L'Alligatore-anno2_numero2

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Anno 2 Numero 2

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Torna L’Alligatore, con questo secondo numero dell’anno accademico. Torna con il solito piglio che lo contraddistingue: la continua ricerca di leggere la realtà quotidiana con gli strumenti che ci offre la materia che studiamo. Affinché l’approccio con il diritto non sia passivo ma spinga ad analizzare l’attualità in un modo critico. Anche in questo numero infatti non mancano riflessioni su alcune delle novità più interessanti dell’ultimo periodo: il dibattito creato dall’intervento del direttore Daniel Barenboim sull’articolo 9 della Costituzione e sulla tutela della cultura in Italia; la scottante questione degli accordi di Pomigliano e Mirafiori contornati da un’intervista al giuslavorista e senatore Pietro Ichino; le novità introdotte nel diritto penale dalla ratifica della Convenzione di Lanzarote sull’abuso minorile e infine la riforma della professione forense. Inoltre vi è da segnalare un’ulteriore novità di questo numero, la pubblicazione di un abstract della tesi di un neolaureato nella nostra Università. Si tratta di un esperimento che vogliamo tentare offrendo la possibilità di pubblicare il sunto del lavoro di ricerca che conclude il percorso di ogni studente. Torna infine la rubrica lanciata nello scorso numero con la recensione del libro Magistrati: questa volta si parlerà di un legal-thriller. Siamo contenti della riuscita di questo nuovo numero e speriamo che riesca a stuzzicare ancora una volta la vostra curiosità. Siamo fiduciosi perché ci sembra che sempre più studenti si stiano “affezionando” a questo piccolo strumento quasi come fosse diventato un “pezzo” della nostra Facoltà. Non vogliamo illuderci ma ci sembra che si stia lentamente realizzando l’obbiettivo ulteriore del progetto: creare un “luogo” di studenti e per gli studenti, un gruppo di persone che intendono vivere l’Università in un modo pieno; non solo un esamificio ma uno spazio di crescita personale con la costruzione di legami e amicizie. Con questo auspicio vi auguriamo una buona lettura e vi diamo appuntamento alle iniziative di presentazione del nuovo numero. Rocco Steffenoni Eduardo Parisi Sandro Parziale Daniele Rucco

www.lalligatore.org


Anno 2 Numero 2



L’ALLIGATORE La rivista degli studenti di giurisprudenza della Statale di Milano Redazione: Rocco Steffenoni Eduardo Parisi Sandro Parziale Daniele Rucco

Hanno collaborato: Marco Alessandro Bartolucci, Francesca Campini, Veronica De Michielis, Alessio Fionda, Anna Perego

Ringraziamo i professori della FacoltĂ che ci hanno sostenuto in questa iniziativa Milano, Febbraio 2011


Tale progetto è finanziato con il contributo dell’UniversitĂ degli Studi di Milano derivante dai fondi previsti per le attivitĂ culturali e sociali.


INDICE

Editoriale

Diritto Pubblico

Eduardo Parisi Dal discorso di Daniel Barenboim all’ articolo 9: rispettare la cultura per guardare al futuro

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Diritto Civile e Diritto del Lavoro

Francesca Campini I nodi scoperti da Pomigliano nel caso FIAT Anna Perego Intervista a Pietro Ichino Diritto Penale

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Marco Alessandro Bartolucci Il percorso corruttivo. Dal fatto tipico alla risposta sanzionatoria pag. 35 Veronica De Michielis La Convenzione di Lanzarote, ovvero “dello Stato che si fa paladino dei valori morali”

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Dossier: riforma dell’Avvocatura

Alessio Fionda La riforma della professione forense: quale presente per avvocati, praticanti e studenti di legge? Rubriche

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EDITORIALE

L’Alligatore nasce dall’esigenza di scrivere e discutere dell’attualità che ci circonda utilizzando gli strumenti giuridici che studiamo in Università. Nell’Università italiana ci si forma sui libri. Si studiano i manuali e si ricevono lezioni quasi sempre frontali. Accade poi che un giorno, concluso il corso di laurea, ci si ritrovi spaesati di fronte ad un mondo che parla una lingua diversa da quella ascoltata fino al giorno prima dentro le aule. Nelle Università americane o comunque di modello anglosassone si tende invece ad avere un approccio molto più attivo e spedito che rende gli studenti apparentemente più facilitati nel mondo della pratica giuridica. Il progetto Alligatore non vuole muovere una critica al sistema didattico universitario italiano, anzi. Crediamo che una formazione teorica sia imprescindibile per ogni educazione che si rispetti, proprio affinché si formino dei giuristi piuttosto che dei meri pratici del diritto senza una visione d’insieme e di critica riformista. Noi riteniamo che il modello italiano sia un fattore di forza ma che, per non sembrare fine a se stesso, debba essere integrato da attività concomitanti allo studio teorico che permettano allo studente di rendersi conto di come possa utilizzare le sue conoscenze. L’Alligatore, fondato spontaneamente da noi studenti nel Settembre del 2009, è la realtà che avremmo voluto trovare in Università appena iscritti. Invece no, abbiamo dovuto immaginarlo prima e dargli una forma poi. Per tutti questi motivi vorremmo – ambiziosamente - che il sostegno della Facoltà fosse sempre più attivo e che non si fermasse al finanziamento, ancorché essenziale e fin da subito presente. Vorremmo che la Facoltà e i suoi organi prendessero contezza del 9


fatto che le 750 copie del precedente numero si sono letteralmente volatilizzate in Università non appena esposte in atrio e che l’attenzione al progetto è sempre maggiore da parte degli studenti. Ci piacerebbe che la Facoltà se ne assumesse l’onere istituzionale riconoscendo il progetto come meritevole di approvazione e sostegno, ma che al tempo stesso ne lasciasse la piena gestione agli studenti come accade nelle lungimiranti esperienze delle student review anglosassoni. Questo numero ha parecchie novità ma nella “tradizione”.

Continuiamo a seguire il più possibile l’attualità offrendo un’analisi sulle relazioni industriali in Italia con un articolo che tratta della vicenda dello stabilimento FIAT di Pomigliano D’Arco e un’intervista al giuslavorista Pietro Ichino. Innoviamo proponendo un formato nuovo di articolo, ossia l’abstract di una tesi di laurea. L’idea è quella di dare “pubblicità” alle importanti questioni, e troppo spesso di qualità, che vengono scritte con ricerca e attenzione critica dai nostri compagni di corso. Non vogliamo che tutto questo lavoro non possa essere motivo di divulgazione e dibattito. Infine un occhio al futuro ci porta a pensare al mondo del post-laurea e quindi delle prospettive dell’ambito che più accomuna gli iscritti a giurisprudenza: l’avvocatura. Il recente dibattito parlamentare sulla riforma dell’Ordine Forense ci ha spinto a fotografare lo stato di salute della professione. Quindi buona lettura e cercateci per partecipare: www.lalligatore.org o redazione@lalligatore.org.

Rocco Steffenoni, Eduardo Parisi, Sandro Parziale, Daniele Rucco 10

8 febbraio 2011


DIRITTO PUBBLICO

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Dal discorso di Daniel Barenboim all’ articolo 9: rispettare la cultura per guardare al futuro di Eduardo Parisi

“Signore e signori, sono molto felice di dirigere anche quest’anno il 7 dicembre alla Scala. Sono molto onorato di essere stato dichiarato Maestro Scaligero. A tale titolo, ma anche in nome di tutti i miei colleghi che suonano, cantano, ballano e lavorano non soltanto in questo magnifico teatro ma in tutti i teatri d’Italia, sono qui per dirvi a qual punto siamo profondamente preoccupati per il futuro della cultura in questo Paese, e in Europa. E, se mi permettete, vorrei che ricordiamo insieme l’articolo 9 della Costituzione italiana: ‘La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione’.
” Con queste parole Daniel Barenboim ha aperto la stagione operistica del Teatro alla Scala di Milano, suscitando sentiti applausi e al contempo grande scalpore fra la vasta platea di spettatori. Tralasciando la valenza politica e l’intento con cui è stato lanciato questo messaggio, vorrei qui provare ad analizzare il contenuto normativo dell’articolo 9 della Costituzione, al fine di chiarirne la portata e il valore che esso ricopre nel nostro ordinamento.

Ciò che dapprima stupisce chi si accosti ad analizzare tale disposizione è la vaghezza del suo contenuto, generale e poco definito quanto alle possibili applicazioni pratiche del “principio fondamentale” che contiene. La stessa giurisprudenza costituzionale in materia è scarna: il primo comma è stato raramente utilizzato come parametro, e quasi sempre in relazione agli articoli 33 e 34 Cost., i quali contengono importanti (e più tecniche) disposizioni in materia di scienza, scuola e istruzione.1 Quanto al secondo comma, questo è spesso servito alla Consulta per trovare un appiglio costituzionale alla nuova materia dei diritti ambientali2

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Si vedano, ad esempio, Sent. Cost. 921/1988 e Sent. Cost. 46/1961 Sent. 272/2009; da ultimo, la Corte si è occupata della questione dello smaltimento dei rifiuti in Campania con Ord. 241/2010

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o per affermare la prevalenza della natura indisponibile di taluni beni di carattere storico-artistico sulla libera disponibilità degli stessi da parte dei privati.3

L’articolo 9 tutela e promuove lo sviluppo delle attività culturali: la prima parte4 riguarda le attività culturali future, configurabili nella ricerca scientifica e tecnica e nello sviluppo artistico e culturale in senso lato. La seconda5 riguarda invece le attività culturali pregresse, materializzate nel patrimonio storico e artistico della Nazione.6

Leggendo il testo costituzionale – e volendo restringere l’analisi alle sole problematiche connesse con lo sviluppo della cultura – la prima questione da risolvere è chi sia il destinatario dell’articolo 9 (profilo “soggettivo”). Una risposta preliminare è contenuta già nel testo della norma: il termine “Repubblica” è da intendersi in senso lato,7 comprensivo di tutte le sue articolazioni territoriali e amministrative: Regioni, Province, Comuni, enti pubblici.8 In secondo luogo, è necessario analizzare la ripartizione di competenze fra Stato e Regioni, che in materia ha subito una modifica con la Riforma del Titolo quinto (Legge Cost. 3/2001). Le materie concernenti la ricerca scientifica e tecnologica, nonché la valorizzazione dei beni culturali e ambientali e la promozione e organizzazione di attività culturali sono state attribuite alla competenza concorrente di Stato e Regioni (art. 117 Cost.).

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In Sent. Cost. 118/1990 il proprietario del Caffè Genova rivendica il suo diritto di alienare il bene in questione, rifacendosi all’articolo 41 della Costituzione. 4 ‘La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.’ 5 (La Repubblica) ‘Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.’ 6 Tale distinzione si ritrova nel blog “Impariamo la Costituzione” http:// impariamolacostituzione.wordpress.com/2010/05/30/articolo-9/ 7 Di ciò si trova conferma nelle discussioni della Costituente (Assemblea Costituente: seduta plenaria del 30 aprile 1947). L’onorevole Lussu (autonomista) sostenne con forza la sostituzione del termine “Stato” (precedentemente previsto) con quello “Repubblica”, al fine di risolvere i problemi derivanti da possibili conflitti di competenza che sarebbero potuti sorgere in futuro. 8 Di nuova istituzione (15 settembre 2009) è l’ENEA, Agenzia nazionale per le nuove tecnologie e lo sviluppo economico sostenibile

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Oggi, dunque, le Regioni hanno sì potestà legislativa in queste materie, ma nel rispetto dei principi fondamentali stabiliti con legge dello Stato. Fra tali leggi ordinarie svolge un ruolo fondamentale per la materia che stiamo analizzando la legge “Finanziaria”, la quale prevede, fra le altre, una voce di spesa riguardante esclusivamente le attività culturali e di tutela del paesaggio. All’articolo 1 comma 40 della Legge di Stabilità 20119 si legge: “Al fine di assicurare il finanziamento di interventi urgenti finalizzati al riequilibrio socio-economico e allo sviluppo dei territori, alle attività di ricerca, assistenza e cura dei malati oncologici e alla promozione di attività sportive, culturali e sociali, e` destinata una quota del fondo ( ) pari a 50 milioni di euro per l’anno 2011.” Alla ripartizione della quota e all’individuazione dei beneficiari dovrà poi provvedere il Ministero dell’economia e delle finanze, in coerenza con gli atti di indirizzo delle Commissioni parlamentari competenti. Il Governo, dunque, attraverso l’individuazione delle priorità di spesa per l’anno solare successivo e l’attività svolta dai Ministeri, ricopre un ruolo centrale nella destinazione delle risorse alle attività di promozione e sviluppo della cultura e della ricerca. In questo senso, l’articolo 9 della Costituzione non impone la previsione di un minimo di spesa da destinare alle suddette materie (di questo passo, si finirebbe per rinvenire tale contenuto preccettivo in ogni singola norma costituzionale), ma sicuramente si pone come un parametro fondamentale per gli organi del Governo che si trovino a gestire la ricchezza del Paese. La complessa attività di destinazione delle risorse pubbliche deve essere necessariamente condotta seguendo i dettami della Costituzione, e “in particolare” tenendo conto di quelle norme il cui valore fu considerato così ineliminabile da essere poste fra le primissime del testo costituzionale. Per questi motivi ritengo che non possa essere considerato un “comizio antigovernativo”10 l’invito lanciato da Daniel Barenboim ai membri dell’Esecutivo perché riconsiderino la preoccupante situazione in cui versa oggi la cultura in Italia. Resta ora da analizzare il profilo “oggettivo”: bisogna chiedersi in cosa consistano concretamente le attività di cui parla l’articolo 9. Nel rispondere a tale quesito, è necessario approcciarsi al testo dell’articolo

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Legge 13.12.2010 n.220 Così Daniele Capezzone, in una dichiarazione del 7 dicembre 2010

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in modo non formalistico.11 Non bisogna cioè tracciare una separazione netta fra l’attività di promozione, relativa alla cultura e alla ricerca, e quella di tutela, riguardante il patrimonio storico e artistico della Nazione. Al contrario è necessario leggere l’articolo attraverso una “traiettoria circolare”.12 Lo sviluppo della cultura, infatti, affonda le sue radici nel rispetto, nello studio e nella preservazione delle espressioni artistiche e scientifiche ormai consolidate del talento umano. Allo stesso modo, come ha ricordato il Presidente della Repubblica Ciampi in un suo discorso del 5 maggio 2003, “la tutela deve essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo, e cioè in funzione della cultura dei cittadini, in modo da rendere questo patrimonio fruibile da tutti.” Solo in questo modo è possibile ricostruire quel valore estetico-culturale che è stato indicato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 151/1986 come “valore primario”, “insuscettivo di essere subordinato a qualsiasi altro.” Inoltre, è necessario leggere la norma in relazione all’intero testo costituzionale, e - in particolare - al primo comma dell’articolo 33 Cost.: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Perché le disposizioni siano coniugate, è necessario che l’intervento degli organi statali a favore della ricerca e della cultura sia neutrale e imparziale. Tale intervento deve da un lato lasciare libero l’individuo di esprimere il proprio genio, senza imposizione di contenuti o uniformazioni, e dall’altro realizzare il maggior pluralismo possibile fra le diverse forme culturali presenti all’interno della Nazione.

Si nota, dunque, come, nonostante la vaghezza espositiva dell’articolo 9, sia possibile ricostruire concreti precetti discendenti da questa norma di rango sovraordinato, e vincolanti nei confronti degli organi dello Stato. A nulla vale, a questo proposito, il tentativo di limitare l’inderogabilità dell’articolo 9 Cost. adducendo la natura meramente “programmatica” della norma.13

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da: Bin-Bartole, Commentario breve alla Costituzione, 2° edizione. Cedam, 2008 12 Fiorillo, L’Ordinamento della cultura. Feltrinelli, 2003 13 Il Ministro per i Beni e le Attività Culturali Sandro Bondi, sul Corriere della Sera dell’11 dicembre 2003, citando Piero Calamandrei, dichiara: “La Costituzione,

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Come ormai ammesso unanimemente da dottrina e giurisprudenza, le norme programmatiche sono precettive, non tanto nei confronti dei soggetti giuridici dell’ordinamento, quanto “nei confronti degli organi statali, e quantomeno del legislatore, cui prescrivono certi comportamenti per la disciplina da dare alle materie che ne formano oggetto mediato o indiretto”.14

Norma peculiare della Costituzione italiana, l’articolo 9 contiene un messaggio alto e vincolante, diretto in primo luogo al legislatore ed agli organi statali, ma anche a tutti i privati cittadini: il valore della cultura non dovrà mai essere posto in secondo piano, poiché è elemento caratterizzante l’identità stessa del popolo italiano e l’unico strumento utile per lo sviluppo della civiltà. E questo fondamentale principio non mancherà di essere ripetuto, nei luoghi dell’arte come nelle aule di Università.

più che principi immediatamente vincolanti, conteneva un proposito di riforme, in ossequio ad una rivoluzione che si posticipava. Questo vale anche per la cultura. «La Repubblica - detta l’articolo 9 - promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Non dice però come. Il tutto viene rinviato, per ogni altra questione, alle singole leggi ordinarie.” 14 Vezio Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio. Giuffrè, Milano 1952

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DIRITTO CIVILE E DEL LAVORO

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I nodi scoperti da Pomigliano di Francesca Campini

L’accordo sindacale siglato dalla FIAT per il solo stabilimento di Pomigliano d’Arco (NA) si è guadagnato, a partire dalla fase delle trattative, l'attenzione dell’opinione pubblica e da subito ha infiammato la protesta di buona parte dei lavoratori. Il testo riguarda la produzione dell’automobile “Panda”, che le parti sociali firmatarie e i vertici dell’azienda convengono di affidare allo stabilimento campano, occupandosi quindi nel dettaglio di orari, retribuzione per gli straordinari, organizzazione, formazione, assenteismo, cassa integrazione e altri aspetti sostanziali. La critica più diffusa è che l'accordo costituisca una sorta di ricatto ai lavoratori, dal momento che il suo mancato raggiungimento avrebbe comportato un trasferimento della produzione all'estero (Serbia) dove i costi produttivi sarebbero stati contenuti, dati il basso costo della manodopera locale e gli incentivi garantiti dall’Unione Europea a quell’area. Per questo motivo i sindacati si sarebbero trovati costretti alla firma: avrebbero accettato condizioni non solo peggiori ma anche contrarie al diritto del lavoro al fine di garantirsi il funzionamento di Pomigliano ed un finanziamento dal Lingotto pari a 700 milioni di euro. Dall’altra parte, i vertici FIAT, nella persona dell’AD Sergio Marchionne, hanno giustificato la propria scelta presentandola come ineluttabile e come l'unica possibilità di evitare il trasferimento. Inoltre l'azienda ha specificato la peculiarità dello stabilimento di Pomigliano e cioè una produttività particolarmente scarsa unita ad una diffusa indisciplina degli operai che comportava spesso una paralisi produttiva, inaccettabile per la FIAT in particolare ma anche in generale per un sistema funzionale di relazioni industriali1. Al contrasto intercorrente tra l’azienda e i lavoratori, si sono aggiunti conflitti tra le diverse sigle sindacali. CISL e UIL si sono da subito mostrate possibiliste, mentre la CGIL, e in particolare il sindacato di categoria FIOM, si sono opposte con veemenza. La questione è stata così sottoposta direttamente ai lavoratori, che si sono espressi il 22 giugno 2010 con un referendum che ha fatto registrare circa il 40% di voti sfavorevoli all’accordo. La maggioranza, tuttavia, è risultata disposta ad accettare il contratto collettivo aziendale.

1 Secondo l’AD Fiat, a fronte di una capacità produttiva di 240.000 unità, a Pomigliano si producono solo 36.000 autovetture (Relazione agli azionisti, marzo 2010)

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Agli occhi del giuslavorista il caso Pomigliano è un vero e proprio emblema dei punti dolenti del diritto sindacale italiano. È difficile occuparsene senza essere influenzati dalla propria o dall’altrui idea politica, perché la materia del lavoro e della fabbrica è vicina alla società civile e soggetta ad essere affrontata con suggestioni antiche su cui si sono costruite intere filosofie. Per studiarlo dal punto di vista giuridico è quindi particolarmente necessario utilizzare i soli strumenti del diritto, che in materia sindacale ricordiamo essere riconducibili poco alla legge e molto alla giurisprudenza e alla prassi. Ciò premesso, i punti capitali della vicenda di Pomigliano sono in particolar modo tre. In primo luogo ci si soffermerà sul problema della rappresentatività del sindacato, rilevante in quanto fondamentale per capire la forza del consenso espresso dalle sigle. In secondo luogo si parlerà della gerarchia dei contratti collettivi, dal momento che l’accordo di Pomigliano è un accordo aziendale che deroga al contratto collettivo nazionale del settore metalmeccanico. Infine ci sarà modo di riflettere sul profilo che più di ogni altro ha destato scalpore, ossia se e in che senso esiste un contrasto dell’accordo con il diritto di sciopero costituzionalmente garantito. 1. Rappresentatività ed efficacia del contratto collettivo Per comprendere le particolarità della vicenda di Pomigliano, occorre prendere le mosse dalla questione generale della rappresentatività del sindacato, ossia dalla sua idoneità ad esprimere e tutelare l’interesse collettivo di una fascia ampia di lavoratori, senza distinguere tra iscritti e non iscritti. Il problema si è concretamente posto in relazione al dissenso della CGIL che ha portato alla firma dell’accordo da parte delle sole CISL e UIL. Si tratta, infatti, di un accordo separato, stipulato solo da alcuni sindacati. Il disaccordo delle sigle genera delle conseguenze che gli strumenti giuridici offerti dal diritto del lavoro non permettono di gestire con sicurezza e che ciononostante devono necessariamente essere affrontate, data la loro importanza cruciale in relazione all’efficacia del contratto collettivo. In particolare, è pacifico che il contratto collettivo aziendale non abbia efficacia erga omnes e che, quindi, la mancata adesione della CGIL determina in prima battuta che questa non sia vincolata ad esso2. Questa 2 Una pretesa contraria del datore costituirebbe non solo illecito sul piano del rapporto di lavoro ma anche condotta antisindacale (in quanto lesiva della credibilità e degli stessi effetti della scelta dei sindacati), in ossequio al principio generale della libertà sindacale (Cass., 28 maggio 2004 n. 10353). Il rimedio che si potrebbe ipotizzare ai sensi dell’art. 28 St. Lav. sarebbe l’ordine giudiziale di di-

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conclusione non può facilmente essere messa in dubbio e nulla fa ritenere che ciò avverrà. Il dato su cui riflettere, piuttosto, è offerto dal referendum che si è tenuto in azienda il 22 giugno 2010. Il ricorso al referendum aziendale (art. 21 St. Lav.) è giustificato dall’esigenza di accorciare le distanze tra il sindacato e il lavoratore attraverso la richiesta diretta della sua opinione: anche nel rapporto sindacale, come nel modello previsto dalla Costituzione, è quindi uno strumento di democrazia partecipativa. L’esito del referendum non è vincolante, nel senso che il sindacato può poi discostarsene3, e per legge non è mai doveroso ricorrervi sistematicamente, ma solo nei casi in cui venga in essere una questione di particolare rilevanza sindacale. Ciò premesso, il referendum che si è effettivamente tenuto a Pomigliano ha registrato un dissenso che in termini percentuali è maggiore rispetto agli iscritti alla CGIL e che quindi non ne riflette la rappresentatività nello stabilimento4. In sostanza, ha palesato un dissenso maggiore di quello che sarebbe dovuto risultare dal momento che CISL e UIL si sono dichiarate favorevoli all’accordo, dimostrando che evidentemente il malcontento serpeggia anche al di fuori della sola CGIL. Ci si chiede allora quale sia la portata della rappresentatività dei sindacati. La crisi del concetto è perfettamente testimoniata proprio dalla vicenda di Pomigliano. Si tratta della perdita della capacità dei sindacati (in questo caso CISL e UIL) di esprimere con credibilità gli interessi di una pluralità di lavoratori5. I fatti di Pomigliano permettono, inoltre, di fare una considerazione ulteriore e più generale sulla portata del referendum nel sistema sindacale.

sapplicazione dell’intero contratto collettivo dissentito nei confronti dei suddetti lavoratori. 3 La non vincolatività del referendum è indubitabile; la giurisprudenza è consolidata (v. per esempio Cass., 28 novembre 1994 n. 10119). È certo che una decisione successiva che trascurasse il risultato referendario sarebbe comunque grave nei rapporti reciproci degli attori del nostro sistema di relazioni industriali. 4 Hanno votato contro il doppio degli iscritti alla FIOM, sindacato di categoria maggioritario a livello nazionale ma non a Pomigliano. In alcuni comparti la percentuale dei contrari è stata addirittura prossima al 50%. 5 Il possibile rimedio è argomento di ampi dibattiti in dottrina. Un’opinione molto diffusa vuole estendere la riqualificazione della rappresentatività dal punto di vista quantitativo con riferimento alla specifica realtà aziendale, già prevista dall’art. 43 del d.lgs. 165/2001 per il settore pubblico, anche a quello privato. In questo modo verrebbe in rilievo la forza effettiva del sindacato nell’azienda e verrebbe rispettato in modo più stringente il principio maggioritario. Attualmente un progetto di legge in questo senso è depositato presso il Senato in attesa di essere esaminato (atto del Senato n.1337, primo firmatario sen. Paolo Nerozzi).

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Il referendum non è stato indetto, contrariamente alla prassi6, dai sindacati ma dall’azienda: emerge così un interesse diverso rispetto a quello che aveva spinto il legislatore del 1970 a prevedere il referendum nello Statuto dei Lavoratori. Concepito come strumento di democrazia diretta, è diventato nel tempo un metodo per soddisfare l’esigenza del sindacato di rafforzare la propria rappresentatività vista come forza contrattuale nei rapporti con la controparte. Adesso si prospetta utile anche nell’interesse dell’azienda di vagliare l’affidabilità della controparte sindacale, un’esigenza di cui la giurisprudenza dovrà tener conto. 2. Contrasto tra contratti collettivi di diverso livello L’accordo di Pomigliano è un contratto collettivo aziendale. Si pone, quindi, l’ulteriore problema del suo rapporto col contratto collettivo nazionale di categoria. Siccome l’accordo detta condizioni peggiori per i lavoratori rispetto a quelle previste dal contratto collettivo nazionale, occorre domandarsi se questa derogabilità in peius sia possibile. Innanzitutto sembra utile segnalare che è effettivamente corretto parlare di peggioramento delle condizioni in relazione a svariati istituti7. Il modello produttivo che l’accordo vuole introdurre in azienda è quello taylorista basato sulla volontà di ridurre al minimo i tempi morti, come per esempio le pause e gli spostamenti dei lavoratori all’interno della giornata lavorativa. Il sistema (ERGO-UAS) è criticato dai sindacati perché impone ritmi non sostenibili per gli operai. Ciò detto, per affermare o negare la derogabilità in peius del contratto collettivo nazionale, bisogna confrontarsi con la giurisprudenza che, nel corso degli anni, si è occupata della questione a più riprese, giungendo ad orientamenti differenziati e tra loro contrastanti8. L’incer-

6 E alla giurisprudenza. La legittimazione all’indizione spetta all’iniziativa congiunta di tutte le RSA o RSU; è stata esclusa la legittimazione di altri soggetti e in particolare sia di organizzazione extra-aziendali sia dell’imprenditore. L’indizione del referendum è in certe sentenze qualificata come diritto esclusivo delle rappresentanze sindacali (v. per esempio Cass. 14 febbraio 2004 n. 2857). 7 A titolo esemplificativo citiamo il regime delle pause di lavoro, che diventano tre da dieci minuti l’una (invece che due da venti minuti) oppure l’aumento delle ore di straordinario obbligatorio da 40 a 120. 8 Segnaliamo in breve i principali orientamenti giurisprudenziali in merito. La derogabilità in peius del contratto collettivo nazionale da parte del contratto collettivo aziendale è stata sostenuta facendo ricorso al contratto di mandato e alla libera disponibilità in capo al mandante della propria situazione giuridica (C. Cass. 18/04/1978 n.2018). La soluzione opposta è stata raggiunta considerando i due contratti come gerarchicamente correlati e riconoscendo quindi la sola derogabilità in peius di quello aziendale ad opera di quello nazionale (C. Cass. 18/01/1978

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tezza che ne deriva comporta che non è sicura la censurabilità dell’accordo di Pomigliano da questo punto di vista e contribuisce a determinare l’ingovernabilità del sistema sindacale italiano. La conclusione più diffusa sembra, in ogni caso, quella che vede il contratto successivo prevalere su quello anteriore. Il principio del favor, vigente per i rapporti tra contratto collettivo e contratto individuale, non è quindi generalmente accolto dalla giurisprudenza per quelli tra contratti collettivi di diverso livello e l’autonomia delle parti è dunque libera di peggiorare le condizioni sancite a livello nazionale, qualora la nuova situazione lo richieda. Da questo punto di vista, dunque, la legittimità dell’accordo di Pomigliano è sostenibile. 3. Diritto di sciopero Il punto dell’accordo più duramente contestato dalle sigle sindacali è quello che riguarda il diritto di sciopero. Emblema del diritto sindacale e principale strumento di autotutela dei lavoratori, con Pomigliano si conferma come cartina tornasole dello stato del conflitto in fabbrica, anche in considerazione del fatto che nello stabilimento campano proprio lo sciopero è stato finora usato dai lavoratori in modo massiccio e spesso distorto, cioè destinato a scopi (per esempio, manifestazioni sportive) diversi da quelli che ne hanno giustificato il riconoscimento costituzionale. Il testo dell’accordo prevede ciò che nella prassi si definisce “patto di tregua”, ossia l’impegno a non riaprire il conflitto sindacale su determinate clausole su cui si è già raggiunto l’accordo fino alla loro naturale scadenza o per un periodo altrimenti stabilito. L’eventuale violazione dell’accordo da parte di un generico lavoratore costituirebbe infrazione disciplinare e quindi potrebbe dare luogo a provvedimento disciplinare e sfociare in giustificato motivo di licenziamento. In Italia è innanzitutto dubbia la compatibilità del patto di tregua con l’ordinamento; inoltre ne è controverso l’ambito di efficacia, dal momento che ci si chiede se tale patto possa vincolare i singoli lavoratori o si limiti ai soli soggetti collettivi. Secondo la tesi assolutamente prevalente il diritto di sciopero è indisponibile ed è riconosciuto dalla Costituzione individualmente a ciascun lavoratore, con conseguente nullità del patto di tregua. Questo, tutt’al più, per potersi ritenere compatibile con l’ordinamento deve essere inteso come impegno da parte delle organizzazioni sindacali ad esercitare la propria influenza “politica” perché i lavoratori, iscritti e

n. 233). Altre pronunce hanno preferito i criteri della posteriorità nel tempo, per cui prevale la disciplina, anche in peius, peggiore posteriore (C. Cass. 02/04/2001 n.4839), oppure quello di specialità, in virtù del quale prevale la disciplina speciale, quindi aziendale, anche in questo caso indifferentemente dal suo carattere migliorativo o peggiorativo.

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non iscritti, in concreto non esercitino il diritto di sciopero di cui rimangono titolari. La legittimità del patto di tregua si potrebbe accettare solo se si accogliesse un’interpretazione dell’art. 40 Cost. che intenda il diritto di sciopero come posizione giuridica riconosciuta ai soggetti collettivi e da questi pienamente disponibile. Attualmente questa seconda lettura costituzionale non è accolta né in dottrina né in giurisprudenza. 4. Conclusione Alla luce di questa sommaria ricostruzione giuridica della vicenda in corso allo stabilimento Fiat, uno studente di giurisprudenza, per quanto ignaro di quale sia l’effettiva realtà delle aziende e dei sindacati in Italia, può sicuramente permettersi qualche considerazione. In primo luogo, data la rilevanza mediatica della questione, emerge con forza che il diritto sindacale è ancora in grado di catalizzare l’interesse della società civile. Questo potrebbe far riflettere quanti ritengono che le formazioni sindacali sono destinate a morire, portando come argomento l’abbassamento delle iscrizioni. Per quello che la vicenda di Pomigliano ci insegna, l’attività sindacale è ancora il punto di convergenza del conflitto tra lavoratore e datore e questa conclusione, almeno per il settore metalmeccanico, sembra imprescindibile. In secondo luogo, l’estrema problematicità che emerge dai profili rilevati fa pensare che il diritto sindacale (e forse l’intero diritto del lavoro) sia rimasto indietro rispetto alla realtà e non offra gli strumenti idonei a fronteggiarla in modo equo. In particolare, la prima sfida che si prospetta riguarda il mercato globale del lavoro: è davvero possibile, o giusto, controllare con la legge il fenomeno della globalizzazione? Il ricorso a dipendenti stranieri, che siano economicamente convenienti per il fatto che nel Paese in cui vivono il costo della vita è basso e le garanzie giuridiche a tutela dei lavoratori pressoché inesistenti, è da censurare in virtù del diritto alla dignità del lavoratore. È difficile, in un’ottica de iure condendo, capire quale sia il limite entro cui simili esternalizzazioni dei lavoratori siano legittime e quale sia il mezzo idoneo di controllo. In definitiva, senza esprimere giudizi in merito, si può senz’altro dire che lo strumento sindacale, così come è oggi strutturato, non sembra essere in grado di risolvere il conflitto tra datori e lavoratori. La novità consiste nel fatto che, più di altre volte, l’azienda ha fatto emergere le proprie ragioni con particolare forza, giungendo addirittura a proporre soluzioni che aggirano la presenza del sindacato stesso nella contrattazione collettiva. In piena sintonia con questa conclusione è da porsi il rimedio proposto dalla Fiat di fronte al dissenso sindacale, come alternativa all’accordo firmato da tutte le sigle. Consiste nel conferimento dello stabilimento di Pomigliano ad una nuova società (Newco, secondo la terminologia corrente) col vincolo di assunzione di tutti i dipendenti. La Newco, però, non aderirà a

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Federmeccanica e quindi non vedrà applicato il contratto collettivo nazionale da essa firmato. Concretamente comporterebbe una complicazione ingente sul piano del sindacato in fabbrica, dato che ai sensi dell’art. 19 St. Lav 9. il diritto alla costituzione di rappresentanze sindacali in fabbrica spetta solo ai firmatari di un contratto collettivo di qualsiasi livello applicato nell’azienda. Qualora (e verosimilmente accadrà) la FIOM non firmasse neanche l’accordo con la Newco10, ciò equivarrebbe di fatto alla sua estromissione11 dalle relazioni industriali. Questa conseguenza, se si considera che la vicenda di Pomigliano sarà facilmente presa come modello da altre realtà aziendali italiane e che la CGIL è il maggior sindacato a livello nazionale, non può non destare dubbi sulla sua compatibilità con la libertà sindacale sancita dall’art. 39 Cost.

9 L’art. 19 Stat. Lav. recita: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva. Nell’ambito di aziende con più unità produttive le rappresentanze sindacali possono istituire organi di coordinamento”. 10 Ed è infatti accaduto. Il 29 dicembre 2010 Fim, Uilm, Ugl metalmeccanici, Fismic, l’Associazione dei quadri Fiat e il Lingotto hanno firmato il nuovo contratto di lavoro in virtù del quale a partire da gennaio 2011 i dipendenti di Pomigliano saranno ri-assunti da una nuova società della Fiat (per Maurizio Landini, segretario nazionale della Fiom, a condizioni ancora peggiori rispetto a quelle di giugno). 11 A riconferma del tentativo di scavalcare l’intermediazione sindacale, è doveroso un rinvio, seppur breve, alla situazione di un altro importante stabilimento Fiat, quello a Mirafiori (TO). Sotto molti profili analogo a quello di Pomigliano, si tratta di un accordo separato che registra l’adesione dei sindacati diversi dalla CGIL-Fiom e che prevede il conferimento ad una Newco esterna a Federmeccanica e quindi ab origine non vincolata al contratto collettivo nazionale.

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INTERVISTA A PIETRO ICHINO A cura di Anna Perego (28 dicembre 2010)

Pietro Ichino, giuslavorista di grande fama, avvocato e giornalista, collabora dagli anni Settanta con Cgil, Cisl e Uil (della Cgil è anche stato dirigente). Dal 1991 è professore ordinario nella nostra università, dove ha contribuito a fondare il Dipartimento di studi del lavoro e del Welfare. Dopo una prima esperienza in Parlamento all’interno del Pci, è stato tra i fondatori del Pd, nelle cui liste è stato eletto Senatore nel 2008.

L’inconcludenza del nostro sistema sindacale è spesso citata da Lei come una delle cause della chiusura dell’Italia agli investimenti stranieri: nato in un periodo in cui l’unità sindacale sembrava alle porte oggi giorno non sarebbe in grado di gestire una realtà alquanto lontana da questa possibilità. Le sue proposte parlano di “regole di nuova democrazia sindacale”, che evitino che il dissenso tra i sindacati provochi la paralisi della contrattazione. Alla luce del suo auspicio di dare al contratto aziendale una posizione preminente sul contratto collettivo nazionale, in modo da intercettare le esigenze dei progetti industriali migliori, la necessità di una rappresentatività sindacale effettiva si fa sempre più pregnante. Come dovrebbe essere regolata la materia della rappresentanza nei luoghi di lavoro? Nel disegno di legge n. 1872, che ho presentato con altri 54 senatori nel novembre 2009, propongo una norma che, superando il criterio sostanzialmente paritario sancito dall’attuale articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, attribuisca il diritto ai rappresentanti sindacali aziendali e alle relative prerogative, in proporzione ai voti conseguiti, ai sindacati che, nelle apposite elezioni in azienda, superino una soglia minima.

[d.d.l. 1872/2009 Art. 2064. - (Rappresentanze sindacali aziendali). (1) – Organismi di rappresentanza possono essere costituiti da una o piu` associazioni sindacali nelle unita` produttive nelle quali siano occupati piu` di 15 lavoratori dipendenti e in seno alle quali ciascuna delle associazioni stesse annoveri

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almeno un lavoratore dipendente iscritto. (2) Gli organismi di cui al primo comma, sia che assumano forma unitaria sia che assumano la forma di rappresentanze separate, sono costituiti da rappresentanti sindacali distribuiti tra le associazioni sindacali interessate o loro coalizioni in proporzione ai consensi che esse conseguono in consultazioni elettorali che si svolgono, su iniziativa di uno o piu` dipendenti dell’unita` produttiva, con cadenza almeno triennale. Per il conseguimento di un rappresentante e` necessario, ancorche´ non sufficiente, che l’associazione o coalizione di associazioni abbia ottenuto almeno un ventesimo dei voti espressi. Salva diversa disposizione collettiva, il numero complessivo dei rappresentanti e` pari a tre nelle unita` produttive con numero di dipendenti fino a 300; nelle unita` produttive di maggiori dimensioni e` pari a uno ogni cento dipendenti.] L’organismo da lei proposto è più assimilabile alle vecchie rappresentanze sindacali aziendali o alle “rappresentanze unitarie” previste dal “protocollo Giugni” del luglio 1993? Per quel che riguarda il rapporto organico con le associazioni sindacali territoriali, è più assimilabile alle r.s.a. originariamente previste dallo Statuto. Per quel che riguarda la proporzionalità del numero dei rappresentanti rispetto alla rappresentatività effettiva dei sindacati, è più assimilabile alle r.s.u. istituite dal “protocollo Giugni”. In questo contesto, quale ruolo dovrebbero assumere i referendum aziendali? Il referendum deve essere considerato come uno strumento a disposizione dei sindacati, rientrante nelle loro prerogative di “agibilità” in azienda. Il risultato del referendum ha, di regola, un rilievo limitato al rapporto tra il sindacato e i lavoratori. Il disegno di legge n. 1872 prevede tuttavia che l’approvazione referendaria possa assumere rilievo ai fini dell’efficacia del contratto collettivo aziendale nel caso in cui esso sia sottoscritto da una coalizione non maggioritaria.

Presentiamo di seguito il testo dell’ articolo del disegno di legge 1872/2009 che racchiude quella che ai suoi occhi dovrebbe essere la disciplina per la stipulazione di contratti collettivi con efficacia generale, fin’ora inesistente in Italia a causa della mancata attuazione dell’articolo 39 della Costituzione. Art. 2071. - (Contratto collettivo con efficacia generale). (3) – Il contratto

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collettivo stipulato dalla coalizione che abbia conseguito la maggioranza dei consensi nell’ultima consultazione in seno alla stessa azienda o unita` produttiva per la costituzione della rappresentanza sindacale di cui all’articolo 2068 e che comprenda almeno una associazione sindacale rappresentata in aziende dislocate in almeno tre regioni diverse e` efficace nei confronti di tutti i dipendenti di una azienda o unita` produttiva anche in deroga a contratti collettivi applicabili di livello superiore, o comunque a contratti stipulati da altre associazioni. Questa disposizione definisce i requisiti che un sindacato, o coalizione di sindacati, deve avere per poter esercitare in azienda l’autonomia collettiva piena, negoziando con effetti vincolanti per tutti i dipendenti. Al requisito del consenso maggioritario, qui, viene aggiunto il requisito di un radicamento in almeno tre altre regioni: questo al fine di evitare – soprattutto nel Mezzogiorno –possibili derive “aziendalistiche”, ovvero la promozione da parte degli imprenditori di sindacati aziendali di comodo. Che cosa ci si deve attendere dall’uscita dei nuovi stabilimenti Fiat da Confindustria? È il segno conclamato della crisi del vecchio sistema di relazioni industriali. O il sistema stesso è capace di reagire tempestivamente dandosi da solo le nuove regole, oppure deve farlo il legislatore in via sussidiaria e provvisoria. Altrimenti è prevedibile che il fenomeno si estenda e la crisi diventi più difficile da superare. Che cosa intende dire quando afferma che il contratto collettivo deve svolgere una funzione di benchmark per la contrattazione collettiva? Intendo dire che esso deve indicare uno standard di trattamento complessivo a cui i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali, in ciascuna zona del Paese e in ciascuna azienda, possano fare riferimento per valutare se accettare o no gli scostamenti contenuti in un piano industriale innovativo, per quel che riguarda la struttura e l’entità della retribuzione, l’organizzazione del lavoro, gli orari, il sistema di inquadramento e ogni altro aspetto. Anche per negoziare cose totalmente nuove è utile poter fare riferimento a una disciplina standard, in modo da poter confrontare la previsione circa gli effetti pratici della nuova regolamentazione con gli effetti prevedibilmente risultanti dall’applicazione della disciplina “di default” nazionale.

Come si può controllare ed evitare che la contrattazione aziendale libera, come lei la concepisce, si traduca di fatto in una forma di dum-

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ping sociale, di contrattazione al ribasso? Questa è la funzione che deve svolgere un sindacato capace di essere davvero “intelligenza collettiva” dei lavoratori: devo rinviare, su questo punto, a quanto ho cercato di spiegare nel mio libro A che cosa serve il sindacato, del 2005. D’altra parte, non possiamo continuare a chiuderci alle innovazioni buone per paura di quelle cattive: questo è quanto abbiamo fatto fin qui, applicando la regola della rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale; col risultato di contribuire fortemente al difetto di crescita del Paese, anche per difetto di aumento della produttività. Certo, in qualche caso la scommessa comune tra lavoratori e imprenditori in azienda verrà persa; ma saranno molti di più i casi in cui essa verrà vinta. E il risultato sarà comunque positivo per tutti: anche per quelli che la avranno persa, in termini di maggiori occasioni di lavoro e maggiori disponibilità per gli ammortizzatori sociali.

Clausola di tregua. I detrattori degli accordi di Pomigliano e Mirafiori sostengono che questa clausola non può essere intesa come vincolante per i singoli lavoratori, senza che ne risulti violato il loro diritto costituzionale di sciopero. L’articolo 40 della Costituzione stabilisce soltanto che il diritto di sciopero si esercita secondo le leggi che lo regolano. Ora, la legge ordinaria è intervenuta soltanto per lo sciopero nei servizi pubblici, e al di fuori di questo settore non c’è alcuna legge che regoli la materia. Occorre dunque fare riferimento agli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali; e su questo terreno mi sembra si possa affermare che oggi prevale in dottrina l’orientamento secondo il quale la clausola di tregua appartiene non soltanto alla parte “obbligatoria” del contratto collettivo, ma anche alla sua parte “normativa”: essa dunque vincola anche i singoli lavoratori cui si estende l’efficacia vincolante del contratto collettivo. Certo, in mancanza di una legge che regoli la materia è sostenibile anche la tesi contraria; ma non vedo come si possa sostenere che la tesi dell’efficacia vincolante della clausola di tregua violi la legge, o – tanto meno – la Costituzione. Su questo punto, però, gli accordi di Pomigliano e di Mirafiori non sono chiari. È vero: la formulazione della “clausola di responsabilità”, in quei due accordi, su questo punto è ambigua. Chi la ha sottoscritta dice che, nella situazione di opacità dell’ordinamento su questo punto, si è inteso attribuire alla clausola l’efficacia massima possibile, lasciando al giudice stabilire

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quale questa sia.

Fino a dove è bene permettere la flessibilizzazione, assecondare le forze del mercato globale che comunque un Paese come l’Italia non potrebbe contrastare, e dove porre dei freni e proteggere le posizioni acquisite nel tempo dai nostro lavoratori? La protezione maggiore, e di qualità migliore, che si può offrire a un lavoratore è costituita dalla possibilità di scegliere tra una pluralità di datori di lavoro possibili; quindi non soltanto di scegliere il tipo di lavoro che più corrisponde alle sue aspirazioni, ma anche di andarsene sbattendo la porta dall’azienda che lo tratta male. Il policy maker – sia esso il sindacato che contratta o il legislatore nazionale – si trova sempre di fronte a questo trade-off: fino a che punto i benefici della protezione inderogabile superano i benefici di una maggiore domanda? Nel mercato del lavoro monopsonistico, tipico della prima fase dell’industrializzazione, il policy-maker si trovava in una posizione facile, perché l’aumento dello standard inderogabile di trattamento, entro un certo limite, aveva addirittura l’effetto di aumentare la domanda di lavoro. In un mercato del lavoro concorrenziale il problema si pone in termini molto meno facili. Più concretamente, come si pone la questione oggi in Italia? Una cosa è certa: oggi l’Italia soffre dell’effetto negativo della globalizzazione, la concorrenza dell’offerta di manodopera dei Paesi emergenti, senza saper godere dell’effetto positivo: cioè la possibilità di attirare in casa propria il meglio dell’imprenditoria mondiale. E in questa sua incapacità giocano un ruolo importante sia la nostra legislazione del lavoro, sia il nostro vecchio sistema di relazioni industriali obsoleto, perché ancora centrato sulla rigida inderogabilità del contratto collettivo nazionale, e inconcludente, per difetto delle regole necessarie per dirimere i contrasti insanabili tra i sindacati maggiori.

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DIRITTO PENALE

l’alligatore 35


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Il percorso corrutivo. Dal fatto tipico alla risposta sanzionatoria di Marco Alessandro Bartolucci

Quando nel linguaggio giuridico, così come in quello comune, ci si riferisce alla corruzione pubblica1, l’àmbito di analisi va ben oltre la portata degli artt. 317 e ss. cod. pen.2, che prevedono e puniscono una pluralità di reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Questa discrasia appare ancor più marcata a causa di almeno due fattori, endogeni della situazione italiana. Il primo riguarda, banalmente, un’obbligata imposizione semantica: i paesi di lingua inglese, tedesca e spagnola differenziano la corruzione lato sensu3, comprendente anche gli aspetti criminologici ed economici, con il delitto previsto nei rispettivi ordinamenti attraverso una bipartizione lemmatica: corruption e bribery, Korruption e Bestechung, corrupciòn e cohecho4. In secondo luogo, più incisivamente, nel nostro Paese pare essere ancora viva la denuncia di Domenico Pulitanò, riferita alle vicende appena successive all’emersione di “Tangentopoli”, quasi quattordici anni fa: “nel teatro dei mass media si sentono spesso recite strumentali ad interessi di parte, nelle quali i fatti sono deformati, e i temi della giustizia degradati a strumento di pressione e (forse) merce di scambio nel mercato politico”5.

Dinanzi ad un panorama prima facie così confuso, il penalista si trova ad un fondamentale bivio: affrontare tout court i delitti di corruzione così come progettati da Alfredo Rocco nel codice del 1930 e timidamente novellati negli anni, oppure alzare lo sguardo sulla questione con

1 Da non confondere con la c.d. “corruzione privata”, meglio identificata con l’infedeltà a sèguito di dazione o promessa di utilità ex art. 2635 cod. civ., introdotta con il d. lgs. 11 aprile 2002, n. 61, recante “Disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le società commerciali, a norma dell’articolo 11 della legge 3 ottobre 2001, n. 366”, cfr. ampiamente R. Zannotti, Il nuovo diritto penale dell’economia. Reati societari e reati in materia di mercato finanziario, Giuffrè, Milano 2008, pagg. 294 e ss. 2 Per le motivazioni che hanno indotto ad includere anche il delitto di concussione si rimanda infra, cap. III, par. 4. 3 In cui rientrano genericamente, oltre ai delitti di corruzione stricto sensu e concussione, anche certe forme di peculato, abuso d’ufficio e finanziamento illecito ai partiti. 4 Cfr. A. Spena, Il “turpe mercato”. Teoria e riforma dei delitti di corruzione pubblica, Giuffrè, Milano 2003, pag. 3. 5 D. Pulitanò, La giustizia penale alla prova del fuoco, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, 01, pag. 3.

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la consapevolezza delle molteplici concause, delle sensibili variabili criminologiche, delle eterogenee conseguenze, insomma, della stratificazione interdisciplinare che diviene sostrato sociologico e, quindi, inevitabile prodromo del fatto tipico.

Alla luce delle caratteristiche proprie dei delitti di corruzione, è stata scelta quest’ultima strada, che ha preso il nome per l’appunto di percorso corruttivo, sulla scia dell’insegnamento di Carlo Enrico Paliero e del suo “reato massmediatico”: “la rappresentazione della criminalità economico-amministrativa si presenta scissa in due versioni: generalmente le notizie si connotano per un alto grado di tolleranza nei confronti di questi atti, avvertiti per lo più alla stregua di ‘peccati veniali’ (di Kavaliersdelikte), e la cui persecuzione non trova efficace riscontro e condivisione nella coscienza sociale anche per l’alto tasso di tecnicismo che li contraddistingue. L’impostazione indulgenziale scema del tutto però quando questi reati assumono vaste proporzioni, ossia quando coinvolgono numerose vittime, ovvero quando il dissesto economico […] assume le dimensioni del disastro”6. Il primo livello di analisi qui riassunto è dedicato alla fenomenologia della corruzione, come cioè si sviluppa e si declina immersa nei varî sostrati sociologici. Preliminarmente, l’analisi storica, mutuata dalla fondamentale opera di John T. Noonan jr., Bribes7, consegna un malcostume corruttivo legato a doppio filo con le morali religiose8. Più specificamente e con riferimento agli ultimi due secoli, Regno Unito e Stati Uniti d’America sono i paesi che prima di tutti hanno imposto vincoli legali a quelle condotte penalmente poco o nulla rilevanti, ma che possono costituire – e spesso costituiscono – un serbatoio di propellente alle vicende corruttive, quali il finanziamento pubblico alla politica o la violazione delle regole antitrust, già sul finire dell’Ottocento. Soprattutto l’impulso nordamericano – a partire dal Foreign Corrupt Practices Act del 1977, figlio legittimo dello scandalo Watergate – dà origine ad una produzione

6 C. E. Paliero, La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed “effetti penali” dei media), in Riv. it. dir. proc. pen. 2006, 49, pag. 497. 7 Tradotto in Italia in due volumi: Ungere le ruote. Storia della corruzione politica dal 3000 a.C. alla Rivoluzione francese, SugarCo 1987 e Mani sporche. La corruzione politica nel mondo moderno, SugarCo 1987. 8 Il “successo” del cristianesimo nei confronti della mitologia pagana è dovuto, tra gli altri motivi, alla condanna del malcostume imperiale e delle clientele ai quali i soggetti investiti di potere pubblico si prestavano per incrementare il proprio cursus honorum. Allo stesso modo la Riforma protestante ha trovato in Martin Lutero e Giovanni Calvino gli apologeti di un’etica anti-corruttiva che la Roma papale invece, con la prassi della vendita delle indulgenze e delle reliquie, aveva abbandonato.

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legislativa sovranazione, che trova il proprio apice nella fondamentale Convenzione Ocse 1997. Negli anni Settanta Susan Rose-Ackerman, nell’imprescindibile The Economics of Corruption9, ipotizzò che la corruzione, sulla scorta della capacità incisiva rispetto all’attività pubblica lato sensu, potesse declinarsi in tre livelli, più o meno invasivi. Quando gli interpreti si trovarono dinanzi all’emersione delle vicende corruttive sotto l’impulso dell’indagine “Mani Pulite”, furono costretti ad elaborarne un quarto: la corruzione è in grado di modificare, se non di guidare, le scelte di politica fiscale, industriale ed economica di una nazione. Questo balzo empiricoconoscitivo “made in Italy” porta in re ipsa il corollario per cui la qualificazione giuridica del fenomeno sconta un surplus di complessità rispetto ad altri reati. Per provare a risolvere questo delicato nodo, è opportuno percorrere due direttrici: la prima riguarda la criminalità effettivamente emersa, la seconda invece affronta la complessa questione della c.d. “cifra nera”, vale a dire lo scarto tra criminalità reale e criminalità registrata.

Per quanto riguarda il primo aspetto, è facilmente apprezzabile l’inaffidabilità scientifica di questo dato: la propensione alla denuncia registra due picchi vistosi: uno, vertiginoso, a cavallo del quadriennio 199296; un altro, meno ripido, dal 2001 al 2010, che è tutt’ora in ascesa. Pertanto, parrebbe affermabile ictu oculi che in quei periodo si siano commessi più illeciti. Una delle particolarità dei delitti de quibus – che la dottrina ha classificato come “reati a vittima diffusa”, poiché il bene giuridico leso non è immediatamente individuabile dalla vittima (la collettività o, più propriamente, gli “avversari” economici del corruttore), che anzi, nella casistica dominante, rimane estranea ed inconsapevole – impedisce di utilizzare le denunce come criterio discretivo. Anche l’effettività del controllo formale (magistratura inquirente e polizia giudiziaria) sembra non costituire una variabile sensibile: la corruzione si compone, sommariamente, come un contratto illegale (il c.d. pactum sceleris) tra due soggetti entrambi punibili, in tutto e per tutto classificabile come white collar crime, senza normalmente lasciare tracce sulla scena del crimine. Da qui, le regole sottoculturali tipiche dei colletti bianchi (considerare le regole proprie come “speciali” rispetto alle norme generale), impediscono anche il c.d. “pentitismo”, che la dottrina ha attentamente vagliato e declinato per quanto concerne i reati associativi. Alla luce di queste brevi considerazioni, il quadro empirico non può evidentemente sovrapporsi con il dato scientifico. L’unico legame certamente affermabile riguarda la “percezione” della punibilità: la dottrina più autorevole si è concentrata sul calcolo del rischio penale da parte degli autori di reati economici e durante l’indagine della Procura della Repubblica di Milano sugli episodi 9

In Journal of Poltical Economy, vol. IV, 1975, pagg. 187-203.

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di Tangentopoli è possibile rilevare un innalzamento di questo rischio, quanto meno di quello percepito, che avrebbe reso in qualche modo gli scambi più pericolosi, quindi più costosi. La conseguenza è bifronte: da una parte, l’innalzamento del costo della corruzione consente l’allentamento della maglie criminali e quindi la possibilità per gli inquirenti di trovare un varco d’indagine: infatti, inaspettatamente, il “punto di forza” dell’associativismo differenziale, cioè l’imperscrutabilità della sottocultura da parte di chi non ne fa parte, diviene la prima causa dell’“effetto domino” che le cronache giudiziarie di Tangentopoli spiegano meglio di ogni contributo dottrinale. Dall’altra, paradossalmente, poiché gli scambi erano divenuti più pericolosi, proprio a causa del periodo di maggior denuncia, ne venivano commessi in valore assoluto meno del solito. La scelta di campo auspicata consiste nel dare un’interpretazione delle norme che presidiano il controllo penale alla luce dell’analisi criminologica, poiché, come insegna la scuola giuridica tedesca, un diritto penale lontano dalla realtà è un diritto penale inefficace10. Nota a tal proposito Gabrio Forti: “da tempo si avanza – al punto che l’osservazione può dirsi scontata tra i penalisti delle ultime generazioni – l’idea di una dogmatica e di una sistematica penalistiche ‘orientate in senso politico-criminale’. Connaturata a questa evoluzione è l’esigenza che il diritto penale dovrebbe avvertire di offrire una giustificazione delle proprie decisioni sulla base delle conseguenze che esse, non solo in seno al sistema giuridico, ma anche in relazione a ‘situazioni di fatto’, sono destinate a produrre. Ciò comporta la assunzione, come ‘forma di pensiero del giurista’, del vincolo a una serie di variabili empirico-sociali, con la necessità dunque di farsi guidare anche dal Leitgedanke costituito dalla ‘natura delle cose’ (Natur der Sache), per dirla con Radbruch”11. Un diritto penale inefficace non costituisce un semplice orpello, ma un peso sotto il quale un intero paese può vacillare. Franco Cordero, riferendosi alla stagione mai conclusa delle riforme del processo penale, invocava l’intervento salvifico degli “anticorpi”12. Dello stesso avviso, riferendosi però precisamente alla corruzione, Giancarlo Ferrero segnalava che “una patologia alla lunga porta, come in tutti gli organismi, a uno

10 Cfr. in tal senso, C. Roxin, Strafrecht Allgemeiner Teil, Vol. 2, Monaco 2003, pagg. 227 e ss., W. Hassemer, Warum Strafe sein muss. Ein Plädoyer, Berlino, 2009, pag. 94. 11 G. Forti, “Paradigmi distributivi” e scelte di tutela nella riforma penalesocietaria. Un’analisi critica, in Riv. it. dir. e proc. pen. 2009, 04, pagg. 1609. 12 F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano 2006, premessa alla settima edizione.

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stato di immuno-deficienza irreversibile”13. Le difese al virus possono già essere rinvenute nel dettato del legislatore, a cui bastano piccoli, praticabili ed efficaci ritocchi, che emergeranno lungo lo svolgimento della tesi. Si tratta solo di intraprenderli con determinazione, sia pure con la dovuta prudenza e nel rispetto delle garanzie sostanziali e processuali, come hanno dimostrato paesi dal livello di corruzione ben più basso del nostro14. Cesare Beccaria scriveva che “la certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità”15; Carlo Enrico Paliero, riferendosi in particolare agli white collar crimes16, ha recentemente specificato che “l’affermazione generale secondo la quale i delinquenti temono di più la probabilità di subire una condanna che la pena comminata con la condanna, significa che, nell’approccio basato sull’utilità attesa, si pone quale condizione di validità dell’enunciato l’ipotesi che i delinquenti hanno un’elevata preferenza per il rischio”17.I soggetti attivi dei delitti di corruzione, alla luce dell’evoluzione criminogenetica propria degli illeciti de quibus, rappresentano il paradigma della sovrapposizione tra homo criminalis e homo oeconomicus. Vittorio Grevi in tal proposito ha affermato che costoro “saranno più propensi a delinquere, quanto più percepiranno la minimizzazione del rischio penale, se non addirittura la fondata speranza dell’impunità”18 Appare pertanto fisiologico come una reale risposta sanzionatoria possa rappresentare l’unico deterrente efficace nei confronti di una criminalità corruttiva che, se non adeguatamente prevenuta ed arginata, può arrivare a mettere in crisi il sistema economico nazionale e le stesse istituzioni democratiche19.

13 G. Ferrero, Come uscire da Tangentopoli. Il fallimento delle istituzioni e il ritorno della legalità, Editori Riuniti, Roma 1996, pag. 87. 14 P. Davigo, G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Laterza, Bari 2007, pag. 313. 15 C. Beccaria, La dolcezza delle pene, in Dei delitti e delle pene, Livorno, 1764, edizione a cura di F. Venturi, Torino, 2003, pag. 59. 16 E. H. Sutherland, ‘White Collar Crime’, Holt Rinehart and Winston, New York 1949. 17 C. E. Paliero, L’economia della pena (un work in progress), in Riv. it. dir. e proc. pen. 2005, 04, pag. 1367 e ss. 18 V. Grevi, prefazione a P. Davigo, G. Mannozzi, La corruzione in Italia, op. cit., pag. XV. 19 Cfr. Note illustrative alle proposte in materia di prevenzione della corruzione dell’illecito finanziamento ai partiti, pag. 1032.

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La Convenzione di Lanzarote, ovvero “dello Stato che si fa paladino dei valori morali”. di Veronica De Michielis

“Cogitationis poenam nemo patitur” In seguito all’approvazione da parte di entrambe le camere del DDL S 1969 (Gennaio 2010), l’Italia ha ratificato la Convenzione europea per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale stipulata a Lanzarote nel 2007.

L’auspicio del Consiglio d’Europa è stato raccolto da trentatré dei quarantasette Stati membri, che hanno quindi ratificato la Convenzione. Nella premessa si evidenzia chiaramente l’intento di prevenire e ostacolare le condotte sessuali lesive del minore (sfruttamento, abuso e adescamento) in un ottica transfrontaliera di tutela dei suoi diritti. Non è nuovo il legislatore comunitario a queste tematiche, essendo stati emanati tre atti che hanno come ispirazione principale la protezione del minore, l’ultimo dei quali è la decisione quadro 2004/68/GAI del Consiglio1, del 22 dicembre 2003, relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile.

Il ddl S 19692 ha passato l’esame di entrambe le camere ed è stato trasmesso al Presidente della Repubblica per la sua promulgazione. Il nostro paese ha partecipato attivamente all’ideazione della Convenzione, individuando specifici strumenti atti a contestare l’abuso del minore,riassunti nei 50 articoli del testo. L’attenzione alla prevenzione dei crimini sessuali in ambito minorile si inserisce in un più ampio contesto di lotta transnazionale ai crimini che, più di altri, sconvolgono e turbano gli animi, agevolati dall’assenza di barriere nell’etere . A tal proposito, il progetto si è focalizzato sull’avanzare e sull’affermarsi di nuove tecnologie che presuppongono la predisposizione di nuovi mezzi giuridici che possano fronteggiare queste insidie. Inoltre, particolare attenzione è stata posta alla vita in comunità e agli ambiti dove statisticamente si ha un’incidenza 1 2 htm

http://www.altalex.com/index.php?idnot=674 http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/testi/34819_testi.

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maggiore di crimini sessuali.

Sembra quindi che il legislatore comunitario abbia inteso tutelare il minore a tutto tondo, sia nella vita quotidiana, reale, che in quella più effimera del cyberspazio. Soprattutto in quest’ultimo importante contesto, le tutele apprestate precedentemente erano inidonee a proteggere il minore, sprovvisto dell’esperienza necessaria per far fronte ai tentativi di reato attuati frequentemente sul web. L’obbiettivo che si pone la Convenzione è quello della protezione del minore sia da un punto di vista preventivo che successivo alla violenza. A tal proposito le misure che lo Stato ratificante deve attivare si sviluppano principalmente su cinque piani. In primo piano troviamo le misure preventive riguardanti la formazione e il controllo delle persone che lavorano a contatto coi minori. Le misure si sviluppano su un duplice livello,prevedendo un’adeguata formazione degli “addetti ai lavori” ma anche un loro monitoraggio per garantire una tutela maggiore. Destinatari ultimi di queste misure sono le persone che lavorano a stretto contatto con bambini e ragazzi in campi come l’educazione, la sanità, il sociale, il giudiziario e la pubblica sicurezza. Particolare attenzione è posta inoltre al campo sportivo e ricreativo , ove spesso si sviluppano queste condotte. E’ stato evidenziato come le offese sessuali subite all’interno di gruppi fidati siano più frequenti e abbiano conseguenze maggiori a livello emotivo. All’interno degli istituti scolastici e più in generale in ogni contesto aggregativo riguardante i minori, devono essere previsti insegnamenti di educazione sessuale e prevenzione rischi.

Sono previste inoltre misure di intervento monitorate per gli offensori e i potenziali tali, che mirano a prevenire i reati previsti dalla Convenzione. E’ indispensabile inoltre che coloro che si ritengano a rischio di condotte abusanti, possano accedere a programmi di intervento terapeutico in un’ottica preventiva. Nemmeno l’opinione pubblica è esente dalle misure preventive, uno degli obbiettivi principali è infatti la sensibilizzazione della società civile attraverso iniziative ad hoc.

Un’altra proposta degna di nota è la presenza delle misure protettive che la Convenzione predispone per le vittime e i loro familiari, prevedendo assistenza terapeutica e terapia psicologica d’urgenza. E’ inoltre molto importante incoraggiare gli utenti a denunciare o segnalare il sospetto di violenza o sfruttamento sessuale, dato che il numero oscuro in questo am-

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bito raggiunge percentuali molto elevate. Non pochi problemi causa però questo incoraggiamento al “Reporting suspicion”, relativamente ai principi informatori del nostro ordinamento e in ordine alla disciplina relativa al segreto professionale. È lodevole l’intento del legislatore di infrangere il muro di omertà che circonda questi reati, ma questo incentivo alla denuncia potrebbe essere controproducente, generare una situazione di allarme sociale ingiustificato con conseguente congestione dei canali dell’autorità giudiziaria. Per non parlare poi del contrasto che emergerebbe in relazione alla la disciplina sul segreto professionale e la riservatezza, sulla quale il DDL s 1969 tace.

L’art.12 della Convenzione prevede che qualora vi siano “Reasonable grounds” il professionista debba agire in modo da non ostacolare le indagini e l’incriminazione, ovvero mettendo a disposizione dell’autorità giudiziaria tutto ciò che ha appreso grazie alla sua professione. E’ evidente come questa misura sia incompatibile con la disciplina italiana in merito, ove la riservatezza e il segreto sono obblighi e non certo facoltà suscettibili di valutazione discrezionale. L’art.200 del nostro codice di procedura penale stabilisce infatti che non possono essere obbligati a deporre su quanto conosciuto in ragione del proprio ministero, ufficio o professione, i ministri di culto, gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai, chiunque eserciti una professione sanitaria e in ogni caso tutte le persone a cui questa facoltà sia riconosciuta dalla legge. Qualora il giudice dubiti della bontà della motivazione addotta per esimersi dal deporre e ne accerti la infondatezza, ordina che il testimone deponga. Per quanto riguarda la professione legale, il codice deontologico forense all’art. 9 prevede un generale dovere di segretezza e riservatezza dell’avvocato, sia per i suoi attuali clienti che per quelli passati. La norma elenca alcuni casi tassativi in cui le esigenze di riservatezza cedono il passo alla necessità di tutelare altri beni giuridici; ai fini che qui interessano viene in rilievo l’ipotesi di cui alla lett. d) comma 4. Nel caso in cui vi sia necessità di impedire la commissione di un reato di particolare gravità, l’avvocato è sollevato dall’obbligo del segreto professionale. Quando l’obbligo di riservatezza sia stato violato e ciò abbia recato nocumento, l’art. 622 del Codice prevede la sanzione della reclusione fino a un anno o la multa da euro 30,00 a euro 1000,00. E’ quindi comprensibile come possano nascere delle perplessità in merito al coordinamento tra la Convenzione e le nostre norme processualpenalistiche. L’art. 12 concede al professionista una discrezionalità molto ampia, senza giustificare quali

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possano essere questi “fondati motivi”, accettando la lesione di un bene costituzionalmente garantito, quale la libertà, in favore di una logica repressiva anticipata; logica che troviamo anche negli istituti di diritto penale generale, quali il favoreggiamento, il concorso e il tentativo. Proprio la disciplina sul tentativo è suscettibile di alcune critiche che si riproporranno più avanti in relazione ad alcune norme di parte speciale. La previsione contenuta nell’art. 24 comma 2 rinvia alla disciplina nazionale ed è accompagnata da un’ampia clausola di riserva di non applicazione per alcune ipotesi di reato della Convenzione. Come già precedentemente rilevato, appare incompatibile coi principi del nostro diritto penale un ulteriore arretramento della soglia di punibilità che avverrebbe ove non fosse prevista la clausola di cui all’art. 24 comma 3.

In seguito a molteplici pronunce della Cassazione, il principio di offensività è uno dei principi cardine del nostro ordinamento che non si presta a essere scavalcato tanto facilmente. Anche operando un bilanciamento degli interessi in gioco, non è possibile a mio avviso accettare ciò che la Convenzione prevede in merito, per esempio, all’art. 609 quater c.p. Essa vincola gli stati a prevedere la criminalizzazione anche dell’accesso consapevole, tramite Internet, a materiale pornografico, configurando un vero e proprio reato di pericolo astratto. Il solo accesso al sito Internet, comportando il tentativo di acquisire la detenzione delle immagini,sarebbe inquadrabile nei reati di “pericolo di un pericolo” e ciò arretrerebbe la nostra cultura giuridica di almeno sessant’anni. E’ molto difficoltoso e inopportuno, infatti, ipotizzare il tentativo in relazione ai reati di pericolo. Soprattutto, questo metterebbe a repentaglio tutte le conquiste faticosamente raggiunte in relazione al principio di non colpevolezza e di offensività, presupponendo un’ottica repressiva in chiave anticipatoria, basata sull’atto interno e non conoscibile attraverso indicatori esterni (come nel caso dell’elemento soggettivo doloso o colposo). Il solo fatto di capitare per caso su un sito “farfalla” o su blog dai contenuti osceni, condurrebbe a una possibile imputazione dell’ignaro navigatore del web! Come sarebbe dimostrabile la consapevolezza in questo caso, oltre ogni ragionevole dubbio? Le misure di politica criminale contenute nella Convenzione prevedono l’introduzione di nuove norme che censurino determinate condotte, come avere rapporti sessuali con un minore al di sotto dell’età di consenso o

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l’utilizzo delle nuove tecnologie per portare a compimento reati come il “Grooming”3.

Il recepimento della Convenzione deve avvenire aderendo a chiari criteri comuni che permettano l’esistenza di un sistema punitivo effettivo, proporzionato e dissuasivo in un’ottica di protezione transnazionale. Il coordinamento deve avvenire a livello nazionale e locale grazie all’istituzione di autorità indipendenti responsabili dello stoccaggio e del monitoraggio dei dati.

Il disegno di legge S 1969 designa come autorità competente per l’Italia il Ministero dell’Interno. E’ curioso come il Ministero dell’Interno sia diventato un organo indipendente con la sola ratifica di una Convenzione!Non sarebbe meglio allora affidare a organi come il CISMAI4 (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia) un tale servizio?

Sono inoltre previste misure relative al processo e al procedimento che abbiano per oggetto minori in cui è necessario che le vittime siano protette adeguatamente, prestando attenzione all’equilibrio del minore e al non aggravamento del trauma già subito, proteggendo la privacy, l’identità e l’immagine del bambino. In che modo questo sarà attuato è lasciato alla discrezione degli Stati, ma diversi sono i punti fermi della Convenzione, tra cui il rispetto dei diritti del minore anche attraverso una limitazione delle interrogazioni della vittima e l’attenzione verso il contesto in cui esse avvengono.

I reati che la Convenzione intende punire sono contenuti negli articoli da 18 a 23 e sono l’abuso sessuale, la prostituzione minorile anche in concorso con altre condotte illecite (associazione di tipo criminale e traffico di minori), la pornografia minorile e l’adescamento online. Per abuso sessuale (art.18 Conv.) nei confronti di minorenne, si intende il compimento di atti sessuali con un minore che secondo le previsioni del diritto interno non abbia raggiunto la “legal age for sexual activities” . È compreso nella norma anche il compimento di atti sessuali con minac-

3 E’ detto “grooming” l’atteggiamento dell’adulto che “cura” il minore, inducendolo a piegarsi alla sua volontà, attraverso tecniche di manipolazione psicologica espletate soprattutto attraverso il web. 4 http://www.cismai.org/CoordinamentoChiSiamo.aspx

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cia, costrizione, violenza o abusando di posizioni d’autorità o familiarità o di una condizione di particolare vulnerabilità del minore (disabilità mentale o dipendenza). Queste condotte sono punite nel nostro ordinamento ai sensi dell’art.609 quater, recentemente modificato dall’ art. 6 l. 6 febbraio 2006, n. 38.

Una riflessione a parte merita il concetto di età legale in Italia: questa è fissata a 14 anni5 ma si configura come un limite variabile in relazione ad alcune condizioni. Nell’articolo sono contemplate infatti alcune deroghe alla disciplina generale: vi è una sola ipotesi in cui il limite dell’età legale si abbassa a 13 anni, ovvero nel caso in cui i partner siano entrambi minorenni e la differenza di età non superi i tre anni. Si ha invece un innalzamento dell’età del consenso (16 anni) in caso di relazione di autorità o convivenza sull’altro partner (catechisti, convivente, educatore, insegnante, familiare diverso dall’ascendente, etc.) e a 18 anni in caso di minore che sia oggetto d’abuso da parte dal genitore (anche adottivo), da un parente o dal tutore, o da una persona che convive con questi, con abuso dei poteri connessi alla propria posizione. Particolare attenzione è prestata al tema della Prostituzione minorile (art.19 Conv.), anche in relazione all’incremento nella richiesta di prostitute/i bambini, spesso in collegamento col crimine organizzato e il traffico di esseri umani. La Convenzione punisce sia chi recluta i bambini sia chi li utilizza, in un’ottica bidirezionale che può essere efficacemente applicata anche nell’ambito del turismo sessuale. La nozione di prostituzione minorile fornita dalla Convenzione è la seguente: “l’uso di un bambino per attività sessuali dove siano promesse denaro o altre forme di remunerazione al bambino stesso o a un terzo”. Nel modificare l’art. 600 bis si è tenuto conto della Convenzione. Esso prevede ora la reclusione da sei a dodici anni e la multa da euro 15.000 a euro 150.000 per chiunque “recluti o induca alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto oppure favorisca, sfrutti, gestisca, organizzi o controlli la prostituzione di una persona di età inferiore agli anni diciotto, ovvero altrimenti ne tragga profitto”. E’ stato puntualizzato come l’utilità promessa o data al minore in cambio di suoi favori sessuali possa anche essere non economica, è stato rivisto il regime delle circostanze 5 Relazione della Commissione ai sensi dell’articolo 12 della decisione quadro del Consiglio del 22 dicembre 2003 relativa alla lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pornografia infantile (DOC). Europa. eu, 16 novembre 2007

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e inoltre sono state aumentate le pene per chi induce a questo reato.

Indicativo di come il minore sia tutelato completamente è anche la previsione dell’obbligo di rimpatrio dei minori stranieri non accompagnati,6 al fine di realizzare il loro ricongiungimento familiare. A tale scopo, è rimessa ad un apposito regolamento la fissazione delle modalità di riconsegna alle autorità nazionali dei minori stranieri, in base ai principi di accelerazione e semplificazione delle relative procedure, garanzia dell’unità familiare del minore e osservanza di misure di protezione.

Un’ulteriore ipotesi di reato contemplata dalla Convenzione è la pedopornografia (art.20 e 21 Conv.), che si concretizza nel produrre, offrire o rendere disponibile, trasmettere e distribuire, possedere prodotti di “child pornography”, o accedervi consapevolmente attraverso la tecnologia informatica e della comunicazione. Nel nostro ordinamento manca una nozione puntuale di pedopornografia, definita dalla Convenzione come comprensiva di qualunque materiale contenente rappresentazioni visive di espliciti atti sessuali reali o simulati, da parte di minori o di organi sessuali di minori per scopi prevalentemente sessuali. La definizione di pedopornografia offerta dalla decisione quadro 2004/68/GAI riguarda “materiale pornografico che ritrae o rappresenta visivamente”: • un bambino reale implicato o coinvolto in una condotta sessualmente esplicita, fra cui l’esibizione lasciva dei genitali o dell’area pubica; • una persona reale che sembra essere un bambino implicata o coinvolta nella suddetta condotta; • immagini realistiche di un bambino inesistente implicato o coinvolto nella suddetta condotta. A tal proposito, sia la Convenzione che la Decisione Quadro precisano che ogni Stato membro può riservarsi il diritto di non ipotizzare il reato di produzione e possesso di materiale pornografico consistente in rappresentazioni simulate di un bambino non esistente oppure di immagini di minori che abbiano raggiunto l’età legale per il compimento di atti sessuali, se autoprodotte e possedute con il loro consenso nonché per uso privato.

La nozione comunitaria è, a parere di chi scrive, eccessivamente dilatata, arrivando a comprendere adulti con fattezze di minori e immagini realisti6 Testo del ddl 1079/2008 “Misure contro la prostituzione” : http://parlamento.openpolis.it/atto/documento/id/1219

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che di bambini inesistenti. Non si capisce infatti a che titolo si potrebbero punire queste condotte, mancando nel primo caso l’oggetto del reato (il minore che in realtà minore non è) e nel secondo caso l’inquadramento della condotta in una fattispecie giuridica penalmente rilevante. Vero è che muoversi sul piano del diritto e non considerare la realtà, non sempre è agevole.

Immaginiamo un cartone animato che proponga delle scene di rapporti sessuali tra un bambino e un adulto, la maggior parte di noi rimarrebbe sconcertata, percependovi qualcosa di profondamente sbagliato. Ma a che titolo sarebbe punibile questa condotta? Questo esempio estremo aiuta a comprendere come non sempre sia facile distinguere il piano della morale da quello del diritto. A differenza della morale, che per quanto comune presenta delle zone d’ombra che variano da persona a persona, il diritto deve essere certo e aderire a principi irrinunciabili. Le autorità di Controllo, quale il Garante dei Minori, proteggono il fanciullo dalla possibilità che venga in contatto con filmati a sfondo erotico. Ove il cartone animato sia rivolto ai bambini è ovvio che ci si attiverebbe per la tutela della loro integrità psichica impedendone la circolazione.

Ma nel caso in cui l’adulto fruisse di questi filmati oppure li creasse? Come di recente accaduto, queste persone sarebbero imputabili di pedopornografia virtuale, ma fattispecie come l’art.600 quater bis cp provocano non pochi problemi, sia a livello interpretativo che a livello dottrinale. Qual è infatti il bene giuridico tutelato da questa norma? Nel caso in cui si puniscano le rappresentazioni sembra difficile ipotizzare la lesione del bene giuridico “status libertatis” della vittima. Una vittima non c’è e sembra chiaro che il diritto penale debba stare al di fuori del mondo delle idee di platonica memoria! E’ inquietante vedere come la legislazione di emergenza si permetta di derogare ai valori costituzionali illuminati , in favore della punizione di una perversione sessuale. L’offensività reale delle condotte cede il passo a considerazioni morali che nulla hanno a che fare col diritto penale. Vi è un’alterazione della morfologia del reato, i cui contorni di personalità e consapevolezza sfumano nell’alveo rassicurante di un diritto qualunquista. Dov’è la vittima in questo reato? Dov’è la lesione dell’integrità fisica e psichica del fanciullo?

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Per quanto riguarda l’attuazione delle direttive contenute nella Convenzione, l’Italia ha quindi optato per una scelta massimalista, prevedendo tout court le ipotesi di reato già esposte. Sarebbe stato meglio confrontare ciò che veniva richiesto coi principi del nostro ordinamento, senza lasciarsi andare a eccessivi allarmismi umorali che paiono discostarsi alquanto da un’analisi attenta della realtà e della compatibilità delle fattispecie. Un esempio di come il legislatore italiano troppo spesso si lasci trasportare dalle correnti emozionali dimenticando il garantismo che contraddistingue la nostra civiltà, è appunto la legge n. 30 del 2006 di modifica delle norme introdotte con la l. 269/1998 in materia di pedopornografia, che presta il fianco a non poche critiche relative alla modifica dell’illecito in chiave di “reato di pericolo”. Le precedenti esperienze insegnano quanto poco produttivo sia fare ricorso al modello normativo di questo reato,prevedendo l’anticipazione della soglia di punibilità fino al modo d’essere del reo. Non più reati di evento dunque, ma nemmeno di mera condotta. Il legame tra autore e reato, nonché tra tipizzazione della fattispecie e imputazione del fatto, risulta dispersa in favore a una tutela sui generis, che nulla ha a che vedere con la tassatività e la determinatezza della fattispecie penale.

Le norme che puniscono sia chi detiene che chi produce o induce alla realizzazione di immagini pedopornografiche sono l’art. 600 ter, “Pornografia minorile” e l’art. 600 quater “Detenzione di materiale pedopornografico”, specificatesi poi nell’art.600 quater bis relativo alla pedopornografia virtuale. Viene punita la produzione, detenzione e divulgazione di immagini virtuali, in conformità a quanto previsto dagli articoli 20 e 21 della Convenzione. Per immagini virtuali si intendono “immagini realizzate con tecniche di elaborazione grafica non associate in tutto o in parte a situazioni reali, la cui qualità di rappresentazione fa apparire come vere situazioni non reali”. E’ punita l’inclinazione individuale che non sfocia in alcunché;non si tratta più di criminalità dell’atto ma ci si concentra sull’intenzione, arretrando pericolosamente la soglia di punibilità con buona pace del principio di offensività, scavalcato in favore di considerazioni morali. Lascia perplessi inoltre la collocazione della norma all’interno del Titolo dedicato ai delitti contro la personalità individuale;se questa fosse stata inserita nel titolo del codice relativo ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume,sarebbe stato senz’altro più agevole ricostruire il bene

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giuridico protetto dalla norma. Non sarebbero però venute meno le riserve relative al conflitto con la libertà di espressione.Com’è possibile punire una condotta che, seppur aberrante, non è sicuro che stimolerebbe l’istinto sessuale del fruitore?

I reati di pericolo presunto non hanno infatti ragion d’essere nel nostro ordinamento, ove vige il principio di interpretazione del diritto penale secondo il principio di offensività, codificato dalle Sezioni Unite nel 2009. Come dimostrare il nesso tra fatto e pericolo? Tutti gli scenari che l’applicazione della norma apre, fanno pensare a un reato di mero sospetto relativo alla pericolosità soggettiva del reo, più che alla ipotetica commissione di reati. E per quanto riguarda la pericolosità sociale, il nostro ordinamento predispone già gli strumenti necessari attraverso misure extrapenali. La Convenzione prevede un’ulteriore ipotesi di reato assente nel nostro ordinamento, che non risulta introdotta nemmeno col ddl S 1969. Si tratta della punizione di chi recluta, costringe o comunque determina un minore ad essere coinvolto in spettacoli, ovvero sfrutta un minore a tale scopo traendo profitto ed anche di chi assiste consapevolmente a spettacoli che coinvolgano minori. Il nostro ordinamento non ha recepito questa ipotesi di reato, ma sorge spontanea una domanda: punito chi attua questa condotta sul web e non colui che lo fa dal vivo? E’ paradossale come la fattispecie reale, nel senso di concreta e tangibile, non venga punita!

Il legislatore ha inserito anche all’art. 414 bis c.p. il reato di “pedofilia e pedopornografia culturale”, ove si punisce con la reclusione da tre a cinque anni chiunque con qualsiasi mezzo e qualsiasi forma di espressione pubblicamente istiga a commettere reati di prostituzione minorile, pedopornografia, detenzione di materiale pedopornografico, violenza sessuale contro minori e corruzione. E’ punito anche chi “pubblicamente fa l’apologia di questi delitti”. Si può notare che risulta aumentato il minimo edittale, che passa da uno a tre anni, per la sensibilità dell’obbiettivo dell’istigazione e dell’apologia. È appena il caso di rilevare che l’istigazione, così come l’apologia, devono presentare degli elementi che concretamente siano lesivi del bene giuridico tutelato. Come evidenziato dalla Suprema Corte nella sentenza 40552/2009 in merito al reato di apologia, è necessario che “la rievocazione pubblica di un episodio criminoso sia diretta e idonea a provocare la violazione delle norme penali, nel senso che l’azione deve

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avere la concreta capacità di provocare l’immediata esecuzione di delitti o, quanto meno, la probabilità che essi vengano commessi in un futuro più o meno prossimo.”

È prevista come ipotesi di reato anche la corruzione di minore (art. 22 Conv.) consistente nel “far assistere intenzionalmente un minore, senza un suo coinvolgimento diretto, al compimento di abusi o atti sessuali”. Questa previsione non appare sovrapponibile a quella di cui all’art. 609 quinquies c.p. (corruzione di minorenne) relativo a chi compia atti sessuali in presenza di un minorenne al fine di farlo assistere. In quest’ultima norma il soggetto attivo è colui che compie l’atto sessuale e l’intenzione di fare assistere il minore è costitutiva della fattispecie, oltre che identificativa del elemento soggettivo. La Convenzione sembra invece voler punire chiunque faccia assistere un minore al compimento di attività sessuali realizzate da terzi, anche non presenti e non consapevoli. Ciò che viene in rilievo è la condotta del deviato che intende far assistere il minore a un atto sessuale pur non arrivando a compierlo egli stesso. Anche qui appare evidente come l’intento della Convenzione sia pubblicistico e poco conforme ai principi del nostro diritto penale.

Viene inoltre ampliato, come in precedenza accennato, l’ambito di applicazione della Convenzione ai reati perpetrati per mezzo delle nuove tecnologie informatiche, che espongono il minore a tutta una serie di pericoli finora non ipotizzati. La facilità con cui è possibile venire in contatto coi minori attraverso Internet ha reso necessaria la previsione del reato di “Grooming” ovvero adescamento culturale (art.23 Conv.) . Il termine “to groom” significa letteralmente “accudire qualcuno, preparare qualcuno a fare qualcosa” ed estensivamente significa: preparare un bambino all’abuso sessuale, motivato dal desiderio di gratificazione sessuale che abbia per oggetto il minore stesso. In Italia, prima della ratifica con ddl S 1969 che introduce un ipotesi di reato ad hoc, sarebbe stato possibile punire questa condotta a titolo di tentato abuso sessuale su minore. Il nostro legislatore, vista anche la difficoltà probatoria, ha previsto l’art.609 undecies c.p. rubricato “Adescamento di minorenni”. Questa norma definisce l’adescamento come “qualsiasi atto volto a carpire la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe, minacce e raggiri posti in essere anche mediante internet o di altre reti o mezzi di comunicazione” e prevede la reclusione da uno a tre anni.

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Vi è tuttavia una discrepanza tra l’art.609 undecies c.p. e l’art. 23 della Convenzione, laddove infatti quest’ultimo sembra richiedere per l’integrazione dell’ipotesi di reato, la circostanza che questa proposta sia stata seguita da atti materiali che abbiano portato a un incontro. Nel nostro ordinamento è invece previsto come reato di mera condotta, non rilevando a tal proposito il risultato a cui l’adescatore approda. Per quanto riguarda la previsione di circostanze aggravanti e norme di diritto processuale penale non si osservano cambiamenti a livello della legislazione italiana, essendo in gran parte norme già presenti nel nostro ordinamento.

Come considerare dunque queste innovazioni? Al di là della necessità di tutelare il fanciullo , è importante notare come alcune delle norme introdotte con la legge di ratifica prospettano profili di illegittimità costituzionale, contravvenendo a molti dei principi del diritto penale, in primis a quello di materialità. E’ comprensibile che queste condotte suscitino ribrezzo e paura nella collettività, ma colui che emana le leggi dovrebbe tenere ben presente qual è il suo ruolo e all’interno di quali limiti si debba sviluppare la sua azione. Mai come in questi casi è evidente come il diritto sia lo specchio delle istanze sociali, che seppur fondamentali per la sua evoluzione, è indubbio che vadano filtrate. Come scrisse F. Carrara: “La pazza idea che il giure punitivo debba estirpare i delitti dalla terra conduce nella scienza penale alla idolatria del terrore” , ben consapevole del fatto che un’ideologia efficientista e pangiudizialista non approdi a nulla se non alla mera illusione di sicurezza, non apportando alcun beneficio osservabile sul lungo periodo. E’ là, dove il legislatore smette di essere astrazione e ridiventa uomo, che si perde il senso del diritto; forse il giurista, reo di affrancarsi troppo spesso da quel che è il mondo reale, per rifugiarsi nel mondo del diritto, sbaglia. Ma erra anche il giurista che si fa giustizialista.

Questa idea di Legge mascherata da “giustiziatrice degli animi turpi” non appare soddisfacente, anzi. E’ il chiaro sintomo di quanto questi fenomeni tocchino corde così profonde da far perdere , è il caso di dirlo, il Lume della ragione.

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DOSSIER

LA RIFORMA DELL’AVVOCATURA

l’alligatore 55


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La riforma della professione forense: quale presente per avvocati, praticanti e studenti di legge di Alessio Fionda

Il 23 novembre 2010 il Senato della Repubblica ha approvato in prima lettura la riforma dell’avvocatura. Una riforma particolarmente attesa, la cui discussione in commissione giustizia alla Camera è ripresa proprio mentre questo articolo è in uscita. Per poter discutere nel merito della riforma dell’’avvocatura è fondamentale però conoscere il presente. Solo così è possibile analizzare in modo attento l’impatto effettivo che potrebbe produrre il nuovo testo normativo. Molte le domande alle quali cercheremo di dare, di volta in volta, una risposta con il maggiore rigore scientifico possibile. In particolare, la riforma uscita dal Parlamento quali miglioramenti potrebbe apportare? L’attuale meccanismo di reclutamento degli avvocati funziona? Quanto l’organizzazione delle facoltà di giurisprudenza ha contribuito e contribuisce al malfunzionamento dell’avvocatura? Come dovrebbero cambiare con la riforma l’accesso alla professione di avvocato e il percorso di crescita professionale? Esistono delle possibili incompatibilità costituzionali e con il diritto comunitario di alcune disposizioni del testo di riforma? Per dare una risposta a tutte queste domande, in questo primo contributo si cercherà soprattutto di descrivere il contesto socio-economico nel quale la riforma della professione forense va ad installarsi per comprendere quali sono le principali criticità per gli avvocati italiani. Sono tutti dati che ci permetteranno di commentare in modo più consapevole la riforma, di andare oltre ad una mera descrizione normativa, di partecipare al dibattito in corso da parte degli esperti del settore, e infine, perché no, essere capaci di tracciare delle alternative possibili. l’avvocatura in difficoltà In questa breve disamina il primo dato di fatto è la grande crisi dell’avvocatura italiana. La causa principale di tale difficoltà è la latitanza d’inter-

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venti regolatori in grado di cambiare i meccanismi di un sistema che non subisce revisioni sostanziali da quasi ottant’anni, caso unico tra i paesi occidentali.1.

Iniziamo da alcuni dati sul numero degli avvocati tratti dal rapporto 2010 (su dati 2008) della CEPEJ (European Commission for the Efficiency of Justice)2, organo che opera all’interno del Consiglio di Europa. Nel 1996 gli avvocati erano “solamente” 87.000, nel 2006 erano già passati a 180.000 e nel 2009 a 198.0003 andando a collocare l’Italia al primo posto per numero di avvocati in Europa. Dal 2004 al 2008 gli avvocati italiani sono cresciuti del 14,3% contro un tasso di crescita del 5% francese e 4,1% spagnolo. Senza correttivi si prevede che nei prossimi 10 anni gli avvocati potrebbero crescere ancora di circa 150.000 unità. Anche in merito al rapporto avvocati/giudici e avvocati/abitanti si registrano nel primo caso 32,4 avvocati ogni giudice di professione4 contro, ad esempio, gli 8,2 francesi ma anche i già alti 25,0 avvocati spagnoli e una media (sui 44 paesi compresi nella rilevazione) pari a 7,3. Nel secondo rapporto ossia avvocati su abitanti, gli avvocati italiani sono 332,1 ogni 100mila abitanti contro anche qui i 75,8 francesi e i 266 spagnoli e una media europea pari a 120,1. L’alto numero di avvocati ha portato molti studiosi ,in particolari economisti, ad analizzare se esiste o meno una correlazione tra il loro numero

1 Ogni legislatura ha visto la discussione di una riforma della professione forense ma la fonte normativa che disciplina la materia rimane ancora il Regio Decreto Legge del 27 novembre 1933, n. 1578. 2 European judicial systems. Edition 2010 (data 2008) Efficiency and quality of justice. European Commission for the efficiency of justice (CEPEJ). http:// book.coe.int. 3 Allo stesso tempo questi numeri vanno maneggiati con enorme attenzione per il fatto che non esiste ancora un sistema amministrativo aggiornato, tempestivo e certo che permetta di scindere gli avvocati che effettivamente esercitano la professione da quelli che sono semplicemente iscritti all’albo oppure da coloro che esercitano l’attività forense in modo occasionale o ancora da quelli che hanno cambiato lavoro. In questa direzione esistono diverse proposte (tra cui la fissazione di un volume di affari minimo) per cancellare una parte degli avvocati attualmente iscritti all’ordine. 4 Il numero dei giudici di professione italiani, al di là di quella che è spesso la vulgata giornalistica e politica, è nella media europea (pari a circa 1 giudice ogni 10.000 abitanti)

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e il tasso di litigiosità in determinate regioni italiane. In sostanza, un così alto numero è concausa dell’elevata domanda di giustizia nel nostro paese? E quindi, di riflesso, del malfunzionamento del sistema giustizia? Occorre precisare innanzitutto che, secondo i dati della Banca d’Italia, solamente nell’anno 2006 il numero di cause avviate in Italia in rapporto agli abitanti era il doppio di quello spagnolo e francese e il triplo di quello tedesco. Si è evidenziato come gli avvocati possano rispondere alla accresciuta pressione concorrenziale con l’adozione di comportamenti che aumentano la domanda di giustizia grazie allo sfruttamento delle asimmetrie informative nel rapporto con i clienti. Inoltre, come noto, “in Italia il metodo di remunerazione degli avvocati basato sul numero e sulla tipologia di operazioni che il professionista pone in essere per lo svolgimento della causa (in relazione sia alla preparazione della causa sia alla partecipazione alle udienze)”5 non è un incentivo alla riduzione alla durata delle cause. Il numero degli avvocati sembrerebbe essere anche causa di una netta caduta del reddito degli stessi. Soprattutto nei confronti dei più giovani (under 40). Un recente studio6 realizzato dal neo nato Osservatorio Permanente per Giovani Avvocati del Consiglio Nazionale Forense su un campione rappresentativo composto da 2.660 giovani legali, ha posto in evidenza come, a fronte di un reddito medio dell’avvocatura (giovane e senior) pari a circa 50.000 euro l’anno, i più giovani, dichiarano per oltre il 36% di avere un numero di incarichi insufficienti per mantenere un reddito tra i 30.000 e i 50.000 euro lordi l’anno7. A tracciare il difficile quadro dell’avvocatura è intervenuto il 25 novembre 2010 al XX congresso nazionale forense tenuto a Genova, Guido Alpa: “Siamo nel mezzo del guado della crisi economica che ha i suoi risvolti

5 Questioni di Economia e Finanza (Occasional papers) n.40. La giustizia civile in Italia: i divari territoriali di Amanda Carmignani e Silvia Giacomelli. Febbraio 2009. 6 Giovani avvocati, così, altrove o altrimenti. Prima indagine dell’osservatorio permanente giovani avvocati. 2010. http://www.opga.it/files/OPGA_pubblicazione.pdf 7 Quando si parla di 30.000 euro lordi l’anno stiamo stimando un reddito netto ossia quanto davvero guadagna un avvocato tra i 17.000-19.000 euro l’anno; reddito inferiore a quello percepito mediamente da un impiegato con contratto di lavoro subordinato e neppure paragonabile, all’opposto, a quello dei notai che registrano un reddito medio superiore ai 400.000 euro l’anno.

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sociali negativi per una categoria elefantiaca nel numero, provata nei suoi interessi, umiliata nel suo ruolo politico e istituzionale, nonostante le promesse, i riconoscimenti e gli incoraggiamenti”8 Ma se sui problemi dell’avvocatura esiste un’interessante letteratura seppur forse ancora insufficiente - il dibattito giornalistico e la letteratura scientifica in materia però si fermano sempre sugli avvocati dimenticando, che prima di diventare avvocati occorre essere innanzitutto praticanti e che una parte dei problemi di sistema partono proprio dal sistema di tirocinio obbligatorio e risalendo alle facoltà di giurisprudenza. la questione dei praticanti

Per analizzare la situazione dei tirocinanti avvocati tuttavia, mancano alcuni elementi di cognizione essenziali. Nella fattispecie, un primo elemento di gravità è il fatto di non avere né dati certi di stock (ossia la loro fotografia numerica al tempo X) né dati certi di flusso (ossia la loro evoluzione nel tempo) né, soprattutto, sulla loro composizione9. Ad una stima stiamo parlando di un numero che oscilla intorno alle 35.00010 - 45.000 unità11. Una forza dalle potenzialità produttive, di certo, non irrilevante. Un secondo elemento di gravità, questo invece ben conosciuto, è la profonda iniquità sociale che caratterizza il processo di pratica legale. Come noto, la pratica è ad accesso libero e l’unico requisito è la laurea in giurisprudenza. La condizione contrattuale e sociale, però, è peggiore di quella degli stagisti o dei lavoratori con contratti “atipici”. I praticanti non hanno diritto ad un contratto di lavoro e non dispongono di un reddito adeguato al proprio mantenimento. In tale situazione coloro che scontano il maggiore svantaggio sono i giovani a basso reddito ovvero che non appartengono ad una famiglia abbiente, che una volta laureati perdono anche le già scarse agevolazioni del diritto

8 Guido Alpa. L’Avvocatura italiana al servizio dei cittadini. Relazione di apertura dell XXX Congresso nazionale forense. Genova, 25 novembre 2010. 9 Per composizione si intende: sesso, età, università di provenienza, durata del periodo di pratica, numero di volte necessarie per passare l’esame di stato, abbandoni ecc… 10 Consiglio nazionale forense. Il dato non è certo in quanto non tutti gli ordini forensi territoriali aggiornano tempestivamente l’albo dei praticanti rispetto alle entrate e alle uscite. 11 Dati dell’associazione italiana giovani avvocati relativi all’anno 2004.

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allo studio universitario.

Inoltre, professionalmente, i praticanti sono spesso costretti a lunghi lavori di segreteria con scarsa utilità formativa; necessitati a sostenere da sé i costi della propria formazione, in un contesto nel quale non esiste alcun piano di sviluppo professionale e alcun sistema di valutazione degli apprendimenti in itinere. Ad aggravare questa situazione c’è poi la profonda precarietà e farraginosità dello stesso esame di stato12. Ogni anno si presentano all’esame circa 40.000 candidati con percentuali di successo che vanno dal 70% al 16%, per un media intorno al 30%. Di fronte a numeri di queste dimensioni sono pressoché inevitabili i numerosi scandali che hanno caratterizzato l’esame di stato negli anni passati. Le conseguenze di un sistema così predisposto sono lampanti: i giovani che, in un lasso di tempo così lungo, non possono permettersi di sostenere un simile costo-opportunità13 ripiegano su altro. Mentre il comparto dei servizi nel Centro Nord, soprattutto prima della crisi economica, era in grado di assimilarne una parte importante, i laureati in legge del Sud Italia si ritrovano a tentare la strada dello studio legale autonomo con scarsi profitti14, ripiegano in massa sui concorsi della Pubblica Amministrazione15 oppure ancora entrano nella cosiddetta trappola del precariato.

12 Infatti, formalmente, la durata della pratica è di due anni ma in realtà sono tre (occorre quasi sempre un anno intero per l’espletamento delle procedure di concorso che prevedono tra l’altro la migrazione degli elaborati delle prove scritte da una sede di corte di appello ad un’altra) e se l’esito dell’esame è negativo al primo tentativo, probabilità piuttosto elevata nel centro-nord, l’accesso può prolungarsi a tempo indeterminato; tenuto conto, inoltre, che il percorso di formazione universitaria con la riforma degli ordinamenti è stato portato da 4 a 5 anni allungando ulteriormente il periodo di studio. 13 Pari alla retribuzione media di mercato di un giovane laureato in giurisprudenza nel suo migliore impiego alternativo rispetto a quello della pratica legale. 14 Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro. “URG Urge Ricambio Generazionale - Primo rapporto su quanto e come il nostro Paese si rinnova”. Marzo 2009. 15 Perpetuando probabilmente “l’immagine tradizionale che caratterizza il burocrate italiano come una figura dalla formazione e dalle competenze quasi esclusivamente giuridiche e quindi impregnata da una cultura “formalistica” poco incline ad acquisire competenze di tipo manageriale e gestionale o di tipo sociale. “La dirigenza pubblica: il mercato e le competenze dei ruoli manageriali. Dipartimento della funzione pubblica. Rubettino, 2003”.

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Tali storture del sistema di pratica e l’alto tasso di laureati fuori corso in giurisprudenza (come vedremo nel paragrafo successivo) portano i praticanti italiani a diventare avvocati mediamente intorno ai 32 anni e a raggiungere l’indipendenza economica alla soglia dei 40 anni. le criticità delle facoltà di giurisprudenza

Diciamo subito che una delle particolarità del disegno di legge approvato al Senato è data dal fatto che non tocca le facoltà di giurisprudenza, l’unica proposta di legge integrativa rispetto all’attuale disegno prevedeva di poter iniziare il periodo di praticantato sei mesi prima della laurea come avviene per chi aspira a diventare notaio, ma è stata accantonata. Per il resto, la legge è in silenzio assoluto. Eppure i dati, anche in questo caso, fanno notare che le criticità sono presenti e consistenti. Esaminando i dati forniti dall’ISTAT, nell’anno accademico 2007/2008, su 307.146 studenti universitari ben 32.360 si sono iscritti a corsi di laurea in giurisprudenza e affini, con una percentuale del 10,5 del totale. Al contempo, l’Istituto di statistica ha preso in esame la condizione occupazionale nell’anno 2007 dei laureati giurisprudenza dell’anno 2004, ossia a 3 anni dalla laurea, evidenziando che soltanto il 38,3% ha trovato un’occupazione dopo la laurea, a fronte di una percentuale sul totale dei laureati in tutte le facoltà in corsi di laurea lunghi del 73,2%. Deve destare attenzione poi, il dato dei laureati fuori corso in giurisprudenza pari all’82% collocandosi primo in classifica distaccato dal gruppo letterario 76,2%, agrario 75,7% e linguistico 72,2%. Quelli che possono essere definiti “i cugini” del ramo politico-sociale ed economico hanno rispettivamente tassi di laureati fuori corso del 60,7% e del 63,4%. Inoltre, anche il dato degli stage e tirocini durante i corsi universitari del ramo giuridico non supera il 20% sul totale degli studenti; sintomo del divario tra formazione e orientamento professionale. Secondo i più recenti dati AlmaLaurea, nel 2009 i laureati nelle classi attinenti alle scienze giuridiche e appartenenti al consorzio AlmaLaurea erano 14.502, di cui 12.169 avevano compilato il questionario per la rilevazione dei dati. In breve se ne elencano alcuni:

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Età alla laurea – valori percentuali • Meno di 23 anni: 4,5% • 23-24 anni: 25,3% • 25-26 anni: 28,6% • 27 anni e oltre: 41,4% Età media alla laurea: 28,3 Età al momento dell’immatricolazione – valori percentuali • Regolare o un anno di ritardo: 82,7% Voto di laurea medio: 99,3 Regolarità degli studi-valori percentuali • 1° anno fuori corso: 22,8 • 2° anno fuori corso: 11,9 • 3° anno fuori corso: 6,9 • 4° anno fuori corso: 5,5 • 5° anno fuori corso e oltre: 25,8 Lavoratori studenti: 11,7%

Altro ambito di interesse è l’organizzazione della didattica delle facoltà di giurisprudenza. Analizzando solo l’offerta formativa di quattro delle più grandi facoltà di giurisprudenza italiane16, si evidenziano alcune caratteristiche comuni17: • I corsi di laurea in legge restano strutturati attraverso un elevato numero di esami con approccio didattico frontale (causato anche dall’elevato numero di matricole e iscritti); • La manualistica, sulla quale gli studenti si preparano, predilige un approccio prevalentemente teorico e dottrinario; • Mancanza negli esami obbligatori delle discipline di carattere economico ed organizzativo. Medesimo discorso per l’informatica, le lingue straniere e le tecniche di negoziato e risoluzione stragiudiziale delle controversie; • Scarse le esperienze professionalizzanti durante il corso di studi e

16 Sono state analizzate le offerte formative (piano di studio generale e singoli programmi didattici) di un campione di quattro facoltà di giurisprudenza: Padova, Milano, Bologna e Torino. Considerate dall’indagine Censis-LaRepubblica, sulla base di una serie di indicatori, tra le migliori facoltà di legge all’interno della classe dei mega atenei. 17 Occorre sottolineare come le caratteristiche elencate siano rappresentative di nodi critici comuni tra le diverse facoltà e tralasciano, per motivi di sintesi, la descrizione delle eccellenze di singole cattedre e delle differenze tra le quattro facoltà prese in analisi.

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i legami con il mercato del lavoro;

Tra l’altro le criticità delle facoltà di giurisprudenza sono state evidenziate anche dallo stesso Consiglio Nazionale Forense18, che ha sottolineato come: • “l’Italia non ha giovani laureati sufficientemente preparati per garantire la copertura dei posti messi a concorso in magistratura; • i laureati in giurisprudenza hanno maggiori difficoltà rispetto ai laureati di altre facoltà a trovare occupazione; • la maggior parte degli iscritti in giurisprudenza compie tale scelta dopo avere fallito l’accesso ad altre facoltà a numero programmato”; prime conclusioni

Lo scopo di questo primo contributo è stato quello di dare una breve analisi di contesto nel quale la legge di riforma dovrebbe operare. Si è dato attenzione al processo che porta a diventare avvocati (studente di giurisprudenza-praticante avvocato e infine avvocato) mettendo in rilievo alcuni dei maggiori problemi (tralasciando le questioni legate alla concorrenza, alle regole deontologiche, alla dimensione di impresa ecc…) che dovrebbero particolarmente interessare coloro che intendono affacciarsi alla professione forense. A questo proposito, emerge con chiarezza come, fino all’inizio degli anni novanta del secolo scorso il sistema di praticantato e di reclutamento alla professione reggeva perché si basava su uno scambio chiaro seppur non esplicitamente dichiarato. Il periodo di pratica duro, faticoso e poco o per nulla pagato sarebbe passato abbastanza in fretta per entrare in un ordine professionale ristretto e prestigioso che avrebbe promesso guadagni crescenti nel tempo. La mancanza di interventi regolatori incisivi, l’aumento della domanda di giustizia, la corsa alla laurea in legge, le difficoltà che attanagliano molte professioni sono tra le cause che hanno portato ad una crisi dell’avvocatura alle soglie dell’irreversibilità ma che a differenza di altre professioni, rischia di lasciare una pesante cicatrice sul funzionamento del sistema giustizia del nostro paese.

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Recensione al legal thriller di Michele Navarra: “Per non aver commesso il fatto” di Sandro Parziale e Daniele Rucco

Autore: Michele Navarra Titolo: Per non aver commesso il fatto Editore: Giuffrè (Collana Diritto e rovescio) Anno di pubblicazione: 2010 Prezzo: 19 euro Pagine: 304

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Abbiamo incontrato l’avvocato e scrittore Michele Navarra, in un bar vicinissimo alla Corte di Cassazione, subito è stata forte l’impressione di avere di fronte Alessandro Gordiani, il giovane penalista che anima il suo romanzo legal “Per non aver commesso il fatto”: non il classico penalista con la giacca e la cravatta, ma un uomo ordinato e bizzarro allo stesso tempo, maglione largo, giacca a vento aperta sul petto, un paio di Adidas ai piedi ed il casco della motocicletta, che non tradiva le esperienze vissute. Per non aver commesso il fatto ha vinto il primo concorso di narrativa giudiziaria inedita: il Gordiani avvocato, incaricato di difendere in un processo indiziario Carlo Baldini, agente immobiliare, accusato dell’omicidio di Giuseppe Finotti, intermediario finanziario e soprattutto amante della bella Agnese, moglie fedifraga di Carlo, si alterna al Gordiani uomo, profondo e riflessivo, combattuto, spesso critico nei confronti di se stesso. Il peso di una difesa delicata occupa sempre i pensieri del giovane Gordiani, talvolta anche nei momenti di svago, senza mai diventare, tuttavia, la sua missione impossibile. L’autore, infatti, è attento a non sfociare nell’ideologico rispettando sempre i canoni di razionalità ed equilibrio che devono necessariamente guidare la professione forense. Punto di forza del romanzo è sicuramente il genere del legal thriller: un genere inedito, quasi un esperimento letterario, che armonizza e amalgama il mistero di un omicidio, la suspense di una storia in cui prendono vita personaggi caratterizzati da sfaccettature contrastanti, con i meccanismi propri di tutto il procedimento penale, partendo dalla fase delle indagini preliminari e dell’udienza di convalida del fermo di Carlo, passando per l’udienza preliminare, e arrivando al dibattimento. Questo genere letterario ben si presta, infatti, a descrivere la dinamicità e i ritmi delle varie fasi che si susseguono nel procedimento, i quali assurgono, come Navarra conferma, a punto di curiosità per il lettore. La sensibilità dell’autore si riscontra sia nella trama storica della vicenda sia soprattutto nella minuzia con cui descrive i momenti processuali al fine di illustrare nel dettaglio tecnico la consistenza dell’attività dell’avvocato, il come funziona veramente, rinunciando al colpo di scena narrativo. La suspense nel lettore non è creata attraverso il lampo di genio dell’ultimo minuto dell’avvocato, nell’individuazione del tassello mancante bensì attraverso la realistica descrizione dei tempi che scandiscono il procedimento, dei luoghi, delle emozioni che un difensore, un imputato, testimone, un giudice vive nell’arco del processo.

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La caratterizzazione dei protagonisti, in particolar modo quella del difensore e del suo cliente, sono calcate: Gordiani esprime un senso della professionalità elevato, il suo metodo di lavoro è meticoloso, corretto, rispettoso delle norme deontologiche a cui l’avvocato deve attenersi. Navarra anima l’avv. Gordiani facendogli assumere la veste di un avvocato quasi nostalgico verso un senso virtuoso della professione, che nella nostra società è in parte sfumato; riempie di passione vera l’animo di Gordiani, mettendolo in forte contrasto con avvocati che sono soliti lavorare con automaticità, svuotando di qualità intellettuale l’arte forense. In un secondo tempo, la conversazione con l’autore si è spostata su argomenti più tecnici e specifici - è bene ripeterlo - marcati nel romanzo, propri sia dell’avvocatura sia della materia processuale penale: le doti professionali e il ruolo dell’arringa nel processo penale attuale. Gordiani, infatti, oltre a mettere in atto un metodo di lavoro di raffinato spessore, dà prova di profonda sensibilità, dalla quale non può prescindere un penalista. Tra tutte il rapporto di confidenzialità, che si instaura con il cliente. L’avvocato spesso è l’unico punto di riferimento per un uomo assalito dalla disperazione e dalla paura di ricevere una condanna. Questo rapporto di umanità-professionalità ben emerge quando le ansie dell’imputato sono le stesse, sebbene con sfumature diverse, che prova anche l’avv. Gordiani “ho paura di commettere errori perché c’è di mezzo la libertà di una persona”.

La tensione narrativa si acuisce con l’arringa conclusiva, uno dei momenti più incisivi del romanzo. Sebbene il processo penale fondato sul contradditorio per la prova non richieda più un’arringa che smonti pezzo dopo pezzo l’impianto accusatorio; sebbene oggi la comunicazione sia sempre più immediata e le persone, e come tali anche i giudici, abbiano perso quell’attitudine all’ascolto attento, l’arringa rimane uno strumento importante nelle mani dell’avvocato. Un’arringa, per essere efficace, deve mirare a dare degli input al giudice e a marcare bene gli elementi a cui il giudice deve dare maggior o minor peso nella formazione della decisione. L’arringa inoltre è di fondamentale importanza anche per l’imputato, il quale in questa fase saliente percepisce nel vivo di essere difeso, di non essere solo. Michele Navarra, attraverso l’Avvocato Gordiani, restituisce al lettore e soprattutto agli studenti di giurisprudenza un’immagine di avvocato no-

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bile e “deontologicamente corretta”, perché ‘Avvocato’ è solo colui che ricerca “come obbiettivo ultimo quello di difendere sempre e soltanto innocenti accusati, ossia proprio quello che si sogna di fare all’università”.

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