L'Alligatore-anno1_numero1

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L’Alligatore La Rivista degli studenti di giurisprudenza della Statale di Milano

Editoriale

Anno 1 Numero 1 Dicembre 2009

Questa che state sfogliando è una rivista scritta dagli studenti della Facoltà di Giurisprudenza della Statale

di Milano. La Rivista si propone di diventare lo strumento di divulgazione all’interno dell’Università delle questioni più attuali del dibattito giuridico nazionale e internazionale. L’intenzione è infatti quella di dare vita ad un dibattito critico e ben argomentato all’interno della nostra Università. Uno spazio in più. Il modello a cui ci ispiriamo è quello anglosassone e nello specifico a quel sistema molto costruttivo che vede un’ interazione tra studenti e professori (ricercatori, dottorandi). Infatti i nostri precedenti sono le student legal review come l’“Harvard Law Review”. Ecco la novità quindi: l’iniziativa editoriale è studentesca ma agli studenti è data l’opportunità di integrare i propri articoli tramite la collaborazione dei professori a cui gli studenti possono chiedere consigli, riferimenti, eventuali riletture. Ne nasce così un prodotto alternativo a quelli che potrebbero essere i classici “giornalini universitari” di spiccato taglio giornalistico. La nostra è una rivista degli studenti su tematiche di interesse giuridico scritte con un taglio necessariamente settoriale ma non spiccatamente “accademico”. Una via di mezzo quindi tra i suddetti giornalini e le riviste specializzate di settore. La scelta del nome ne è l’emblema: un nome tra il serio e il faceto che rimanda alle riviste studentesche. Ma vediamo i contenuti.In questo numero ci siamo concentrati principalmente su quella che fino a qualche tempo fa era la questione di dritto più calda: Il Lodo Alfano. Vi sono, però, anche altri articoli – come quello sulla separazione delle carriere – slegati dalla tematica principale, ma al tempo stesso di interesse generale vista la loro attualità. Nel raccogliere e distribuire gli argomenti ci siamo accorti però che il criterio della tematicità è molto difficile da realizzare, quindi abbiamo pensato ad un sistema alternativo. Intendiamo formare dei sottogruppi macrotematici tra gli studenti interessati (Pubblico-Amministrativo, Civile-Lavoro-Commerciale, Internazionale-Comunitario, Penale) che lavorino autonomamente nel reperire i temi più attuali e nello scrivere gli articoli. Quindi la rivista si aggiornerebbe dal basso a partire dall’iniziativa editoriale dei singoli studenti interessati. Gli articoli mano a mano che vengono scritti verranno pubblicati sul sito della rivista www.lalligatore.org e solo successivamente a cadenza trimestrale verranno scelti e pubblicati in versione cartacea e distribuiti in Università. La redazione si preoccupa poi di vagliare gli articoli che riceve cercando di “cassare” il meno possibile, anzi spronando affinché gli articoli migliorino; così intendiamo respingere gli articoli solo per evidenti errori di diritto ma senza entrare nel merito qualora le tesi fossero ben argomentate e sostenute. Consideriamo questo numero come il primo passo per la realizzazione di un progetto sicuramente impegnativo, allo stesso tempo siamo consci che per quanto ambiziosi e interessati rimaniamo pur sempre studenti. Buona lettura,

Rocco Steffenoni Eduardo Parisi Sandro Parziale Daniele Rucco


Redazione: - Rocco Steffenoni - Eduardo Parisi - Sandro Parziale - Daniele Rucco

Hanno collaborato in questo numero: - Fabio Chiovini - Marco Fasola - Andrea PidalĂ - Francesca Prati - Marcello Storzini - Giorgia Testoni - Fabio Vecchi

www.lalligatore.org

Ventitre


INDICE Introduzione • PAGINA 2 - “Il diritto come professione” di Marcello Storzini

Focus: la questione del c.d. “Lodo Alfano” (l.124/08) • PAGINA 4 - “Lodo Alfano: aspetti problematici di una sospensione particolare” di Eduardo Parisi • PAGINA 6 - “Lodo Alfano: la Corte ha smentito se stessa?” di Sandro Parziale • PAGINA 8 - “Lodo Alfano: la Corte e un suo scomodo precedente” di Rocco Steffenoni • PAGINA 10 - “Lodo Alfano: le prerogative costituzionali e il principio di uguaglianza” di Francesca Prati e Giorgia Testoni • PAGINA 12 - “Presidente del Consiglio dei ministri: il suo ruolo nel sistema” di Andrea Pidalà • PAGINA 14 - “Immunità: Un’analisi comparata” di Fabio Chiovini Diritto Costituzionale (Parlamentare) • PAGINA 17 - “Considerazioni (inattuali) in tema di verifica dei poteri in relazione alla sentenza 259/09” di Fabio Vecchi Ordinamento Giudiziario • PAGINA 20 - “La separazione delle carriere ha un senso giuridico, oppure politico?” di Daniele Rucco

Il riferimento normativo: Legge 23 luglio 2008, n. 124 (c.d. Lodo Alfano) “Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato “ Art. 1. 1. Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione. 2. L’imputato o il suo difensore munito di procura speciale può rinunciare in ogni momento alla sospensione. 3. La sospensione non impedisce al giudice, ove ne ricorrano i presupposti, di provvedere, ai sensi degli articoli 392 e 467 del codice di procedura penale, per l’assunzione delle prove non rinviabili. 4. Si applicano le disposizioni dell’articolo 159 del codice penale. 5. La sospensione opera per l’intera durata della carica o della funzione e non è reiterabile, salvo il caso di nuova nomina nel corso della stessa legislatura né si applica in caso di successiva investitura in altra delle cariche o delle funzioni. 6. Nel caso di sospensione, non si applica la disposizione dell’articolo 75, comma 3, del codice di procedura penale. Quando la parte civile trasferisce l’azione in sede civile, i termini per comparire, di cui all’articolo 163-bis del codice di procedura civile, sono ridotti alla metà, e il giudice fissa l’ordine di trattazione delle cause dando precedenza al processo relativo all’azione trasferita. 7. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche ai processi penali in corso, in ogni fase, stato o grado, alla data di entrata in vigore della presente legge. 8. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Uno


Il diritto come professione

Di Marcello Storzini

“Mi offro di provare, sulle opere dei nostri storici, che ogniqualvolta l’uomo di scienza esprime il suo proprio giudizio di valore, cessa la piena comprensione dei fatti”

Con queste parole Max Weber descriveva il mestiere dello scienziato.

La tradizionale divisione tra ‘fatti’ e ‘valori’ risale a Hume ed è un insegnamento saldamente acquisito dagli specialisti di ogni disciplina scientifica. Il metodo scientifico infatti consiste nel superamento dei punti di vista particolari dei ricercatori per arrivare a delle conoscenze comuni ‘oggettive’. Lo straripamento di un pregiudizio personale nel campo di indagine è dannoso tanto quanto uno strumento di rilevazione difettoso e quindi è da evitare in ogni modo. Tuttavia Weber rileva come l’intera attività dello scienziato non sfugga ad almeno una scelta iniziale. Ogni azione umana è inevitabilmente dotata di un ‘senso’ e contiene un giudizio di valore positivo sui fini cui è diretta. La scelta di una professione intellettuale non fa eccezione e, data la grande importanza di una decisione che influenzerà il resto della propria vita, comporta la piena adesione ai principi che la ispirano. Nel nostro caso dobbiamo chiederci che senso abbia la professione del giurista. Al di là della mera ricerca di un mestiere economicamente remunerativo, perché una ragazza o un ragazzo dovrebbero scegliere di iscriversi a legge? Se consideriamo che tipo di lavoro tale scelta comporti, vedremo che l’uomo di diritto ha come unico obiettivo l’applicazione di un insieme di norme e regole. Questo processo logico-formale è applicato con diverso rigore a seconda della figura professionale rivestita: per un magistrato è il fine unico e fondamentale, mentre per un avvocato è un mezzo utile solo fin quando coincida con gli interessi del suo cliente. Ma, tralasciando queste ovvie distinzioni, possiamo dire tranquillamente che la giurisprudenza nella sua conoscenza ‘pura’ del diritto rappresenti una scienza, e che nella sua applicazione concreta sia una ‘tecnica’. Passando alla questione del ‘senso’, appare evidente come l’insieme artificiale di regole con cui un avvocato opera quotidianamente sia stato ideato per uno scopo preciso: il rifiuto della violenza. Il diritto deve privare il cittadino della possibilità di farsi giustizia da sé nelle sue controversie, affidandole a degli organi terzi e imparziali. Dietro questa scelta potremmo cercare molteplici obiettivi politici: la ricerca di ordine e stabilità sociale da parte delle classi dominanti, oppure la tutela dei più deboli e di chi non ha la forza per difendersi da sé (e non è detto che l’uno escluda l’altro). Ma indiscutibilmente rappresenta una scelta di civiltà. Qualsiasi giurista, per quanto privo di interesse per la politica e per la vita pubblica, abbraccia questa causa ideale dal momento in cui decide di diventare un uomo di legge. Appena smette di valutare il suo operato e l’ambiente in cui lavora alla luce di questo obiettivo, viene meno al senso stesso del suo mestiere. Una scelta lecita, ovviamente. Ma faccio fatica a capire come si possa provare interesse per un lavoro arido e difficile come quello del giurista senza cercarvi un’utilità che vada oltre al proprio interesse personale. Una riflessione del genere non è superflua se consideriamo che, pur essendo la culla del diritto romano e moderno e pur possedendo una costituzione invidiata da tutto il mondo, l’Italia ha il sistema giudiziario più lento e inefficiente di tutto l’occidente. A chi dobbiamo attribuire questa anomalia: agli economisti, agli ingegneri, alla malasorte? O piuttosto a noi stessi? Dubito che questa mancanza derivi da una preparazione giuridica incompleta o carente: sono invece convinto che sia da attribuire alla scarsa coscienza del nostro ruolo nella società. Due


Infatti, a differenza delle altre figure professionali il giurista non è mai solo uno scienziato e un tecnico nella sua disciplina. Un fisico non può cambiare le leggi con cui lavora, mentre un giurista può: la differenza è abissale. Grazie al loro preponderante ruolo all’interno della vita politica e istituzionale, gli esperti di diritto hanno un’influenza notevole sull’indirizzo dell’attività legislativa. È quindi nostro potere e dovere far sì che l’intero sistema risponda a criteri di razionalità e organizzazione. Una giustizia civile lenta e difettosa, danneggia lavoratori e piccoli imprenditori che vedono frustrati i propri diritti e sono costretti ad arrendersi alla legge del più forte; una giustizia penale debole e inefficace favorisce la criminalità, diffondendo un dannosissimo senso di impunità e indebolendo la fiducia dei cittadini nel valore del rispetto delle regole. Per cambiare questa situazione indegna, è necessario anche un cambiamento di mentalità all’interno delle nostre facoltà. Dovremmo prestare una maggior attenzione alla realtà concreta e operativa del diritto e alla riflessione critica. Invece, da quanto ho avuto modo di vedere nella mia esperienza universitaria, i docenti preferiscono rimanere in un mondo astratto e irreale. Forse temono di prendere posizione in un dibattito pubblico e di essere accusati di fare politica, ma il loro silenzio fa più danni di quanti ne risolva. Un vivo dibattito accademico è una condizione indispensabile per rendere migliore la nostra disciplina e per dare il nostro contributo al benessere della comunità. In questo senso, l’inaugurazione di questo giornale mi sembra un buon segno. Un altro profilo critico della posizione del giurista come ‘scienziato’ deriva dalla sua partecipazione all’attività politica in generale. Se consideriamo che il principio di legalità comporta un massiccio ricorso all’attività legislativa e quindi la partecipazione di giuristi ad ogni attività istituzionale, vediamo come la divisione tra fatti e valori tenda a sfumare e come l’uomo di legge sia spinto a esprimere dei giudizi personali prendendo le vesti del legislatore. Alla luce di quanto detto l’unica soluzione saggia sembra quella di non confondere attività scientifica e attività politica. Per il giurista che ricopra incarichi all’interno delle istituzioni o che svolga attività in un partito, tale distinzione è superflua oltre che impraticabile. Ma non si può dire lo stesso per gli tutti gli altri, impegnati nella vita culturale della società, nell’insegnamento e persino nella propria vita privata. Un giurista non dovrebbe mai confondere le due sfere e far ben presente quando parli per conto dell’una e quando per conto dell’altra. Infatti a differenza di quanto esprima come privato cittadino, ciò che dice come ‘esperto’ di diritto guadagna un peso e un’autorità di cui non deve abusare. In questa veste i suoi unici obiettivi devono essere l’onestà e la chiarezza. In qualsiasi discussione pubblica dovrebbe prima di tutto giudicare se i mezzi giuridici scelti per conseguire uno scopo politico siano adeguati e quali siano le conseguenze, rimandando a un momento successivo il proprio giudizio su tale motivazione politica. Tale condotta potrebbe rinnovare il prestigio della nostra professione e diventa tanto più necessaria se pensiamo a quanto sia scadente oggi il livello qualitativo dell’informazione e della discussione pubblica.

Tre


Lodo Alfano: aspetti problematici di una sospensione “particolare” Di Eduardo Parisi

In ottobre la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della Legge 23 luglio 2008, n.

124, meglio nota come Lodo Alfano, considerando non legittima l’introduzione nel nostro ordinamento di prerogative costituzionali con legge ordinaria. Gli argomenti che hanno portato la Consulta a censurare la norma sono chiari e coerenti con i principi fondamentali del nostro ordinamento. Eppure, analizzando le motivazioni della sentenza, sembra ci sia ancora un nodo da sciogliere: se una sospensione processuale come quella prevista dal Lodo Alfano fosse stata introdotta con legge costituzionale, sarebbe legittima? E quale potrebbe essere la sua ratio? Per rispondere a tale quesito è necessario chiarire innanzitutto la natura dell’istituto della “sospensione”. La legge in questione prevede che, salvo i casi di reati commessi nell’esercizio delle proprie funzioni, i processi penali nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato sono sospesi dalla data di assunzione dell’incarico e fino alla cessazione della carica o della funzione. Come chiarito nella recente sentenza dall’Alta Corte, tale sospensione presenta i caratteri di una prerogativa costituzionale, un istituto, cioè, diretto a tutelare la funzionalità degli organi costituzionali attraverso la protezione dei titolari delle cariche ad essi connesse. La fattispecie di prerogativa che stiamo analizzando, tuttavia, presenta caratteri peculiari e, per alcuni versi, anomali rispetto alle figure simili presenti in Costituzione. In primo luogo, come si evince dal primo enunciato della norma, la sospensione è prevista per i reati commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni dell’imputato: da questo punto di vista, dunque, l’istituto presenta i caratteri di un’immunità extrafunzionale. In secondo luogo, essa è applicabile indistintamente a qualsiasi tipo di processo e per qualsiasi reato, anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione. Mutuando una terminologia utilizzata dalla Corte Costituzionale in occasione della censura del Lodo Schifani1, si può affermare che la prerogativa introdotta sia “generale”. Una terza caratteristica della sospensione è la sua non reiterabilità; elemento, questo, coerente con la natura dell’istituto, e che fa trapelare il tentativo messo in atto dall’odierno legislatore di risolvere i problemi costituzionali prospettati dal Lodo del 2003. Infine, l’aspetto di sicuro più singolare della norma che stiamo esaminando è costituito dalla possibilità concessa all’imputato di rinunciare alla sospensione in ogni momento. Tale carattere è stato probabilmente introdotto dagli autori della norma al fine risolvere un particolare problema presentato dall’immunità contenuta nel Lodo Schifani: la sua “automaticità”. La Consulta aveva infatti rilevato l’incostituzionalità di una sospensione operante sempre, “senza alcun filtro, quale che sia l’imputazione ed in qualsiasi momento dell’iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti”. Eppure, la soluzione trovata dal legislatore per il Lodo Alfano crea non poche incongruenze e fa propendere per una risposta negativa al primo quesito che ci siamo posti, se cioè tale sospensione sia ammissibile nel nostro ordinamento. Ciò risulta evidente se si analizzano le prerogative già esistenti nella nostra Costituzione: per ciascuna di esse è previsto un organo terzo e neutrale che ha il compito di valutare la situazione concreta e di decidere se applicare o meno la sospensione processuale (la Camera di appartenenza per i Parlamentari, l’organo giudiziario per i Ministri della Repubblica, ecc.). Al contrario, il Lodo Alfano prevede che sia il singolo destinatario della sospensione a scegliere se avvalersi o meno dello scudo processuale, quale che sia il capo di imputazione ovvero la carica ricoperta dallo stesso. Inoltre, una prerogativa costituzionale non può essere rinunciabile, in quanto essa è connessa intimamente alla carica che il soggetto tutelato ricopre, avendo come destinatario l’organo protetto e non il suo titolare. Proprio quest’ultima argomentazione ha permesso ai sostenitori del Lodo di sostenere che la sospensione in questione non fosse neanche una prerogativa costituzionale, bensì una concreta attuazione del diritto alla difesa delle alte cariche dello Stato, costantemente impedite a comparire nel processo penale a causa dei loro impegni istituzionali. 1 Sent. Cost. 20 gennaio 2004, n. 24 Quattro


E tuttavia, anche questa tesi è stata sapientemente confutata dalla Corte Costituzionale, con argomentazioni che sarebbe arduo ricapitolare in questa sede. Rimane ora da chiedersi quale potrebbe essere la ratio di una sospensione processuale come quella prevista dal Lodo Alfano, considerando, in particolare, la prerogativa prevista per il Presidente del Consiglio. Sicuramente l’esigenza di tutelare la funzionalità dell’organo protetto. Come più volte ripetuto dal nostro Premier “Non è possibile governare bene il paese se si passa tutto il tempo nelle aule di giustizia”. L’affermazione non è priva di valore giuridico: in effetti, la garanzia dell’esercizio della funzione di organi costituzionali è prevista nel nostro ordinamento come giustificazione possibile della deroga al regime giurisdizionale comune. Perché, al contrario, il governo ne è escluso? La ragione è storica: la disciplina dell’immunità è nata per tutelare i deputati contro le possibili persecuzioni da parte del potere esecutivo. I nostri padri costituenti, quando nel 1948 introdussero nella Carta questo istituto, ebbero come scopo quello di mettere al riparo il giovane parlamento repubblicano da una magistratura ancora molto legata al regime. Eppure, nel 2009, la situazione è completamente mutata da allora, e l’introduzione di una prerogativa costituzionale che tuteli il titolare dell’organo esecutivo non sembrerebbe del tutto incompatibile con i principi del nostro ordinamento. Ciò è confermato da una sempre più cospicua dottrina, secondo la quale la “Costituzione formale” (il testo della Carta vigente), sarebbe superata dalla “Costituzione materiale”, vale a dire dalla prassi costituzionale. Secondo questi autori, in Italia la prassi andrebbe verso una trasformazione della nostra forma di governo da un Parlamentarismo classico a un Premierato di stampo inglese o francese, il che giustificherebbe l’introduzione di una tutela forte del Presidente del Consiglio. Un’operazione del genere dovrebbe, tuttavia, comportare un ripensamento di tutto il complesso sistema di contrappesi previsto dalla nostra Costituzione a tutela del bilanciamento dei poteri dello Stato democratico. E questo, come ci ha ricordato la Corte Costituzionale nella sua sentenza, può essere fatto solo con un ampio consenso fra le parti politiche, e non a colpi di maggioranza, come invece è stato fatto. Inoltre, c’è da considerare che nella nostra Carta Costituzionale vi è già un’immunità funzionale per il Presidente del Consiglio ed i Ministri ( art. 96 ). Quale giustificazione potrebbe avere, allora, una prerogativa extrafunzionale, che permetta al Premier di turno di non essere processato per alcun tipo di reato, quando neanche il Presidente della Repubblica gode di un simile privilegio? La ragione del Lodo Alfano potrebbe essere individuata nella necessità di tutelare l’autonomia dell’organo esecutivo nei confronti della magistratura. E’ una motivazione che non mi sento di escludere, considerando l’effettiva condizione di dipendenza in cui si trova l’imputato in attesa di giudizio. Tuttavia, anche quest’ultima ratio è incompatibile con la natura della sospensione prevista dal Lodo Alfano, e in particolare con il carattere della rinunciabilità. E’ innegabile, infatti, che, nel caso in cui il Presidente del Consiglio rinunciasse alla sospensione, l’autonomia dell’organo di cui egli è titolare cesserebbe di essere tutelata. Proprio per questo motivo mi è impossibile pensare che la vera giustificazione del Lodo sia quella che è stata è stata dichiarata dal partito che ha presentato la legge in Parlamento, ossia il tentativo di risolvere alcuni delicati aspetti costituzionali di bilanciamento dei poteri. Se così fosse stato, la legge non avrebbe presentato così tanti aspetti dubbi e si sarebbe concentrata sulla soluzione del problema prospettato. Al contrario, ciò che emerge dal testo della norma è solo la cura certosina con cui il legislatore ha tentato di risolvere i problemi lasciati aperti dal Lodo Schifani, al fine di evitare una seconda censura da parte della Corte Costituzionale. Per fortuna, è andata diversamente.

Cinque


Lodo Alfano: la Corte ha smentito se stessa? Di Sandro Parziale

La Corte Costituzionale, nelle recenti polemiche sulla sentenza 262 del 2009, è stata accusata di avere

smentito se stessa perché ha dichiarato l’incostituzionalità della legge 124 del 2008 – meglio conosciuta come “lodo Alfano” – per violazione degli artt. 3 e 138 della Costituzione, quando nella precedente sentenza sul “lodo Schifani” non venivano utilizzati tali parametri. Ci limiteremo in questa sede ad analizzare il rapporto tra le due normative e le due relative pronunce di illegittimità costituzionale, in relazione all’articolo 138. La Corte, brevemente, sostiene che la disciplina contenuta nel lodo Alfano introduce una nuova prerogativa consistente nella sospensione dei processi penali per le quattro più alte cariche dello Stato, creando una disparità di trattamento non sorretta da un ragionevole motivo. Se si osserva la disciplina costituzionale (artt. 68, 90 e 96 Cost.) di tale prerogativa non c’è traccia. Si sarebbe pertanto dovuto introdurla con legge costituzionale votata con il procedimento aggravato previsto dall’articolo 138: non con semplice legge ordinaria come invece è avvenuto. Coloro che criticano la decisione della Corte sostengono invece che la questione relativa all’articolo 138, essendo la forma dell’atto un «punto logicamente e giuridicamente pregiudiziale della decisione», doveva ritenersi già scrutinata ed implicitamente rigettata dalla Corte con la sentenza 24 del 2004. In tale occasione infatti la Corte sorvolò sul problema della forma, per scendere all’esame di profili sostanziali ad esso logicamente conseguenti. La critica non è, a parere di chi scrive, giuridicamente fondata. In primo luogo perché la Corte nella sentenza 24 del 2004 non si è esplicitamente pronunciata sull’idoneità della legge ordinaria ad introdurre la prerogativa. In nessun punto viene esaminata né tantomeno risolta la questione. In secondo luogo le due normative censurate sono molto differenti fra loro, specialmente per la diversa natura della sospensione prevista e gli effetti sull’eventuale processo civile. La disciplina del lodo Schifani – che prevedeva una sospensione generale, automatica e di durata non determinata – poneva seri problemi di legittimità costituzionale in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Problemi sostanziali che la Corte ha ritenuto prioritari su ogni altra questione, ivi compresa quella della forma dell’atto, la quale non viene dunque risolta nemmeno implicitamente. Lo sottolinea la stessa Corte, che in riferimento alla sentenza 24 del 2004 «ha privilegiato l’esame dei fondamentali profili di uguaglianza e ragionevolezza [...]lasciando così impregiudicata la questione riferita all’art.138 Cost.». La Corte specifica inoltre che «l’accoglimento di una qualunque delle questioni, comportando la caducazione della disposizione, è [...]idoneo a definire l’intero giudizio di costituzionalità e non implica alcuna pronuncia nelle altre questioni». La diversità tra le due normative è confermata anche dal fatto che la Corte rigetta la questione, pur prospettata dal giudice remittente, circa la violazione del “giudicato costituzionale” da parte del lodo Alfano, per avere nella sostanza riproposto la stessa disciplina contenuta nel Lodo Schifani. Sottolinea infatti la sent. 269 del 2009 che con il lodo Alfano «il legislatore ha introdotto significative novità normative quali ad esempio la rinunciabilità e la non reiterabilità della sospensione dei processi penali», non violando così il giudicato costituzionale sul tema. Riassumendo, da un lato ci troviamo di fronte a due discipline differenti valutabili quindi sotto diversi parametri costituzionali; dall’altro la questione relativa all’art. 138 Cost. – e quindi alla forma che tale disciplina deve avere – rimane impregiudicata nella sentenza 24 del 2004, non risolta né esplicitamene né implicitamente. Forse la Corte avrebbe dovuto precisare subito che la nuova prerogativa necessitava di una legge costituzionale. A mio avviso però i giudici costituzionali sono stati cauti sul punto per due ragioni. In primo luogo non bisogna dimenticarsi che la Corte viene investita della questione in via incidentale. La risposta della Corte dipende in buona parte dalla domanda che il giudice del processo a quo le pone: nel caso del lodo Schifani la discussione era incentrata sui problemi sostanziali posti dalla normativa, ovvero la violazione del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e del diritto di difesa (art. 24 Cost.). Centrale, per il lodo Alfano, era invece l’introduzione di un nuovo tipo di prerogativa non contemplato dal sistema costituzionale e il problema se tale prerogativa necessitasse di una legge costituzionale. Sei


In secondo luogo va sottolineata la delicatezza della questione: entrambe le discipline introducevano una sorta di privilegio per i titolari delle Alte cariche. . Non ci occuperemo qui dell’ammissibilità in generale di questo privilegio, ma ci limitiamo a dire che, se proprio deve essere introdotto, è bene che siano definiti con certezza, ancor prima dei limiti formali, quelli sostanziali entro cui può considerarsi legittimo. Ragionando per assurdo, se la Corte avesse bocciato il lodo Schifani semplicemente richiedendo per esso una legge costituzionale ci sarebbe stato il rischio di una riproposizione della normativa, con la forma indicata, che avrebbe trascinato con sé i vizi sostanziali presenti al suo interno. Se è vero che un controllo di legittimità è possibile anche sulle leggi costituzionali, è altrettanto vero che questo è soggetto a limiti maggiori ed il sospetto di un’ingerenza dei giudici della Corte nelle scelte discrezionali del legislatore sarebbe stato ancor più elevato. In conclusione chi scrive ritiene che l’operato della Corte Costituzionale sulla questione dell’articolo 138 Cost. non sia criticabile giuridicamente, perché la Corte sul tema, nella sentenza 24 del 2004, non ha risposto esplicitamente o implicitamente né tantomeno era obbligata a rispondervi. Le critiche possono essere ritenute quantomeno comprensibili circa l’opportunità di risolvere per prima la questione della forma. Tenendo però conto delle osservazioni esposte sopra e sottolineando la delicatezza del problema, concernente gli equilibri fra il potere giudiziario ed il potere politico (in particolare il potere esecutivo e il Presidente del Consiglio, che ne è il coordinatore). La delicatezza della questione è confermata dalle polemiche dai toni spesso accesi che hanno seguito la bocciatura del lodo Alfano. È bene cercare di smorzarle compiendo analisi più approfondite della vicenda, come in questa sede si è tentato di fare.

Sette


LODO ALFANO: LA CORTE E UN SUO SCOMODO PRECEDENTE Di Rocco Steffenoni

“Dunque l’automatismo (e la generalizzazione dei reati) restano e non si vede come essi siano conciliabili col rispetto dell’art. 3, primo comma, sull’eguale soggezione davanti al giudice del re di Prussia e del cittadino berlinese.” (Leopoldo Elia, “Audizione” sul c.d. lodo Alfano)

Nel corso dell’accesa discussione sulla legittimità costituzionale del Lodo Alfano – la legge ordinaria

di fonte primaria che disponeva la sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato – è stato richiamato alla Corte Costituzionale un suo interessante precedente giurisprudenziale che avrebbe rischiato di “legarla” nella decisione. 1

Il precedente in questione è sorto nel 1983 (sent.148) quando è stata proposta la questione di legittimità dell’art.32-bis della legge l.195/58 (emendata in tal senso nell’ ‘81). Tale legge riguarda le prerogative dei membri del CSM e gli attribuisce a tutt’oggi un’ immunità funzionale di diritto sostanziale. I componenti del Consiglio Superiore della Magistratura – dispone – ‹‹non sono punibili per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, e concernenti l’oggetto della discussione››. Questa norma disciplina una prerogativa che, se solo non fosse disciplinata da una legge ordinaria ma dalla Costituzione o da una Legge Costituzionale, a livello sostanziale e teleologico non sarebbe molto differente da quella che regola l’immunità funzionale dei parlamentari o dei giudici della Corte costituzionale o l’irresponsabilità funzionale del Presidente della Repubblica o la sottoposizione del Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni. Il problema del precedente sorge poiché la Corte in quella situazione similare (immunità disciplinata con legge ordinaria) non pronunciò l’illegittimità della questione sulla base del combinato disposto degli articoli 3 e 138 Cost. come invece poi farà con il Lodo Alfano. Prima di analizzare le motivazioni bisogna però ricordare che il giudice remittente del 1983 non fece riferimento all’art. 138 Cost. come parametro per la decisione e che la Corte si pronuncia sempre nei limiti della questione così come sollevata; e per quanto disponga di alcuni espedienti processuali per allargare l’oggetto della decisione in quella sede non li usò. In questa sede infatti affermò l’infondatezza sulla base di un’ implicta “riserva di legge” presente in Costituzione nella parte in cui disciplina in funzionamento del CSM (artt.105,106,107). Cosicchè la ratio di tale norma si giustificava in tal senso: affinchè il Consiglio svolga efficacemente all’interno del sistema costituzionale quella funzione peculiare di garante dell’autonomia della Magistratura, bisogna che i suoi componenti ‹‹siano liberi di manifestare le loro convinzioni, senza venire in sostanza costretti ad autocensure che minerebbero il buon andamento della Magistratura stessa››. La sentenza del 1983 quindi ha rischiato di costituire un problematico precedente per i giudici della Corte, qualora la sua ratio fosse stata tradita. Tant’è che il giudice remittente del Tribunale di Milano si è preoccupato fin da subito di sminuirne il valore, mentre la difesa dell’imputato ha preferito un’ interpretazione estensiva tale da ritenere che con questa sentenza si fosse affermato un vero e proprio principio di diritto: la legittimazione a disciplinare immunità con legge ordinaria. E quindi a maggior ragione sosteneva la legittimità della “mera” sospensione del Lodo in esame. Infine, la difesa erariale, dal canto suo, ha ripreso il quasi più convincente principio della “tutela del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni inerenti alle alte cariche dello Stato”. 1 Legge 23 luglio 2008, n. 124 Otto


Visto che un’ eventuale condanna penale durante il mandato per una delle alte cariche coperte dal Lodo comporterebbe la decadenza dall’ufficio e una probabile conseguente crisi politica entro la Repubblica. La Corte, a questo punto, nell’argomentare la propria posizione nella parte di diritto della sentenza ha dovuto chiudere la questione. Infatti afferma il principio secondo cui ‹‹il legislatore ordinario, in tema di prerogative può intervenire solo per attuare, sul piano procedimentale, il dettato costituzionale, essendogli preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato››. Ebbene, questa affermazione si inserisce proprio nel precedente del 1983, ma senza stravolgerlo, piuttosto interpretandolo nel senso più conforme a Costituzione: la legge ordinaria è fonte idonea a prevedere un’ immunità, ma solo in considerazione del fatto che quest’ultima trova una precisa copertura costituzionale. La sentenza del 19831 afferma che la prerogativa del CSM a differenza del Lodo Alfano opera in questo senso un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali ‹‹in considerazione del fatto che quest’insindacabilità - visto il circoscritto nesso di funzionalità- trova una precisa copertura costituzionale›› negli artt.105,106 e 107 Cost. Dopo aver analizzato entro il nostro ordinamento queste situazioni – a mio parere – “limite”, sarebbe bene quindi evitare che venga fatto abuso di questa interpretazione che vede la legittima integrazione con legge ordinaria del disposto costituzionale purchè di questo ne vengano rispettati i principi e le finalità. Infatti ritengo che a questa tesi sia decisamente preferibile quella che vede nell’art.138 l’unico strumento per l’integrazione e abrogazione della Carta; specialmente se ad essere intaccato è - come in questo caso - il principio di uguaglianza. Questo in quanto il procedimento aggravato con l’eventuale intervento del popolo tramite referendum garantisce alla Costituzione e ai suoi principi di rimanere condivisi e rappresentativi della volontà programmatica di una Nazione.

1 Già sent.300/84 dove nel rigettare una questione sorta rispetto alla l. 437/66 di ratifica del Protocollo collegato al Trattato di Bruxelles (1965) che disciplinava con legge ordinaria l’immunità dei parlamentari europei affermava: “Ed è appena il caso di rilevare che l’allegato Protocollo, attribuendo ai parlamentari europei immunità e prerogative adeguate a quelle che gli Stati della Comunità concedono ai propri parlamentari, realizza perfettamente tanto le finalità del Trattato quanto quelle dell’art. 11 Cost. proprio perché quelle guarentigie rispondono alla stessa ratio che questa Corte aveva precisato - come sopra si è ricordato - “nell’esigenza di proteggere la sfera di autonomia delle Camere e garantire l’esercizio della funzione parlamentare”.” Nove


LodoAlfano: le prerogative costituzionali e ilprincipio di uguaglianza Di Francesca Prati e Giorgia Testoni

Piero Calamandrei, in un discorso agli studenti di giurisprudenza di Milano del 1955, diceva “la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità”. Garante di questo spirito è la Corte Costituzionale, che anche in occasione della sentenza n. 262 del 2009, dichiarando l’illegittimità costituzionale della legge 23 luglio 2008, n. 124 (“Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato”, c.d. lodo Alfano), in materia di prerogative costituzionali, è intervenuta a difesa dell’equilibrio predisposto dalla Costituzione tra l’esigenza di garantire il sereno svolgimento delle funzioni costituzionali e quella, altrettanto importante, di non comprimere eccessivamente il principio di parità di tutti i cittadini rispetto alla giurisdizione. Il principio di uguaglianza, sancito dall’articolo 3 Cost., è stato preso in considerazione dalla Corte sotto due profili distinti: uguaglianza tra tutti i cittadini e uguaglianza tra i membri degli organi costituzionali e i rispettivi presidenti; in relazione ad entrambi le disposizioni del lodo Alfano sono state considerate illegittime. Il primo profilo su cui è necessario riflettere è quindi quello relativo alla violazione del principio di uguaglianza, inteso come parità di tutti i cittadini di fronte alla legge. La Corte ritiene che la norma sottoposta al suo vaglio costituisca una violazione della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, in quanto lo status protettivo, previsto in capo ai titolari delle quattro più alte cariche dello Stato, al fine di proteggere il sereno svolgimento delle loro funzioni, implica una deroga eccessiva al principio sancito dall’art. 3 Cost. Non vi è dubbio che in virtù dell’attività svolta dai membri degli organi costituzionali esista un’oggettiva differenza tra questi ultimi e gli altri cittadini e che, proprio tenendo conto di ciò, la stessa Costituzione abbia ragionevolmente previsto un sistema di prerogative costituzionali volte a proteggere l’esercizio di tali funzioni (artt. 68, 90 e 96 Cost.). Si è infatti ritenuto opportuno tutelare l’esercizio tanto del potere legislativo quanto di quello esecutivo da eventuali interferenze da parte dell’autorità giudiziaria, che nei confronti dei membri di tali organi può legittimamente intervenire solo a determinate condizioni: per quanto riguarda i procedimenti nei confronti dei parlamentari è necessaria la previa autorizzazione della camera di appartenenza, mentre per i membri del Consiglio dei Ministri è richiesta la previa autorizzazione di Camera o Senato. Dal momento che l’art 3 sancisce un principio fondamentale dell’ordinamento, è da ritenere che possa essere derogato esclusivamente in virtù di un bilanciamento con un altro principio di uguale importanza e tale è senz’altro l’interesse al sereno svolgimento delle funzioni degli organi costituzionali. Esito di tale bilanciamento sono state proprio le prerogative costituzionali, la cui natura è quella di essere istituti “fisiologici al funzionamento dello Stato” e, al tempo stesso, “derogatori rispetto al principio di uguaglianza tra cittadini”. Come in ogni bilanciamento, il confronto operato tra i due principi non può in alcun caso risolversi nel totale annullamento del principio che cede, ma al contrario deve necessariamente tendere al raggiungimento di un equilibrio, in base al quale il primo principio sia sufficientemente tutelato e il secondo subisca la minor compressione possibile. Tutto ciò non è contraddetto dal fatto che il legislatore costituzionale sia intervenuto nel 1993, con legge cost. n. 3, modificando l’art. 68 che originariamente in tema di prerogative parlamentari prevedeva una garanzia più ampia. L’intento della riforma è stato proprio quello di ristabilire il giusto equilibrio tra la necessaria tutela predisposta in favore dei componenti delle camere con l’esigenza altrettanto importante di non restringere eccessivamente la portata del principio di cui all’art.3.

Dieci


In conclusione, ciò che la Corte ha voluto affermare è che la sospensione prevista dal lodo Alfano, “derogatoria rispetto al regime processuale comune, perché si applica solo a favore dei titolari di quattro alte cariche dello Stato, con riferimento ai processi instaurati nei loro confronti, per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi e, in particolare, ai reati extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica.”, rompesse l’equilibrio tra la necessaria garanzia dell’autonomia dei poteri dello Stato e il principio fondamentale della parità di tutti i cittadini rispetto alla giurisdizione, assicurato dalla Costituzione attraverso le dette prerogative, previste esclusivamente in ragione delle funzioni svolte dai componenti degli organi costituzionali. D’altra parte, la posizione assunta in merito alla legge n. 124 del 2008 si pone in assoluta continuità con quanto già chiarito dalla stessa Corte in occasione della sentenza n. 24 del 2004 relativa al c.d. lodo Schifani. In quel caso si era già precisato come la ratio posta a fondamento delle prerogative in questione fosse quella di tutelare l’esercizio delle funzioni costituzionali e non le persone che di volta in volta si trovano a ricoprire tali cariche. Infatti, per quanto riguarda i reati comuni, la “situazione in cui si trovano i membri degli organi costituzionali, ed anche i loro presidenti, è ontologicamente identica a quella di qualsiasi altro cittadino.” Ipotizzando un’eventuale riforma costituzionale che introducesse nel nostro ordinamento la sospensione prevista dal lodo Alfano, ovvero una sospensione indiscriminata di tutti i processi, senza alcuna distinzione in base al tipo di reato imputato, dunque non solo reati economici o finanziari, ma addirittura reati contro la persona come omicidio o violenza sessuale, è necessario chiedersi quali sarebbero le ricadute sul piano pratico. Non verrebbero, forse, troppo compressi il diritto al giudice e quello alla ragionevole durata del processo di coloro che volessero agire in giudizio nei confronti dei titolari delle alte cariche? Non significherebbe ammettere, a livello costituzionale, una deroga sistematica e addirittura automatica – in quanto opererebbe senza che fosse necessaria alcuna valutazione del caso concreto- a diritti fondamentali dell’individuo? Per quanto riguarda il secondo profilo, ossia la violazione del principio di uguaglianza tra presidenti e componenti degli organi cui appartengono, anzitutto è necessario sottolineare come la sentenza della Corte ribadisca la posizione di primus inter pares attribuita dalla Costituzione a ciascun presidente. La motivazione si trova semplicemente nel nostro sistema: le attribuzioni costituzionali spettano all’organo, così la funzione legislativa compete al Parlamento, come quella d’indirizzo politico e amministrativa compete al Governo nella sua interezza. I presidenti, nell’ottica del Costituente, svolgono sicuramente un importante ruolo nel mantenere l’unità degli organi che presiedono e, nel caso del Presidente del Consiglio, un’altrettanto fondamentale funzione di coordinamento e propulsione dell’attività dei ministri. È indubbio, quindi, che sul piano funzionale esista un’oggettiva differenza tra i presidenti e i membri dei rispettivi organi, tuttavia ciò non è sufficiente a comportare una deroga al principio di uguaglianza, visto che la Costituzione nell’attribuzione delle competenze non riconosce alcuna specifica rilevanza ai presidenti. Il dibattito in merito al lodo Alfano si è molto concentrato sulla figura del presidente del consiglio. L’attribuzione della prerogativa prevista dal lodo Alfano a quest’ultimo non può trovare una valida giustificazione nell’attuale legge elettorale in virtù della quale si è creata tra i cittadini l’errata percezione che al Presidente del Consiglio fosse effettivamente attribuita una posizione di preminenza rispetto agli altri ministri e al Parlamento. Proprio perché la legge prevede che nel programma della coalizione sia indicato il nome del candidato alla presidenza in caso di vittoria, si è erroneamente diffusa tra gli elettori l’idea che questo porti a un’investitura popolare diretta del presidente del consiglio. La legge elettorale - legge ordinaria – non ha una portata tale da apportare delle modifiche all’assetto dei poteri predisposto dalla Costituzione, che definisce il nostro sistema come una repubblica parlamentare, dove non si elegge direttamente un leader, bensì una formazione politica. Undici


Inoltre l’articolo 92 della Costituzione prevede che sia il Presidente del Consiglio che i ministri vengano nominati dal Presidente della Repubblica e quindi anche sotto questo profilo non si prospetta alcuna particolare preminenza dell’uno rispetto agli altri. La Corte Costituzionale ribadisce inoltre la concezione tradizionale del Presidente del Consiglio come primo tra i pari facendo riferimento alla disciplina costituzionale dei reati ministeriali che conferma che “il presidente dei ministri e i ministri sono sullo stesso piano”. il sistema di prerogative, previsto dall’art 96 e ribadito dalla legge Cost. 1/89, prevede la necessaria autorizzazione da parte delle camere affinché i reati funzionali siano sottoposti alla giustizia ordinaria e ciò anche nell’ipotesi in cui il procedimento si apra in un momento successivo alla cessazione della carica. Questo significa che i componenti del Consiglio dei Ministri sono equiparati in relazione alle prerogative costituzionali, che spettano a tutti in ugual misura, limitatamente ai reati funzionali; sembra, quindi, che un regime che preveda unicamente per il Primo Ministro la sospensione di tutti i processi, indipendentemente sia dalla loro connessione alla funzione che dal momento in cui sono compiuti – con la conseguente irrilevanza che siano o meno antecedenti all’assunzione della funzione o della carica- vada a modificare profondamente il modo d’essere della nostra Costituzione. Dobbiamo domandarci che cosa succederebbe nell’ipotesi non troppo remota che venga attuata una riforma costituzionale con lo stesso contenuto del lodo Alfano: una sospensione che opera automaticamente e indiscriminatamente per tutti i processi nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato. Senza dubbio una riforma che comporterebbe una modifica molto pregnante della nostra organizzazione costituzionale. Modifiche tali da andare a toccare così in profondità il modo d’essere del nostro ordinamento, non configgerebbero forse con lo spirito della Costituzione, valore di vitale importanza, spesso richiamato dalla giurisprudenza della Corte come rilevante elemento con cui devono raffrontarsi anche le leggi costituzionali?

Presidente del Consiglio dei ministri: il suo ruolo nel sistema Di Andrea Pidalà

Riflettendo sulla posizione del Presidente del Consiglio nel sistema costituzionale italiano non si può

prescindere dall’articolo 95 della Costituzione che fissa gli obblighi istituzionali del P.C.M nel “dirigere la politica generale del Governo ed esserne responsabile”; prosegue l’articolo al secondo comma: “Mantiene (il P.C.M, ndr) l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. La recente pronuncia della Corte costituzionale sulla illegittimità dell’art. 1 della L.23 luglio 2008( c.d Lodo Alfano) ha sancito che un eventuale sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato, quindi concessa anche al Presidente del Consiglio, violerebbe il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., non solo rispetto alla pluralità dei cittadini ma anche nei confronti degli altri ministri che compongono il Governo. Domanda ovvia e consequenziale: Il Presidente del Consiglio riveste una posizione paritetica rispetto agli altri ministri che compongono il Governo della Repubblica? Difficile pensare che una carica istituzionale legittimata dalla stessa Costituzione a dirigere ed essere responsabile dell’attività di governo possa anche considerarsi perfettamente paritetica agli altri ministri che, appunto, devono attenersi alle direttive che il Presidente del consiglio indica. Credo si debba distinguere tra il Presidente del Consiglio in quanto tale, che nell’espletamento delle proprie funzioni istituzionali non ricopre certo la stessa posizione degli altri ministri, ed il presidente del Consiglio come cittadino.

Dodici


Riguardo al primo punto credo che il Presidente del Consiglio non ricopra le stesse funzioni degli altri ministri ma dovendo, proprio come impone la Costituzione, dirigere la politica generale del Governo, si trovi anche in una posizione gerarchicamente sovra-ordinata rispetto agli altri ministri; la funzione direttiva e coordinativa che la Costituzione attribuisce al P.C.M infatti a mio parere implica già, oltre ad una maggiore responsabilità, anche il diritto di decidere le attività dell’esecutivo, di promuovere di conseguenza l’attività dei ministri coordinandoli al meglio per raggiungere gli obbiettivi programmati nell’agenda del Consiglio dei Ministri. E’ noto infatti come in qualsiasi altro ambito che non sia quello politico il presidente all’interno di un organo decisionale non rivesta la stessa posizione degli altri componenti, anzi abbia un ruolo chiave e decisivo nel dirimere le questioni avendo anche il suo parere una doppia validità in caso di votazione da cui emerga una parità di voti. Un dato chiaro rimane però all’interno del nostro sistema e cioè che in Italia un solo potere supremo esiste: il Parlamento. Nel corso delle ultime legislature è evidente come la figura del Presidente del Consiglio abbia rivestito particolare importanza nella direzione dei lavori del Consiglio dei Ministri, non solo in ottemperanza alle prerogative costituzionali, ma anche e soprattutto perché portavoce e mediatore delle diverse linee politiche che i componenti di una coalizione di governo propongono a seguito di programmi elettorali a cui, si auspica, debbano fare riferimento. Inevitabile la conseguenza nell’attività parlamentare. Essere Presidente del Consiglio dei ministri non comporta tuttavia la possibilità di ergersi al di sopra del principio costituzionale sancito dall’art. 3 della Costituzione, il principio di uguaglianza. L’Italia non è una Repubblica presidenziale ove il presidente è eletto direttamente dal popolo anche se agli effetti pratici la legittimazione a divenire Presidente del Consiglio deriva comunque da una chiara ed esplicita volontà popolare. Come è possibile allora che la posizione giuridica del presidente del Consiglio,così come le altre più alte cariche dello Stato,che viene scelto dai cittadini (anche se formalmente nominato dal Presidente della Repubblica) possa prescindere dall’art.3 della Costituzione? Infine una considerazione di carattere etico: la legge 400 del 1988 all’art. 1,comma 3 impone che il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, prima di assumere le funzioni, prestino giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica con la seguente formula: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della nazione”. Un giuramento non è solo una formalità da espletare per ricoprire poi una carica istituzionale ma è anche e principalmente un impegno da mantenere; ragionando sillogisticamente: il Presidente del Consiglio è prima di tutto un cittadino italiano; tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge;quindi mi chiedo come si possa accettare una legge ordinaria (come lo era il Lodo Alfano) che crei una disparità di trattamento tra un qualsiasi cittadino e le alte cariche dello Stato,compresa quella di Presidente del Consiglio. Più plausibile sarebbe riservare tale prerogativa ad una legge costituzionale la cui approvazione passerebbe attraverso un iter parlamentare più lungo, una discussione più estesa ed un approvazione più ampia.

Tredici


Immunità: Un’ analisi comparata

Di Fabio Chiovini

Ogni volta che una scottante questione giuridica si ritrova al centro del dibattito politico, è facile si richia-

mino, spesso per sostenere ipotesi diametralmente opposte, simili esperienze di altri ordinamenti europei. Il lodo Alfano non fa eccezione: per alcuni si tratta di una violazione del principio d’uguaglianza mai vista in Europa dalla fine dell’Ancien Régime, per altri rappresenta il “minimo che una democrazia possa fare a difesa della propria libertà”1. Questi fraintendimenti sono aggravati dalla poca accortezza con cui vengono solitamente ponderate le differenze tra immunità e sospensione, tra improcedibilità automatica oppure soggetta ad autorizzazione, tra reati commessi al di fuori o nell’ambito dell’esercizio delle proprie funzioni. Sarebbe dunque utile verificare se le prerogative accordate alle alte cariche degli altri Paesi europei sono effettivamente paragonabili a quella (ormai non più) prevista dal lodo Alfano, e dunque: a) generali, quindi comprendenti i reati commessi al di fuori dell’esercizio delle proprie funzioni; b) automatiche, la cui applicazione non è cioè soggetta a condizioni o deroghe in base a un giudizio politico sul singolo caso; c) in capo al vertice del potere esecutivo. Di vera e propria immunità si può parlare unicamente per i sovrani di Spagna2 , d’Inghilterra e delle altre monarchie parlamentari europee: in nessun caso essi possono essere sottoposti a qualsivoglia potere giurisdizionale. L’immunità assoluta dei monarchi è fenomeno piuttosto recente: non se ne trova traccia nella storia antica, dove i vertici della Repubblica romana e persino l’Imperatore erano pienamente sottoposti alla legislazione vigente, salvo particolarissimi casi tassativamente previsti dalla lex regia de imperio; nell’ordinamento feudale, la rottura del fides tra vassalli e Re poteva comportare sanzioni anche nei confronti del secondo, rimanendo egli pur sempre sottoposto alla legge3; occorrerà giungere al consolidamento delle monarchie nazionali europee e alla loro svolta assolutistica tra il XVI e XVII secolo per veder riconosciuta al Sovrano la totale e incondizionata superiorità e intangibilità rispetto alla legge umana, quale autorità suprema superiorem non recognoscens. Questa l’origine dell’immunità reale a cui si affiancherà, per reazione e per imitazione, l’immunità parlamentare. La permanenza di questa immunità assoluta in capo agli attuali Sovrani europei non può non essere associata, nei nostri moderni ordinamenti democratici, al ridimensionamento di queste figure, ora spogliate di qualunque effettivo potere decisionale: la massima “The King can not do wrong” significa oggi che il sovrano è ormai nell’impossibilità di arrecare alcun danno, e che la sua immunità dovrebbe mantenere perciò una mera valenza simbolica, quasi ornamentale4. Veniamo alle alte cariche dei paesi europei non monarchici: per i reati extrafunzionali non è in nessun caso prevista alcuna immunità assoluta, ma al massimo una improcedibilità in corso di mandato. Tale improcedibilità è però quasi ovunque concessa ai soli membri del Parlamento e può sempre essere superata con l’autorizzazione della Camera. Libertà dagli arresti e autorizzazione a procedere: questi i due principali punti fermi posti dall’Assemblea nazionale francese nel 1789, in risposta all’ordine del Re di sciogliersi e confluire negli Stati generali; questi i principi che, diffusisi in tutto il continente, informano tuttora la disciplina delle immunità parlamentari.

1 Silvio Berlusconi, 24 luglio 2008 (Reuters). 2 Articolo 56 comma 3 della Costituzione spagnola del 1978: “La persona del Rey es inviolable y no está sujeta a responsabilidad.” 3 Noto il brocardo “legem servare, hoc est regnare”. 4 Tutt’altro che simbolica è però sembrata l’immunità della Regina d’Inghilterra, recentemente oggetto di critiche in occasione del Burrell affair: la testimonianza del sovrano era infatti determinante per l’esito del procedimento, ma non fu assunta poiché il Crown Prosecution Service eccepì la suddetta immunità. Quattordici


Così in Spagna1 , dove occorre un’autorizzazione del Congreso o del Senado per sottoporre a processo un loro membro. È inoltre previsto un foro speciale (afioramento) per i processi intentati contro i parlamentari: la Sezione Penale del Tribunale Supremo. Questo foro è competente anche per i processi contro i membri del governo, ma ad essi non è concessa alcuna sospensione (salvo siano a loro volta membri di una Camera). Similmente in Germania: il Presidente federale e i membri del Bundestag godono della sospensione dei processi, ma questi possono essere sbloccati da un’autorizzazione della camera stessa 2. Vi sono dunque casi in Europa in cui la sospensione per i reati extrafunzionali è automatica come previsto dal lodo Alfano? Pochi. E unicamente per i capi di Stato: il Presidente della Repubblica greca3, il Presidente della Repubblica portoghese4, il Presidente della Repubblica francese. Queste prerogative hanno come matrice l’immunità dei Sovrani che i Presidenti hanno sostituito, ereditandone il ruolo e lo status. Ma esse non permangono nei nuovi ordinamenti repubblicani per semplice forza d’inerzia, sono anzi giustificate dal ruolo che la Presidenza in essi ricopre: come il Re suo predecessore, il Presidente sta in mezzo ai tre poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario), “moderando” la loro azione (rispettivamente sciogliendo il Parlamento, dimissionando il Governo, concedendo la grazia), rimanendo nei loro confronti irresponsabile. Ma diversamente dai Re, la persona che ricopre quest’incarico non è più considerata inviolabile o addirittura sacra: la non procedibilità si estende infatti solamente per la durata del mandato. Possiamo quindi concludere che l’istituto previsto dal lodo Alfano non è sconosciuto ad altri ordinamenti europei; la stridente anomalia risiede nel fatto che di esso non beneficia un Capo di Stato ma un Capo di Governo: un istituto nato per gemmazione dall’antica immunità reale per tutelare una figura super partes e di garanzia viene trapiantato su di una figura con un ruolo di parte, di governo, di responsabilità. Questo sì rappresenta un caso unico in tutta Europa… o forse no: da quale angolazione guardare il Presidente della Repubblica francese, figura particolarissima in cui si saldano le cariche di Capo dello Stato e di vertice dell’esecutivo? Questa ambivalenza può forse favorire la comparazione con il nostro Presidente del Consiglio, soprattutto dal momento che una riforma del 2007 ha reso la posizione del Presidente francese simile a quella prefigurata dal lodo Alfano. Anche in Francia infatti le vicende giudiziarie di un uomo politico – Jacques Chirac – hanno innescato un intenso dibattito che ha infine portato alla riformulazione del Titolo IX della Costituzione, riguardante lo statuto penale del Presidente, chiarendo le incertezze dovute al nebuloso disposto del’articolo 68 5. 1 Articolo 71 commi 2 e 3 della Costituzione spagnola del 1978: “Durante el período de su mandato los Diputados y Senadores gozarán asimismo de inmunidad y sólo podrán ser detenidos en caso de flagrante delito. No podrán ser inculpados ni procesados sin la previa autorización de la Cámara respectiva. En las causas contra Diputados y Senadores será competente la Sala de lo Penal del Tribunal Supremo.” 2 Articolo 46 della Grundgesetz. Per quanto riguarda le indagini, l’autorizzazione è addirittura preventiva: dagli anni ’60 infatti è invalsa la prassi secondo cui il Bundestag, a inizio di ogni legislatura, approva una sorta di autorizzazione generale a svolgere indagini sui propri membri (v. Regolamento di procedura del Bundestag, allegato 6). 3 Articolo 49 della Costituzione greca del 1975: “Per gli atti che non hanno alcun rapporto con l’esercizio delle funzioni presidenziali, l’incriminazione è sospesa fino alla scadenza del mandato presidenziale.” 4 Articolo 130 comma 4 della Costituzione portoghese del 1974: “Por crimes estranhos ao exercício das suas funções o Presidente da República responde depois de findo o mandato perante os tribunais comuns.” 5 Articolo 68 della Costituzione francese precendete alla riforma: « Le Président de la République ne peut être destitué qu’en cas de manquement à ses devoirs manifestement incompatible avec l’exercice de son mandat. La destitution est prononcée par le Parlement constitué en Haute Cour. » Quindici


La questione però, al contrario che in Italia, fu affrontata per la prima volta non dal Parlamento ma dal Conseil constitutionnel, che sancì in un suo obiter dictum1 l’improcedibilità in via ordinaria dei reati extrafunzionali commessi dal Presidente, anche prima del suo mandato. Questa interpretazione venne da più parti criticata, ma condivisa da una successiva sentenza della Cour de cassation2. Il definitivo chiarimento della questione fu uno dei principali punti del programma in base al quale Chirac venne rieletto: venne perciò nominata una commissione di esperti, le cui conclusioni vennero fedelmente trasfuse in un progetto di riforma approvato dal Parlamento3. I novellati articoli 67 e 68 prevedono: a) un’irresponsabilità per gli atti funzionali, salvo l’alto tradimento b) un’improcedibilità processuale generale per la durata del mandato, con sospensione dei termini di prescrizione dei procedimenti già attivati c) la possibilità di una destituzione in caso di comportamento incompatibile con la prosecuzione del proprio mandato. Dunque un altro Capo di Governo, oltre a quello italiano, a godere di una sospensione automatica dei processi riguardo ai reati extrafunzionali. Ma a ben guardare, una simile comparazione non è praticabile. Prima di tutto per l’incolmabile scarto tra le cariche che stiamo considerando: il Presidente della Repubblica francese rappresenta la Nazione, viene eletto a suffragio universale diretto ed è perciò irresponsabile nei confronti del Parlamento; il Presidente del Consiglio italiano è parte di un collegio in cui ricopre il ruolo di primus inter pares (di diritto, del tutto irrilevante che di fatto non lo sia) e responsabile davanti alle Camere in quanto sprovvisto di legittimazione popolare diretta (ugualmente irrilevante è quello che sembra voler insinuare l’attuale legge elettorale nel richiedere un collegamento tra liste elettorali e candidato Presidente). Inoltre é da notare che le circostanze politiche che hanno accompagnato l’elaborazione delle due riforme sono profondamente diverse: da una parte un decennale dibattito tra le massime istituzioni giurisdizionali e dottrinali, in base al quale il Parlamento è intervenuto con una legge non ordinaria ma costituzionale; dall’altra parte una legge ordinaria auspicata, scritta, proposta e approvata nel giro di neanche un mese per assicurarne l’entrata in vigore “in tempo utile”, considerando le precedenti pronunce della Corte costituzionale all’unico scopo di trovare il modo meno rischioso per aggirarle. Considerando quindi il tipo di prerogativa e la figura istituzionale a cui essa viene attribuita, si può concordare con le conclusioni tratte da Leopoldo Elia: “Nessuna democrazia conosce il sistema di blindatura introdotto dal c.d. lodo Alfano, che dunque ci pone nell’universo democratico in un misero isolamento, degno, si sarebbe detto una volta, di un paese in via di sviluppo.”4

1 Sentenza del Conseil constitutionnel n. 98-408 del 22 gennaio 1999. Con essa il Conseil si pronunciava sulla legge di ratifica del Trattato di Roma istitutivo della Corte Penale Internazionale e sulla competenza di tale Corte a giudicare sulla responsabilità penale del Presidente della Repubblica. 2 Sentenza della Cour de cassation n. 481 del 10 ottobre 2001 3 Legge costituzionale n.238 del 2007. 4 Leopoldo Elia, traccia della audizione informale presso le Commissioni riunite (Affari costituzionali e Giustizia) del Senato della Repubblica mercoledì 16 luglio 2008. Sedici


CONSIDERAZIONI (INATTUALI) IN TEMA DI VERIFICA DEI POTERI IN RELAZIONE ALLA SENTENZA 259/2009 di Fabio Vecchi ’art. 66 della Costituzione recita: “Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”. Dalla disposizione sembrano emergere due attività compiute dal Parlamento nel procedimento di verifica: il c.d. giudizio di convalida, consistente nel controllo sull’autenticità dei risultati elettorali, sulla regolarità del procedimento elettorale e sulle eventuali cause personali di ineleggibilità; e, in una fase successiva, il giudizio sulle cause di decadenza dei parlamentari. Tuttavia, sulla scorta di una tradizione che affonda le sue origini nello Statuto Albertino e dell’interpretazione estensiva dell’art. 66 Cost. fatta dal d.p.r. 361/1957, si è ritenuto che il giudizio di verifica dei poteri arrivi ad abbracciare anche i procedimenti elettorali preparatori. A questa stregua, rientra nella competenza esclusiva delle Camere anche il controllo della regolarità dei provvedimenti assunti dagli uffici elettorali relativamente all’ammissibilità dei contrassegni e delle candidature. La Corte Costituzionale, nella recentissima sentenza 259/2009, si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana riguardo agli artt. 23 e 87 del d.p.r. 361/1957 “nella parte in cui non prevedono l’impugnabilità davanti al giudice amministrativo delle decisioni emesse dall’Ufficio elettorale centrale nazionale, aventi, per effetto, l’arresto della procedura, a causa della definitiva esclusione del candidato o della lista dal procedimento elettorale”, per violazione degli artt. 3, 24 c. 1, 51 c. 1, 103 c. 1, 113 e 117. La vicenda concreta è una delle tante che si sono verificate negli anni: un soggetto ricorre presso il Tribunale Amministrativo Regionale della propria regione (la Sicilia) a causa della cancellazione della lista in cui era candidato per le elezioni politiche; il TAR dichiara inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione, e subentra, in appello, il Consiglio di giustizia amministrativa, che rimette alla Consulta la questione di costituzionalità predetta. In materia di procedimento elettorale preparatorio, è consuetudine che sia il giudice amministrativo sia il giudice ordinario si dicano incompetenti; per questo motivo il giudice a quo lamenta, nella materia in oggetto, “un vuoto di tutela giurisdizionale”, e sollecita la Corte ad una sentenza additiva in cui, dichiarando incostituzionali gli articoli 23 e 87 del d.p.r. 361/1957 “nella parte in cui non prevedono l’impugnabilità davanti al giudice amministrativo” delle decisioni dell’U.E.C.N., ammetta la cognizione di tal genere di questioni di fronte al giudice amministrativo e colmi così il vuoto di tutela. E la Corte cosa afferma riguardo al supposto vuoto di tutela giurisdizionale? Semplicemente lo nega, affermando che un giudice competente su contestazioni e reclami c’è. Non è il giudice ordinario, sebbene l’Ufficio circoscrizionale e quello centrale siano collocati presso le Corti d’Appello e la Corte di Cassazione, poiché manca “un nesso organico di compenetrazione istituzionale” tale da inserire questi organi nell’apparato giudiziario. Non è il giudice amministrativo, benché sia pacifica la natura amministrativa dei controlli effettuati dall’Ufficio circoscrizionale e da quello centrale. La Corte di Cassazione, “giudice supremo del riparto delle giurisdizioni”, ha ritenuto gli uffici elettorali “organi straordinari, temporanei e decentrati, di quelle stesse Camere legislative alla cui formazione concorrono, svolgendo una funzione contingente e strumentale, destinata ad essere controllata o assorbita da quella delle stesse Camere, una volta queste costituite”. Pertanto, secondo la Corte Costituzionale, la seconda fase del sistema di tutela dei candidati alle elezioni, quella consistente nel “giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e, in generale, su tutti i reclami presentati agli Uffici delle singole sezioni elettorali o all’Ufficio centrale durante la loro attività o posteriormente”, spetta alle Camere, ed ha una natura giurisdizionale. Un giudice competente dunque c’è; o meglio, ci sarebbe, perché dalla XIII Legislatura la Camera dei deputati si è dichiarata carente di competenza a conoscere dei ricorsi relativi al procedimento elettorale preparatorio. Ritorna forse la lacuna giurisdizionale? La Consulta dice di no: “né la Corte di Cassazione, né la Camera dei deputati hanno affermato che non esiste un giudice competente […] non si può evincere il vuoto di tutela denunciato dal remittente”. La circostanza che anche la Camera dei deputati abbia denunciato il proprio difetto di giurisdizione importa come conseguenza l’insorgenza di una mera “controversia interpretativa” sulle disposizioni vigenti, idonea a dar luogo ad un regolamento di giurisdizione o a un conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato.

L

Diciassette


Secondo il mio giudizio, la decisione della Corte Costituzionale è inappuntabile in termini di stretto diritto: le Camere sono i giudici competenti sui ricorsi e i reclami, quindi non si riscontra il vuoto di giurisdizione e di conseguenza la questione riguardante la costituzionalità degli artt. 23 e 87 è inammissibile; le uniche vie per dare un riassetto alle competenze (e sciogliere il nodo interpretativo) sono il regolamento di competenza esperito presso la Cassazione ed il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato, non la questione di legittimità costituzionale. Ma qualcosa non torna: cosa c’è dietro il difetto di giurisdizione dichiarato dalla Camera dei deputati in materia di procedimento elettorale preparatorio? La Giunta delle elezioni della Camera dei deputati, nella seduta del 13 dicembre 2006, ha argomentato affermando che “la verifica dei titoli di ammissione degli eletti esclude per definizione che nella stessa possa ritenersi ricompreso anche il controllo sulle posizioni giuridiche soggettive di coloro i quali (singoli o intere liste) non hanno affatto partecipato alla competizione elettorale”. La Giunta delle elezioni non fa altro che richiamare la lettera dell’art. 66 (“ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione […]”)che, essendo una norma di deroga al generale principio della tutela giurisdizionale delle posizioni giuridiche soggettive, non può essere applicata al di là delle ipotesi da essa considerate: e tra le ipotesi considerate non rientra di certo il giudizio su ricorsi e reclami inerenti gli atti del procedimento elettorale preparatorio. Ed è proprio la Camera dei deputati a rinnegare tale lettura estensiva dell’art. 66, cosa che ad un primo sguardo può apparire strana, considerata la “sensibilità” che dimostra ancora oggi verso il giudizio sui titoli di ammissione e sulle cause sopraggiunte di incompatibilità ed ineleggibilità. Non pensiamo ad una gentile concessione della Camera dei deputati, ad uno slancio di filantropia verso gli altri organi costituzionali. La Giunta delle elezioni si spoglia della competenza in materia di atti preparatori alle elezioni a ragion veduta, perché giudicare sull’illegittima ammissione di soggetti in Parlamento può significare rimettere in discussione i seggi con il rinnovamento delle elezioni ed andare pertanto contro i propri interessi. Peraltro, rimangono in questo modo senza tutela anche le illegittime esclusioni dalla competizione elettorale. Il d.p.r. 361/1957, riconducendo il giudizio sul procedimento elettorale preparatorio in seno all’art. 66, compie dunque un’interpretazione errata sia dal punto di vista letterale sia dal punto di vista logico-sistematico; atteso ciò, non pare più condivisibile il passaggio della sentenza 259/2009 in cui la Corte afferma che “gli stessi organi [Corte di Cassazione e Camera dei deputati] hanno dato divergenti interpretazioni dell’art. 87 del d.p.r. n. 361 del 1957 e dell’art. 66 Cost., in esito a ciascuna delle quali varia l’individuazione della giurisdizione cui devolvere le controversie sorte nel procedimento elettorale preparatorio”. Può ancora essere considerata una “controversia interpretativa”, alla luce del fatto che non solo la Camera si sia detta incompetente ma anche l’interpretazione estensiva si sia rivelata sbagliata sotto un duplice profilo? Al riguardo ho molte riserve. La competenza sui ricorsi affidata alla Camera dall’art. 66 ha la natura di una deroga alla canonica tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi; la sua ratio emerge limpidamente dalle parole di Terracini durante i lavori della Costituente: “attraverso la Giunta delle elezioni, è ancora la massa degli elettori che giudica la propria azione; quindi è proprio il principio della sovranità popolare che si afferma nuovamente nella verifica dei poteri”. Ma gli artt. 24 c. 1, 103 e 113 della Costituzione, che sanciscono il diritto, a tutti garantito, di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, e la competenza di questa tutela in capo ad organi di giustizia amministrativa (o ordinaria) quando diritti ed interessi siano minacciati dalla pubblica amministrazione, possono tollerare una “deroga alla deroga”? La competenza delle Camere in materia di procedimenti preparatori alle elezioni è infatti una deroga all’art. 66, che da par suo è una deroga agli artt. 24 c. 1, 103 e 113: è ammissibile? A mio parere no. La materia dei ricorsi giurisdizionali avverso gli atti preparatori si trova a ricadere in un limbo: non è coperta dall’art. 66 e, anche se fosse coperta, sconterebbe una carenza di effettività, perché non ci sono rimedi alle illegittime esclusioni, mentre i rimedi alle illegittime ammissioni non sono nell’interesse dell’organo parlamentare, che infatti si è detto incompetente.

Diciotto


Mi pare che il d.p.r. 361/1957 sia incostituzionale ai sensi degli artt. 24 c. 1, 103 e 113 della Costituzione, nella parte in cui esclude la magistratura dalla competenza a conoscere degli atti preparatori, al fine di assicurare una effettiva tutela giurisdizionale alle illegittime esclusioni di candidati e movimenti politici, in tempi compatibili con la riammissione alla competizione elettorale. Inoltre, sono in gioco anche il diritto di elettorato passivo e di partecipazione di tutti i cittadini in posizione di uguaglianza alla vita politica. Eppure molto probabilmente di questo rilievo di (possibile) incostituzionalità non ci sarà bisogno: l’art. 44 della legge 69/2009 ha delegato il Governo ad introdurre, entro un anno dalla data di entrata in vigore della legge stessa, «la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie concernenti atti del procedimento elettorale preparatorio per le elezioni per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, mediante la previsione di un rito abbreviato in camera di consiglio che consenta la risoluzione del contenzioso in tempi compatibili con gli adempimenti organizzativi del procedimento elettorale e con la data di svolgimento delle elezioni». In relazione a questa probabile novità legislativa, la Corte ha detto che “se quindi l’introduzione di un nuovo caso di giurisdizione esclusiva può essere effettuata solo da una legge […] risulta inammissibile il petitum posto dal giudice rimettente”. Tengo a ribadire che, a mio giudizio, l’iter argomentativo seguito dalla Corte nella sent. 259/2009 è del tutto coerente con le premesse da cui parte, è pienamente condivisibile e persino accattivante; ma non troverei nulla di scandaloso nell’ipotizzare che il legislatore, in parte per i motivi di convenienza ed opportunità già più volte sottolineati, in parte rilevando profili di alta contenziosità circa la spettanza della competenza in materia, abbia deciso una volta per tutte con un intervento diretto di sgominare il campo dai dubbi. Per cui sarebbe plausibile inferire, in caso di esercizio della delega da parte del Governo, l’implicita abrogazione delle disposizioni del d.p.r. 361/1957 in disaccordo con la novella legislativa. Non è peregrino pensare che il legislatore abbia fatto questo ragionamento: considerata la “timidezza” della Consulta nell’intrudersi nella sfera di competenza del Parlamento, mi prendo io la briga di rivedere ciò che non va, così prendendo due piccioni con una fava: statuisco una competenza certa in materia, e mi spoglio in via definitiva di un giudizio che può pure comportare dei rischi per la mia integrità.

Diciannove


La separazione delle carriere ha un senso giuridico, oppure politico? Di Daniele Rucco “Dire da un lato che la giustizia è indipendente dalla politica, e dall’altro lasciare al governo la possibilità di decidere in base a considerazioni politiche se la giustizia debba o non debba seguire il suo corso... E’ tale un controsenso, che non importa spendervi su molte parole per rilevarne tutta la enormità”. (Calamandrei, Governo e Magisratura, 1921.)

Recentemente ha ripreso a surriscaldarsi la questione sull’opportunità di separare le carriere all’interno

dell’ordine della Magistratura, dividendo dunque definitivamente la funzione del Pubblico Ministero da quella del giudice. Allo stato attuale all’interno dell’ordinamento giudiziario è presente un sistema, regolato direttamente da decreto legislativo, che seppur non impedisca il passaggio di un magistrato dalla funzione requirente a quella giudicante garantisce che questi possa occuparsi di una determinata vicenda giudiziaria o solo nella veste di pubblico ministero o solo in quella di giudice. Infatti, in base al nuovo d.lgs. 106/06 il passaggio da funzioni giudicanti a funzione requirente, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto né di altri distretti della stessa regione. Il divieto del passaggio allo stesso distretto, tuttavia, non si applica qualora vi sia una richiesta di passaggio a funzioni requirenti ed il magistrato in questione abbia svolto funzione giudicante esclusivamente civili o del lavoro; ovvero nell’ipotesi opposta, qualora il pubblico ministero voglia passare a funzioni giudicanti esclusivamente civili o del lavoro: è indispensabile in questo caso che l’ufficio giudicante sia diviso in sezioni. Per entrambi i casi è indispensabile invece il passaggio ad un circondario diverso. Inoltre il magistrato che chiede il passaggio da una funzione all’altra deve avere esercitato la funzione per un periodo continuativo di almeno cinque anni; non può richiederlo per più di quattro volte nell’arco di tutta la carriera. Ora, già attraverso questa sommaria messa a fuoco, i principi costituzionali di terzietà e imparzialità del giudice nel processo sembrano salvi; tuttavia, i sostenitori Pro-separazione adducono a fondamento della propria ragione il fatto che nel processo penale l’esercizio dell’azione penale sia nella fase delle indagini preliminari sia nella fase dibattimentale siano dirette dall’ufficio del Pubblico Ministero, il quale appartiene all’ordine della Magistratura al pari del giudice e quindi in ogni caso, almeno apparentemente, vi è una lesione del principio di terzietà e di imparzialità. È davvero così? Per arrivare ad una risposta giuridicamente fondata occorre passare ad un’analisi della sostanza di questi due principi costituzionali, funzionali all’attuazione del giusto processo: l’art 111 della Costituzione fissa esplicitamente che il principio del contraddittorio non può non prescindere da una condizione di parità delle parti e dall’esistenza di un giudice terzo ed imparziale. I due principi (terzietà - imparzialità) sono legati da un rapporto di specificazione, poiché mentre l’imparzialità si riferisce a tutti i magistrati, la terzietà è propria solo di quei magistrati che svolgono la funzione di giudice in un determinato processo. La terzietà è quel principio costituzionale che garantisce al cittadino il diritto a essere giudicato da un giudice che nel processo non è parte, ma è appunto terzo, dunque conosce la lite da una posizione esterna al contraddittorio e sempre da una posizione di alterità la giudica. Il principio dell’imparzialità si presta ad un ragionamento più articolato e soprattutto è una qualità processuale riferibile non solo all’organo giudicante, ma anche all’organo requirente. Il principio dell’imparzialità, a seguito della legge costituzionale n.2 del 1999, riceve il suo immediato riconoscimento nell’art. 111 della Costituzione. Tuttavia già prima dell’intervento del legislatore costituzionale tale principio è stato oggetto di studio critico da parte dei giuristi, che ne hanno rilevato da un lato il volto di garanzia oggettiva dell’organo giudicante, dall’altro il profilo soggettivo inteso come diritto del cittadino. Sotto il primo profilo l’imparzialità può essere delineata come qualità ontologica dell’organo giudicante, condizione necessaria che deve essere propria di un giudice per definirsi tale: dunque per dare una fisionomia concreta a questo concetto si potrebbe identificarlo con un atteggiamento equanime ed equidistante che il giudice deve assumere nel conoscere la lite. Venti


Quest’approccio professionale deve essere inoltre caratterizzato da assenza di pregiudizio e da una libertà di convinzioni precostituite. Si può dunque dire che il principio di imparzialità, nel suo aspetto soggettivo, costituisce un accentuatore del principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione; la norma costituzionale attribuisce al cittadino il diritto inviolabile ad essere trattato in maniera uguale a tutti gli altri di fronte alla legge. La Corte Costituzionale in una risalente sentenza del 1965 aveva messo in luce come i cittadini devono essere considerati paritariamente dal giudice1. Il duplice volto, garanzia oggettiva dell’organo da un lato, diritto soggettivo costituzionalmente riconosciuto dall’altro, trova inoltre fondamento anche nelle regole del diritto processuale: il giudice ha, infatti, l’obbligo di astensione qualora abbia un interesse nella lite, con la conseguenza che la parte processuale può chiedere la ricusazione del giudice qualora questi venga meno al suo obbligo di astensione. L’imparzialità è qualità necessaria anche del pubblico ministero ma deve essere coordinata con le sue specifiche funzioni processuali. Il pubblico ministero, infatti, essendo parte pubblica all’interno del processo penale (il pm svolge delle importantissime funzioni anche nel processo civile), persegue esclusivamente gli interessi oggettivi della legge e dell’ordinamento giuridico. La Corte Costituzionale ha sottolineato la natura pubblica del pubblico ministero,riconoscendo che il suo ruolo “non è quello di mero accusatore, ma pur sempre di organo di giustizia obbligato a ricercare tutti gli elementi di prova rilevanti per una giusta decisione, ivi compresi gli elementi favorevoli all’imputato”2. Sul piano processuale il codice di procedura penale prevede che il pubblico ministero svolga accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini: la norma processuale, dunque, configura un obbligo di imparzialità per il pubblico ministero in relazione alla sua veste di parte pubblica, questi quindi non può non considerare dati e prove a favore dell’indagato. Che l’interesse accusatorio del pubblico ministero debba rivestire un carattere oggettivo e non discrezionale si desume d’altronde anche nell’art. 112 della Costituzione, il quale fissando il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale non lascia spazio alla discrezionalità di azione né tanto meno all’opportunità. Da questo principio duplice è lo sviluppo: da un lato l’ordinamento fa si che la macchina della giustizia si metta in moto solo a seguito della notizia criminis, è quindi un fatto oggettivo, la fonte dell’azione del pubblico ministero, dall’altro lato l’obbligatorietà presuppone l’indipendenza funzionale del pubblico ministero poiché non vi è un altro potere che può innescare la fase delle indagini. Affinché, dunque, la risposta all’interrogativo di partenza non rimanga fra le righe, è opportuno fissare bene che è la stessa sostanza giuridica di questi principi costituzionali a garantire che il contradditorio avvenga in una posizione di equilibrio, senza che il soggetto imputato subisca un pregiudizio dal fatto che sia l’organo requirente che quello giudicante appartengano allo stesso ordine. A tutto questo discorso, potremmo aggiungere una riflessione ultima che muove dal fatto che molto spesso i pubblici ministeri sono accusati da ambienti delle istituzioni e da ambienti dei media, di portare avanti inchieste pretestuose, ignorando la loro natura di organi di giustizia e rivestendo invece quella di pubblici accusatori. È, dunque, lecita l’ipotesi che alla base delle recenti proposte di riforma sia implicita l’idea di operare un controllo sull’azione del pubblico ministero, sottraendolo alla cultura della giurisdizione e riportarlo sotto l’alveo del potere esecutivo, come avviene in altri paesi dell’Europa. È doveroso tenere presente a mio avviso, che l’inchiesta giudiziaria non è costruita esclusivamente all’interno degli uffici della Procura, in quanto frutto di una collaborazione professionale fra quest’ufficio giudiziario e le forze dell’ordine, che bensì poste nella disponibilità della magistratura dalla stessa Costituzione, rimangono sempre espressione del potere esecutivo; 1 2

Corte Cost. Sent. 17/1965 Corte cost.: sent 88/1991 Ventuno


una proposta di riforma nella direzione di separare le carriere può, dunque, far correre il rischio di attenuare notevolmente l’ importanza giuridica della funzione del pubblico ministero, dal momento che questi è l’unico organo che ricorre a quelle categorie logico giuridiche proprie della cultura della giurisdizione e che garantiscono fin dall’inizio che l’inchiesta giudiziaria sia svolta non in direzione meramente accusatoria ma nell’interesse oggettivo dell’ordinamento giuridico e della verità. Sottrarre il pubblico ministero alla cultura della giurisdizione, può allora avere l’effetto distorsivo di vedere un processo penale costruito sul lavoro giudiziario espressione di un unico potere, o almeno privo di un metodo giurisdizionale che garantisce l’attuazione del giusto processo. In secondo luogo, dopo la recente riforma dell’ordinamento giudiziario1, l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero è tale per cui il singolo sostituto procuratore non può svolgere la fase preliminare delle indagini in assoluta autonomia, ma deve muoversi esclusivamente nell’ambito della delega attribuitagli dal Procuratore Capo dell’ufficio, il quale tra l’altro può sempre revocarlo dall’incarico e deve sempre autorizzare le decisioni più delicate. Da quest’impostazione si può dedurre come l’immagine del pm di mero accusatore, che si muove in uno spazio libero e senza dar conto a nessuno è molto sbiadita.

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D.lgs 106/2006 Ventidue


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