L'Alligatore-anno3_numero2

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Anno 3 Numero 2

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Questo numero si apre con alcune novità sostanziali. La prima e più rilevante è stata far scrivere pressoché interamente questo numero agli studenti dei nuovi anni. Ci siamo riusciti e mantenendo uno standard di qualità alla pari con i numeri precedenti. La necessità di approfondire l’attualità mettendo in pratica gli strumenti universitari di analisi è l’elemento che ha accomunato il gruppo fondatore di questa rivista ed è lo stesso che ora muove gli studenti che frequentano gli stessi banchi. Gli interessi che sono stati approfonditi in questo numero sono come sempre diversi e peculiari. Dall’ampio e dibattuto tema delle Agenzie di rating e della loro regolamentazione si passa alle questioni inerenti alla questione della cittadinanza anche a fronte delle sollecitazioni di riflessione da parte del Presidente Napolitano. La Primavera Araba porta con sé fenomeni migratori e quindi la necessità di affrontarli in relazione al diritto d’asilo. Infine non poteva mancare un articolo di diritto penale dove, dopo la ricostruzione nel precedente numero del processo Infinito, continua il percorso-denuncia sul sul fenomeno del radicamento delle Mafie nel territorio milanese. Un ulteriore novità è la presenza per la prima volta di un articolo di diritto tributario. L’attualità è venuta incontro a questa disciplina sollevando il dibattito attorno all’imposta patrimoniale. Ci sarà inoltre un focus sull’avvocato e il suo ruolo. Per concludere le novità, accogliamo con piacere un intervento di uno studente di Filosofia che propone una riflessione su un classico come Lo Straniero di Albert Camus. Come sempre ci auguriamo che L’Alligatore aiuti gli studenti della Facoltà ad appassionarsi al diritto non solo come materia di studio ma come uno strumento per affrontare criticamente l’attualità. Con questo auspicio vi auguriamo una buona lettura e vi diamo appuntamento alle iniziative di presentazione del nuovo numero. Rocco Steffenoni Eduardo Parisi Sandro Parziale Daniele Rucco

www.lalligatore.org


Anno 3 Numero 2



L’ALLIGATORE La rivista degli studenti di giurisprudenza della Statale di Milano Redazione: Rocco Steffenoni Eduardo Parisi Sandro Parziale Daniele Rucco

Hanno collaborato: Filippo Croci, Giulia Camilla De Martini, Arianna Jacqmin, Maria Teresa Lo Iacono, Anna Ferrari, Francesca Gaveglio, Federica Ghisleni, Alberto Mario Olivari, Giulia Schettino, Martina Zini

Ringraziamo i professori e i ricercatori della FacoltĂ che ci hanno sostenuto in questa iniziativa Milano, Febbraio 2012


Tale progetto è finanziato con il contributo dell’UniversitĂ degli Studi di Milano derivante dai fondi previsti per le attivitĂ culturali e sociali.

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INDICE pag.7

Editoriale: Quale futuro per L’Alligatore? Diritto Pubblico e Europeo

Filippo Croci Le Agenzie di rating: Problemi, disciplina attuale e prospettive

Giulia Schettino e Martina Zini

Signori si nasce, cittadini si diventa Giulia Camilla De Martini La “Primavera Araba”, un anno dopo: considerazioni sulla condizione dei migranti giunti in Italia dal Nord Africa Diritto Penale

Federica Ghisleni L’applicazione dell’art. 34 del Codice Antimafia ad alcune Filiali della T.N.T. “In odore si Mafia”: L’esempio milanese Diritto Tributario

Francesca Gaveglio L’imposta patrimoniale: un dibattito aperto Focus: l’avvocato e il suo ruolo

Anna Ferrari Riflessioni sulla deontologia forense Arianna Jacqmin Il processo alle Br: imputati o accusatori? Rubriche

Alberto Mario Olivari Tra giudizio e pregiudizio: Una breve lettura de Lo Straniero di Camus

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pag. 11 pag. 19 pag. 25

pag. 36

pag. 45

pag. 53 pag. 59

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Editoriale

Quale futuro per L’Alligatore?

Questo che avete tra le mani è un numero particolare de L’Alligatore. Rappresenta, infatti, un giro di boa (spartiacque). Il gruppo storico de L’alligatore sta concludendo il proprio percorso universitario: chi si è laureato, chi è sotto tesi, chi alle prese con gli ultimi esami. E dunque porsi la domanda è quanto mai necessario. Quale futuro per L’Alligatore?

L’interrogativo nasce dall’esigenza di non perdere quello che è stato costruito in questi tre anni di vita della rivista: uno spazio dove gli studenti potessero provare a confrontarsi con la materia che studiamo utilizzandola per leggere criticamente l’attualità. Un modo alternativo di vivere l’Università, complementare a quello, sempre primario, dello studio finalizzato all’apprendimento del ragionamento giuridico, dei principi e delle regole del nostro ordinamento. Noi abbiamo sempre cercato di proteggere il valore aggiunto di questo progetto e vorremmo che anche i nostri successori sentano la stessa responsabilità di fronte a questa esperienza formativa, non la migliore possibile ma di certo uno strumento di crescita personale.

Il numero è per lo più composto da articoli scritti da studenti che hanno conosciuto il progetto in un secondo momento: ragazzi del terzo e quarto anno, perfino del secondo che si sono confrontati per la prima volta con un lavoro del genere. Conoscendoli ci è però parso di capire che si sono avvicinati alla rivista perché ne condividevano lo spirito. Eppure una risposta definitiva al nostro interrogativo ancora non l’abbiamo trovata: i prossimi mesi saranno fondamentali per capire se questo piccolo strumento potrà continuare a esistere.

Allora vi invitiamo a cogliere in questo editoriale un appello rivolto tutti quelli che, chi in passato chi recentemente, hanno sostenuto e animato L’Alligatore per aiutarci a capire quale risposta dare all’interrogativo che ci siamo posti. Forse, sembrando autoreferenziali, 9


avremmo dovuto coinvolgervi prima e ci scusiamo per il ritardo. Ma ora più che mai abbiamo l’esigenza di farci e farvi questa domanda. Quale futuro per L’Alligatore?

Vi auguriamo una buona lettura.

www.lalligatore.org o redazione@lalligatore.org. Rocco Steffenoni, Eduardo Parisi, Sandro Parziale, Daniele Rucco

Febbraio 2012

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DIRITTO pubblico e Europeo

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Le Agenzie di rating: Problemi, disciplina attuale e prospettive Filippo Croci Le agenzie di rating svolgono, ormai da diversi anni, un ruolo da protagoniste nei mercati finanziari di tutto il mondo. A partire dalla crisi del 2008, però, si è cominciato a mettere in discussione con frequenza sempre maggiore il loro operato, fino a considerarle, in certi casi, responsabili o corresponsabili di bolle speculative e fallimenti. Questo articolo si propone di individuare gli aspetti critici dell’attività svolta da tali soggetti, la disciplina attuale per essi prevista negli Stati Uniti e in Europa e le possibili prospettive future del settore.

Innanzitutto, è opportuno definire il concetto di rating. Esso consiste in un’opinione sul merito di credito complessivo di un debitore, oppure sul merito di credito di un debitore con riferimento ad una particolare obbligazione finanziaria, valutato sulla base di una serie di fattori di rischio rilevanti1. In sostanza, quindi, il rating non è altro che un giudizio sulla capacità futura di un soggetto di adempiere alle scadenze prestabilite al pagamento dei suoi crediti, in particolare obbligazionari. Il rating può avere ad oggetto diversi elementi, ad esempio: le obbligazioni emesse da una società (bond rating), il debito pubblico di uno Stato (sovereign credit rating), il merito di credito di una società nel suo complesso (issuer rating), la solidità finanziaria di una banca o di una compagnia assicurativa. Il primo rating fu pubblicato nel 1909 da John Moody, negli Stati Uniti. Nel corso degli anni e con l’aumentare della complessità degli strumenti finanziari, questo strumento si è diffuso in misura sempre crescente. Lo scopo primario del rating è ridurre le asimmetrie informative che rendono difficoltosa l’acquisizione della fiducia degli investitori. Questi ultimi, grazie ad un giudizio sintetico e facilmente comprensibile, possono ottenere una valutazione precisa sulla solidità finanziaria di un qualsiasi soggetto che emetta obbligazioni (emittente). Semplificando le informazioni destinate al mercato, il rating consente dunque agli investitori di compiere scelte più razionali e agli emittenti valutati positivamente di abbassare i costi di raccolta dei capitali2. D’altra parte, la grande importanza assunta

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www.standardandpoors.com/ratings Sacco Ginevri – Agenzie di rating e informazione al pubblico

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da questi giudizi nel mercato globale fa sì che essi abbiano una fortissima risonanza e talvolta anche un effetto destabilizzante, tanto da essere stati definiti “profezie auto-realizzantisi”3: ad esempio, un declassamento (downgrading) di una società può portare ad un ulteriore peggioramento della situazione in cui essa si trova.

Allo stato attuale, sono tre i temi più problematici in relazione all’attività di rating: la scarsa concorrenza presente su questo settore di mercato, i conflitti di interessi che rischiano di generarsi e il ruolo di parametro assunto dal rating in varie regolamentazioni nazionali e sovranazionali. Per quanto riguarda la concorrenza, si deve notare che 3 grandi agenzie di rating (Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch), dette anche “le tre sorelle”, detengono una quota fortemente maggioritaria del mercato globale del rating (oltre il 90%4). Ciò è dovuto soprattutto a ragioni storiche: negli Stati Uniti, nel 1975, è stato introdotto un riconoscimento nazionale delle agenzie che, basandosi su requisiti reputazionali, ha di fatto consolidato la posizione dei grandi soggetti già esistenti, ponendo forti barriere all’ingresso di nuovi concorrenti sul mercato. Il rischio di una situazione così poco competitiva è che le tre agenzie più importanti non siano incentivate a fornire giudizi accurati e mirino piuttosto a contenere i costi, forti della loro posizione dominante. Il problema dei conflitti di interesse deriva in primo luogo dal fatto che, a partire dagli anni ‘70 del XX secolo, i rating non sono più pagati solo dagli investitori, bensì prevalentemente dagli emittenti. Quindi i “controllori” sono pagati dai “controllati”. In virtù di questo cambiamento, il mercato del rating è divenuto molto più redditizio per le agenzie. Ciò può comportare una serie di conseguenze dannose. Ad esempio, è possibile che un emittente chieda a più agenzie di formulare una “bozza” di rating nei confronti delle proprie obbligazioni, per poi scegliere di affidare l’incarico all’autrice della proposta più benevola (rating shopping). Ancora, può accadere (si tratta di eccezioni patologiche, non della regola) che un’agenzia formuli un primo rating negativo, non richiesto (unsolicited rating), su un certo soggetto e glielo comunichi in via confidenziale, minacciando di divulgarlo se tale soggetto non decide di acquistare rating a pagamento e magari anche servizi di consulenza da parte dell’agenzia stessa. Proprio questi ultimi servizi hanno dato luogo a diversi conflitti di interesse, soprattutto in relazione ad operazioni di finanza strutturata,

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Ferri, Lacitignola – Le agenzie di rating, Bologna 2009 Wall Street Journal, 2003

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ritenute una delle cause della crisi del 2008. In sostanza, l’emittente, con la consulenza dell’agenzia, “struttura” i titoli che ha intenzione di emettere in modo tale da ottenere un rating stabilito a priori. Il processo di assegnazione del giudizio, dunque, si ribalta e l’agenzia si trova a giocare due ruoli contrastanti: quello di consulente e quello di “giudice” dell’affidabilità del suo cliente. Negli anni precedenti alla crisi, questo tipo di attività è diventata una fonte di reddito sempre più rilevante per le agenzie. Un altro aspetto sottolineato dagli osservatori più maliziosi è che le agenzie di rating sono società private possedute da diversi azionisti, tra i quali vi sono anche alcuni grossi investitori, i quali potrebbero ricavare ingenti vantaggi, ad esempio, da una eventuale conoscenza anticipata delle valutazioni. Il terzo tema consiste, come detto, nell’inclusione del rating in varie regolamentazioni, come parametro di solvibilità di un soggetto (cd. outsourcing regolamentare). Un esempio di questa tendenza è dato dall’accordo Basilea II5, il quale prevede che per le banche siano previste regole patrimoniali differenti a seconda del grado di rischiosità dei loro debitori6. Tale grado di rischiosità è calcolato in base ai giudizi forniti dalle agenzie di rating, con grossi vantaggi per queste ultime, che vengono in tal modo “istituzionalizzate” in misura notevole. Con questo tipo di regole, i legislatori hanno di fatto delegato una parte non trascurabile delle funzioni di vigilanza alle agenzie, che finiscono per fornire un’autorizzazione regolamentare piuttosto che una corretta informazione agli investitori, acquisendo implicitamente un valore pubblicistico. Così, tra l’altro, “si deresponsabilizzano gli intermediari, che invece di compiere le proprie valutazioni si affidano alle pagelle altrui”7. Il rating è uno strumento indubbiamente utile, ma non può certo essere considerato un oracolo infallibile, né un requisito essenziale per operare su un mercato. L’attuale disciplina del rating si è sviluppata negli Stati Uniti, dopo un lunghissimo periodo di quasi totale assenza di regole, a partire dal 2006, anno in cui è stato emanato il Credit Rating Agencies Reform Act. Questa legge in5 Nuovo Accordo sui requisiti minimi di capitale firmato a Basilea, accordo internazionale divenuto definitivo nel giugno del 2004 ed entrato in vigore nel gennaio del 2007 6 In particolare, sono previste diverse percentuali di accantonamento del patrimonio di vigilanza 7 Così Giuseppe Vegas, presidente della Consob, in un intervista al Sole 24 Ore, 17 – 01 – 2012

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terviene sul riconoscimento nazionale delle agenzie, senza però eliminare i requisiti reputazionali che rendono difficile l’accesso al mercato di nuovi soggetti. Più incisivo, invece, è il quadro normativo previsto per i conflitti di interessi. E’ introdotta una distinzione tra conflitti sanabili e insanabili. I primi si verificano, ad esempio, nei casi (molto frequenti) in cui il rating è pagato dall’emittente, oppure l’agenzia fornisce anche servizi accessori di consulenza. Per tali conflitti è previsto un obbligo di comunicazione al mercato e devono essere predisposte procedure di prevenzione e gestione interne all’agenzia. I conflitti insanabili si verificano, tra l’altro, quando i compensi pagati da un emittente sono fonte di più del 10% delle entrate annuali dell’agenzia, quando la persona fisica responsabile del rating ricopre incarichi presso l’ente oggetto della valutazione, oppure quando emittente e agenzia fanno parte dello stesso gruppo societario. Queste situazioni sono vietate e sanzionate secondo la loro gravità, fino alla revoca della registrazione dell’agenzia, con conseguente espulsione dal mercato del rating. E’ inoltre proibito l’uso scorretto di unsolicited ratings, che pur essendo in linea teorica preferibili (poiché l’emittente non paga il servizio), possono dare luogo a situazioni di intimidazione, attraverso la procedura “ricattatoria” vista sopra. Infine, sono stati accresciuti gli obblighi di trasparenza per le agenzie, in particolare con riferimento alle operazioni di finanza strutturata (i cui giudizi dovranno essere espressi con appositi simboli), anche grazie ad un nuovo intervento normativo: il Dodd-Frank Act del 2010.

La disciplina vigente in Italia deriva in gran parte da norme dell’Unione Europea. Anch’essa, fino a pochi anni fa, non disciplinava in modo organico il fenomeno del rating, limitandosi a citarlo incidentalmente in alcuni atti. Nel 2009 è stato finalmente emanato un regolamento (reg. 1060/2009), che contiene una serie di regole specifiche. Innanzitutto, è prevista una procedura di riconoscimento e registrazione delle agenzie simile a quella statunitense, ma ben più aperta ai nuovi soggetti, svolta a livello comunitario da un’apposito ente (European Securities and Markets Authority, ESMA), con la collaborazione delle autorità di vigilanza nazionali (per l’Italia, la Consob). Inoltre, sono state predisposte nuove regole sulla trasparenza dei modelli utilizzati dalle agenzie per formulare i giudizi. Vi sono anche requisiti organizzativi: ad esempio, almeno 1/3 del c.d.a. delle agenzie deve essere formato da membri indipendenti, che non partecipino alle attività di rating e non siano retribuiti secondo i risultati economici

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dell’agenzia. Tali membri restano in carica per 5 anni, senza possibilità di rinnovo. Per le operazioni di finanza strutturata è stato adottato un approccio più restrittivo di quello americano: le agenzie non possono fornire servizi di consulenza ai soggetti per i quali formulano rating. Le altre regole sono ispirate a quelle degli Stati Uniti e delineano un quadro tutto sommato positivo, rispetto alla precedente situazione di “vuoto normativo”. L’unica critica riguarda la mancata previsione di sanzioni a livello comunitario: questa materia è attribuita alle legislazioni nazionali, il che comporta la possibilità che vi siano squilibri, con conseguenti rischi di forum shopping e di inefficacia delle sanzioni stesse8. Per quanto riguarda il problema dell’inclusione del rating nelle regolamentazioni, sia negli Stati Uniti che in ambito europeo si sta andando verso una riduzione di questa tendenza, talvolta con una vera e propria espunzione dalle normative dell’obbligatorietà di tali “certificazioni”. Un punto molto dibattuto della disciplina del rating è quello relativo alla responsabilità delle agenzie. Queste ultime possono essere, in astratto, chiamate a rispondere dei giudizi dati da parte di due categorie di soggetti: gli investitori (che invocano la tutela del loro affidamento sui rating) e gli emittenti (che potrebbero chiedere il risarcimento dei danni causati da una valutazione sbagliata). Negli Stati Uniti, per molti anni, le agenzie sono uscite sempre vincenti dalle azioni di responsabilità intentate nei loro confronti. I giudici, infatti, hanno sistematicamente accolto la tesi secondo cui i rating sarebbero una mera opinione, assimilabile a quelle dei giornalisti delle testate finanziarie e quindi protetta dalla libertà di espressione sancita dal 1° emendamento alla Costituzione americana.

Nel 2009 vi è stata una delle prime condanne di un’agenzia, per via di un giudizio errato reso ad un grosso investitore, nell’ambito di operazioni di finanza strutturata (Abu Dhabi Commercial Bank vs. Morgan Stanley & co., Southern district of NY, 2009). Secondo questa sentenza, il rating relativo a strumenti finanziari non destinati al pubblico, ma collocati privatamente, costituisce un’informazione che, non essendo destinata ad essere divulgata sul mercato, ma solo presso alcuni investitori cd. sofisticati, non è protetta dal 1° emendamento, avendo un valore professionale maggiore di quello di una mera opinione. 8 Parmeggiani – I problemi regolatori del rating e la via europea alla loro soluzione, http://nyu.academia.edu

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Per quanto riguarda l’Unione Europea, il reg. 1060/2009 sembra scoraggiare le azioni di responsabilità per danni derivanti da un rating errato9, ma in ogni caso afferma espressamente di rimanere estraneo alla materia della responsabilità civile, lasciata alla competenza dei vari Stati membri. In Italia, recentemente, è stata per la prima volta condannata un’agenzia di rating (Trib. Milano, 01/07/2011, sent. n° 8790) - Standard & Poor’s nell’ambito di un’azione promossa da un emittente: la Parmalat. La società, attraverso il suo amministratore straordinario Enrico Bondi, aveva chiesto la restituzione delle parcelle pagate all’agenzia e il risarcimento dei danni derivanti dal rating scorretto. Il Tribunale di Milano ha accolto la prima richiesta, ravvisando una notevole mancanza di diligenza da parte dell’agenzia convenuta e dichiarando dunque la risoluzione del contratto per inadempimento. E’ stato invece negato il risarcimento del danno, a causa: dell’assenza di una dimostrazione del nesso di causalità tra la scarsa diligenza dell’agenzia e l’aggravarsi del dissesto della società; di una inadeguata quantificazione del danno. I profili più problematici della responsabilità delle agenzie sono appunto le difficoltà della prova (ma, ad esempio, il Dodd-Frank Act prevede un alleggerimento dell’onere della prova per l’attore), dovute alla non facile individuazione degli standard di diligenza che possono essere richiesti alle agenzie, e la quantificazione del danno, a causa degli effetti “a cascata” del rating, che rendono il numero dei danneggiati potenzialmente illimitato e potrebbero dare luogo a risarcimenti insostenibili. Alcuni osservatori si chiedono, per queste ragioni, se non sia più opportuno predisporre un sistema di sanzioni efficaci, irrogate dalle autorità di vigilanza, piuttosto che una disciplina della responsabilità civile, che risulterebbe di difficile applicazione. D’altra parte, è innegabile che una totale assenza di responsabilità costituisca un disincentivo ad emettere rating il più possibile accurati e corrispondenti alla realtà.

Negli ultimi tempi, la creazione di una agenzia di rating pubblica per il giudizio sui debiti sovrani da parte dell’Unione Europea è stata auspicata da più parti, in ultimo anche dal presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi. Un’agenzia di questo tipo avrebbe un costo molto alto e potrebbe essere percepita come un’entità influenzata dagli Stati membri. Avrebbe però, se adeguatamente strutturata, anche la possibilità di agire con trasparenza e obiettività, senza perseguire ad ogni costo la massimiz-

9 Parmeggiani – La funzione economica e la regolazione delle agenzie di rating, http://nyu.academia.edu

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zazione dei profitti.

L’aumento della concorrenza tra agenzie e la creazione di un’agenzia europea realmente indipendente sembrano essere le prossime sfide di un settore, quello del rating, in costante evoluzione.

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Signori si nasce, cittadini si diventa Giulia Schettino e Martina Zini L’ opportunità di modificare la legge sulla cittadinanza è un problema di grande attualità: non solo ne hanno parlato il Presidente della Repubblica e , più recentemente, l’attuale Ministro dell’Interno, ma è anche oggetto di diverse proposte di legge, tra cui da ultima una delle rare di iniziativa popolare1, sostenuta da varie associazioni appoggiate dall’Anci. La cittadinanza può essere definita come una situazione giuridica soggettiva, che comporta l’appartenenza ad una comunità politica ed istituzionalizzata (lo Stato) e la titolarità di un complesso di diritti ( i più caratterizzanti sono quelli politici) e di doveri. Le leggi sulla cittadinanza sono sempre il risultato della combinazione asimmetrica di due criteri: ius soli e ius sanguinis . Secondo lo ius soli, o principio territoriale, la cittadinanza dipende dalla nascita sul territorio dello Stato, mentre per lo ius sanguinis, o principio di sangue, dalla discendenza da cittadino dello Stato. Il primo, concetto inclusivo, è proprio dei Paesi a forte immigrazione e si caratterizza per l’apertura nei confronti dello straniero, in quanto l’essere cittadino dipende da un legame costruito con il territorio e la società. Il secondo, concetto ereditario ed esclusivo è proprio dei Paesi a forte emigrazione e si caratterizza da un lato per la chiusura nei confronti dell’extracomunitario, che viene ostacolato nell’acquisto della cittadinanza perché l’essere cittadino è una condizione innata, intrinseca, dall’altro per il perdurante legame con il cittadino che espatria. Il criterio dello ius soli, diversamente da quello dello ius sanguinis, può inoltre essere qualificato come elettivo nel senso che dà rilevanza alla scelta delle persone di creare un legame con un certo territorio , indipendentemente dalla loro origine etnica, ai fini di conisiderarle cittadini: “Questa enfasi sulla terra, sul territorio , sul suolo, è più compatibile, concettualmente, con una teoria della scelta. È un accidente l’essere nato o meno all’interno dei confini di un certo paese.”2

L’istituto della cittadinanza italiana è disciplinato dalla L. 91/1992 insieme con i d.p.r. 572/1993 e 362/1994. Questa sostituisce la L. 555/1912 e dà uniformità alla disciplina recependo in un unico testo le modifiche, che erano state apportate dalle leggi 151/1975 e 123/1983, in materia di

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www.litaliasonoanchio.it La società orizzontale, L.M. Friedman, pag 244.

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acquisto della cittadinanza a seguito di matrimonio e filiazione per rendere effettivo il principio di uguaglianza tra uomo e donna. La legge del 1992, come quella del 1912, s’incentra sul principio di sangue nonostante il mutato contesto storico e sociale3 . Tuttavia la normativa più recente rispetto alla precedente si distingue per la previsione della possibilità di ottenere la doppia cittadinanza, prima solo eccezionale, per una lotta ancora più decisa all’apolidia4 e per l’introduzione di un trattamento di favore per l’acquisto della cittadinanza da parte dei cittadini europei5. Nella l. 91/1992 la prevalenza dello ius sanguinis sullo ius soli, si evidenzia sotto vari aspetti: 1)attribuzione6 della cittadinanza al figlio di padre o madre cittadini italiani(art 1co.1 a ); 2) previsione della possibilità di ottenere la doppia cittadinanza (art. co.1); 3)attribuzione della cittadinanza attraverso lo ius soli in soli 3 casi (art co.1 b):nell’ipotesi di nato nel territorio della Repubblica da genitori a)ignoti, b)apolidi, c)stranieri se il nato non segue la cittadinanza dei genitori7. 4)acquisto8 della cittadinanza da parte dello straniero lunga, buro3 La l. 555/1912 ha origine in un periodo storico in cui l’Italia era un Paese di forte emigrazione, considerando anche il fenomeno del neocolonialismo italiano; negli anni ‘90 iniziarono le prime ondate migratorie, in corrispondenza della guerra del Kossovo, ed è un dato di fatto che i flussi emigratori fossero sensibilmente diminutiti. 4 Oltre all’art. 1 co.1 b si prevede l’acquisto della cittadinanza con soli 5 anni di residenza legale e initerrotta (art 9 co.1 e). I rifugiati sono parificati nel trattamento agli apolidi (art. 16 co.2). 5 4 anni di residenza legale e ininterrotta (art. 9 co.1 d). 6 Conseguimento della cittadinanza a titolo originario (sin dalla nascita) attraverso legge dello stato, in questo caso L.91/1992, che individua i requisiti da cui essa discende. Il concetto si pone in contrasto con quello di acquisto della cittadinanza (cfr. Nota n.8) 7 ... per la legge dello stato di cui essi sono cittadini. Quest’ultima ipotesi viene interpretata restrittivamente, data la sua eccezionalità: il non seguire la cittadinanza dei genitori è fatto dipendere dal non adempimento di condizioni sostanziali, richieste dalla legge dello stato di questi(ad esempio effettiva e stabile residenza per un dato periodo, prestazione del servizio militare); al contrario non vi rientrano i casi in cui il non seguire la cittadinanza dipenda dal non adempimento di mere formalità(dichiarazione di nascita, di volontà, altre formalità amministrative), in quanto l’attribuzione della cittadinanza non sarebbe più subordinata a condizioni oggettive, ma alla mera volontà delle parti e si trascenderebbe lo scopo della norma che è quello di evitare l’apolidia. 8 Conseguimento della cittadinanza a titolo derivato che presuppone sempre

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cratica, farraginosa, in particolare: i NATI sul territorio della Repubblica da genitori stranieri(che non rientrano nell’ipotesi dell’art 11 b) o “seconde generazioni”, acquistano la cittadinanza per beneficio di legge(art 42) o per naturalizzazione (art 91 a). Nel primo caso con dichiarazione presentata entro un anno dal compimento della maggiore età, posto che abbiano risieduto legalmente ed ininterrottamente sul suolo italiano; nel secondo con il requisito di residenza legale ed ininterrotta di 3 anni(se non presenta la richiesta entro l’anno previsto). Per quanto riguarda i MINORI e gli ADULTI , questi seguono lo stesso procedimento di naturalizzazione, a meno che il minore non sia adottato da cittadino italiano, in tal caso segue la cittadinanza di questo (art.3). In genere la naturalizzazione avviene con residenza di 10 anni legale e ininterrotta (art. 91 f);in ipotesi minori con 5 anni di residenza dall’adozione se il maggiorenne viene adottato da cittadino italiano (art.91b) o con 5 anni di servizio alle dipendenze dello Stato (art.91 c); 5)trattamento degli stranieri con ascendenti di origini italiane differenziato, di favore e quindi in contrasto con quello degli stranieri non oriundi. I requisiti temporali per l’acquisto della cittadinanza sono ridotti sensibilmente: si richiedono 2 anni di residenza legale e ininterrotta per l’acquisto con beneficio di legge all’oriundo che ne fa richiesta entro un anno dal compimento della maggiore età (art 41) e soli 3 anni di residenza per l’acquisto con naturalizzazione (art 91 a). La rigidità della normativa ha comportato effetti patologici, quali la strumentalizzazione della naturalizzazione per matrimonio in quanto più agevole:15.365 le straniere naturalizzate per matrimonio a fronte delle 8.319 naturalizzate per residenza9. Infatti ex art 5 lo straniero richiedente, se residente in Italia, acquista la cittadinanza dopo 6 mesi dalla data del matrimonio, se residente all’estero, dopo 3 anni, posto che in questi periodi non sia avvenuto scioglimento o annullamento o cessazione degli effetti un comportamento attivo del richiedente, che deve farne richiesta, secondo l’art 23 della presente legge, all’ufficiale di stato civile del Comune di residenza. Se l’acquisto è automatico alla richiesta, posto che sussistano le condizioni previste dalla legge, si ha acquisto per beneficio di legge, mentre quando è subordinato anche all’emanazione di un decreto, si ha acquisto per naturalizzazione: decreto del Ministro dell’Interno nel caso di naturalizzazione per matrimonio(art 7),in tutti gli altri casi d.p.r. sentito il Consiglio di Stato su proprosta del Ministro dell’Interno(art 9 co.1). Il decreto acquista efficacia con il giuramento, che deve essere prestato entro 6 mesi dall’emanazione(art 10). 9 Fonte: Ministero dell’Interno, 2010, http://www.interno.it/mininterno/ export/sites/default/it/assets/files/21/0808_cittadinanza_Conc._nazionalitx_ sesso_2010.pdf

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civili e che non ricorra nessuna della cause ostative10 dell’art 6. Per l’Italia oggi l’immigrazione è un fenomeno rilevante e crescente, 4.570.317 gli stranieri residenti in Italia al 1°gennaio 2011, il 7,9% in più rispetto al 201011. In particolare gli stranieri di seconda generazione sono 650mila e i minori sono circa 1 milione. L’ incidenza sulla popolazione studentesca è del 7,9% .Non solo, l’immigrazione è anche una risorsa preziosa perché incide positivamente sull’equilibrio demografico con le nuove nascite (circa un sesto del totale), sul mondo del lavoro e sul gettito fiscale: i 2 milioni circa di stranieri lavoratori sono disponibili ad inserirsi in tutti i settori lavorativi, creano lavoro ( 228.540 sono i piccoli imprenditori stranieri) , versano allo stato ogni anno circa 11 miliardi tra contributi previdenziali e fiscali e contribuiscono alla produzione del PIL per 11, 1%12. Se si considera anche che oggi il flusso migratorio è aumentato di circa 7 volte rispetto agli anni novanta (nel 1991 il rapporto della Caritas Migrantes stimava 648.935 soggiornanti), risultano evidenti l’anacronismo della l. 91/1992, che soccorre un’ Italia abbandonata da emigrati , e l’ opportunità di una modifica nel segno dell’integrazione e dell’inclusione, che premi e non ostacoli la volontà dello straniero di diventare parte della comunità. In quest’ottica le vie da percorrere sono essenzialmente tre. La prima consiste nell’ affermazione dello ius soli in senso assoluto: automatica attibuzione della cittadinanza al nato da genitori stranieri sul territorio dello stato ed agile acquisto di questa da parte dello staniero. È una scelta radicale, attualmente quasi irrealizzabile: non è un caso che nessuna proposta di legge in materia la prenda in considerazione. La seconda consiste invece nel mitigare l’esclusività dello ius sanguinis da un lato intoducendo l’istituto dell’attribuzione della cittadinanza per le “seconde generazioni” subordinandolo alla sussitenza di alcuni requisiti, dall’altro semplificando l’istituto dell’acquisto , persino differenziandolo per adulti e minori. Questo come contropartita di una reale adesione alla società, che si presume sussistere quando lo straniero conosce la lingua e la storia italiana (a tal fine sono predisposti dagli enti pubblici corsi obbligatori di formazione con possibile esame finale), possiede il cosidetto requisito economico, cioè è in grado di mantenersi svolgendo un’ attività lavorativa e presta giuramento di fedeltà alla Repubblica. Le proposte di legge che si pongono in questa prospettiva sono davvero numerose e tra 10 In generale riguardano condanne per alcuni specifici delitti e motivi di pubblica sicurezza. 11 Fonte:Istat, http://demo.istat.it/strasa2011/index.html 12 Fonte :dossier statistico immigarzione, Caritas-Migrantes, 2011.

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loro simili. Tra le più rilevanti e recenti il ddl AC 1607/2006(Amato), il ddl AC 457/2008(Bressa), il ddl AC 2670/2009(Sarubbi-Granata). In particolare, i nati sono cittadini automaticamente per nascita sul territorio della Repubblica se almeno uno dei genitori sia residente in Italia da un certo periodo di tempo( in genere 5 anni) e possegga il requisito economico(ddl Amato). Nei ddl Bressa e Sarubbi-Granata si aggiunge il requisisto della dichiarazione del genitore, contestuale alla registrazione anagrafica. Se la dichiarazione è prestata in senso negativo, il nato acquista la cittadinanza se ne fa richiesta entro 2 anni dal compimento della maggiore età. È sempre prevista la possibilità di rinunciare alla cittadinanza al compimento della maggiore età. Con riguardo ai minori ad agli adulti la disciplina prevista dai tre ddl è sostanzialmente la stessa, cambia soltanto la durata di qualche requisito temporale. I minori acquistano la cittadinanza con dichiarazione del genitore, che risiede in Italia per un certo periodo di tempo (in genere 5 anni)e possiede il requisito economico, posto che frequentino un corso di formazione scolastica o lavorativa, o svolgano attività lavorativa. Se il genitore non fa la dichiarazione, il minore l’acquista se ne fa richiesta al compimento della maggiore età entro un certo periodo di tempo. Anche qui è prevista la possibilità di rinunciarvi. Per gli adulti viene ridotto il periodo di residenza per la naturalizzazione(in genere 5 anni), posto che siano in possesso dei requisiti reddituale e culturale. La terza via favorisce un’ integrazione sostanziale dello staniero nella società promuovendo, non solo una politica di accoglienza a tutti i livelli e una tutela sempre più effettiva dei diritti fondamentali , ma anche la partecipazione alla vita politica del paese, nell’ottica di un diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni amministative. Si potrebbe dire che in questa prospettiva la concezione classica della cittadinanza, come diritto ad avere diritti e soprattutto diritti politici, si frantumi, da un lato in due opposti, cittadinanza sociale come titolarità dello straniero,in quanto persona e non in quanto cittadino, dei diritti fondamentali , che si contrappone alla cittadinanza legale; dall’altro in due livelli, una cittadinanza” inferiore”, che comporta la parziale attribuzione di diritti politici e una “superiore” che ne comporta l’attribuzione totale. Rispetto alla seconda proposta si pone come un contemperamento indiretto del principio di sangue, in quanto non comporta nessuna modifica della legge attuale sulla cittadinanza. Per chi scrive, il defict di valenza pratica del principio di sangue è tale da renderlo soltanto un capriccio di quei nostalgici dell’idea di nazione. Dovrebbe essere valorizzato il consa-

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pevole legame con il territorio, perché in sostanza è la scelta di vivere in una comunità, contribuendo alla sua crescita, che rende l’uomo un cittadino. In conclusione, è parere di chi scrive che nell’attuale momento storico non ci si possa esimere dal confrontarsi con la questione della modifica della disciplina della cittadinanza. In effetti prese di posizioni nette e radicali, comprensibili se finalizzate a raccogliere consenso, si rivelano nei fatti anacronistiche e populiste perché eludono un problema che non può essere negato.

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La “Primavera Araba”, un anno dopo: considerazioni sulla condizione dei migranti giunti in Italia dal Nord Africa. Giulia Camilla De Martini Il 14 gennaio 2011 termina anticipatamente il mandato presidenziale del presidente tunisino Ben Ali, fuggito all’estero a seguito delle proteste popolari contro il carovita; all’inizio di febbraio scoppiano in Libia le prime sommosse popolari a cui segue un conflitto armato che vede opposte le forze fedeli a Gheddafi agli insorti del Consiglio Nazionale Libico. Ha inizio la Primavera Araba.

È trascorso un anno da questi avvenimenti e, salvo sporadiche eccezioni, i giornali sembrano essersi dimenticati delle oltre 50.000 persone che si sono letteralmente riversate sulle coste italiane. Che fine hanno fatto i migranti giunti dal Nord Africa?

In che modo in nostro Paese ha fronteggiato questa emergenza umanitaria e con quali interventi legislativi?

Qual è stato l’apporto degli strumenti giuridici europei e internazionali? In passato, il nostro Paese si era assicurato il controllo dei flussi migratori, firmando accordi bilaterali con i governi degli stati nordafricani: dal 1998, la Tunisia ha cooperato con l’Italia per il rimpatrio dei migranti irregolari e per un controllo più efficace delle frontiere marittime. Con la Libia, nel 2008, viene stipulato il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione, 1riguardante una pluralità di settori, incluso il controllo delle migrazioni irregolari.2 L’accordo, entrato in vigore nel 2009, prevedeva l’attuazione di una collaborazione nel controllo dell’immigrazione. Se, a seguito dell’attuazione di tale accordo, il numero di sbarchi sulle

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Testo completo www.iai.it/pdf/Oss_Transatlantico/108.pdf Il Trattato è stato firmato per porre fine alle dispute riguardanti la compensazione dei danni subiti dalla Libia nel periodo coloniale. Riguarda inoltre la materia economica, industriale, militare. Testo completo www.iai.it/ pdf/DocIAI/iai0909.pdf

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cose italiane si era drasticamente ridotto, nel febbraio 2011 i controlli sulle coste nordafricane vacillano e a metà del mese si contano già più di 5000 sbarcati, rispetto all’ammontare totale del 2010, di 4400 persone. La situazione di relativa stabilità e il delicato sistema di accordi internazionali inizia così ad incrinarsi.

Nei mesi seguenti, l’Italia deve far fronte all’arrivo di più di 50.000 persone ed emerge subito il problema pratico di trovare risorse per gestire questo inaspettato numero di soggetti in ricerca di protezione. 3

La prima reazione del nostro Paese è stata quella di invocare l’aiuto dell’UE, con una lettera inviata alla Commissione: il governo italiano richiede l’intervento della Frontex4 e coglie l’occasione per ricordare all’Europa la necessità di rivedere l’intero sistema di controllo dei confini, la fondamentale attuazione di un sistema di asilo uniforme garantendo un appropriato intervento dell’UNHCR5 e una gestione a livello europeo dei CIE (Centri di identificazione ed espulsione). La lettera evoca anche la richiesta di applicazione del principio del burden sharing tra Stati membri, che prevede un’equa distribuzione della responsabilità in merito all’accoglimento di rifugiati, richiedenti asilo e migranti irregolari. Il 12 febbraio, il Presidente del Consiglio Berlusconi dichiara lo stato di emergenza nazionale e vengono intraprese le prime misure urgenti per rispondere alla necessità di assistenza umanitaria. Ha così inizio l’operazione Hermes, che prevede la cooperazione degli Stati membri per il rimpatrio dei migranti (secondo quanto disposto

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Durante una conferenza stampa di metà agosto, il ministro Maroni comunica i dati numerici da gennaio: 24.769 migranti dalla Tunisia e 23.267 dalla Libia. www.cir-onlus.org/ 4 Frontex, si tratta di un’Agenzia per i controlli alle frontiere, creata dall’Unione Europea proprio con l’intento di regolare in modo più incisivo la sorveglianza e la gestione delle frontiere. Istituita il 1° maggio 2005 con il regolamento 2007/2004/CE, ha il compito di coordinare le operazioni congiunte svolte dagli Stati Membri alle frontiere esterne e mantiene ferma la competenza dei singoli Stati membri in materia di controllo e sorveglianza delle frontiere esterne. 5 Agenzia delle Nazioni Unite per la Protezione dei Rifugiati.

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nella cosiddetta “Direttiva rimpatri”6) nei loro Paesi d’origine.

In risposta alla richiesta dell’Italia, che aveva stimato che per gestire la situazione sarebbero stati necessari 100 milioni di euro, la Commissione stanzia 25 milioni.

Sarà la stessa Commissione a dichiarare in un comunicato che le risorse finanziarie disponibili secondo il Programma Generale “Solidarietà e Gestione dei flussi migratori”7 risultano insufficienti per far fronte alle richieste di assistenza. Oltre al problema pratico dell’accoglienza, emerge immediatamente l’inadeguatezza degli strumenti normativi in grado di inquadrare il tipo di protezione da conferire ai migranti.

In un primo momento, il governo italiano formula al Consiglio Europeo la richiesta di avvalersi di una procedura prevista dalla Direttiva 2001/55 EC8 che consente in casi eccezionali di conferire una protezione temporanea “nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d’origine” che consiste in “una tutela immediata e temporanea alle persone sfollate, in particolare qualora vi sia anche il rischio che il sistema d’asilo non possa far fronte a tale afflusso senza effetti pregiudizievoli per il suo corretto funzionamento”. Tuttavia questo tipo di protezione, mai utilizzata in precedenza, prevede una procedura di adozione molto complessa e inoltre viene attivata solo in caso di effettivo raggiungimento di determinati requisiti: il 12 aprile il

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2008/115/UE entrata in vigore il 3 gennaio 2009, strumento mediante il quale l’Unione intende contrastare l’immigrazione clandestina con l’elaborazione di una disciplina orizzontale sulle condizioni della procedura d’espatrio degli stranieri irregolari nei loro Paesi d’origine, armonizzando i sistemi nazionali. Il nostro Testo Unico sull’Immigrazione è stato adeguato alle disposizioni della direttiva solo con la l.n. 129/2011. 7 il Programma Generale consiste in quattro fondi: External Borders Fund, European Return Fund, European Fund for Refugees, Integration Fund. 8 testo disponibile www.asgi.it/public/parser_download/save/dir. ce.55.01.pdf

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JHA Council 9 respinge la richiesta italiana, in ordine all’effettiva portata dell’emergenza e ai dubbi sullo status da attribuire ai soggetti sbarcati sulle nostre coste.

Il 5 aprile viene adottato il decreto del Presidente del Consiglio titolato “Misure di protezione temporanea per i cittadini stranieri affluiti dai Paesi nordafricani”10: questo, che trova la sua base giuridica nell’art. 20 del Testo Unico sull’Immigrazione,11prevede un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, valido per sei mesi e applicabile ai soggetti arrivati dal 1 gennaio al 5 aprile.

Ricordando che nella prima parte del 2011 i migranti erano per lo più Tunisini, alla ricerca di lavoro (economic migrants) e soprattutto diretti verso la Francia, questo intervento legislativo può essere sotto diversi aspetti criticato: infatti il permesso di soggiorno, allo scadere dei sei mesi, potrà essere convertito in permesso per motivi di lavoro solo nel Paese in cui il permesso è stato conferito, e cioè l’Italia; inoltre consente di spostarsi nei vari Paesi dell’UE ma non vengono menzionati gli accordi di Schengen. Tutto ciò porta inevitabilmente delle tensioni tra gli stessi Stati Membri dell’UE. 12 Lo stesso 5 aprile, il ministro Maroni firma un accordo con il ministro dell’interno tunisino Habib Essid per gestire il rimpatrio di coloro ai quali non è applicabile il Decreto: vista la precaria situazione della Tunisia, le autorità tunisine accetteranno al massimo quattro rimpatriati al giorno.

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Configurazione del Consiglio che riunisce i ministri della giustizia e i ministri dell’interno degli Stati membri. 10 Vedi testo completo www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/21/0157_Dpcm_5_aprile_2011.pdf 11 Articolo 20 del D.lgs 286/1998: Misure straordinarie di accoglienza per eventi eccezionali. 1. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato d’intesa con i Ministri degli affari esteri, dell’interno, per la solidarietà sociale, e con gli altri Ministri eventualmente interessati, sono stabilite, nei limiti delle risorse preordinate allo scopo nell’ambito del Fondo di cui all’articolo 45, le misure di protezione temporanea da adottarsi, anche in deroga a disposizioni del presente testo unico, per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione Europea. 12 Vedi la Circolare del Ministro dell’Interno francese del 6.4.2011 Autorisations de séjour délivrées à des ressortissants de pays tiers par les Etats membres de Schengen.

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Il 6 ottobre, allo scadere del termine, passerà sotto silenzio la proroga del Decreto di altri sei mesi. L’intero fenomeno risulta ancora più complesso per quanto riguarda i migranti dalla Libia: il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adotta le risoluzioni 1970/2011 e 1973/2011 con cui si stabilisce l’embargo del Paese e l’intervento militare; il dialogo sulle politiche migratorie tra l’Italia e la Libia diviene pressoché inesistente. Così i profughi aumentano durante l’estate e con essi anche il numero delle morti nelle acque del Mediterraneo.13La maggior parte degli sfollati sono migranti economici provenienti da Paesi come Ghana, Nigeria, Eritrea e Somalia, che si trovavano in Libia per lavorare, magari da anni, con un percorso di integrazione ben avviato e che, con l’inizio della guerra civile, sono stati letteralmente sradicati e costretti ad imbarcarsi.14

S’inquadra così la difficile questione del tipo di protezione da garantire a questi soggetti: il problema è rimesso alle Commissioni Territoriali per il Riconoscimento della Protezione Internazionale. Queste sono organismi amministrativi istituiti presso le Prefetture di dieci città15 competenti per un distinto ambito geografico, operanti in modo collegiale e composte da un funzionario della carriera prefettizia, un rappresentante della Polizia di Stato, un rappresentante delle autonomie locali ed un rappresentante designato dall’UNHCR. Le alternative che si pongono alle Commissioni sono:

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• Riconoscere lo status di rifugiato garantendo la protezione internazionale, se il soggetto richiedente rientra nei requisiti stabiliti dalla Convenzione di Ginevra; 16

Vedi Informativa urgente del Governo sulla tragica vicenda della morte di venticinque persone a bordo di una nave di immigrati approdati a Lampedusa, 3 agosto 2011 www.interno.org 14 Testimonianza dell’ambasciatore libico in Italia Abdulhafed Gaddur, “comandava Gheddafi. Guidava lui l’immigrazione clandestina. Diceva di voler far diventare Lampedusa ‘nera’, piena di africani, ‘così gli italiani capiranno cosa vuol dire partecipare all’applicazione della no-fly zone’”. 15 Torino, Milano, Gorizia, Roma, Caserta, Foggia, Bari, Crotone, Siracusa e Trapani. 16 Art. 1A della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei

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• Riconoscere la protezione sussidiaria, nel caso in cui il soggetto non possa rientrare nei requisiti ma rischi un “danno grave”17 in caso di rientro nel Paese d’origine; • Respingere la domanda o dichiararne la manifesta infondatezza;

• In presenza di gravi motivi di carattere umanitario, non considerati dalla vigente normativa come legittime ipotesi per l’accesso alla protezione internazionale, ma comunque ostativi ad un immediato rientro dell’interessato in patria, le Commissioni possono respingere la domanda dello straniero ma trasmettere contestualmente gli atti al Questore territorialmente competente, per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. I profughi libici, dopo essere stati identificati, inoltrano quasi automaticamente la richiesta di asilo senza aver ottenuto una vera informazione su ciò che questa condizione implica e senza avere altra alternativa, vengono inseriti nelle procedure delle Commissioni e rimangono in attesa: i tempi per ottenere una risposta possono essere lunghi18 e si dilatano nel frequente caso di ricorso. Le decisioni possono infatti essere impugnate innanzi ai Tribunali ordinari, le cui sentenze possono poi eventualmente costituire oggetto di reclamo davanti alla Corte di Appello e, in ultima istanza, di ricorso per

rifugiati. Il rifugiato è colui “che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra” 17 La direttiva 2004/83/ CE considera al Capo V il danno grave come: “la condanna a morte o l’esecuzione; la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante; la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” . 18 secondo quanto affermato da collaboratori del Naga (un’associazione di volontariato laica e apartitica che si è costituita a Milano allo scopo di promuovere e di tutelare i diritti di tutti i cittadini stranieri – www.naga.it le audizioni di coloro che sono arrivati in maggio sono state iniziate a novembre.

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Cassazione.

È stato così intrapreso un programma di assistenza che prevede la sistemazione dei migranti “in attesa”, in strutture di accoglienza di vario genere, dislocate in tutta la Penisola. La Lombardia ha accolto finora 3.600 profughi dal Nord Africa, di questi 720 sono ospiti in strutture delle Caritas lombarde. Le condizioni di accoglienza sono molto variabili e disomogenee da regione a regione: frequenti sono state le proteste, per citare un caso a noi geograficamente vicino, si sono ribellati in ottobre i 200 profughi provenienti perlopiù dall’Africa centrale, alloggiati presso il Residence Ripamonti di Pieve Emanuele, nella periferia Sud di Milano. Secondo quanto dichiarato da Christopher Hein, direttore del CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati), a circa il 70% dei migranti dalla Libia l’asilo verrà negato, poiché attualmente non sussistono requisiti di persecuzione previsti dalla Convenzione di Ginevra. In concreto, quali sono le soluzioni possibili?

Secondo il CIR, il primo punto da rendere pacifico è che queste persone non dovrebbero essere espulse dall’Italia dopo il diniego alla loro richiesta di protezione. Considerando l’ingente numero di soggetti che già si trovano in clandestinità, è necessario trovare un rimedio per evitare che tutti i soggetti che sono attualmente in uno stato di incertezza, diventino da un momento all’altro “irregolari”.

In primo luogo si dovrebbe riconoscere una protezione di tipo umanitario, o una protezione temporanea per permettere il ritorno in Libia, non appena la situazione nel Paese tornerà stabile. Si dovrebbe poi facilitare il loro ritorno volontario in Libia, con sufficienti garanzie per il rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori migranti in Libia. Nel frattempo si deve comunque garantire un soggiorno regolare utilizzando la medesima base giuridica già applicata nei confronti dei Tunisini arrivati prima del 5 aprile 2011 e cioè l’Articolo 20 T.U. Immigrazione. Tale permesso di soggiorno per protezione temporanea naturalmente consente, come per i tunisini, la conversione in permesso per attività lavorative nel nostro Paese e include quindi una seconda opzione. Infine sarebbe necessario un vero programma di rimpatrio volontario assistito con un incentivo che dovrà largamente superare l’attuale contributo di 200 euro per per-

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sona.

In altri termini, quello che il CIR mette in luce è la necessità di un intervento politico. Certamente l’instabilità economica del nostro Paese non aiuta né ad accorciare i tempi per intervenire, né tanto meno a stanziare quei fondi che sarebbero necessari per affrontare l’emergenza. Per esempio una recente nota di Palazzo Chigi pubblicata sul sito del Governo19 rivela il fatto che le risorse relative alla parte dell’8 per mille dell’Irpef del 2011, che gli Italiani destinano alle esigenze dello Stato, non terrà conto dell’assistenza ai rifugiati, nonostante i vincoli di destinazione stabiliti dall’art.48 della l.222/1985 vigente in materia20.

Il 18 gennaio 2012 viene approvata la mozione dell’Italia dei Valori a Montecitorio che impegna il governo: ‘’ad assumere (…) le necessarie iniziative sul piano politico-diplomatico volte ad assicurare la piena applicazione di quanto previsto dagli articoli 1 e 6 del trattato italo-libico del 2008 e a consentire che le operazioni di contrasto all’immigrazione clandestina siano pienamente conformi alle norme di diritto internazionale”. Il governo viene poi impegnato: ‘’a migliorare sensibilmente, in ogni caso, le condizioni dei migranti sistemati nei centri di accoglienza, nei centri di identificazione ed espulsione e nei centri di accoglienza dei richiedenti asilo - oggi ridotti a veri e propri luoghi di sofferenza e di mancanza di rispetto dei diritti umani.” 21 Anche per quanto riguarda le iniziative a livello europeo si procede a rilento: malgrado esistano delle norme minime comuni, i sistemi di asilo di molti Paesi non funzionano efficacemente, nonostante gli Stati membri abbiano sottoscritto le stesse convenzioni internazionali ed aderito agli stessi valori. Il 19 giugno 2011 si è fatto un passo avanti con l’istituzione dell’EASO (European Asylum Support Office) e l’Unione si muove gradualmente

19 20

www.governo.it/Presidenza/Comunicati/dettaglio.asp?d=66024 art 48 : le quote di cui all’articolo 47, secondo comma sono utilizzate : dallo Stato per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione dei beni culturali ; (…). 21 ANSA

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verso una politica di asilo europea che vede nel 2012 un anno di svolta.

Rimaniamo dunque in attesa, nel frattempo la Commissione ha stabilito che per il prossimo quadro finanziario pluriennale (periodo 2014-2020) l’importo dei finanziamenti disponibili per gestire i flussi migratori e affrontare le minacce per la sicurezza aumenterà, ma il numero degli strumenti finanziari scenderà a due: saranno istituiti infatti un nuovo Fondo asilo e migrazione e un nuovo Fondo sicurezza interna. Risulta quindi evidente che gli strumenti giuridici attualmente a disposizione, siano essi nazionali o europei, non sono pienamente in grado né di fornire una tutela adeguata dei diritti dei migranti né di tenere conto delle effettive differenze tra le realtà umane che questi hanno alle spalle. Come ha affermato il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Kimoon in occasione della Giornata internazionale dei migranti “(…) ogni volta che i diritti dei migranti sono violati, e quando essi sono marginalizzati o esclusi, diventano incapaci di contribuire sia economicamente sia socialmente alle comunità che si lasciano alle spalle o a quelle alle quali vogliono accedere. Tuttavia, quando ricevono il sostegno di corrette strutture politiche e quando esiste una tutela ai loro diritti umani, i migranti possono rappresentare una forza sia per i singoli individui sia per i loro Paesi di origine, transito o destinazione.”22

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intero discorso disponibile http://www.un.org/en/events/migrantsday/

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DIRITTO Penale

l’alligatore 37


L’applicazione dell’art. 34 del Codice Antimafia ad alcune Filiali della T.N.T. “In odore di Mafia”: L’esempio milanese Federica Ghisleni 1. L’istituto della “sospensione temporanea dall’amministrazione” di cui all’art. 3-quater L. 575/65, ora “amministrazione giudiziaria” ai sensi dell’art. 34 del Codice antimafia La misura di prevenzione della sospensione temporanea dall’amministrazione è un istituto che ha trovato scarsa applicazione da parte della giurisprudenza e poco spazio nei dibattiti della dottrina. Essa è stata aggiunta dal legislatore antimafia accanto alle misure di prevenzione patrimoniali tradizionali del sequestro e della confisca con il D.L. 8 giugno 1992 n. 306 (convertito in legge 7 agosto 1992 n. 356), il quale ha introdotto nella L. 575/65 gli artt. 3-quater e 3-quinquies; stante l’abrogazione della legge in questione a seguito dell’introduzione del Codice antimafia1, l’art. 3-quater è stato trasfuso nell’art. 34 senza modifiche e rinominato “amministrazione giudiziaria”. Quando ricorrono sufficienti elementi per ritenere che il libero esercizio delle attività economiche di cui al primo comma dell’art. 34 agevoli l’attività delle persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una misura di prevenzione, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti previsti dagli art. 416-bis, 629, 630, 644, 648-bis e 648-ter c.p., il tribunale dispone l’amministrazione giudiziaria dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento di predette attività. L’amministrazione giudiziaria è soggetta ad un limite temporale massimo 1 Si tratta del D. Lgs. 6 settembre 2011 n. 159, consultabile al seguente indirizzo: . http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:decreto. legislativo:2011;159

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di 18 mesi: 6 mesi con la previsione di un rinnovo che non può superare complessivamente i 12 mesi (comma 3). A seguito dell’emanazione del provvedimento sospensivo, vengono nominati il giudice delegato e l’ amministratore giudiziario; in particolare quest’ultimo deve, entro trenta giorni dalla nomina, redigere una relazione particolareggiata dei beni sottoposti all’amministrazione e presentarla al giudice delegato, nonché prendere in consegna i libri sociali e le scritture contabili2.

Nei 15 giorni antecedenti alla scadenza dei primi sei mesi di amministrazione giudiziaria, il Tribunale deve operare una scelta tra le seguenti opzioni: 1) revocare la sospensione, se sono venute meno “le condizioni in base alle quali è stata applicata”; 2) revocarla con riserva, disponendo il “controllo giudiziario”, ossia l’obbligo per un periodo non inferiore a tre anni a carico del titolare dell’attività economica di comunicare tutti gli atti gestionali e dispositivi di valore non inferiore a 25.000 €; 3) rinnovare la sospensione, se permangono le condizioni predette; 4) disporre la confisca dei beni “che si ha motivo di ritenere siano frutto di attività illecite o ne costituiscono il reimpiego”3. Tale strumento di aggressione ai patrimoni mafiosi risponde principalmente all’obiettivo di inibire il fenomeno della strumentalizzazione, da parte della criminalità organizzata, delle attività economiche lecite che, proprio perché esercitate sotto la mimetizzazione che le imprese individuali o le società garantiscono, rappresentano il tramite ideale per la realizzazione degli interessi illeciti.

2. L’operazione “Caposaldo-Redux”: il coinvolgimento del colosso multinazionale T.N.T. Le più recenti indagini della DDA di Milano sulle attività e gli interessi della ‘ndrangheta hanno messo sotto la luce dei riflettori gli intensi rap-

2 3

Artt. 36 e 37 Codice antimafia. Art. 34 Codice antimafia.

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porti collusivi tra alcuni dirigenti territoriali della T.N.T. e degli esponenti del potente gruppo facente capo al noto boss Giuseppe (Pepè) Flachi. Secondo la ricostruzione effettuata dal Gip Giuseppe Gennari nell’ordinanza di custodia cautelare dell’operazione denominata “Caposaldo-Redux”, la società T.N.T avrebbe infatti dato in subappalto a consorzi e cooperative controllate dalla ‘ndrangheta i servizi di recapito dei plichi; in poco tempo tali aziende sarebbero state in grado di incrementare smisuratamente gli incarichi di ritiro e consegna in qualità di sub-vettori della società multinazionale. Al fine di estromettere dal mercato le società concorrenti che si trovavano in un momento di difficoltà, le aziende in questione sarebbero in concreto ricorse al cd. “metodo mafioso”, raggiungendo così di fatto il monopolio del settore. Secondo il Tribunale di Milano per le cosche “il controllo delle società o cooperative che forniscono i servizi per conto della T.N.T. si traduce nella possibilità di inserirsi in un ingente volume d’affari garantito dalla rete preesistente e già avviata delle filiali della società”. Al contrario, per la società T.N.T. non è riscontrato che vi sia stato un preciso tornaconto nell’intrattenere a livello periferico rapporti privilegiati con le aziende sottoposte al controllo di mafiosi, intravvedendosi solo in controluce interessi personali e opportunità gestionali ambite da singoli manager o addetti territoriali4. 3. Il decreto del Tribunale di Milano dell’aprile 2011

A seguito delle indagini appena menzionate il Tribunale di Milano ha sottoposto all’amministrazione giudiziaria le filiali T.N.T. di Milano Meda, Milano Est, Milano Duomo, Lainate, Pero e Zibido San Giacomo, sospendendone di conseguenza la gestione ordinaria5.

4 Costantino Visconti, “Contro le mafie non solo confisca ma anche “bonifiche” giudiziarie per imprese infiltrate: l’esempio milanese”, p. 2, disponibile al seguente sito: www.penalecontemporaneo.it. 5 Notizia consultabile ai seguenti link: http://www.trasportoeuropa.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5112:ndrangheta-infiltrata-in-tnt-a-milano&catid=9:autotrasporto&Itemid=71; http://www.ilgiorno. it/milano/cronaca/2011/03/15/474134-buoncore_amici_contano.shtml; http:// torino.repubblica.it/cronaca/2011/04/18/news/tnt_commissariate_per_mafia_

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Sul versante dei presupposti applicativi della misura in esame il decreto del Tribunale di Milano contiene diversi passaggi argomentativi che meritano particolare rilievo, soprattutto in relazione alla rara applicazione e alla poca chiarezza degli scopi perseguiti dall’istituto. Proprio in relazione a quest’ultimo aspetto il Tribunale di Milano ha inteso valorizzare un profilo troppo spesso trascurato sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina, ovvero sia la rilevanza del provvedimento sospensivo dall’amministrazione considerato quale misura preventiva capace di perseguire autonomamente obiettivi diversi rispetto all’eventuale confisca di quei beni successivamente risultati frutto o reimpiego di attività illecite. A tal fine i giudici milanesi rilevano che, da un lato, il disposto normativo non richiede “l’accertamento di un effettivo inquinamento dell’attività economica in questione con flussi di denaro provenienti da attività illecite dei soggetti criminali agevolati, atteso che l’unico presupposto oggettivo della sospensione temporanea è quello dell’effettiva e consapevole agevolazione di tali soggetti”6 e, dall’altro, “la misura in esame ha in prima battuta una

funzione meramente cautelare diretta ad impedire che una determinata attività economica, che presenti connotazioni agevolative del fenomeno mafioso, possa comunque contribuire a realizzare un utile strumento d’appoggio per l’attività dei sodalizi criminali, e non necessariamente una funzione ablativa (prevista nel sistema normativo come eventuale e ancorata a ulteriori elementi probatori”7. Per quanto concerne i presupposti sostanziali della misura dell’amministrazione giudiziaria, il Tribunale chiarisce che “non costituisce ragione scriminante (…) la circostanza che vi possa essere una convergenza dei vantaggi, economici e non, tra impresa agevolatrice e soggetto agevolato, apparendo viceversa tale coincidenza di interessi del tutto usuale nell’ipotesi del comma 2 dell’art. 34 cit., in quanto un soggetto economico, anche in una condotta agevolatrice, è sempre mosso dall’intenzione di soddisfare le_filiali_milanesi_del_corriere-15070969/. 6 Costantino Visconti, cit., p. 3. 7 Cfr, Corte Cost., 08.11.1995 n. 487, consultabile al seguente link: http://www.giurcost.org/decisioni/1995/0487s-95.htm.

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propri interessi, si potrebbe dire a costo della condotta agevolatrice, che talora, di per sé, può costituire un motivo per l’accrescimento dei vantaggi del soggetto agevolatore”. Con questa argomentazione i giudici sottolineano come la linea di discrimine tra l’economia lecita e la “zona grigia” degli interessi criminali è molto labile e sfumata e, perciò, ai fini dell’applicazione del provvedimento sospensivo occorre restringere il campo valutativo all’accertamento di un unico elemento oggettivo, ovvero la strumentalità della condotta agevolativa di una data attività economica e gli interessi di soggetti mafiosi e di uno soggettivo, ossia la consapevolezza da parte di chi ha agito per l’impresa “della qualità del soggetto agevolato e dei fini che si propone”. Il Tribunale ha altresì osservato come il provvedimento sospensivo non possa estendersi indistintamente a tutto il patrimonio riconducibile direttamente o indirettamente ad un soggetto, dovendo bensì riguardare esclusivamente “quelle determinate attività economiche che agevolano interessi criminali”: ne consegue che, a titolo esemplificativo, “non potrà essere accolta una richiesta di sospensione temporanea nei confronti di una persona giuridica fondata sull’unico presupposto che il suo legale rappresentante è soggetto che, con altre attività economiche, ha agevolato il sodalizio”8. Va segnalato tuttavia come il linguaggio utilizzato e le modalità applicative dell’istituto risentano dell’epoca in cui sono state introdotte, tenuto conto che il legislatore del 1992 aveva come soggetto di riferimento principale le persone fisiche e non le persone giuridiche; si tratta evidentemente di limiti a cui la giurisprudenza è stata in grado di rimediare solo in parte, limiti che il legislatore, pur avendone avuto l’occasione, ha rinunciato a colmare nel 2011 con l’emanazione del Codice antimafia. 4. Il provvedimento di revoca della misura cautelare

Con decreto del 23 settembre 2011, dopo poco più di cinque mesi dall’emanazione, il Tribunale di Milano ha disposto la pura e semplice revoca del 8

Costantino Visconti, cit., p. 4.

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provvedimento sospensivo dall’amministrazione, ritenendo che “la procedura abbia raggiunto il suo scopo” ossia quello di “sterilizzare” la società e la sua attività dalle infiltrazioni mafiose. In particolare è stato riscontrato come “il nuovo corso impartito dalla società al proprio metodo organizzativo possa già in questo momento comportare una tranquillizzante prospettiva sul venire meno di quelle pesanti infiltrazioni che avevano motivato l’adozione del provvedimento”. Le operazioni poste in essere concretamente dalla multinazionale sono state il licenziamento non solo dei dirigenti direttamente coinvolti ma anche di quei soggetti che, in ragione della loro posizione di garanzia, avrebbero dovuto controllare i sottoposti, e, in fine, l’adozione di un modello di organizzazione ex d. lgs. 231/2001. 5. Osservazioni conclusive

L’episodio che si è brevemente accennato ha consentito di mettere in rilievo la duttilità ed efficacia dell’istituto della sospensione dall’amministrazione il quale, operando come un vero e proprio bisturi, è stato in grado di agire selettivamente nelle attività economiche prese in considerazione, in particolare qualora si tratti di organizzazioni aziendali che fanno capo a gruppi imprenditoriali di grande complessità. Certamente lodevole è altresì l’intento perseguito di colpire il “portafoglio dei mafiosi” salvaguardando al contempo l’attività economica della società e il conseguente aspetto occupazionale; non solo, nella vicenda qui esaminata il mondo della prevenzione giudiziaria e quello della prevenzione aziendale sono entrati in contatto e hanno interagito al fine di fortificare il “sistema immunitario” della società, prevenendo possibili ricadute dell’impresa9. Non resta che sperare che il modello di intervento giudiziario contro le infiltrazioni mafiose nel mondo imprenditoriale che si sta affermando a Milano si estenda anche alle altre realtà territoriali e trovi appoggio nelle 9

Costantino Visconti, cit., p. 6.

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associazioni imprenditoriali nazionali che, con le loro politiche, possono sollecitare le aziende ad adottare modelli di organizzazione efficaci e in grado di sostenere la sfida della prevenzione antimafia.

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DIRITTO TRIBUTARIO

l’alligatore 45


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L’imposta patrimoniale: un dibattito aperto Francesca Gaveglio Le recenti vicende finanziarie, relative ai titoli di stato italiani, hanno fatto emergere chiaramente la situazione di crisi da indebitamento in cui versa il nostro Paese, per molto tempo rimasta latente. Per far fronte all’aumento della spesa pubblica, si è ricorsi, come mezzo di finanziamento, al debito. Attraverso l’emissione di titoli di debito sovrano, lo Stato italiano scambia liquidità contro titoli che danno un rendimento. Per remunerarli però, chiede altri prestiti, generando così un circolo vizioso che semina sfiducia nei creditori riguardo alla capacità dell’Italia di onorare i propri debiti. Per rendere ancora i nostri titoli appetibili sul mercato, si ricorre all’aumento del loro rendimento: così si spiega il famoso spread. Ora, per uscire dall’ impasse, da un lato si può intervenire per contrastare la formazione di nuovo debito. Da qui il ritorno in auge dell’art. 81 Cost. e il dibattito sull’introduzione dell’obbligo di pareggio del bilancio pubblico, sulla spinta delle nuove politiche europee. Dall’altro vi è la necessità di procurare allo Stato nuove entrate e ciò avviene attraverso la tassazione. A livello europeo di propone una tassa sulle transazioni finanziarie, la Tobin tax1. Inoltre, si discute sulla la possibile introduzione di una imposta patrimoniale. Possibilità che per alcuni diventa necessità, nella nostra attuale situazione economica, per dare ossigeno alle casse dello stato. Osteggiata invece da altri, in particolare economisti2, che vedono nella crescita e nell’aumento del PIL la chiave della ripresa: dato come indice della crisi il rapporto tra debito e PIL, a nulla varrebbe diminuire il debito attraverso l’aumento delle entrate se queste sono ottenute con misure che, depauperando gli italiani, comportano la conseguente diminuzione dei consumi e degli investimenti in attività produttive. Il tema è vivo sia sul fronte politico, sia su quello economico, tanto che risulta difficile prescindere dalle relative considerazioni. Nondimeno l’ar1 La Tobin Tax dovrebbe entrare in vigore nel territorio europeo dal 1.1.2014 e dovrebbe essere applicata quando almeno una delle parti ha sede in un Paese Ue ed è un’istituzione finanziaria ( banche, istituti di credito, o asscurativi, fondi comuni d’investimento, fondi pensioni, e, in generale, società che nascono con lo scopo di concludere una o diverse transazioni finanziarie) 2 A.Alesina e F.Giavazzi in Corriere della sera, 19 settembre 2011 e 14 novembre 2011; G. Tabellini in Sole 24 Ore, 18 settembre 2011; A. Penati in Repubblica, 29 gennaio 2011; F. Debenetti in Sole 24 Ore, 25 settembre 2011

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ticolo si propone di indagare, nel panorama giuridico, come si sia giunti a ipotizzare e legittimare un’imposta sul patrimonio, le sue giustificazioni teoriche e i suoi effetti nella realtà attuale, distinguendo tra imposta straordinaria o ordinaria.

Qualsiasi discorso giuridico in materia tributaria non può che partire dal riferimento all’art. 53 della Costituzione, che esprime il principio di capacità contributiva3. L’obbligo contributivo , deriva, invece, dal combinato disposto con l’art. 2 Cost., che sancisce il dovere di solidarietà. In base alla riserva di legge, inoltre, il tributo può essere definito quale prestazione pecuniaria imposta in forza di una legge, avente come presupposto un fatto rivelatore di capacità economica e come scopo il finanziamento della spesa pubblica. Per questo tradizionalmente il legislatore sceglie come presupposto d’imposta il reddito, fatto direttamente espressivo di capacità contributiva per eccellenza. A fronte però della evoluzione nella nozione di capacità contributiva elaborata nel tempo dalla Corte Costituzionale4, si ritiene oggi ammissibile che presupposto sia il patrimonio, nelle sue tre consistenze: immobiliare, finanziario e aziendale.

Ogni dubbio è stato risolto, peraltro, dalla sentenza 111/1997 in materia di ICI5, con cui la Consulta ha sancito la legittimità costituzionale dell’imposta patrimoniale. Le principali questioni di legittimità sollevate riguardavano la violazione dell’art. 3 (principio di uguaglianza) e dell’art. 53 (principio di capacità contributiva). In primo luogo infatti si lamentava il fatto che l’ICI colpisse solo beni immobiliari e non anche quelli mobiliari, comportando una disparità di trattamento tra i cittadini in base alla composizione del loro patrimonio. La questione è stata giudicata infondata, considerando l’ampia discrezionalità riservata al legislatore in relazione alle varie finalità

3 Art. 53 Cost: «Tutti sono tenuti a concorrere alle pubbliche spese in ragione della loro capacità contributiva». Sul principio di capacità contributiva vedi F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario 1 parte generale, Utet, undicesima edizione 2011 4 Nella giurisprudenza della Corte Costituzionale si può riscontrare infatti una evoluzione del concetto di capacità contributiva progressivamente meno rigoroso:essa fu ravvisata dapprima solamente in un presupposto direttamente capace di rivelarla, poi nell’idoneità soggettiva di far fronte al dovere tributario, da ultimo in qualsiasi fatto economico discrezionalmente scelto dal legislatore nei limiti della non arbitrarietà (sent 156/2001 che legittima l’irap). 5 Imposta comunale sugli immobili, istituita con D.lgs. 504/1992

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dell’attività impositiva; discrezionalità che gli consente, nei limiti della non arbitrarietà, «di determinare i singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione d’imposta, può essere desunta da qualsiasi indice rivelatore di ricchezza». In secondo luogo si lamentava che la base imponibile del tributo fosse individuata nel valore lordo dei beni, senza tenere conto delle eventuali passività che il proprietario abbia dovuto contrarre per acquistare o costruire gli immobili tassati, così da colpire un indice meramente fittizio di ricchezza. Ma tale disposizione non viola il principio di capacità contributiva sia perché non colpisce solo i proprietari (ma coloro che godono del bene), sia perché tali passività afferiscono non all’immobile, ma al patrimonio generale del soggetto che le sopporta. Infatti dalla legge tributaria nasce un’obbligazione cui il soggetto è tenuto con tutto il suo patrimonio (art. 2740 cod.civ.). Questa sentenza della Corte Costituzionale giunge a conclusione di un precedente dibattito, avvenuto negli anni ’80. Parte della dottrina già auspicava l’introduzione di un’imposta patrimoniale in un sistema caratterizzato dalla crisi dell’imposizione progressiva sul reddito, gravante sui soliti noti e incapace di placare il costante aumento del debito pubblico. Ne era voce Franco Gallo6 , che vedeva nella patrimoniale uno strumento di perequazione e di redistribuzione del carico fiscale. Da un lato infatti il possesso di un patrimonio, per la forza economica in esso intrinseca, manifesta una capacità contributiva maggiore rispetto a quella di chi ha solo reddito. Dall’altro, tale specie di imposta realizzerebbe una discriminazione qualitativa a favore dei redditi minori (da lavoro), contro “la ricchezza statica tenuta oziosa non collegata di per sé all’esercizio di un attività produttiva”. Altri vantaggi della patrimoniale sono riscontrati nell’ampliamento della base imponibile e nella conseguente possibilità di un alleggerimento della tassazione sui redditi. L’efficacia di tale imposta è però rimessa da Gallo alla ricorrenza di più condizioni: un diverso assetto complessivo dell’ordinamento fiscale, una coerente struttura del nuovo tributo, un ampliamento e riqualificazione dei poteri accertativi e soprattutto una diversa volontà politica, che voglia seriamente affrontare la questione del debito pubblico senza farla ricadere sulle generazioni future. “Ma fino a quando è possibile procedere in questo modo, senza arrecare pregiudizi irreversibili al sistema?”. La domanda di Gallo è terribilmente attuale e forse qualcuno avrebbe dovuto porsela prima. La menzionata sentenza 111/1997 non ha però chiuso la questione, alme-

6 F.Gallo “Premesse per l’introduzione di un’imposta patrimoniale” in Riv. Dir. Fin., 1986, I, 234

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no non per tutto e non per tutti. Riconosciuto ormai il patrimonio come indice autonomo di capacità contributiva, Marello7 ritiene importante analizzare quali siano i limiti costituzionali di questa forma di prelievo. E lo fa a partire da una riflessione, nuovamente, sul ruolo della ridistribuzione della ricchezza nel sistema tributario. Quando i malfunzionamenti del mercato comportano una ingiusta distribuzione della ricchezza, si può pensare di ridistribuirla equamente mediante l’imposizione fiscale. In relazione a questa, si pone l’esigenza di bilanciare rispetto delle libertà fondamentali e giustizia distributiva. Per Friedman8 imposizione che abbia solo fini redistributivi è in contrasto con il principio di libertà. Questo perché l’imposizione risulterebbe mera privazione, mentre la cooperazione sociale deve essere strumento per ripartire non solo costi ma anche benefici, cosicché ognuno possa trarre giovamento dalla presenza delle istituzioni. È quindi necessario fissare un limite all’imposizione, che garantisca al singolo che una quota della sua ricchezza sia assolutamente intangibile al fisco. Tale limite eviterebbe anche l’abuso del potere da parte della maggioranza politica che voglia spogliare la minoranza per trasferimenti a favore di de stessa.9

Nell’imposizione patrimoniale sono dunque certamente riconoscibili una funzione ridistributiva e di ampliamento della base imponibile, rilevanti in un’ottica di giustizia fiscale. Ma cio’ non rende tale tributo democratico in sé. A riguardo sono chiarificatrici le parole di Luigi Einaudi10, secondo il quale è sempre democratica l’imposta proporzionale al reddito o patrimonio. Riprendendo un interrogativo dello stesso Einaudi, nell’ipotesi dell’introduzione di un’imposta patrimoniale straordinaria, è forse equo che a pagarla sia “la vedova con quattro figli da mantenere agli studi” che possiede buoni del tesoro e non il professionista con un reddito elevato ma privo di patrimonio? Certamente, no, e ciò convince che il problema non è l’imposta patrimoniale, ma il modo in cui questa è regolata. 7 Nota alla sentenza 111/97 “ Sui limiti costituzionali dell’imposizione patrimoniale”, in Giur. it., 1997, I, 447 8 M.Friedman, Capitalism and freedom, Chicago, 1962,174 9 Morello ricostruisce anche il contenuto quantitativo del limite all’imposizione a partire dai parametri costituzionali: deve essere intangibile al fisco non solo il minimo vitale per il soddisfacimento dei proprio bisogni personali, ma anche per quelli della propria famiglia (art. 36 Cost.) e un quantum di ricchezza che possa essere scambiato affinchè il singolo possa svolgere attività di mercato (art 42 Cost. che garantisce proprietà privata e l’esistenza del mercato) 10 L.Einaudi, L’imposta patrimoniale, 1946,Chiarelettere 2011

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Einaudi scrive nel 1946, alla fine della guerra, e si interroga sull’opportunità di introdurre un’imposta patrimoniale straordinaria, una tantum, in tempi di crisi. Egli mette a confronto l’imposta sul reddito e quella sul patrimonio. Reddito e patrimonio sono due facce della stessa medaglia: il primo è un flusso di entrate nelle casse del contribuente, il secondo è reddito consolidato e capitalizzato dal mercato. Esistono peraltro capitali senza reddito (o che si concretizza in godimento e non in denaro) e redditi senza capitale(redditi di lavoro), rispetto ai quali il legislatore dovrà apportare i necessari adattamenti. Dunque, di regola, l’imposta sull’uno si risolve automaticamente in un’imposta sull’altro. Riguardo al tributo patrimoniale, Einaudi sfata falsi miti e mette in luce i limiti e le controindicazioni.11 Nonostante ciò, attribuisce alla patrimoniale un compito importante: ricreare la fiducia del contribuente, chiamato a questo sforzo per sanare la crisi, ma che- d’ora in poi -sarà tenuto alle sole imposte ordinarie da lui stesso approvate mediante i suoi rappresentanti in parlamento. Il problema è che “in Italia nessuno crede, nemmanco a scuoiarlo vivo,che le imposte possano in futuro diminuire”12. La patrimoniale darebbe ai cittadini questa speranza, in quanto espressione di una nuova volontà politica. Infatti “affinché i contribuenti siano onesti, fa d’uopo anzitutto sia onesto lo stato”.13Anche Einaudi però ammette l’introduzione di tale tributo a condizioni stringenti: diminuzione dell’ imposta sul reddito e accertamento della base imponibile a una data determinata. E’ invece contrario a tassare periodicamente gli incrementi patrimoniali realizzati e maturati, con la giustificazione che quell’arricchimento deriva presumibilmente dal mancato pagamento dell’imposta sul reddito. È un non senso creare nuove imposte perché quelle già in vigore non vengono applicate. Una critica ricorrente è che la patrimoniale incorrerebbe nel divieto di doppia imposizione: l’acquisto di una cosa o di un valore mobiliare avviene mediante il risparmio del reddito già sottoposto a tassazione. In un sistema in cui le leggi fossero correttamente applicate, tale contrasto potrebbe essere superato, come è stato proposto da alcuni, attraverso la detrazione di quanto pagato in veste di patrimoniale dall’imposta sul redditi. In un sistema invece caratterizzato una forte evasione e in cui molti redditi

11 L’imposta patrimoniale dice una bugia: esprimendosi come percentuale del capitale, inganna sulla possibilità di pagare un imposta che sia in realtà superiore all’intero reddito percepito del contribuente in quell’anno. 12 L. Einaudi, op.cit., pag.29 13 L. Einaudi, op.cit., pag. 39

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sfuggono al fisco, un’imposta sul patrimonio, allargando la base imponibile, consentirebbe di riportarli a tassazione. Bisogna quindi essere consapevoli che l’esigenza dell’ introduzione di questo tributo straordinario, seppur forse a conti fatti necessaria e opportuna, nasce da una patologia e non esclusivamente da considerazione di maggior efficienza tecnica. Poggiano invece sulla fisiologia del meccanismo di imposizione fiscale, le considerazioni riguardo all’introduzione di imposte patrimoniali ordinarie, nel quadro di riforme a lungo termine che le prevedano come misure alternative (e non aggiuntive) a quelle sul reddito.

Per concludere, non dimentichiamo di contestualizzare: i tempi di Einaudi erano diversi dai nostri. Partendo da queste considerazioni, l’economista Giavazzi intitola la prefazione de L’imposta patrimoniale “Perché non oggi” e sostiene che una tale misura non sarebbe efficace oggigiorno. Essa sortirebbe gli stessi effetti ottenuti con le privatizzazioni degli anni ’90: riduzione di buon dieci punti del debito pubblico, beneficio che ci “siamo mangiati nel decennio successivo”. Darebbe una falsa impressione di riequilibrio e stabilità, portando i politici a ritardare le riforme immediatamente necessarie. Provando a prescindere però dalle capacità della nostra classe politica, è evidente che in un momento di difficoltà, un’imposta patrimoniale straordinaria garantirebbe allo stato denaro fresco dai suoi stessi azionisti, ovvero i cittadini. Con quali effetti? Si auspica che consenta di appropriarsi di ricchezza improduttiva non investita, per convertirla in occupazione e sviluppo, sostenendo così la ripresa economica. Einaudi stesso la proponeva come soluzione ponte per sollevare il paese dalla crisi del dopoguerra. D’altronde, con un Paese sull’orlo del default, sembra più probabile che l’effetto benefico consista nell’assestamento dei conti pubblici: minore esigenza di finanziarsi sul mercato e di indebitarsi, riduzione della pressione sullo spread e, di conseguenza, maggiore stabilità delle finanze pubbliche e private.

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Focus

l’avvocato e il Suo ruolo

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Riflessioni sulla deontologia forense La moralità dell’avvocato nel doppio ruolo difensore-testimone Anna Ferrari Figlio: “Papà, il tuo lavoro potrebbe farlo chiunque?” Padre (lobbista per una multinazionale del tabacco): “No, perché richiede una moralità flessibile che manca alla maggior parte delle persone” Figlio: “Io ho una moralità flessibile?” Padre: “Beh, diciamo che diventi un avvocato e ti chiedono di difendere un assassino. Anzi, peggio: un assassino di bambini. Ora, la legge dice che tutti hanno diritto ad un giusto processo. Tu lo difendi?” Figlio: “Non lo so. Penso che tutti abbiano diritto ad essere difesi” Padre. “Sì, esatto”1. Come è noto, la Costituzione italiana sancisce all’art. 24, comma 2, il diritto di difesa come “inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. L’art.111 stabilisce anche il diritto ad un giusto processo che si deve svolgere tra le parti in condizione di parità. Sulla base di queste norme chiunque ha diritto ad essere difeso in giudizio da un avvocato che perori la sua causa. Tale diritto è tanto forte, nel nostro ordinamento come in altri, da garantire un difensore d’ufficio anche alla parte che non ne abbia nominato uno di fiducia o ne sia rimasta priva per qualsiasi motivo. Tutti siamo tutelati, senza eccezioni; anche chi sia palesemente in torto e persino la persona sulla cui innocenza ci sia ben poco da dubitare. Pensiamo ai casi più estremi: un imprenditore senza scrupoli che, pur di riuscire ad aumentare il proprio profitto, abbia intenzionalmente trascurato le disposizioni di sicurezza per i suoi dipendenti, magari al punto da sacrificare la loro vita. Oppure ad un assassino autore di uno o più delitti efferati. O, ancora, ad un mafioso. Anche per questi soggetti, verso i quali il giudizio della comunità non può che essere quantomeno negativo, deve essere assicurata la difesa. D’altra parte, la professione dell’avvocato consiste proprio nel difendere le persone e in linea di principio non dovrebbe incidere chi esse siano. Senza dimenticare che, in fondo, anche un avvocato potrebbe avere “un mutuo da pagare”, cioè anch’egli è animato da un’ottica di guadagno. Non

1 Dialogo tratto dal film “Thank you for smoking”, USA, 2005. Video disponibile al seguente indirizzo: http://www.youtube.com/watch?v=5e4FDZ1kMis

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è da escludere però che nel caso specifico un avvocato si trovi a vivere un conflitto etico e morale. Potrebbe, infatti, farsi degli scrupoli sulla propria capacità di sostenere delle ragioni in cui non crede e magari, nelle situazioni più gravi, di difendere un soggetto verso il quale egli stesso prova ribrezzo. Che cosa succede allora se non se la sente di accettare l’incarico? Oppure se, dopo averlo accettato, si accorge di non poter continuare il proprio compito e arriva addirittura a testimoniare contro il proprio cliente? Sono domande che chiunque studi Giurisprudenza si sarà posto almeno una volta. Nel primo caso, la parte non rischierà di rimanere senza difesa perché esiste, come si è già accennato, la figura del difensore d’ufficio. I consigli dell’ordine forense stilano infatti appositi elenchi di patroni a disposizione con i loro turni di reperibilità. Il rifiuto della difesa d’ufficio è possibile, ma qualora non sia giustificato, sarà configurabile una violazione disciplinare di cui è competente in via esclusiva il consiglio dell’ordine. Nel secondo caso, pensiamo all’ipotesi in cui un avvocato si trovi a colloquio con il proprio assistito e in tale circostanza venga a conoscenza di certe informazioni o fatti che non gli permettano, a motivo dei propri principi e valori, di proseguire nel suo ufficio. La soluzione c’è: potrà rinunciare al mandato2. Per quanto riguarda invece la testimonianza dell’avvocato, siamo certamente di fronte ad una situazione di incompatibilità: come può l’avvocato essere difensore e testimone? Vedremo che esiste questa possibilità, ma a determinate condizioni e con le relative conseguenze. Esistono, infatti, dei limiti che derivano da una relazione con i fatti oggetto del procedimento impeditivi dell’assunzione dell’ufficio di testimone3. L’art. 197 co.1 lett. d) del codice di procedura penale afferma che determinate categorie di soggetti non possono essere assunte come testimoni, tra le quali il difensore in relazione ai fatti appresi nel corso delle indagini difensive4. Tale incompatibilità è giustificata dall’esigenza di assicurare uno svolgimento sereno delle funzioni anche ai fini dell’efficienza processuale ed è confer2 anche se la rinuncia rimane inoperante fino a quando la parte non venga assistita da un nuovo difensore, con conseguenti problemi relativi all’efficacia della difesa in tale lasso di tempo.

3 M. PISANI, A. MOLARI, V. PERCHINUNNO, P. CORSO, O. DOMINIONI, A. GAITO, G. SPANGHER, Manuale di procedura penale, MONDUZZI EDITORE, ottava edizione (2008)., p. 232. 4 Così l’art.197 co.1 lett d) c.p.p. : Non possono essere assunti come testimoni…il difensore che abbia svolto attività di investigazione difensiva.

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mata dal successivo art. 200 c.p.p. che conferisce agli avvocati, in forza del segreto professionale, la facoltà di astenersi dal testimoniare su quanto abbiano conosciuto per ragione del loro ufficio o professione. Ciò vale anche nei processi civili, in quanto l’art. 249 del codice di procedura civile in materia di facoltà di astensione dei testimoni richiama espressamente l’art. 200 c.p.p. Tuttavia una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 16151 dell’8 luglio 2010, ha fatto maggiore chiarezza sulla questione5. La Cassazione ha dichiarato che “in base alla normativa processuale, non può affermarsi che sussista incompatibilità (salva la rilevanza della condotta sul piano delle regole deontologiche) tra le funzioni di teste e di difensore in capo allo stesso soggetto, qualora esse siano esplicate in fasi o gradi diversi dello stesso processo, purchè non contestualmente e a condizione che sia già cessata l’una o l’altra”. L’avvocato quindi dovrà senza dubbio rinunciare al mandato e potrà così testimoniare6, ma solo in un grado del processo diverso da quello in cui è stato difensore. Quanto è stato detto fin qui vale tanto in sede civile quanto in sede penale. Nell’ultimo caso peraltro la questione è stata portata all’attenzione della Corte Costituzionale (ordinanza n. 433/2001). La Corte ha tenuto conto che “la linea di tendenza generale del legislatore è nel senso di prevedere come eccezionali le ipotesi di incompatibilità assoluta ad assumere l’ufficio di testimone nel processo penale”. In riferimento al processo civile, è interessante notare che è anche possibile il contrario, cioè che un avvocato che abbia reso testimonianza in un processo, in una fase in cui non svolgeva il suo ruolo di difensore costituito, possa successivamente assumere la veste di difensore. Diverso è il problema della valutazione dell’interesse alla causa. Sempre secondo la Corte di Cassazione s.16151/2010, “l’interesse che determina l’incapacità a testimoniare di cui all’art.246 c.p.c7 si identifica con il solo interesse giuridico personale, concreto ed attuale, che comporta una legittimazione principale a proporre l’azione, ovvero ad una legittimazione se5 http://www.avvocatoandreani.it/news-giuridiche/notizia. php?cassazione-avvocato-puo-essere-difensore-testimone-nello-stesso-giudizioma-in-gradi-diversi 6 Codice Deontologico Forense Art. 58 II. Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo. 7 L’art.246 c.p.c. così dispone: Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio.

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condaria ad intervenire in un giudizio già proposto da altri cointeressati”. La compatibilità di funzioni così ammessa trova un correttivo nel principio del libero convincimento del giudice e nel suo dovere di valutare “con prudente apprezzamento”8 e spirito critico la deposizione di ogni testimone che non sia immune dal sospetto di interesse all’esito della causa. Il punto centrale della sentenza consiste quindi nella non contestualità dei due ruoli. La Corte ha, inoltre, sottolineato più volte che il problema non si presta ad essere disciplinato in termini assoluti ed astratti all’interno dei codici di procedura civile e penale, ma attiene alla sfera della deontologia professionale. A seguito della testimonianza del difensore potrebbe dunque derivare una sanzione disciplinare in base al Codice Deontologico Forense (C.D.F.), come conseguenza della violazione dei doveri di probità e lealtà9, correttezza e soprattutto di segretezza e riservatezza in esso stabiliti. Il C.D.F prevede all’art.58 che “per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto”, anche se ammette la sua testimonianza secondo le modalità già analizzate. La ratio sta, ancora una volta, nel dovere di segretezza e riservatezza, rubricato all’art.9 C.D.F., che nella prospettiva dell’avvocato costituisce tanto un obbligo quanto un diritto, tanto è vero che esiste la già ricordata facoltà di astensione dalla testimonianza. Dal lato del cliente, corrisponde (sempre nell’ottica deontologica) ad un diritto soggettivo, configurabile come diritto fondamentale. La finalità di queste norme è quella di proteggere l’esistenza di un particolare rapporto fiduciario tra avvocato e parte assistita, la quale deve poter confidare nel proprio difensore e parlargli liberamente, senza la paura di vedersi “tradita”. In ragione di ciò, l’avvocato che nello stesso processo rivesta prima il ruolo di difensore di una parte e poi si presenti a testimoniare in favore della parte avversa e contro il proprio cliente, su circostanza appresa per di più a motivo del proprio mandato, pone in essere un comportamento lesivo dei doveri professionali. A nulla rileva la circostanza che la testimonianza corrisponda al vero10. Le sanzioni disciplinari, previste all’art. 40 della legge professionale forense (R.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578), sono cinque: 8 9 10

1) l’avvertimento, che consiste nel richiamare il colpevole alla sua Art.116 c.p.c. Espressi anche all’art. 88 c.p.c. http://www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=1406

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mancanza commessa e nell’esortarlo a non ricadervi, ed è dato con lettera del Presidente del Consiglio dell’Ordine; la censura, che è una dichiarazione formale della mancanza commessa e del biasimo incorso; la sospensione dall’esercizio della professione per un tempo non inferiore a due mesi e non maggiore di un anno11; la cancellazione dall’albo; La radiazione dall’albo.

Spetta al Consiglio Nazionale Forense il compito di scegliere quella più rispondente alla gravità e alla natura dell’offesa arrecata al prestigio dell’ordine professionale. Il Consiglio infatti vigila sul rispetto che l’iscritto all’albo deve mantenere nei confronti delle regole del gruppo12. In conclusione in questo articolo si è ricostruito come le fonti (costituzionali e legali), la giurisprudenza e la disciplina deontologica abbiano cercato di bilanciare i doveri di segretezza legati alla professione, funzionali alla tutela del diritto di difesa, e la facoltà del difensore di disattenderli per rimanere fedele alla propria coscienza. Una scelta comunque non facile, perlomeno per chi non sia dotato di una moralità estremamente flessibile.

11 Salvo quanto è stabilito nell’art.43, in cui si prevedono casi particolari di sospensione che comportano una durata diversa da quella di cui all’art.43, n.3. 12 In tal modo si assicura l’indipendenza della classe forense da qualsiasi supremazia diversa dalla legge. Vedi anche www.altalex.com/index. php?idnot=4236

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Il processo alle Br: imputati o accusatori? Arianna Jacqmin “Ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’organizzazione comunista Brigate Rosse e come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata, presente e futura. Affermando questo viene meno qualunque presupposto legale per questo processo; gli imputati non hanno niente da cui difendersi. Mentre al contrario gli accusatori, hanno da difendere la pratica criminale, antiproletaria dell’infame regime che essi rappresentano. Se difensori dunque devono esservi, questi servono a voi egregie eccellenze. Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò ai nostri avvocati il mandato per la difesa, e li invitiamo, nel caso fossero nominati di ufficio, a rifiutare ogni collaborazione con il potere. Con questo atto intendiamo riportare lo scontro sul terreno reale e per questo lanciamo alle avanguardie rivoluzionarie la parola d’ordine: portare l’attacco al cuore dello stato”. 17 maggio 1976-Corte d’Assise di Torino. Inizia così il famoso “processo alle B.R.”, che vede coinvolti 46 imputati, accusati di reato di banda armata volta alla soppressione violenta degli ordinamenti politici, economici e sociali dello Stato Italiano. Quel processo che è stato definito impossibile, che non conosce precedenti, contro la paura o, addirittura, il primo processo speciale. Ciò che per la prima volta accade è che l’imputato si dichiari responsabile, non colpevole, del capo d’imputazione rivoltogli, che rifiuti di doversi difendere e che revochi il mandato dell’avvocato d’ufficio. Gli imputati protagonisti, tra cui Renato Curcio, Alberto Franceschini e Prospero Gallinari, si fanno portavoce del pensiero delle Br ed esprimono nei loro comunicati un’interpretazione inaudita del processo in corso: questo sarebbe funzionale a un’esigenza primaria della borghesia, quella di colpire una tendenza storica, la lotta armata per il Comunismo. L’obiettivo dei brigatisti, sul fronte opposto, è invece quello di mettere in discussione il regime capitalista, minando alla radice, nei palazzi di giustizia, e facendo così inceppare i meccanismi repressivi dello Stato imperialista. Le forze rivoluzionarie tendono infatti a disarticolare lo Stato nei suoi centri vitali, partendo dall’attacco ai suoi apparati direttamente coercitivi, ovvero ai tribunali. In questo processo i ruoli si capovolgono: gli “imputati” si fanno accusatori del regime; al contrario gli “accusatori” devono difen-

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dere la pratica criminale antiproletaria che essi rappresentano. Se difensori dunque devono esservi, questi servono allo Stato. Di conseguenza, qualsiasi avvocato che accetti di esercitare la difesa dei brigatisti, impostagli d’ufficio, sarà da costoro ritenuto “collaborazionista”, o meglio “avvocato di Regime”. Queste parole suscitano lo sdegno e la paura di molti: ben 210 difensori d’ufficio tentano di sottrarsi al dovere di difesa opponendo l’incompatibilità con i propri clienti, scaturita dall’essere divenuti parte lesa, e 134 cittadini, per timore di rivendicazioni personali, rifiutano l’incarico nella giuria popolare. L’atteggiamento imprevisto degli imputati e le conseguenti reazioni dei difensori portano a consistenti rallentamenti del processo. Eppure, al contrario di quanto possa apparire, l’intento delle Br non è quello di trovare diversivi tattici per rinviare la sentenza, ma quello di far emergere la debolezza e lo stato confusionale e lacunoso del sistema stesso che li accusa. E riescono nell’intento: in due anni lo “Stato di diritto” cerca di imporre difensori non voluti, emanare leggi speciali, dare avvio a processi speciali e trovare qualsiasi stratagemma per porre fine al processo, che si protrae con estrema lentezza e fatica. Il Presidente della Corte Guido Barbaro, dopo innumerevoli rifiuti del mandato di difesa, incarica della difesa d’uffico il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Torino, il civilista Fulvio Croce, che accetta l’incarico. Ne pagherà le conseguenze con la morte il 28 aprile 1977, assassinato dal corpo delle Br. Durante il processo le autorità giudiziarie e politiche, ma anche la stampa, danno avvio a un lungo dibattito sul tema del difensore imposto, ovvero dell’autodifesa. Per la legge italiana del tempo (art.130 c.p.p.) era obbligatorio che ogni imputato avesse un avvocato e che il difensore d’ufficio, qualora non ve ne fossero di fiducia, non potesse rifiutare l’incarico (se non per giustificato motivo). L’esigenza del difensore si fondava sull’intenzione liberale di questa figura, quale “mandatario della società nell’interesse della salvezza dell’innocenza”, contrapposta all’altrettanto giusta funzione del pubblico accusatore; nel contesto del processo alle Br, però, quello che originariamente era concepito come diritto soggettivo pubblico sembra trasformarsi in un obbligo: diventa il diritto dello Stato di imporre all’individuo una specifica forma di giustizia. Eppure la Convenzione Europea del 1950 si esprime diversamente in materia: l’imputato ha diritto a difendersi da sé o ad avere l’assistenza di un difensore; l’autodifesa è dunque consentita in caso di contrasto inconciliabile con il proprio avvocato e qualora sia la sola via a garantire il contraddittorio. Inoltre il principio

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di autodifesa sembra conciliarsi con gli articoli 24 (diritto alla difesa) e 21 (libertà di espressione del proprio pensiero) della Costituzione italiana. Difesa per un imputato, secondo gli avvocati d’ufficio di questo processo, non significa soltanto facoltà di discolparsi o invocare attenuanti, ma anche, più semplicemente, svolgere un ruolo processuale; e quindi anche confessare, dichiararsi colpevole, o accusare, dichiarare legittimo il proprio comportamento e, dunque, anche rifiutare di discolparsi. Ma tutte queste ragioni non bastano alla Corte, presso cui si solleva la questione di legittimità costituzionale: l’autodifesa è un’attività parallela e autonoma rispetto a quella congiunta e tecnica degli avvocati, con la quale, anzi, è coincidente e armonizzata. Il difensore diventa quindi un semplice “tecnico”, un garante del rispetto delle norme processuali, anche perché non gli è consentito un ruolo di intesa con il proprio assistito, che lo deride, lo insulta o lo minaccia. A ciò si aggiunge il fatto che, in questo caso, il difensore sembra esercitare un servizio di pubblica necessità, per un interesse superiore nazionale di giustizia.

Nondimeno gli imputati rivendicano il diritto di difendersi da soli sia sul piano tecnico-giuridico, sia su quello intellettuale. Pertanto rifiutano la mediazione politica dell’avvocato, anche perché la ritengono tale da abbassare di tono il loro ruolo. L’insistenza con cui si vuole invece imporre un difensore, quale terreno di contatto tra rivoluzionari e controrivoluzionari, fa inevitabilmente emergere la natura politica del processo. Così nella dichiarazione di alcuni avvocati di fiducia: tra gli imputati e la corte si scava un solco che nessuna difesa potrà più colmare. È un processo politico e lo dimostra lo stato d’assedio in cui si trova questo tribunale e questa città. Oggi il processo è contro questi imputati. Domani i giudici potranno essere a loro volta giudicati: la storia cambia i ruoli. Le regole del gioco “accusatoriaccusati” non vengono più rispettate; rifiutando la difesa gli imputati danno inizio a un processo di rottura, rivendicando la politicità di ogni loro azione. Ciò a cui puntano i brigatisti è testimoniare una posizione politica e lo fanno con lo strumento del processo. Lasciar loro la libertà di esprimersi autonomamente in aula significherebbe ammettere la validità delle loro idee socio-istituzionali quale mezzo di difesa, ma tutto ciò risolverebbe il processo in un puro ed evidente contrasto tra due posizioni ideologiche differenti: quella statale, cioè quella delle forze politiche governanti, contro quella dei rivoluzionari, sovversivi del sistema statale capitalistico. Gli imputati si appellano al principio per cui “la rivoluzione non può essere processata”, perché, in caso contrario,

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si reprimerebbe una forza ideologica con un mezzo giuridico e si negherebbe in modo palese la libertà di espressione del proprio pensiero, anche di quello politico. Ma ciò che gli imputati trascurano è il fatto che una “rivoluzione” può essere definita tale solo a posteriori, quando è vincente, cioè solo quando si constata un effettivo cambiamento nella vita sociale. Fino a quel momento qualsiasi atto eversivo del sistema vigente, seppur mosso da altrettanto validi ideali, può essere considerato solo un’azione di sommossa che nega l’ordinamento giuridico vigente e che da questo è dunque processata. Insomma questo processo diventa espressivo di come la politica si serva parzialmente del diritto per esercitare la propria forza nei confronti degli avversari, riducendoli al silenzio. Ma, d’altronde, come scrisse un giornalista del tempo, quale regime può ammettere una parità tra chi lo impersona e lo difende e chi vuole distruggerlo?(La Stampa, A.C. Jemolo). Il primo soggetto può punire il secondo per la sua diversità ideologica o impedirgli di esprimersi, ma non può processarlo per questo, in un sistema di libertà di pensiero. Potrà processarlo esclusivamente per i reati di criminalità comune che ha commesso, però in questo modo verrà snaturata la figura del militante rivoluzionario, ponendolo al di fuori dell’organizzazione combattente e della lotta armata per il comunismo. Ma a riprova della “politicità” del processo è la condanna proprio per aver costituito “un’associazione”, volta alla distruzione degli ordinamenti politici, economici e sociali dello Stato Italiano. Imporre agli imputati un difensore d’ufficio con ruolo “tecnico” significa metterli a tacere sul piano politico e prescindere dalle ragioni ideologiche che li hanno portati a compiere determinati atti di violenza. Molti obiettarono che la difesa tecnica, quale osservanza formale del rito processuale, assolse una funzione di copertura ipocrita, a pregiudizio degli interessi degli accusati. Infatti, se le istituzioni impongono all’avvocato una rappresentanza meramente formale dell’imputato, ossia fittizia o repressiva, violano con ciò il diritto alla difesa, patrimonio esclusivo della libertà di coscienza dell’individuo. Consentendo una tale iniquità, civile, politica, dietro l’alibi di un falso tecnicismo giuridico, non si difendono le istituzioni democratiche e liberali. L’avvocato difensore è certamente collaboratore della Giustizia, ma solo in quanto si oppone alla pretesa punitiva dello Stato, nell’interesse esclusivo dell’imputato. Con lui stabilisce un rapporto diretto, supportato dalla volontà in coscienza di difendere e di essere difeso. Una linea di opportunità politica può esigere che si porti a termine un processo e allora basta

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che questo abbia l’apparenza di regolarità e che ci sia un difensore, magari volontario e magari ostile in cuor suo agli imputati, insomma non un vero difensore. Ma così si darebbe ragione a chi sosteneva di combattere uno Stato solo apparentemente democratico ma nella sostanza ingiusto e repressivo. Il ruolo di avvocato sembra qui degradato: non potendo conferire con il suo assistito, che lo rifiuta, non può elaborare nessuna strategia difensiva che sia supportata da dati. Quale apporto difensivo può dunque dare l’avvocato che, in questo processo, è deriso e minacciato dal proprio cliente? E ancora: in nome di chi o di che cosa difende il suo assistito? In nome delle istituzioni e contro l’imputato?

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Tra giudizio e pregiudizio Una breve lettura de Lo Straniero di Camus Alberto Mario Olivari Albert Camus nacque nel 1913 da una modesta famiglia in Algeria, colonia francese politicamente problematica, e morì nel 1960 schiantandosi su una Facel Vega guidata dal suo editore, Michel Gallimard. Scrisse di tutto: opere teatrali, saggi e romanzi. Pubblicato nel 1942, quindici anni prima della vittoria del Nobel, Lo Straniero è senza dubbio il suo testo più celebre. E’ un romanzo breve, scritto in prima persona, strutturato in frasi altrettanto brevi e nette, in pieno stile hemingwaiano. L’incipit ne è un chiaro esempio: “Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so”. Questa frase è pronunciata dal protagonista Meursault, impiegato taciturno e decisamente poco ambizioso, che viene accusato di omicidio. Egli è un uomo schivo, tendenzialmente pigro, sempre indifferente a ciò che gli succede intorno. Ma perché il titolo, perché straniero? In seguito all’omicidio di un algerino, Meursault viene arrestato, accusato, processato e condannato a morte. Tuttavia le arringhe del P.M. non vertono tanto sull’omicidio in sé, sulle prove, sull’arma del delitto, sulle testimonianze, quanto sulla reazione agli eventi, sullo stato d’animo del “mostro morale” Meursault, il quale, appena dopo il funerale di sua madre si reca al mare per trascorrere uno spensierato pomeriggio tra la spiaggia ed il cinema in compagnia dell’amante Maria. Meursault non vive il lutto, non lo sente, non piange, non si strappa i capelli e non si dispera. Egli osserva gli avvenimenti, anche le proprie azioni, come se non ne stesse effettivamente prendendo parte. Tutto gli passa sopra: qualsiasi cosa si faccia o si dica lo lascia impassibile. Per lui niente ha una particolare importanza; non ha certezze, speranze o illusioni. Risponde “Non so” o “E’ lo stesso” a tutte le domande rivoltegli. Vive il presente, e lo descrive, senza preoccuparsi del futuro, senza spiegarlo o spiegarselo: succede e basta. Come ha scritto Sartre “ogni frase”, dello Straniero, “è un presente”1. Meursault non si pone mai il problema del “dopo”: non ha piani, non ha ambizioni, non ha progetti: vive nel qui ed ora. Camus, fin dalla Seconda Guerra Mondiale, durante la quale scriveva per la rivista Combat, si è sempre messo in discussione. L’uomo in rivolta, il cui motto è “mi rivolto quindi sono” è l’immagine antitetica dell’atteggiamento del protagonista de Lo Straniero, remissivo e accondiscendente. Meur1

J.-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura, Il Saggiatore, 1960, pag.222

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sault non agisce, tace e osserva. Non risponde alle accuse semplicemente perché non gli piace parlare, perché non ha niente da dire. Vive il processo come se tutto dovesse finire il giorno stesso, senza preoccuparsi per la sua sorte nel futuro. Per lui l’oggi e il domani si equivalgono: esistono dei momenti, che sono sempre il presente, e nient’altro. “Ogni vivente nasce senza ragione, si protrae per debolezza e muore per combinazione”2. E’proprio questo che la giuria non capisce, è proprio per questo che lui è straniero. Scrisse Ovidio “Barbarus hic ego sum quia non intelligor illis”3. Per loro sono un barbaro perché non mi capiscono. Questo è il punto. Nessuno riesce ad immedesimarsi in una persona tanto estranea alle consuetudini sociali, così priva di emotività, insensibile, sterile come il deserto algerino. E tale assenza di sentimenti funge da aggravante. Egli viene percepito diverso, inumano, non solo assassino ma anche “mostro morale”. Come mai non piange davanti al corpo della madre? Come riesce ad avere la forze di incontrare la sua amante? Come può rimanere imperturbabile innanzi alla accuse rivoltegli? Perché tace; perché non agisce; perché non reagisce? E’ questo che non viene compreso, non tanto l’ omicidio. Ed è forse questa la situazione paradossale che rispecchia l’assurdo de Il Mito di Sisifo. Camus si sentiva algerino in Algeria, ma veniva visto come francese; e si sentiva algerino in Francia, ove era considerato straniero. L’estraneità di Meursault è di tutt’altra foggia: non solo è inserito in una comunità che non ne riconosce i comportamenti, ma egli è un estraneo anche per se stesso. “Persino da un banco di imputato è sempre interessante sentir parlare di sé”4. Vive al di fuori della propria identità, ammette di non avere l’abitudine di interrogarsi, come se la vita non valesse la pena di essere vissuta. E ciò non può essere accettato. Ciò è assurdo. L’inutilità della vita, la casualità, l’assoluta contingenza, è una verità che infastidisce, un dato di fatto che nessuno ha intenzione di ammettere. Camus è convinto che si viva solo per abitudine, trascinandosi tra un evento e l’altro. “Ciò che si chiama ragione di vivere è allo stesso tempo un’eccellente ragione di morire”5. Meursault incarna questo pessimismo, lo porta tatuato sulla fronte. La giuria lo capisce, lo vede e non lo vuole vedere più, se ne vuole sbarazza-

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J.-P. Sartre, La nausea, Einaudi, 1990, pag. 180 Ovidio, Tristia, X, v. 37 A.Camus, Lo straniero, Bompiani, 2001,pag.122 A. Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 2001, pag. 8

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re: lo condanna. Chi mi pone di fronte ad una verità scomoda, l’evidenza dell’universale condizione umana, va eliminato. Ricordate il mito della caverna? L’assurdo è proprio questo: il rapporto umano col mondo, l’insanabile dualismo tra la finitezza dell’esistenza e la speranza dell’eternità; tra gli sforzi per vivere e l’inutilità della vita; la morte, il caso, le mille verità. L’assurdo è anche l’incomprensione: com’è possibile che il mio simile non mi capisca, nonostante si appartenga entrambi alla specie umana? La mia condizione non è anche la sua? Ecco cos’è L’Etranger: la tragedia di un uomo che non ama la vita, giudicato non per ciò che ha commesso ma per ciò che è.

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