di un famoso studio legale statunitense specializzato in trial litigation e class action. Lo studio è famoso in tutto il mondo per essere uno degli studi più temuti dalle società sotto processo proprio per la sua abilità nel portare a casa un risultato a molte cifre. Recentemente lo studio ha acquistato ancora più visibilità per essere stato coinvolto nei casi di “rigging”8 di Forex, 8 Diverse banche sono state coinvolte in investigazioni da parte delle agenzie di controllo sulla finanza in tutto il mondo. La pratica del rigging consiste nello speculare, attraverso inside-trading, sul prezzo fissato quotidianamente di diverse commodity. Nel caso specifico speculazioni relative al cambio di valuta straniera, il tasso interbancario Libor e il prezzo di metalli preziosi come oro, argento, platino e palladio.

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Libor e metalli preziosi. Dall’alleanza di questi due giganti del mercato nasce uno dei casi potenzialmente più onerosi della storia delle class action europee. Le violazioni rivendicate all interno della class action riguardano violazioni del Wertpapierhandelsgesetz – WpHG, il codice che regola le negoziazioni sul mercato dei valori mobiliari. I valori delle azioni sul mercao tedesco hanno perso più del 17% il 21 Settembre scrso. Il Class Period per questa class action tutta europea va dal 1 Gennaio 2007 al 18 Settembre 2015. Si terrà conto tuttavia di una possibile estensione di questo periodo fino a Lunedì 21 Settembre per coloro che non sono riusciti a vendere le azioni il venerdì prima della chiusura dei mercati. Sempre per quanto concerne i profili europeistici e bene allargare lo sguardo e cercare di capire la potenziale evoluzione dei fatti oltremanica. Il sistema europeo è estraneo a quelli che sono i profili di class action statunitense, tuttavia il 1 di Ottobre è entrata in vigore una riforma delle regole a tutela dei consumatori nel Regno Unito. è stato infatti introdotto il Consumer Rights Act 2015 (CRA). Questa riforma era attesa da tempo in U.K. e diversi esperti del settore9 si domandano se questo vento di cambiamento possa 9 Class Actions – Coming to Europe, Herbert Smith Freehills, 1 October 2015

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investire anche l’Europa continentale, ampliando il sistema delle class action verso il modello statunitense. In generale è bene dire che il mondo del diritto processuale Britannico sta cambiando e si sposta sempre piu verso un sistema simile a quello nordamericano. A questo proposito infatti non è insolito pensare alla possibilità di vedere sulla scena britannica delle class action simili a quelle oltreoceano. Diversi studi legali10 si stanno già muovendo per capire se sia possibile portare anche sul suolo britannico class action relative al mercato dei valori mobiliari. Sicuramente la questione vede in primo piano potenziali casi come quello in questione. Per Volkswagen le acque non si sono ancora calmate e ci vorranno divere mesi, forse anni, perchè lo facciano.

10 U.K. Consumer Rights Act 2015 Ushers in Class Action-Style collective proceedings regime in the competition appeals tribunal, Gibson Dunn, 2 October 2015

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