L'Alligatore-anno2_numero3

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Anno 2 Numero 3


L’Alligatore torna puntuale con il terzo numero di quest’anno accademico. Un appuntamento che conferma l’impegno e la determinazione in questo progetto che sta acquistando sempre più valore nella Facoltà di Giurisprudenza. Ci piace sottolineare come in questo numero siano state trattate tutte le macroaree del diritto, anche in un’ottica interdisciplinare. In particolare è presente un’analisi del reato di riciclaggio sotto una prospettiva economica e un approfondimento sulla guerra in Libia alla luce del diritto internazionale e costituzionale. L’Alligatore tuttavia non cambia pelle e ripropone un abstract di una tesi; questa volta si tratta di un articolo di diritto commerciale sui possibili effetti collaterali della nuova tutela dei risparmiatori in relazione alla circolazione di titoli “tossici”. Continua la sezione dedicata alla riforma dell’ordinamento forense e la cronaca della vicenda giudiziaria del caso Abu Omar, dopo la sentenza di secondo grado. Sempre in materia penale, presentiamo una riflessione in chiave sociologica sul senso della pena. Infine, l’apertura del numero è dedicata al peso che i partiti e il Governo hanno nella governance della Rai. Come sempre ci auguriamo che L’Alligatore aiuti gli studenti della Facoltà ad appassionarsi al diritto non solo come materia di studio ma come uno strumento per affrontare criticamente l’attualità. Con questo auspicio vi auguriamo una buona lettura e vi diamo appuntamento alle iniziative di presentazione del nuovo numero. Rocco Steffenoni Eduardo Parisi Sandro Parziale Daniele Rucco

www.lalligatore.org


Anno 2 Numero 3



L’ALLIGATORE La rivista degli studenti di giurisprudenza della Statale di Milano Redazione: Rocco Steffenoni Eduardo Parisi Sandro Parziale Daniele Rucco

Hanno collaborato: Maria Grazia Buonanno, Camilla Capitani, Fabio Chiovini, Andrea Fossati, Alessio Fionda, Marco Fasola, Ugo Pecchioli

Ringraziamo i professori e i ricercatori della FacoltĂ che ci hanno sostenuto in questa iniziativa Milano, Maggio 2011


Tale progetto è finanziato con il contributo dell’UniversitĂ degli Studi di Milano derivante dai fondi previsti per le attivitĂ culturali e sociali.

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INDICE pag.9

Editoriale

Diritto Pubblico

Maria Grazia Buonanno, Camilla Capitani I complessi rapporti tra potere politico e potere televisivo: storia e scenari futuri

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Diritto penale

Ugo Pecchioli, Rocco Steffenoni Il riciclaggio di denaro e gli strumenti per combatterlo: fra prevenzione e sanzione Maria Grazia Buonanno, Camilla Capitani Il caso Abu Omar : l’Appello Marco Fasola Il senso della pena

pag. 21 pag. 27 pag. 29

Diritto Civile

Andrea Fossati Il nuovo art. 100 bis t.u.f. : da un sistema di tutela del risparmio di natura obbligatoria a un sistema di natura reale

pag. 37

Diritto Internazionale - Approfondimento: Guerra in Libia

Fabio Chiovini, Eduardo Parisi L’Italia è di nuovo in guerra - Legittimità dell’uso della forza nel pag. 45 diritto nazionale e internazionale Dossier: riforma dell’Avvocatura

Alessio Fionda La riforma della professione forense – parte seconda: la riforma in discussione in Parlamento

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pag. 57


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Editoriale

L’Alligatore nasce dall’esigenza di scrivere e discutere dell’attualità che ci circonda utilizzando gli strumenti giuridici che studiamo in Università. Nell’Università italiana ci si forma sui libri. Si studiano i manuali e si ricevono lezioni quasi sempre frontali. Accade poi che un giorno, concluso il corso di laurea, ci si ritrovi spaesati di fronte ad un mondo che parla una lingua diversa da quella ascoltata fino al giorno prima dentro le aule. Nelle Università americane o comunque di modello anglosassone si tende invece ad avere un approccio molto più attivo e spedito che rende gli studenti apparentemente più facilitati nel mondo della pratica giuridica.

Il progetto Alligatore non vuole muovere una critica al sistema didattico universitario italiano, anzi. Crediamo che una formazione teorica sia imprescindibile per ogni educazione che si rispetti, proprio affinché si formino dei giuristi piuttosto che dei meri pratici del diritto senza una visione d’insieme e di critica riformista. Noi riteniamo che il modello italiano sia un fattore di forza ma che, per non sembrare fine a se stesso, debba essere integrato da attività concomitanti allo studio teorico che permettano allo studente di rendersi conto di come possa utilizzare le sue conoscenze.

L’Alligatore, fondato spontaneamente da noi studenti nel Settembre del 2009, è la realtà che avremmo voluto trovare in Università appena iscritti. Invece no, abbiamo dovuto immaginarlo prima e dargli una forma poi. Per tutti questi motivi vorremmo – ambiziosamente - che il sostegno della Facoltà fosse sempre più attivo e che non si fermasse al finanziamento, ancorché essenziale e fin da subito presente. Vorremmo che la Facoltà e i suoi organi prendessero contezza del 9


fatto che le 750 copie del precedente numero si sono letteralmente volatilizzate in Università non appena esposte in atrio e che l’attenzione al progetto è sempre maggiore da parte degli studenti.

Ci piacerebbe che la Facoltà se ne assumesse l’onere istituzionale riconoscendo il progetto come meritevole di approvazione e sostegno, ma che al tempo stesso ne lasciasse la piena gestione agli studenti come accade nelle lungimiranti esperienze delle student review anglosassoni. Quindi buona lettura e cercateci per partecipare: www.lalligatore.org o redazione@lalligatore.org.

Rocco Steffenoni, Eduardo Parisi, Sandro Parziale, Daniele Rucco

25 Maggio 2011

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DIRITTO pubblico

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I complessi rapporti tra potere politico e potere televisivo: storia e scenari futuri Maria Grazia Buonanno e Camilla Capitani “È accaduto che questa televisione sia diventata un potere politico colossale probabilmente si potrebbe dire il più importante di tutti, come se fosse Dio stesso che parla. Esso è diventato un potere troppo grande per la democrazia.Nessuna democrazia può sopravvivere se all’abuso di questo potere non si pone fine”. K.R.Popper, J. Cardy, Televisione cattiva maestra Sempre più spesso la Rai è al centro di polemiche politiche che mettono in luce il forte condizionamento partitico che l’azienda subisce. Se si analizzano i contenuti delle critiche relative alla programmazione del servizio pubblico, viene alla luce come quasi sempre esse vertano sul tema degli spazi che a questa o a quella forza politica sono stati destinati da questo o quel telegiornale o trasmissione di approfondimento. La carenza o limitatezza di informazione in merito ad un certo argomento raramente viene sottolineata se non lede in modo diretto un interesse partitico. A partire dalla riforma operata dalla l. 103/1975 che assorbe due sentenze precedenti della Corte Costituzionale1, la Rai è infatti considerata soggetto politico partitico. Tale riforma aveva rappresentato prima facie un momento di avanzamento, in quanto aveva trasferito il controllo sulla Rai dal Governo al Parlamento, cercando di introdurre un pluralismo politico all’interno dell’azienda pubblica, che fino a quel momento era appannaggio delle sole forze di maggioranza. Sta di fatto che l’azienda è passata dalla subordinazione al governo (il quale peraltro continua ad essere il maggiore azionista e quindi il proprietario sostanziale della Rai) a quella del parlamento. Questo nuovo assetto ha scatenato, negli anni immediatamente successivi, una competizione politicamente marcata; è con il 1979, anno di nascita di 1 Corte Costituzionale sent. n. 225/1974 e 226/1974 (oltre al resto sanciscono che le trasmittenti di ambito locale sono fuori dal monopolio pubblico)

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Rai Tre, che la coloritura politica delle reti si mostra in tutta la sua evidenza: Rai Uno sotto l’egida della DC, Rai Due collegata al PSI, Rai Tre al PCI. Nello stesso periodo la Corte Costituzionale preme a più riprese affinché sia varata una legge che ponga ordine nel “far west” televisivo venutosi a creare con l’avvento nella gestione tv in ambito locale dei privati: tra i protagonisti di questo assetto si annovera Berlusconi il quale aveva notevolmente contributo a porre in essere, accanto al servizio pubblico, un monopolio privato che aveva assorbito la gran parte delle reti locali; in seguito a ciò, quando alcuni giudici intervengono per “oscurare” le trasmissioni private di scala ormai nazionale (e non solo locale come aveva consentito la Corte), il governo emana un decreto legge c.d decreto Berlusconi che, in via transitoria, legittima la situazione creatasi di fatto. Nonostante le numerose sollecitazioni della Corte Costituzionale, il Legislatore indugia a lungo ed è solo nel 1990 che vara, tra polemiche durissime, la legge Mammì2, che ha una rilevanza notevole perché rende legale a tutti gli effetti la situazione così come si era configurata, ovvero garantisce il possesso delle tre reti a Berlusconi e quindi legittima il sistema misto pubblico- privato già istituitosi di fatto. La legge Mammì è, oggi come all’epoca, oggetto di un giudizio a due facce: alcuni evidenziano l’opera di legalizzazione che essa ha compiuto nei confronti del c.d “far west televisivo”; altri sottolineano che la legge ha posto freno ad una situazione che sarebbe potuta risultare ancor più incontrollata, grazie al fatto che ha introdotto “l’opzione zero”, ovvero la condizione per cui chi è proprietario di tre reti non può esser proprietario di alcun giornale. Per l’assetto organizzativo Rai riveste una grande importanza la c.d “leggina”3 di riforma dei criteri di nomina del vertice dell’azienda. Essa porta da 16 a 5 i membri del CdA Rai e stabilisce che siano nominati non più secondo la quota proporzionale in commissione di vigilanza, ma sulla base del voto dei presidenti della Camera e del Senato; ciò con la speranza che, diminuendo il numero dei posti e cambiando il meccanismo di nomina, il rapporto con la politica diventasse meno soffocante e clientelare, con conseguente miglioria della qualità del servizio. L’assetto attuale della Rai è disciplinato dalla legge Gasparri (112/2004), la quale prevede la presenza di un CdA composto da 9 consiglieri di amministrazione, di cui: • 7 eletti dalla commissione parlamentare di vigilanza (4 della maggioranza e 3 della minoranza); 2 3

L. 223/1990 L. 206/1993

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2 indicati dal Ministero dell’ Economia che – lo ricordiamo - è azionista della Rai al 99% (il restante 1% appartiene alla SIAE); uno dei due membri è nominato Presidente, a patto che ottenga il consenso dei 2/3 della commissione parlamentare di vigilanza, per garantire un minimo di condivisione bipartisan. In questo meccanismo, il membro più importante (che per comodità indichiamo come nono) risulta essere il secondo soggetto indicato dal Ministero dell’ Economia, dal momento che la sua nomina è frutto di un’ indicazione governativa secca. Quand’anche infatti il Presidente fosse nominato in modo gradito all’opposizione, il nono membro sarebbe in grado di garantire, insieme agli altri 4 della maggioranza, il 50% +1 nel CdA e quindi la preminenza di chi di volta in volta è al governo. A conti fatti, è un meccanismo di legge che premia chi sta a Palazzo Chigi. Sarà forse per questo che il Parlamento nelle ultime due legislature ha tardato a varare una riforma del servizio pubblico televisivo che da più parti è stata auspicata. •

Questo stato di cose costituisce senza dubbio un’anomalia nel panorama europeo, ma che, a detta di Roberto Natale4, purtroppo risulta sempre meno isolata. A conferma della problematicità dell’anomalia italiana sta anche una recente risoluzione del Parlamento Europeo che, nell’esprimere preoccupazione per la situazione ungherese venutasi a creare a seguito dell’emanazione della nuova legge sui media, stila un elenco di Paesi in cui il pluralismo dell’informazione è considerato a rischio: oltre all’Ungheria, si annoverano Bulgaria, Romania, Repubblica Ceca, Estonia ed Italia. E’ francamente allarmante vedere il nostro Paese associato a cinque fragili democrazie ex sovietiche. Le organizzazioni della società civile e quelle sindacali nazionali stanno sollecitando la creazione di una rete europea al fine di consentire l’incremento del tasso di pluralismo nell’ informazione e di porre un freno alle concentrazioni dei media. Dall’ultimo incontro tenutosi a Bologna il 13 maggio si è pensato di avvalersi della European citizens’ initiative (ECI)5, prevista dal Trattato di Lisbona, che consente ad un milione di cittadini di almeno un quarto degli Stati membri dell’UE di invitare la Commissione europea a proporre atti 4 Presidente della Federazione nazionale della Stampa ed ex segretario dell’ Usigrai 5 http://ec.europa.eu/dgs/secretariat_general/citizens_initiative/index_en.htm

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giuridici in settori di sua competenza. La Commissione ha poi a disposizione tre mesi per esaminare l’iniziativa e decidere cosa fare. Si tratta di un notevole passo avanti per il pluralismo dell’informazione a livello europeo dato che, fino a questo momento, le Istituzioni Europee si sono mostrate restie a considerare la materia dell’informazione quale oggetto di normativa propria, ritenendola di competenza esclusiva degli stati nazionali.

L’anomalia italiana è aggravata da un ulteriore elemento, che si aggiunge a quello, sopra menzionato, del controllo parlamentare sulle reti tv: la presenza nel ruolo di Premier, del proprietario di Mediaset, azienda privata quasi monopolista nel settore. Questo cumulo di poteri in mano all’attuale Presidente del Consiglio provoca una pressione fortissima sulla Rai, sia per quanto riguarda l’offerta contenutistica del servizio pubblico, sia per quanto riguarda l’assetto economico dell’azienda. Quanto ai contenuti si assiste ad un adeguamento sempre maggiore della Rai al format commerciale introdotto da Mediaset e quindi ad una sempre più stretta dipendenza dalla pubblicità e dalla valutazione degli indici di ascolto. A detta del sindacato, questo meccanismo potrebbe essere facilmente superato combattendo in modo efficace l’evasione del canone televisivo, che si attesta in modo allarmante intorno al 28% (negli altri Paesi europei la media evasiva è intorno al 10%, tenendo conto che il loro canone è ben più alto); il che consentirebbe alla Rai di recuperare tre-quattrocento milioni di euro in ricavi in più. Nessun governo si è mai occupato seriamente di perseguire questo obiettivo e proprio nei giorni scorsi il Ministro delle attività produttive Paolo Romani ha deciso di soprassedere alla proposta di inserire il canone Rai nella bolletta ENEL, perché i programmi del servizio pubblico non lo convincono. Dal punto di vista economico, si evince in modo netto con la forza dei numeri come durante l’attuale governo berlusconiano la Rai abbia visto crescere il suo indebitamento ed indebolire la sua solidità finanziaria. Dall’analisi di Massimo Mucchetti6, condotta in due articoli sul Corriere della Sera, risulta il dato contraddittorio che vede un vantaggio Rai negli ascolti rispetto a Mediaset, ma contemporaneamente una perdita da parte dell’azienda pubblica dei ricavi pubblicitari. È questa una delle manifestazioni più 6 Analista economico Corriere della Sera. Per gli articoli si veda Corriere della Sera 13 maggio e 15 maggio 2011

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forti del conflitto di interessi; è ben possibile infatti, come dice Mucchetti, “che alcuni grandi inserzionisti possano aver spostato quote di spesa pubblicitaria dalla Rai a Mediaset per simpatia o timore del premier”.

Per porre rimedio all’asfissia del servizio pubblico, Mucchetti propone una scissione tra Rai servizio pubblico, che sarebbe alimentata solo dal canone e Rai tv commerciale, che verrebbe privatizzata potendo a questo punto giocare ad armi pari con Mediaset. In alternativa, la Rai potrebbe divenire una holding che controlla società distinte per le due funzioni (servizio pubbblico e tv commerciale). In un’ottica più ampia che non consideri solo gli aspetti economicofinanziari dell’azienda Rai, varie sono le proposte circolanti volte a diluire il peso della politica al vertice del servizio pubblico. Roberto Natale riporta all’attenzione la proposta che l’ex Ministro Gentiloni aveva formulato nella legislatura 2006/2008, sostenendo che essa sia particolarmente condivisibile nel suo spirito di rottura del vincolo stretto Rai - parlamento. Essa prevedeva la presenza di una fondazione che fosse soggetto terzo rispetto alla Rai ed al Parlamento e che divenisse maggiore azionista della Rai, superando così l’anomalia di una azienda posseduta direttamente dal governo attraverso il ministero dell’Economia. Nell’ipotesi formulata dal ministro, il consiglio della fondazione sarebbe stato composto da sette membri, con i candidati vagliati dal parlamento, due dei quali dalla conferenza stato-regioni. In alternativa si ipotizzava la derivazione del consiglio da designazioni di organismi diversi: parlamento, regioni, organi accademici, sindacali. Natale evidenzia come possa considerarsi positiva l’idea di diluire la quota degli esponenti direttamente politici e di coinvolgere nel CdA soggetti che possano esprimere un punto di vista radicalmente diverso da quello prettamente politico; tutto ciò nella forte convinzione che la risposta al declino Rai non sia la privatizzazione. Essa infatti andrebbe ad aumentare in Rai quella subordinazione alla strategia commerciale che è stata fortemente criticata ed individuata come una delle cause del decadimento qualitativo del servizio pubblico. Allora perché, se questa è la malattia, la cura dovrebbe essere incrementare il tasso di logica commerciale privatizzando le reti Rai? Il Prof. Francesco Abruzzo7 di fronte alla molteplicità di proposte resta comunque poco fiducioso sulla concreta attuabilità delle medesime, ritenendo che la vera soluzione potrebbe essere unicamente quella di 7

Docente universitario a contratto; www.francoabruzzo.it

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affidarsi alla professionalità di personaggi autorevoli, costituendo dei CdA Rai composti da soggetti che fungano da barriera tra il mondo politico e la struttura giornalistica. Il suo pessimismo è alimentato dalla convinzione che difficilmente i partiti saranno capaci di rinunciare alla Rai come strumento che crea consenso e nello specifico adduce ad esempio significativo il referendum abrogativo del 1995 che aveva come oggetto la privatizzazione della Rai. Sconcertante è il fatto che nonostante il 54% degli italiani fosse favorevoli, l’esito sia rimasto del tutto inascoltato.8

8 Uno speciale ringraziamento, per la disponibilità accordataci, va al Prof. Francesco Abruzzo e al Dott. Roberto Natale.

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DIRITTO PENALE

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Il riciclaggio di denaro e gli strumenti per combatterlo: fra prevenzione e sanzione

Ovvero come impedire alle mafie di radicarsi nel tessuto economico del paese Ugo Pecchioli e Rocco Steffenoni Negli ultimi anni si è acquisita la consapevolezza di una vastissima ramificazione delle organizzazioni criminali nel nord Italia attratte dalla possibilità di reinvestire i proventi delle loro attività criminose nella florida economia settentrionale. Quest’anno infatti a Milano si è registrata un’importantissima iniziativa: un ciclo di conferenze volte ad alzare il velo sull’inquietante fenomeno. La conferenza inaugurale, presso l’Università Statale di Milano, è stata tenuta dal Governatore Mario Draghi e da Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera. Il Governatore di Banca d’Italia ha adottato un approccio economico, per illustrare il gravissimo fenomeno. Uno dei punti discussi - a nostro avviso - più rilevanti attiene al fenomeno del riciclaggio. Ogni attività illecita della criminalità organizzata, quali per esempio traffico di stupefacenti, estorsioni, sequestri, genera un introito in moneta contante. Questo flusso di denaro, come riportato dalla Dott.ssa Tarantola, vice direttore generale di Banca d’Italia, ha la caratteristica di essere “poco liquido”1 cioè il suo potere d’acquisto è solo potenziale, perché può essere speso unicamente nel circuito illegale da cui proviene. Il riciclaggio è l’operazione attraverso la quale questo denaro “sporco” viene trasformato in denaro “pulito” spendibile nell’economia legale. Ciò permette alle organizzazioni di integrarsi nel paese investendo enormi flussi di capitale fresco che vengono iniettati nel sistema garantendo rendita e potere ai boss. Si comprende così come questa attività sia vitale per la criminalità organizzata e “determini la stessa pianificazione del reato”2. Per rappresentarsi le dimensioni del fenomeno la stima prodotta dalla Commissione Antimafia quantifica il fatturato annuo delle organizzazioni mafiose in 1 Anna Maria Tarantola, “La prevenzione del riciclaggio nel settore finanziario: il ruolo della Banca d’Italia”. Roma 10 Maggio 2011 2 Anna Maria Tarantola, ibidem

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150 miliardi di euro3, indicativamente attorno al 10% del Pil nazionale. Appare evidente come il riciclaggio sia un passaggio fondamentale per le organizzazioni criminali; questo permette loro di giocare un ruolo di grande potere nell’economia legale, in cui investono i proventi delle attività illecite, aumentando la loro capacità di presa sul territorio. Le tecniche di riciclaggio sono assai diverse e vanno da operazioni semplici e articolate in pochi passaggi a operazioni complessissime che coinvolgono operatori e società sparse in tutto il mondo. Le operazioni hanno tuttavia una struttura comune: una prima fase di placement, in cui il capitale viene impiegato; una seconda fase di layering in cui il capitale attraverso movimenti o altre operazioni si “ripulisce”, facendo perdere la riconducibilità alla sua origine criminosa, e una terza fase di integration in cui il capitale viene investito in attività lecite4. Per lo Stato dotarsi di strumenti che colpiscano le mafie in questo delicatissimo passaggio è essenziale. Nel libro “I Gattopardi” Raffaele Cantone, ex sostituto procuratore di Napoli, ricorda che la regola aurea di Giovanni Falcone era “seguire i soldi per scoprire il potere dei boss”. La legislazione vigente affronta il fenomeno sia con strumenti penali che con strumenti amministrativi. Il problema ha ovviamente una dimensione internazionale; il GAFI, Gruppo di Azioni Finanziaria Internazionale, promuove l’armonizzazione normativa delle discipline e coordina lo scambio informativo. In quest’ottica l’Unione Europea ha adottato la direttiva 2005/60/CE che in Italia ha dato luogo alla d.lgs. 231/07 che istituisce presso la Banca d’Italia lo UIF: Ufficio Informazione Finanziaria. Lo UIF analizza i flussi finanziari al fine di individuare e prevenire fenomeni di riciclaggio. Ha inoltre il compito di ricevere le segnalazioni di operazioni sospette e di effettuare sulla base di queste gli approfondimenti necessari per giungere all’archiviazione ovvero alla segnalazione alla DIA e alla Guardia di Finanza. L’obbligo di segnalazione grava su alcuni soggetti individuati dalla legge ed è sanzionato sia penalmente che amministrativamente. 3 Il FMI stima che il riciclaggio costituisca il 5% del PIL mondiale e altre stime valutano per l’Italia una dimensione del fenomeno pari al 10% del PIL. 4 Roberto Pennisi, “La lotta ai capitali sporchi di mafia e terrorismo”,Gnosis (numero 4/2009). http://www.sisde.it/Gnosis/Rivista21.nsf/ServNavig/13

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I destinatari sono: banche e intermediari finanziari, notai, avvocati, commercialisti e revisori contabili. Il contenuto dell’obbligo è segnalare operazioni sospette secondo determinati criteri, prevalentemente indicati da Banca d’Italia5. Questi criteri coprono una vastissima gamma di possibilità che vanno dalla volontà di occultare le informazioni relative alla provenienza dei flussi finanziari alla semplice sproporzione dei medesimi rispetto all’attività svolta dal cliente. La varietà e l’ampiezza delle condotte previste da questa disciplina supera di molto la fattispecie sanzionata dalle norme penali di riferimento, di cui parleremo in seguito. Le segnalazioni sono complessivamente in crescita: “le 12.500 segnalazioni del 2007 si sono triplicate superando nel 2010 le 37.000. Il trend di crescita è in continua accelerazione: +16% nel 2008, +44% nel 2009, +77% nel 20106. Il 75% delle segnalazioni ha avuto origini dagli istituti di credito; i professionisti e gli altri operatori “sono meno solerti: i potenziali segnalanti sarebbero diverse centinaia di migliaia, ma nel 2010 sono pervenute solo 223 segnalazioni”7. Nel 2010 solo il 10% delle 37.000 segnalazioni si è risolto in un’archiviazione e 4.700 di queste è confluito in procedimenti penali; ciò bene illustra le dimensioni del fenomeno e la utilità dell’Ufficio Informazione Finanziaria. L’UIF mette inoltre le sue competenze e le sue informazioni a disposizione dell’Autorità giudiziaria mediante scambi informativi e ausilio tecnico. La richiesta di questi servizi da parte delle Procure è in aumento: 53 richieste nel 2008, 94 nel 2009, 118 nel 2010. Nella prospettiva strettamente penalistica il reato di riciclaggio, previsto dagli art. 648-bis e 648-ter c.p., consiste in “tutte le attività volte al trasferimento o alla conversione di denaro e altri beni allo scopo di occultarne o dissimularne la provenienza criminosa”8 e ha come suo presupposto un delitto non colposo di cui il capitale riciclato ne è il risultato economico (il c.d. provento illecito). Il legislatore italiano ha inserito nella fattispecie una “clausola di riserva”, che esclude la punibilità dell’autore materiale della condotta di riciclaggio qualora questi abbia già commesso il reato-presupposto. In altri termini, in Italia non è previsto il reato di autoriciclaggio. Questa scelta di politica criminale deriva 5 “La nuova normativa antiriciclaggio : direttive comunitarie e normativa nazionale: aspetti operativi e sanzionatori per gli intermediari finanziari, Pietro Cenci, CEDAM, 2010, pagg.72-108. 6 UIF, Bollettino semestrale luglio- dicembre 2010. 7 Mario Draghi, “Le Mafie a Milano e nel Nord: aspetti sociali ed economici”, 2011. 8 Anna Maria Tarantola, ibidem.

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dalla collocazione sistematica di tale fattispecie, all’interno del Codice penale, tra i reati contro il patrimonio individuale; sarebbe quindi lesivo del principio del ne bis in idem prevederne l’incriminazione in capo allo stesso autore del reato presupposto9. Tuttavia, alla luce della realtà criminale sottostante a questo tipo di reato, parrebbe oggi più appropriata una qualificazione del medesimo in termini plurioffensivi: infatti, il contesto macro economico e criminologico di riferimento imporrebbe l’estensione del bene tutelato. Questo non è solo il patrimonio dell’individuo offeso dal reato presupposto, ma anche l’ordine economico. Inoltre a fronte della modifica apportata negli anni ’90 al 648-bis che ha ampliato il campo delle fattispecie dei reati presupposti, da una previsione “chiusa” a determinati reati patrimoniali, ad una relativa a qualsiasi “delitto non colposo”; ne consegue che la presenza di questa clausola di riserva appare oggi più come un retaggio normativo che una previsione a tutela del ne bis in idem. Un’altra ragione a favore della clausola che esclude l’autoriciclaggio è evitare un eccesso della reazione penale in violazione del principio di proporzionalità. Il problema potrebbe essere risolto attraverso l’inserimento di una clausola che inserisca una soglia minima di gravità del reato presupposto. Nonostante sia stato stralciato in anni recenti un disegno di legge10 che prevedeva l’aggiornamento della disciplina, è assolutamente auspicabile un’evoluzione del dettato normativo. In questo senso si sono espressi e si esprimono sia gli operatori, la Magistratura e lo stesso Governatore11, sia il FMI. E’appena il caso di segnalare come la scelta italiana sia alquanto isolata. Sono dotati del reato di autoriciclaggio gli Stati Uniti, la Svizzera e la Francia; anche il Vaticano, in ottemperanza alla convenzione monetaria con l’Unione Europea, dal 2010 prevede questo reato. Nel 2009 è stato depositato in Senato un Disegno di Legge (n. 1445) il quale prevede oltre all’introduzione del reato di autoriciclaggio, l’abrogazione del delitto di cui all’art. 648ter e l’introduzione di un’aggravante qualora il fatto sia compiuto nell’esercizio di un’attività professionale. La repressione del fenomeno del riciclaggio è una modalità determinante per 9 Si fa riferimento a “una condotta tipica posta in essere da uno dei compartecipi al delitto presupposto che costituisce un post factum non punibile in quanto rappresentazione della naturale prosecuzione dell’originaria condotta criminosa, volta ad ottenere e consolidare il profitto da questa conseguente” (Codice Penale Commentato, Marinucci, Dolcini, Ipsoa, 2006). 10 Ddl 773 (2008) recante le “disposizioni in materia di sicurezza pubblica”. 11 Audizone presso l’Ufficio di Presidenza delle Commissioni 1a (Affari costituzionali) e 2a (Giustizia) del Senato della Repubblica il 15 Luglio 2008.

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impedire alla criminalità organizzata di realizzare il suo obbiettivo ultimo: quello di essere a tutti gli effetti ordinamento nell’ordinamento e di penetrare sempre di più nel tessuto economico sociale del territorio in cui si insedia. Infiltrazione i cui costi sono altissimi anche da un punto di vista economico. Un costo quantificabile - secondo uno studio di Banca d’Italia12 presentato in Commissione Antimafia – in una mancata crescita del Pil per le regioni oggetto di studio, Puglia e Basilicata, in termini di 20 punti percentuali in trent’anni. Va da sé che questo dato sarà ancora più grave nelle regioni a maggiore densità criminale. Questo aggrava ulteriormente il divario di sviluppo che è sia causa che effetto del fenomeno criminale, soffocando l’Italia in un circolo vizioso.

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Paolo Pinotti, “I costi economici della criminalità organizzata”, 2010.

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Il caso Abu Omar: l’Appello Maria Grazia Buonanno e Camilla Capitani Il 15 dicembre 2010 la terza sezione della Corte d’Appello di Milano ha pronunciato la sentenza di secondo grado per la vicenda dell’ex imam di Milano Abu Omar, rapito nel 2003 dalla CIA con l’aiuto dei servizi segreti italiani; come indicato in precedenza (cfr. “L’Alligatore” anno 2 numero 1) il dibattimento di primo grado si era concluso con sentenze di condanna a pene tra i cinque e gli otto anni per tutti gli imputati americani (26), ad eccezione di tre, per i quali il giudice dichiarava di non doversi procedere a causa dell’immunità diplomatica. Quanto agli imputati italiani, Pio Pompa e Luciano Seno erano stati condannati a tre anni di carcere per favoreggiamento, mentre veniva pronunciata sentenza di non luogo a provvedere nei confronti di Pollari e di altri quattro funzionari del SISMI accusati di concorso nel sequestro, perché l’azione penale, per quanto legittimamente iniziata, non poteva essere proseguita per l’esistenza del segreto di Stato opposto dal presidente del consiglio e confermato con la sentenza della Corte Costituzionale. A distanza di un anno, la Corte d’Appello conferma il non luogo a provvedere nei confronti di Pollari e Mancini per la sussistenza del segreto di stato e riduce la condanna da tre anni a due anni e otto mesi per Pio Pompa e Luciano Seno.

Gli imputati americani sono stati condannati a pene comprese tra i sette e i nove anni. A Robert Lady ,capo della CIA a Milano , è stata irrogata una pena di nove anni. I giudici di Milano hanno ritenuto di sgravare Seno e Pompa dal risarcimento in denaro nei confronti dell’ex imam ,confermandolo invece a carico degli imputati americani. Il Procuratore Generale ha proposto ricorso in Cassazione.

Alla luce della sentenza ,possiamo notare che la Corte d’Appello ha confermato nella sostanza la pronuncia di primo grado e quindi, ancora una volta, a causa del segreto di stato, non si è riusciti a porre sullo stesso piano di giudizio gli imputati americani e gli imputati italiani.

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Il senso della pena Marco Fasola Manuel Winston Reves non ha l’aspetto di un assassino. Al contrario, i lineamenti del suo volto sono dolci e nelle sue vene scorre il sangue di un popolo mite e profondamente devoto. Ha l’aria di un uomo perbene, gli occhi e la pelle scuri e folte sopracciglia nere. Winston è un domestico filippino di quarant’anni; da molto tempo vive in Italia, dove ha sempre lavorato onestamente, s’è sposato e ha avuto tre figli, un maschio e due bambine. Dal 29 marzo però è rinchiuso nel carcere di Regina Coeli a Roma, sua città adottiva. Sul suo capo pende un’accusa terribile: aver ucciso, nel luglio 1991, la contessa Alberica Filo della Torre. All’epoca Winston prestava servizio all’Olgiata, esclusivo quartiere romano dove la nobildonna possedeva una villa. Una sera d’estate la contessa fu strangolata con un lenzuolo e finita con un colpo di zoccolo alla testa. Il domestico era uno dei due principali indiziati, ma alla fine il caso fu archiviato per insufficienza di prove. L’imprenditore Pietro Mattei, marito della vittima, è riuscito a far riaprire le indagini. La polizia è risalita a Winston grazie alle tracce di sangue presenti sull’arma del delitto – il lenzuolo – e alle nuove tecnologie di analisi del DNA.

L’omicidio volontario è punito, a seconda della gravità, con lunghi anni di reclusione o con l’ergastolo. In quest’ultimo caso non si prescrive; negli altri, si prescrive in trent’anni. Il “delitto dell’Olgiata” – così l’episodio è noto alle cronache del tempo – risale a vent’anni fa. Nel 1991 Winston, oggi quarantenne, aveva appunto vent’anni. Francesca Loy, il pubblico ministero a capo dell’inchiesta, incriminerà il filippino chiedendone il giudizio immediato: un rito “accelerato” che si adotta nei casi di evidenza della prova. Oltre ai riscontri biologici infatti, Winston ha confessato: «era un peso che mi portavo dietro da vent’anni» ha detto in lacrime agli inquirenti, durante un interrogatorio. Ma è giusto che i fantasmi di un delitto perseguitino così a lungo chi l’ha commesso? Un problema simile era stato sollevato nel 2009, quando il regista franco-polacco Roman Polanski fu fermato in Svizzera per aver abusato di una bambina negli Stati Uniti, trentadue anni prima. Numerosi intellettuali si schierarono

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a sostegno di Polanski: il tempo e la sofferenza patita dal regista non rendevano più necessario punirlo. Altre voci si pronunciarono invece per la sua condanna: la legge non conosce perdono, e né l’arte né il genio possono lavare il delitto. Nel caso di Winston nessuno si è ancora interrogato sull’opportunità di una punizione. Il presunto omicida del resto non è un artista, ma uno sconosciuto domestico; il crimine commesso inoltre è più grave, e il tempo trascorso sensibilmente minore. Nonostante questo ci sono alcune circostanze, psicologiche e giuridiche, su cui vale la pena riflettere.

Tutto ciò che sappiamo di Winston, lo sappiamo dai giornali. Sappiamo che i suoi ultimi datori di lavoro, una facoltosa famiglia romana, lo stimavano e gli affidavano i propri figli, ritenendolo un uomo «dolce». Sappiamo che era dedito alle sue mansioni di domestico, giardiniere, autista, e che nel tempo libero si dedicava alla sua fede cattolica o a lunghe passeggiate solitarie. Sappiamo infine che sosteneva con la moglie l’educazione dei tre figli, che vivono nelle Filippine e presto avrebbero dovuto raggiungere i genitori in Italia. Non credo di sbagliarmi se affermo che Winston non solo ha l’aria di un uomo perbene, ma è un uomo perbene. Una sera di luglio di vent’anni fa però quest’uomo, capace d’intendere e volere, decide nell’esercizio di quello che comunemente chiamiamo “libero arbitrio” di uccidere una donna. Winston non è mai stato un pazzo, né un maniaco o un crudele calcolatore che studia il delitto nei minimi dettagli. Perché allora – come dice lui stesso nella confessione – si è macchiato di un crimine irreparabile come l’omicidio? I giornali raccontano di un debito, del bisogno di lavorare, di una lite con la contessa. Ma questo non è un movente sufficiente a scatenare, in un uomo normale, la follia omicida. Un deputato in visita al carcere di Regina Coeli ha avuto un breve colloquio con Winston: «mi domando come mai – si è chiesto il detenuto – ma non trovo una risposta a questa domanda, semplicemente perché non c’è». Forse una doppia personalità di pirandelliana memoria, che si manifesta nei momenti e nelle forme più inaspettati, forse il peccato originale che dai tempi di Adamo e Caino tormenta l’uomo, forse l’innata bestialità della nostra specie. Nessuno può sapere davvero perché – spesso neanche chi uccide. Con questo non intendo negare la responsabilità dei singoli: al contrario, se tutto fosse ridotto a malattia e stati mentali patologici, essa

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verrebbe meno. Da quando esistono i tribunali, le nostre certezze morali più profonde – il confine fra il bene e il male, tracciato dalla società in cui viviamo – si rispecchiano nei codici penali. Forse non conosciamo le cause del delitto, ma di sicuro dovremmo sapere con esattezza perché e a che scopo esistono le leggi criminali, le forze di polizia, i giudici, le carceri. Il che, nel nostro caso, si traduce nella domanda già posta: «perché, se Winston è colpevole come tutto fa pensare, dev’essere punito?». I filosofi del diritto discutono fra loro teorie, spesso contrapposte, sulla “funzione della pena”. I sostenitori della teoria della retribuzione, ad esempio, vedono nella sanzione penale un “male” che serve a compensare il reato commesso, come se si trattasse della somma algebrica di due numeri opposti. La pena dunque trova in se stessa la propria ragion d’essere. Coloro che difendono la funzione preventiva delle sanzioni invece, spiegano che punire serve a scoraggiare l’autore del reato dal ripetere il suo comportamento; anche gli altri inoltre ci penseranno due volte a delinquere, considerando le conseguenze negative che colpiscono chi infrange la legge. Molti sostengono infine che il carcere dovrebbe avere la funzione di preparare il reinserimento nella società di coloro che hanno sbagliato: ciò sulla base della nostra Costituzione, la quale stabilisce che le pene «devono tendere alla rieducazione del condannato». Retribuire, prevenire, rieducare. Nulla di tutto questo sembra realistico nel caso del presunto omicida di Alberica Filo della Torre. Non sembra possibile infatti “rieducare” un uomo consapevole dei propri sbagli, la cui sofferenza l’ha poi probabilmente distrutto per vent’anni. Le tracce del senso di colpa, se ci fosse bisogno di cercarle, si trovano nella decisione – alquanto «singolare» a detta della Procura – d’imporre alla prima figlia lo stesso nome della vittima, Alberica. Winston afferma di aver cercato di rimuovere l’accaduto, di essersi dedicato ciecamente al lavoro e alla famiglia, di aver avuto paura di confessare, di aver distrutto la propria esistenza con quel gesto scellerato. Non c’è motivo di non crederci: c’è solo da stupirsi di come sia sopravvissuto a se stesso per tutto questo tempo. Non saranno certo gli anni di isolamento, le celle squallide e umide e le coperte mangiate dai topi delle patrie galere a renderlo una persona migliore. Winston ha già avuto fin troppo tempo e troppa solitudine per riflettere, in quelle sue lunghe e malinconiche passeggiate. Com’è noto, inoltre, il nostro sistema penitenziario cade a pezzi. Ha un tasso di recidiva elevatissimo e non è in grado di offrire nuove opportunità neanche agli

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spacciatori e ai ladri di automobili. Non si può ritenere che esso rappresenti una speranza per un uomo che supera la fantasia di Dostoevskij e la complessità psicologica dei personaggi di Delitto e castigo.

Quanto alla prevenzione, si potrebbe pensare che il nostro caso sia una vittoria delle istituzioni preposte a combattere il crimine. Scovare un assassino a vent’anni di distanza potrebbe suonare come un monito: «attenti, dalla giustizia non si scappa». Eppure a ben vedere non c’è motivo di esultare. Gli assassini di professione conoscono bene i rischi che corrono. Non sarà la condanna di uno sprovveduto domestico a fermare la mano dei mafiosi e dei terroristi. Tranne qualche raro caso infine, gli assassini “improvvisati” non sarebbero certo toccati da questa storia, per il semplice fatto che nessuno di loro si aspetta, un giorno, di poter uccidere. Questo è forse l’aspetto più inquietante dell’intera vicenda: tutti noi, potenzialmente, siamo capaci del male – chi scrive queste righe, così come chi le legge. La funzione preventiva della pena può operare appieno solo in quei campi in cui la coscienza non è coinvolta nella sua intima essenza, ma a un livello più superficiale: ad esempio i furti, le rapine, le frodi fiscali.

E la retribuzione? I migliori studiosi di diritto rifiutano questa teoria, tacciandola d’essere barbara; essa inoltre farebbe confluire nel diritto penale un’impostazione di carattere morale, o addirittura metafisico, completamente estranea agli istituti della legislazione criminale. A ben vedere, non sarà il male inflitto al colpevole a “retribuire” il marito di una moglie assassinata. Chi soffre un perdita così dolorosa e inspiegabile, giustamente vuole che siano accertate le responsabilità, ma uno Stato civile non può consentire che la pena operi come “vendetta”, in nessun caso. In secondo luogo, l’idea che la pena possa riportare equilibrio nell’ordine delle cose spezzato dal delitto, suona più adatta a un rituale magico che a una moderna concezione del diritto penale. Eppure è proprio questa l’unica risposta accettabile alla domanda, se punire il presunto assassino della contessa serva a qualcosa: le particolarità del caso, che sembra un romanzo più che una storia reale, escludono qualsiasi altra soluzione. «Ogni giorno che trascorrerò qui in cella – dice Winston – servirà a pagare quello che ho commesso, per il dolore che ho inferto a tante persone». Se dopo vent’anni ha ancora un senso punire, non è per rieducare il colpevole,

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prevenire delitti simili o vendicarli: come dice l’Ecclesiaste, i torti fatti non si raddrizzano. La pena dunque non è altro che la necessaria conseguenza dei propri atti: un’affermazione di responsabilità e quindi di libertà. Solo in questa luce, in barba a secoli di filosofie, le norme del diritto penale mantengono un senso. La loro funzione viene messa a nudo, smascherata. Le leggi penali sono un libro magico, i tribunali un consesso di stregoni, gli imputati le vittime sacrificali di una celebrazione necessaria alla nostra sopravvivenza e antica quanto il mondo.

Lavorando di fantasia, possiamo immaginare che il pubblico ministero formulerà l’imputazione a carico di Winston con una punta di amarezza. La legge lo obbliga a procedere, perché sia fatta giustizia; ma la giustizia, priva di maschere, si rivela per quello che è: un rito preistorico che colpisce gli uomini, li tormenta, e ci ricorda di essere liberi. Non certo un valore positivo, capace di rendere le persone migliori. L’unica speranza è che i familiari della vittima possano chiudere un capitolo orrendo della propria vita; e che scontando la sua pena, il presunto assassino possa finalmente trovare pace. Se così non fosse, Winston dovrebbe essere immediatamente liberato e prosciolto da ogni accusa.

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Il nuovo art. 100 bis t.u.f. : da un sistema di tutela del risparmio di natura obbligatoria a un sistema di natura reale Andrea Fossati Le nuove frontiere della tutela del risparmio in materia d’intermediazione finanziaria sono indirizzate verso forme di tutela reale e trovano nell’art. 100 bis t.u.f.1 un caso esemplare di definitiva collocazione positiva.

La ratio legis è riconducibile all’esigenza del legislatore, diventata prioritaria all’indomani degli scandali finanziari dei primi anni 2000, di evitare, o meglio di disciplinare in modo più puntuale e preciso, operazioni di collocamento nel mercato secondario2 di prodotti finanziari non previamente offerti in pubblica sottoscrizione e quindi privi di prospetto.

1 Art. 100 bis t.u.f., Circolazione dei prodotti finanziari, così come modificato dall’art. 3, ottavo comma, d.lgs. 303/2006: 1) “La successiva rivendita di prodotti finanziari che hanno costituito oggetto di un’offerta al pubblico esente dall’obbligo di pubblicare un prospetto costituisce ad ogni effetto una distinta e autonoma offerta al pubblico nel caso in cui ricorrano le condizioni indicate nella definizione prevista all’art. 1, lettera t) e non ricorra alcuno dei casi d’inapplicabilità previsti dall’art. 100. 2) Si realizza un’offerta al pubblico anche qualora i prodotti finanziari che abbiano costituito oggetto in Italia o all’estero di un collocamento riservato a investitori qualificati siano, nei dodici mesi successivi, sistematicamente rivenduti a soggetti diversi da investitori qualificati e tale rivendita non ricada in alcuno dei casi d’inapplicabilità previsti dall’art. 100. 3) Nell’ipotesi di cui al comma 2, qualora non sia stato pubblicato un prospetto, l’acquirente, che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale, può far valere la nullità del contratto e i soggetti abilitati preso i quali è avvenuta la rivendita dei prodotti finanziari rispondono del danno arrecato. Resta ferma l’applicazione delle sanzioni dell’art. 191 e quanto stabilito dagli articoli 2412, comma 2, 2483, comma 2 e 2526, comma 4 del codice civile. 4) Il comma 2 non si applica alla rivendita di titoli di debito emessi da Stati membri dell’OCSE con classa mento creditizio di qualità bancaria assegnato da almeno due primarie agenzie internazionali di classa mento creditizio, fermo restando l’esercizio delle altre azioni civili, penali e amministrative previste a tutela del risparmiatore”. 2 Il mercato secondario è costituito da prodotti finanziari già emessi, in fase di mercato primario, dalla società emittente e quindi, già in circolazione.

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Come rilevato in dottrina3, analizzando le scelte legislative degli ultimi anni, si può parlare di una sorta di “fuga” dal rimedio risarcitorio.

La scelta di un sistema connotato da rimedi di natura reale è evidente al terzo comma dell’art. 100 bis t.u.f., ai sensi del quale, in caso di rivendita sistematica di prodotti finanziari inizialmente oggetto di private placement4, in Italia o all’estero, l’acquirente che “agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale”5, può far valere la nullità del contratto stipulato qualora l’intermediario non provveda alla consegna del prospetto.

È evidente che, trattandosi di una nullità relativa, in particolare di una

nullità di protezione a legittimazione riservata all’investitore – consumatore, ne deriva l’impossibilità per il giudice di rilevarla ex officio.

La tutela per invaliditatem presenta indubbi vantaggi per il risparmiatore. In primis, il diritto, peraltro imprescrittibile ai sensi dell’art. 1421 c.c., di agire in giudizio invocando la nullità di cui al terzo comma della disposizione in commento e di recuperare il capitale investito maggiorato degli interessi legali dal giorno del pagamento fino al saldo6 come conseguenza dell’accesso alla ripetizione dell’indebito ai sensi dell’art. 2033 c.c. Il cliente ottiene in tal modo la restituzione del capitale investito con un rendimento pari al tasso degli interessi legali. In secondo luogo, il risparmiatore ha la possibilità di accedere al rimedio restitutorio a prescindere dalla prova del nesso di causalità tra il danno lamentato e la mancata consegna del prospetto da parte dell’intermediario, né assume rilievo in relazione al quantum debeatur un suo eventuale fatto colposo ai sensi dell’art. 1227 c.c. Sembrerebbe, prima facie, che la tutela del pubblico risparmio sia così pienamente raggiunta.

3 Perrone A., Servizi d’investimento e violazione delle regole di condotta, in Rivista delle società, 2005, p. 1012. 4 Per private placement s’intende il collocamento di prodotti finanziari rivolto esclusivamente a investitori qualificati, come tale esente da pubblicazione del prospetto ai sensi dell’art. 100, comma 1, lett. a) t.u.f. 5 La definizione comprende esclusivamente gli investitori – consumatori. 6 La mala fede dell’accipiens è insita nella consapevolezza o conoscibilità della mancata pubblicazione del prospetto.

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La disposizione in commento deve però confrontarsi con i meccanismi di equilibrio del mercato finanziario. Il terzo comma dell’art. 100 bis t.u.f. potrebbe, infatti, ben fungere da deterrente per scoraggiare nuove operazioni di collocamento di corporate bond “tossici”, ma non è altrettanto certo che assicuri un equilibrio ottimale tra tutela del singolo risparmiatore ed efficienza del sistema complessivo. L’assunto muove dalla constatazione che la sorte del contratto d’acquisto di prodotti finanziari privi di prospetto dipenda unicamente dalla volontà dell’acquirente stesso, non potendo il giudice rilevare ex officio la nullità di tali atti. Ciò premesso, de iure condito, non è difficile prevedere che l’azione giudiziale di nullità possa scaturire da una valutazione arbitraria e opportunistica da parte dell’investitore.7

In altre parole, supponendo un’operazione di rivendita sistematica di prodotti finanziari che, pur privi di prospetto, siano in ogni caso negoziati al prezzo8 riflettente il loro valore intrinseco, può senz’altro accadere che l’investitore decida di mantenere nel proprio portafoglio i titoli acquistati sperando di ottenere il rendimento atteso. Tuttavia è possibile che, per ragioni dovute al generale andamento del mercato, i prodotti finanziari subiscano delle perdite di valore.

In tale situazione l’investitore, forte della tutela concessagli dal terzo comma dell’art. 100 bis t.u.f., può senz’altro agire in giudizio invocando la nullità del contratto per mancata consegna del prospetto da parte dell’intermediario, accedendo così alla ripetizione dell’indebito.

Un sistema così delineato assicurerebbe all’investitore quantomeno la certezza di un investimento “a rischio zero” con rendimento pari al saggio legale degli interessi sulla somma investita, e imporrebbe all’intermediario

7 Cfr. Roppo E., Investimento in valori mobiliari, in Contratto e impresa, 1986, p. 298, il quale sottolinea il rischio di abusi ricollegati al rimedio restitutorio della nullità relativa: “non si vorrebbe per esempio e si dovrà impedire che un investitore, pentitosi dell’investimento, da cui non ha tratto la redditività sperata, a distanza magari di molti anni pretenda di porlo nel nulla invocando una qualche violazione regolamentare come causa di nullità del contratto”. 8 È noto che il valore di un prodotto finanziario sia il riflesso dell’informazione disponibile nel mercato.

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una sorta di assicurazione a favore del cliente.

Parrebbe, dunque, che il legislatore non abbia tenuto conto dell’impatto che l’art. 100 bis t.u.f. potrebbe avere sui meccanismi di equilibrio del sistema complessivo, soprattutto considerando i possibili abusi dell’istituto della nullità da parte dell’investitore insoddisfatto dell’investimento e delle conseguenze economiche derivanti dalla traslazione del rischio di mercato in capo all’intermediario.

Come osservato in dottrina9, impostare una tutela del risparmiatore in una direzione che preveda la compensazione dell’investitore “a tutti costi”, non tiene conto della “classica obiezione per la quale i benefici dell’in-

tervento imperativo del diritto vanno sempre bilanciati con i relativi costi”.

Innanzitutto, come rilevato da altra dottrina10, il legislatore sembra non aver calcolato l’impatto sul sistema di un aumento delle commissioni bancarie e d’intermediazione come esito naturale della traslazione sul mercato degli oneri economici imposti in capo agli intermediari. È, infatti, conseguenza inevitabile che gli intermediari tendano a recuperare i costi relativi alle possibili restituzioni e alla predisposizione dei prospetti, aumentando i prezzi dei servizi prestati alla propria clientela. L’aumento dei costi d’intermediazione avrebbe poi delle conseguenze non meno importanti anche a livello di equità della soluzione. Sul punto la dottrina citata11 afferma che, un sistema di compensazione indiscriminata del risparmiatore introduce un sistema di c.d. cross subsidization per il quale “i più poveri sono costretti a sovvenzionare i più ricchi”.

Tenendo conto di tale possibilità, è facilmente prevedibile che siano i consumatori più ricchi a investire in operazioni altamente rischiose, quindi, ad essere i soggetti più esposti ai danni conseguenti a eventuali perdite. Ne deriva che i risparmiatori meno propensi al rischio o più accorti sarebbero così costretti a sovvenzionare investitori più propensi a investimenti di natura altamente speculativa o addirittura sprovveduti.

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Cfr. Perrone A., op. cit., p. 1018. 10 Cfr. Denozza F., Il danno risarcibile tra benessere ed equità: dai massimi sistemi ai casi Cirio e Parmalat, in Giurisprudenza commerciale, 2004, fasc. I, p. 344. 11 Cfr. Denozza F., op. cit., p. 347.

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Non ultimo, come segnalato in dottrina12, l’eccessiva deterrenza derivante dal terzo comma dell’art. 100 bis t.u.f. potrebbe scoraggiare l’attività degli intermediari più piccoli “per timore di una sanzione eccessiva rispetto alle proprie capacità patrimoniali, con possibili conseguenze ulteriori sul piano della concorrenza e dell’efficienza allocativa del mercato”. Non è, infatti, difficile prevedere che gli intermediari con un giro d’affari sotto una certa soglia incontrino notevoli difficoltà nel contenere l’aumento dei costi delle commissioni d’intermediazione per mantenere competitività nel mercato, con un evidente pregiudizio all’effettiva concorrenza. Per le ragioni esposte, non sembra pertanto potersi sostenere che la tutela reale prevista dal terzo comma dell’art. 100 bis t.u.f. possa conciliarsi pienamente con le esigenze di equilibrio del sistema complessivo. Riassumendo, la tutela per invaliditatem prevista dal terzo comma dell’art. 100 bis t.u.f. sarebbe sicuramente la via più facile e sicura per giungere alla compensazione dell’investitore danneggiato sia dalla prospettiva dell’attore, il quale non dovrebbe provare alcun nesso di causalità tra danno lamentato e mancata consegna del prospetto, sia dalla prospettiva del giudice, il quale dovrebbe soltanto disporre la restituzione di una somma già determinata nel contratto di negoziazione dei prodotti finanziari.

Sembra però che le scelte del legislatore dell’art. 100 bis t.u.f. prescindano da valutazioni macroscopiche relative all’impatto che tale norma potrebbe avere sull’intero sistema e che, al contrario sembrano essere ritagliate in modo da predisporre una tutela particolare soltanto per il c.d. risparmio tradito.

Concludendo, non si deve dimenticare che l’art. 100 bis t.u.f. non è stato, ad oggi, oggetto di alcuna pronuncia di merito. Tuttavia come osservato, de iure condito, la possibilità di abusi della tutela reale da parte d’investitori “pentiti” dell’investimento, le ripercussioni economiche sul mercato derivanti dalla traslazione del rischio d’investimento e dagli oneri economici per la redazione del prospetto, gravanti sugli intermediari e, infine, il fenomeno di c.d. cross subsidization, sono elementi sui quali aspettarsi un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale e, de iure condendo, un intervento legislativo, o di normativa secondaria, su possibili soluzioni alternative che meglio si concilino con le esigenze di equilibrio tra tutela del risparmiatore e mercato complessivo.

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Perrone A., op. cit., p. 1019.

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DIRITTO Internazionale Approfondimento Guerra in Libia l’alligatore 43


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L’Italia è di nuovo in guerra Legittimità dell’uso della forza nel diritto nazionale e internazionale* Fabio Chiovini e Eduardo Parisi La critica situazione internazionale in cui versa oggi il Mediterraneo obbliga tutti ad una riflessione attenta sulla legittimità e sui limiti dell’uso della forza militare all’estero. L’Italia si trova impegnata in un’azione militare condotta a pochi chilometri dalle coste nazionali, sulla base di una decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. I quesiti che sorgono sono numerosi. Come è possibile che un’organizzazione internazionale fondata per tutelare la pace fra le nazioni autorizzi – o addirittura imponga – un’azione militare contro un’altro Stato? Ci sono dei limiti derivanti dal diritto internazionale all’uso della forza? Come può la decisione di entrare in guerra contro uno stato esser presa a livello internazionale eludendo le normali procedure previste dalla Costituzione agli articoli 78 e 87? L’Italia avrebbe potuto decidere di non agire militarmente contro la Libia? E, infine, che senso ha l’inciso “l’Italia ripudia la guerra” contenuto nell’articolo 11 della nostra Costituzione? Per rispondere a tali quesiti è necessario analizzare da un lato il diritto internazionale ad bellum – ovvero quell’insieme di norme pattizie e consuetudinarie tese a regolamentare il ricorso all’uso della forza nelle relazioni internazionali – e dall’altro lato il diritto costituzionale italiano. Occorre, in via preliminare, ricordare brevemente i fatti. Nel corso degli ultimi mesi, molti Paesi della costa meridionale del Mediterraneo sono stati sconvolti da una serie di movimenti di protesta volti a mettere in discussione, se non ad estromettere del tutto, gli attuali vertici governativi, facendosi portatori di istanze di rinnovamento istituzionale e sociale a lungo maturate nel corso degli ultimi anni. In Libia, in particolare, la crisi si è progressivamente aggravata fino a traboccare nel contesto internazionale, a seguito dell’intervento di diversi Paesi occidentali fra cui l’Italia. Deprecando le massicce e sistematiche violazioni dei diritti umani com-

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piute dai più alti vertici del governo libico a danno della popolazione, ed esprimendo preoccupazione per il numero di morti fra i civili, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu è intervenuto il 26 febbraio 2011 adottando la risoluzione 1970/2011. Con tale risoluzione è stato imposto alla Libia un embargo sugli armamenti, il blocco dei transiti territoriali e il congelamento dei fondi esteri controllati direttamente o indirettamente da Muammar Gheddafi e dai suoi familiari. Solo successivamente, e precisamente il 17 marzo 2011, il Consiglio di Sicurezza, deprecando il mancato rispetto da parte delle autorità libiche della risoluzione 1970, ha adottato la risoluzione 1973/2011, la quale autorizza gli Stati membri a prendere tutte le misure necessarie per proteggere i civili e le aree a popolazione civile minacciate di attacco. Inoltre, con la stessa risoluzione è stata imposta “un’interdizione su tutti i voli nello spazio aereo della Libia allo scopo di contribuire a proteggere i civili” (cosiddetta no-fly zone). In seno al Parlamento italiano sono state votate due diverse mozioni – al Senato il 23 marzo e alla Camera il 24 marzo 2011 – le quali impegnano il Governo ad adottare “ogni iniziativa per assicurare la protezione delle popolazioni nella regione [libica]”1, nello “scrupoloso rispetto” della risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Conclusa questa preliminare ricostruzione, possiamo ora cominciare ad analizzare il primo aspetto della questione, ossia la legittimità dell’uso della forza nelle relazioni internazionali fra Stati. L’uso della forza nelle relazioni internazionali

La pietra angolare della disciplina è costituita dal secondo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Esso prevede un generale divieto di ricorso alla forza: “All Members shall refrain in their international relations from the threat or use of force against the territorial integrity or political independence of any state, or in any other manner inconsistent with the Purposes of the United Nations”.2

1 Risoluzione 6-00072 Camera dei Deputati 2 “Gli Stati devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.”

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Si tratta di una norma di diritto internazionale cogente che (come previsto all’art. 103 della Carta stessa) non può essere derogata da alcun diverso accordo tra Stati.

D’altra parte, il capitolo VII della Carta stessa prevede due importanti eccezioni a tale divieto generale, rispettivamente agli art. 42 e 51. La prima di queste due eccezioni autorizza l’uso della forza esercitato su autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite al fine di mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. L’articolo 39 della Carta delle Nazioni Unite stabilisce, infatti, che il Consiglio di Sicurezza – accertata l’esistenza di una minaccia o di una violazione alla pace – decide quali misure debbano essere prese al fine di ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. In primo luogo il Consiglio può adottare le misure previste dall’articolo 41 della stessa Carta, non implicanti l’uso della forza armata. Solo in un secondo momento, qualora ritenga che le misure adottate non siano “adeguate”, il Consiglio può autorizzare gli Stati all’uso della forza militare.3 La seconda eccezione autorizza l’uso della forza come legittima difesa in caso di attacco armato ai danni di uno Stato membro, ma solo fino al momento in cui il Consiglio di Sicurezza non sia in grado di attivarsi al fine di esercitare le proprie prerogative.4 Infine, il ricorso all’uso della forza militare nei confronti di uno Stato membro è ammesso in caso di “intervento consentito”. Si tratta di quei casi in cui uno Stato compie azioni militari sul territorio di un altro Stato con il consenso del governo di quest’ultimo.5

3 “Should the Security Council consider that measures provided for in Article 41 would be inadequate or have proved to be inadequate, it may take such action by air, sea, or land forces as may be necessary to maintain or restore international peace and security. Such action may include demonstrations, blockade, and other operations by air, sea, or land forces of Members of the United Nations”. 4 “Nothing in the present Charter shall impair the inherent right of individual or collective self-defence if an armed attack occurs against a Member of the United Nations, until the Security Council has taken measures necessary to maintain international peace and security. Measures taken by Members in the exercise of this right of self-defence shall be immediately reported to the Security Council and shall not in any way affect the authority and responsibility of the Security Council under the present Charter to take at any time such action as it deems necessary in order to maintain or restore international peace and security”. 5 Le recenti rivolte nei Paesi islamici offrono un esempio anche di tale intervento consentito: difatti il 14 marzo scorso, a seguito di una richiesta del governo del Bahrain e di una decisione del Gulf Co-operation Council, le truppe saudite

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Proviamo ad applicare ora la normativa descritta alla fattispecie libica. L’uso della forza da parte della NATO in Libia

Non v’è dubbio alcuno che l’offensiva iniziata il 19 marzo scorso mediante lanci di missili e blocchi navali da parte degli eserciti di Stati Uniti, Regno Unito e Francia costituisca un ricorso all’uso della forza nelle relazioni internazionali contro l’integrità territoriale dello Stato libico, ai sensi del secondo articolo della Carta delle Nazioni Unite. Tuttavia, tali operazioni non dovrebbero essere considerate contrarie al diritto internazionale, se condotte in conformità ad almeno una delle eccezioni previste dal capitolo VII della Carta.

Analizziamole distintamente. Di sicuro possiamo affermare che l’intervento della coalizione non è stato consentito dal governo libico. Né può dirsi consentito in base a un diritto di legittima difesa sorto in capo alle vittime delle violenze perpetrate dal governo libico: il diritto di legittima difesa è accordato dall’articolo 51 della Carta in caso di “attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite e non in caso di repressione operata da un governo sulla popolazione sottoposta. Né le violenze perpetrate dal governo libico possono essere considerate una violazione dell’art. 2 e ancor meno “un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite” ai sensi dell’art. 51.6

sono penetrate nel territorio del Bahrain al fine di garantire la sicurezza degli impianti energetici minacciati dalle rivolte. Si tratta evidentemente di un caso in cui il divieto d’utilizzo della forza non può trovare applicazione: anche se l’opposizione interna ha definito tale intervento come occupazione, in ambito internazionale essa è stata criticata da alcuni governi (tra cui quello iraniano) senza che tuttavia venisse mai invocato il divieto previsto all’art. 2 della Carta. 6 Tale repressione non è difatti contraria all’art. 2 della Carta, che considera unicamente “l’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un qualsiasi Stato”: se ne deduce che, a fini della sua applicazione, rilevano solamente gli atti di forza diretti contro un’entità statale, restandone perciò esclusi i conflitti puramente interni, che rimangono limitati entro il territorio di un medesimo stato (e vedono dunque opposti un’entità statale, il governo, e altre forze non governative, come i ribelli). Tali azioni, irrilevanti quindi ai sensi dello jus ad bellum, potranno d’altra parte essere censurate sulla base dello jus in bello (ovvero, ad esempio, delle norme a protezione dei diritti umani). Per un’analisi più approfondita delle problematiche sollevate, si rinvia allo Studio pubblicato su www.lalligatore.org.

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La giustificazione delle operazioni militari in Libia può risiedere perciò solo nella risoluzione 1973/2011 con la quale il Consiglio di Sicurezza, in applicazione dell’art. 42 della Carta, ha concesso il suo imprimatur ad una operazione militare che sarebbe altrimenti stata condotta in manifesta violazione dell’art. 2. L’operazione militare si fonda su una risoluzione che a sua volta si basa sulla Carta delle Nazioni Unite; dunque, per poter affermare che il ricorso alla forza è legittimo occorre condurre una verifica in due fasi: in primo luogo occorre verificare la conformità della risoluzione a quanto previsto dalla Carta (a), in secondo luogo occorre accertare che le operazioni militari siano aderenti alla risoluzione stessa (b).

a) Affinchè una risoluzione del Consiglio di Sicurezza possa essere considerata conforme alla Carta occorre che siano stati rispettati dei requisiti formali, come la maggioranza di 9 voti positivi su 15 senza il voto contrario di nessun membro permanente, sia requisiti sostanziali, ovvero “the existence of any threat to the peace, breach of the peace, or act of aggression” come previsto dall’art. 39. Si tratta di requisiti più stringenti di quelli previsti per l’attivazione del Capitolo VI sulla risoluzione pacifica delle controversie, nel cui ambito il Consiglio può attivarsi ad uno stadio ancora precedente alla minaccia (“situation [which] is likely to endanger the maintenance of international peace and security”). Lo specifico richiamo alla pace e alla sicurezza internazionali contenuto all’art. 39, potrebbe tuttavia portare a concludere che il Consiglio non può autorizzare l’uso della forza in situazioni puramente interne ad uno Stato, senza diretta incidenza sul piano internazionale, quasi a far coincidere i limiti d’applicazione dell’art. 42 con quelli dell’art. 2, paragrafo 4. Eppure, nel corso dei decenni la lettera dell’art. 39 è stata interpretata in maniera molto fluida ed elastica, fino a farle ricomprendere casi di violazioni di diritti umani o altre emergenze, limitate all’interno del territorio di una sola nazione.7 Venendo al caso in esame, la risoluzione 1973/2011 presenta il rispetto dei requisiti formali, e si pone nel solco della precedente prassi tendente ad autorizzare operazioni in base all’art. 42 della Carta in conflitti pura7 Tale interpretazione è stata sviluppata sia nel corso dei lavori in seno all’Assemblea generale, sia attraverso diverse risoluzione con le quali il Consiglio di sicurezza è intervenuto in situazioni interne a un dato Paese. Anche in questo caso, si rimanda allo Studio per un’analisi più completa.

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mente interni.

b) Nell’adozione delle misure previste dall’articolo 42 della Carta, il Consiglio non agisce in prima persona, come la lettera della norma suggerirebbe.8 Al contrario, per prassi il Consiglio agisce “per delega” autorizzando una organizzazione regionale (come la NATO) o una “coalizione di volenterosi” a gestire le operazioni. Si pone perciò il problema di chiarire se l’intervento militare si sia svolto nel rispetto dei limiti tracciati dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Ebbene, nella maggior parte dei casi il Consiglio utilizza formule molto generiche che autorizzano gli Stati membri ad adottare “ogni misura necessaria”, lasciando agli stessi un largo margine di movimento. Questa prassi è confermata dalla risoluzione 1973/2011 sulla questione libica, che al suo quarto paragrafo stabilisce: “Authorizes Member States that have notified the Secretary-General, acting nationally or through regional organizations or arrangements, and acting in cooperation with the Secretary-General, to take all necessary measures, notwithstanding paragraph 9 of resolution 1970 (2011), to protect civilians and civilian populated areas under threat of attack in the Libyan Arab Jamahiriya, […], and requests the Member States concerned to inform the SecretaryGeneral immediately of the measures they take pursuant to the authorization conferred by this paragraph which shall be immediately reported to the Security Council”. In presenza di un simile mandato, occorrerà valutare caso per caso se le operazioni intraprese possano essere definite necessarie, in considerazione dei criteri dello scopo legittimo, dell’efficacia e della proporzionalità. Tuttavia, ad ora non è noto alcun precedente di uno Stato che sia stato censurato per aver ecceduto un’autorizzazione concessa dal Consiglio di Sicurezza. Siamo arrivati, dunque, ad affermare che l’intervento in Libia da parte degli stati dell’Alleanza Atlantica – e in particolare dell’Italia – non è illegittimo qualora gli Stati membri si attengano scrupolosamente ai limiti dettati dalla risoluzione 1973, Carta delle Nazioni Unite e – più in generale – dal diritto internazionale in bello. Resta ora da analizzare il secondo profilo della questione: la conformità dell’intervento militare in Libia da parte delle truppe militari italiane con il nostro diritto costituzionale. 8

Per il testo dell’articolo 42, si veda nota 3.

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L’uso della forza alla luce del diritto italiano L’articolo 11 della Costituzione Italiana recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” Come può un intervento militare quale quello condotto dall’Italia in Libia essere spiegato alla luce del dettato costituzionale? Il “ripudio” è un termine più ampio e incisivo rispetto a una generale espressione di “rinuncia” alla guerra, e – costituendo un principio fondamentale della Costituzione – non può essere derogato se non ritrovando nella Costituzione stessa un’autorizzazione in tal senso. Eppure, non tutti i tipi di azione militare sono vietati dall’articolo 11. Cerchiamo, dunque, di individuare quale sia l’oggetto del divieto contenuto nell’articolo in commento. E’ pacifico che sia ammessa una “guerra difensiva” quando si verifichi un’aggressione da parte del “nemico” rivolta al territorio, ai beni o agli interessi della Nazione. Ciò si deduce dalla lettura della norma in esame in combinato disposto con gli articoli 52 (“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”), 78 (“Le Camere deliberano lo stato di guerra”) e 87 (“Il Presidente della Repubblica […] dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere”).9 E’ solo in questi casi che – secondo alcuni autori di dottrina10 – potrebbe ammettersi un’azione armata da parte dello Stato, autorizzata secondo la procedura di votazione democratica in Parlamento descritta dall’articolo 78 Cost. Successivamente, ai tempi dell’adesione italiana alla Nato e all’Onu, è stato poi affermato che il ricorso alla guerra non sarebbe incostituzionale ove discendesse dall’esecuzione di un trattato internazionale, ma solo in virtù di un principio di “autodifesa collettiva”, e in condizioni di parità con gli altri Stati.11

9 G.U.Rescigno, Quaderni Costituzionali, 1999, vol. II, p. 376 ss. 10 Su tutti: Bon Valvassina, il ripudio della guerra nella Cost. italiana, 1995 11 Amorth, La Cost. it., 47 e Cassese, Studi Balladore Pallieri, II, 16s.; contrario Jemolo in Studi XX ann. Ass. cost. IV, 294 ss, il quale sostiene che introducendo

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Come abbiamo già chiarito nei primi paragrafi di questo articolo, tuttavia, l’attacco italiano alla Libia non può essere giustificato sulla base di un principio di autodifesa: l’azione del governo libico non si è mai spinta al di fuori dei confini nazionali. Al contrario, tale attacco si giustifica sulla base della risoluzione 1973/2011 del Consiglio di Sicurezza, adottata per far fronte alle violazioni dei diritti umanitari protratte dal governo libico a danno dei civili. Il Consiglio di Sicurezza ha agito in passato secondo modalità simili in Ruanda, Burundi, Somalia e Bosnia.12 Parzialmente diverso è il caso del Kosovo, in cui la Nato ha autonomamente deciso di intervenire per far cessare le operazioni di polizia etnica compiute da Milosevic. Nel 1999, tuttavia, alla luce della partecipazione italiana alle operazioni militari, molti autori di dottrina si sono posti il problema della liceità di un intervento militare compiuto per ragioni umanitarie. Alcune delle considerazioni svoltesi allora possono esserci utili per comprendere la situazione attuale.

De Vergottini13 ritrova una deroga all’articolo 11 nel primo enunciato dell’articolo 10 della Costituzione: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto generale internazionalmente riconosciute”. Ai sensi di questa interpretazione sistematica, qualora si rinvenisse una consuetudine di diritto internazionale che imponga la tutela dei diritti umani, un intervento militare volto a farne cessare le violazioni sarebbe legittimo. In senso contrario, Carlassare afferma14 che anche qualora una consuetudine esistesse, essa non potrebbe porsi in contrasto con i principi fondamentali della Costituzione quali il divieto di una guerra che non sia difensiva. Tornando al caso libico, possiamo ora affermare che una prima deroga al divieto generale deve necessariamente essere rinvenuta nel secondo periodo dell’articolo 11. Tale articolo consente le limitazioni di sovranità necessarie per costituire e promuovere le organizzazioni internazionali volte a tutelare la pace, quali l’Onu.

tali automatismi nell’intervento bellico verrebbe eluso il procedimento legale ex art. 78 Cost, che riserva alle Camere ogni decisione in proposito. 12 Bin, Bartole, Commentario Breve alla Costituzione. p. 90 13 in Q. cost., 1999, vol. I, 122 ss. 14 in Cost. italiana, 171 ss.

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Quando l’Italia ha sottoscritto la convenzione di San Francisco del 1945, ha dunque ceduto parte della sua sovranità legislativa al fine di consentire che gli organi dell’Onu – e in particolare il Consiglio di Sicurezza – potessero adottare le misure più adeguate per l’attuazione dei principi contenuti nella Carta. E fra tali misure rientrano anche, come extrema ratio, quelle comportanti l’uso della forza. Una seconda deroga al divieto dell’uso della forza è poi rinvenibile nell’articolo 10 della Costituzione, il quale ammette interventi militari negli stati stranieri finalizzati alla tutela dei diritti fondamentali dei popoli oppressi. Interpretazioni troppo formalistiche del dettato costituzionale, tese ad ammettere il ricorso alla forza solo nei casi della guerra difensiva,15 risultano miopi in un contesto ove le azioni militari vengono continuamente autorizzate dal Parlamento italiano, non attraverso le procedure solenni di dichiarazione di guerra stabilite dagli articoli 78 e 87 della Costituzione ma mediante leggi delega o decretazioni d’urgenza.16 Sono oggi da considerarsi legittimi interventi militari volti a ristabilire l’equilibrio internazionale e l’ordine fra le Nazioni, in caso di attacco esterno (in condizioni di parità con gli altri Stati) o di sistematica violazione dei diritti umani. Se si vuole conservare il principio fondamentale del ripudio della guerra inserito nell’articolo 11 non bisogna negare l’esistenza stessa di tali forme di intervento, bensì è necessario ritrovarne i limiti invalicabili. E questi si rinvengono nella Costituzione stessa, agli articoli 10 e 11. L’uso della forza militare deve dunque essere considerato legittimo solo ove sia condotto sotto l’egida dell’ONU, rispettando scrupolosamente le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e ove sia volto ad affermare la difesa dei popoli oppressi e la tutela dei diritti umani. Qualora le forze militari in campo travalicassero tali limiti sarebbe, invece, necessario riaffermare fortemente il ripudio alla guerra contenuto nella nostra Costituzione.

15 Tali le tesi sostenute da Carlassare, sopra citato, e da Allegretti, il quale sostiene, in D. Pubbl., 2005, 93 ss, che dalla partecipazione ad organizzazioni internazionali non potrebbe dedursi la legittimazione costituzionale all’uso della forza, poiché la promozione di organizzazioni internazionali quali l’ONU ha come fine la tutela della pace e della giustizia. 16 La dichiarazione di uno stato di emergenza internazionale permise al Governo nel 1999 di adottare tutti i decreti necessari per espletare le operazioni militari in Kosovo.

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Alla luce di questa analisi possiamo trarre alcune conclusioni. In primo luogo l’intervento militare degli Stati della Comunità Internazionale non viola il diritto internazionale qualora sia compiuto in conformità all’articolo 42 della Carta delle Nazioni Unite e qualora abbia come fine la difesa delle popolazioni civili. In secondo luogo, non bisogna oggi stupirsi se decisioni che un tempo erano ricondotte alla sovranità nazionale degli Stati sono oggi prese in ambito internazionale. L’Italia non vive in una condizione di chiusura rispetto all’ordinamento internazionale. Al contrario, essa fa parte dell’Unione Europea, è membro della Nato e dell’Onu ed è vincolata al rispetto dei trattati ratificati. Fra questi, c’è la Carta di San Francisco, la quale autorizza, in casi estremi, il ricorso alla forza. Certamente, l’Italia continua a ripudiare la guerra, il controllo delle sue forze armate rimane tuttora al Governo ed il potere di deliberare lo stato di guerra in caso di attacco rimane in capo al Parlamento, ma a queste previsioni fondamentali e imprescindibili se ne aggiunge necessariamente un’altra a seguito delle modificazioni del contesto internazionale rispetto al 1948: l’Italia ha il potere di conformarsi, attraverso le normali procedure parlamentari, alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che richiedano agli Sati membri di intervenire a tutela dei popoli oppressi, nel rispetto dei limiti di diritto nazionale e internazionale.

*L’articolo è la versione ridotta di un più ampio Studio pubblicato sul sito www.lalligatore.org

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Dossier

La riforma dell’Avvocatura

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La riforma della professione forense - parte seconda -

La riforma in discussione in Parlamento Alessio Fionda Nell’ultimo numero de “L’Alligatore” (Anno 2 Numero 2) abbiamo iniziato a toccare il tema della professione forense, in particolare, abbiamo descritto lo scenario attuale in cui si trova l’avvocatura, concentrandoci, per ovvi motivi d’interesse, ai temi dell’accesso alla professione, dei potenziali di crescita professionale, del reddito, della condizione dei praticanti e dei punti di debolezza delle facoltà di giurisprudenza. Abbiamo concluso affermando che “la mancanza di interventi regolatori incisivi, l’aumento della domanda di giustizia, la corsa alla laurea in legge, le difficoltà che attanagliano molte professioni sono tra le cause che hanno portato ad una crisi dell’avvocatura alle soglie dell’irreversibilità ma che a differenza di altre professioni, rischia di lasciare una pesante cicatrice sul funzionamento del sistema giustizia del nostro paese” A questo punto, la domanda di questo secondo contributo è: che cosa stanno facendo i policy makers del nostro paese? Negli anni le proposte di modifica dell’ordinamento forense sono state moltissime ma nessuna di questa è mai arrivata all’approdo della promulgazione come legge dello stato. L’attuale legislatura tuttavia, ha visto approvare in prima lettura al Senato della Repubblica un disegno di legge di riforma organica che dovrebbe sostituire definitivamente il testo del lontano 1933. Occorre da subito dire che, mentre quest’articolo è scritto, la proposta di legge è ferma alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati al fine di acquisire una serie di dati ritenuti utili dalle opposizioni per meglio deliberare sulla materia. Il testo di legge che analizzeremo quindi è quello uscito dal Senato della Repubblica il 23 novembre 2010. In alcuni punti, inoltre, confronteremo il testo del Senato con il testo proposto dal Consiglio Nazionale Forense che è stato il vero punto di riferimento per i lavori della Commissione Giustizia. Ci concentreremo essenzialmente su alcuni articoli del testo di legge che toccano il praticantato, la formazione obbligatoria e l’esame di stato.

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Iniziamo il nostro viaggio dal nuovo tirocinio professionale. 1. Il tirocinio professionale Il titolo IV- Capo I della proposta di legge è dedicato all’accesso alla professione forense. Come qualcuno di voi ricorderà, nell’articolo precedente avevamo percorso i diversi ruoli che l’avvocato deve prima ricoprire per esercitare la professione ossia studente di giurisprudenza e praticante avvocato. Tuttavia, il legislatore, non ha ritenuto di dover intervenire, in alcun modo, sulle facoltà di giurisprudenza che per quanto riguarda ciclo di studi, accesso, organizzazione e quant’altro restano tali e quali. Solo l’art. 38 contiene due norme programmatiche che prevedono la possibilità (come tale quindi una mera facoltà) di stipulare convenzioni tra università e ordini forensi per definire i loro rapporti reciproci ed aumentare la loro collaborazione. Convenzioni che avranno attuazione, come noto, nella misura in cui maggiore sarà l’iniziativa delle singole università e dei singoli ordini forensi.

Veniamo all’art. 39, relativo ai contenuti e alla modalità di svolgimento del tirocinio; la norma dispone che il contenuto del tirocinio debba essere a contenuto teorico e pratico; per iscriversi al registro dei praticanti occorre chiaramente aver conseguito la laurea in giurisprudenza. Da sottolineare che, nel corso del dibattito parlamentare, è venuto meno il test da tenersi presso gli ordini professionali per iscriversi al registro dei praticanti. Per quanto riguarda i regimi di incompatibilità, il tirocinio è incompatibile con qualsiasi attività di lavoro pubblico mentre, anche in questo caso, viene meno la proposta del Consiglio Nazionale Forense, di incompatibilità con il lavoro privato di tipo subordinato purchè sia regolabile con l’orario di lavoro (sostanzialmente rimane in vigore la possibilità del cd. tirocinio part time nel lavoro privato). La durata è sempre di 24 mesi continuativa (interruzione max di 6 mesi) Il luogo in cui può essere svolto è sempre uno studio legale privato o pubblico, l’avvocatura dello stato od uno studio legale di un altro paese dell’Unione Europea. Il comma 7 dell’art. 39 stabilisce l’obbligo a carico dell’avvocato dominus di assicurare un profiquo e dignitoso tirocinio; anche questa norma priva di qualsiasi sanzione o premio per la sua attuazione è prognosticamen-

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te priva di grande cambiamento rispetto alla situazione attuale che vede, spesso, i tirocini professionali come surrogati di attività segretariale a basso costo. Molto importante è il comma 8 sulla natura del tirocinio che ha suscitato un aspro dibattito tra maggioranza e opposizione in sede di commissione giustizia al Senato. Perché? Se da una parte tutti sono d’accordo nel chiedere che il tirocinio acquisisca maggiore importanza, spessore intellettuale e professionale combattendo le pratiche molto diffuse di tirocinio fittizio e andando a stabilire che il tirocinio debba essere dignitoso e proficuo, dall’altra parte, viene meno l’unico strumento concreto in grado di aumentarne il suo prestigio ossia il fatto che sia un tirocinio professionale retribuito obbligatoriamente. La norma afferma che “Il tirocinio professionale non determina l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato anche occasionale”. Si stabilisce chiaramente che il tirocinio non possa essere inquadrato in nessun rapporto di lavoro subordinato (contratto a tempo determinato, indeterminato ma anche apprendistato e collaborazioni a progetto) La norma continua affermando che “Al praticante avvocato è sempre dovuto il rimborso delle spese sostenute per conto dello studio presso il quale svolge il tirocinio” Appare chiaro anche ad uno studente di giurisprudenza del primo anno, come spesso il legislatore disciplini delle fattispecie la cui regolazione dovrebbe essere lasciata al normale buon senso o se vogliamo con un termine più giuridico agli usi e laddove questi non siano sufficienti alle disposizioni regolamentari dei singoli ordini professionali. Il comma 8 sembra rispondere a queste domande pratiche, la cui risposta, come si diceva prima dovrebbe essere ovvia: “Se il praticante avvocato spende del proprio denaro per acquistare i biglietti della metropolitana per recarsi in tribunale per conto dello studio, questi gli devono o no essere rimborsati?” In realtà, il legislatore, dopo aver affermato che il tirocinio professionale non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato sembra cercare, a nostro parere, con molta difficoltà, di dettare delle disposizioni minime che tutelino in qualche modo il praticante avvocato ma allo stesso tempo è inevitabilmente condizionato dalla disposizione perentoria precedente e infatti il disastro interpretativo si realizza proprio con la norma successiva. La quale dispone “Ad eccezione che negli enti pubblici e presso l’Avvocatura dello Stato, decorso il primo anno, l’avvocato riconosce al praticante avvocato un rimborso congruo per l’attività

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svolta per conto dello studio, commisurato all’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni e tenuto altresì conto dell’utilizzo da parte del praticante avvocato dei servizi e delle strutture dello studio” Mettiamo da parte per un attimo il primo periodo relativo agli enti pubblici e all’Avvocatura dello Stato. La disposizione dice che dopo il primo anno - quando il praticante può chiedere l’abilitazione per rappresentare il suo avvocato-dominus presso le corti inferiori - egli abbia diritto ad un rimborso. In quanto si parla di rimborso in tanto non possiamo parlare di compenso ovvero di retribuzione. Tuttavia, ad un lettore attento non sarà sfuggito che, mentre nella disposizione precedente si parlava di rimborso spese, qui si parla di rimborso congruo per l’attività svolta per conto dello studio. Dov’è la differenza di accezione tra il primo rimborso spese e il secondo rimborso per l’attività svolta? E cosa accade dal punto di vista della sua applicazione pratica? È utile spendere qualche parola su ciò che in questi anni ha caratterizzato l’inquadramento della pratica legale dal punto di vista contrattuale, fiscale e previdenziale. Per necessità di spazio non possiamo dilungarci ma le opzioni utilizzate sono spesso state le seguenti: • Rapporto di praticantato gratuito o semi-gratuito (oseremmo dire se non proprio in nero, in grigio) quindi inesistente in tutto o in parte per l’Agenzia delle Entrate, sicuramente del tutto inesistente per Direzione Provinciale del Lavoro, INAIL, INPS o Cassa Previdenziale Forense1; • Rapporto di praticantato inquadrato in un rapporto di lavoro autonomo quindi con apertura di partita IVA, e pertanto regolare posizione fiscale, iscrizione previdenziale alla Cassa Forense o alla gestione separata INPS ecc… • Borsa di studio per tirocinio; il praticantato è inquadrato in una borsa di studio di cui all’art. 50, comma 1 lettera c del TUIR, assoggettate ad IRPEF secondo le previsioni applicabili ai redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, ma per la tipologia di attività svolta non soggette ad alcun obbligo di tipo previdenziale e 1 Come noto, al fine della registrazione presso gli ordini forensi provinciali come praticante avvocato non occorre dichiarare se e con quale rapporto di lavoro si intende configurare la pratica.

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assistenziale2. Con questa configurazione il praticante riceve un reddito sottoposto a tassazione ma non versa né lui né lo studio, nel quale presta la sua attività di pratica, alcun contributo previdenziale ed assistenziale3.

La normativa fiscale conosce la categoria dei rimborsi spese che hanno un loro trattamento specifico al fine della nozione di reddito da lavoro; è del tutto sconosciuta, invece, la nozione di “rimborso congruo per attività svolta”. A nostro parere la maggioranza che ha esteso il provvedimento, non intendendo fare una scelta chiara in relazione alla configurazione del rapporto di praticantato, apre potenzialmente le porte a nuovi disagi e conflitti tra praticanti e gli studi nei quali essi prestano la loro attività. Occorre dire, allo stesso tempo, che esistono numerose sentenze della Suprema Corte di Cassazione che affermano che il praticantato, al pari del tirocinio, non costituisce un rapporto di lavoro né subordinato né autonomo, né tanto meno può essere inquadrato nell’apprendistato o in forme speciali di tirocinio (si veda in particolare la disciplina del tirocinio dei medici specializzandi) dove è presente un sinallagma contrattuale a causa mista4. Tuttavia, la disposizione non parla solo di rimborso congruo per l’attività svolta e che potrebbe far pensare solo ad una specie di rimborso spese più “sostanzioso” ma lega la congruità stessa del rimborso a due variabili, la prima costituita dall’effettivo apporto professionale dato nell’esercizio delle prestazioni, e la seconda costituita dall’uso delle strutture e dei servizi dello studio. A riprova della carenza di questa norma, è utile la lettura dell’art.41 del testo sull’ordinamento forense approvato il 27 febbraio 2009 dal Consiglio Nazionale Forense (CNF) e che ha costituito il testo di riferimento principale per i lavoro della Commissione Giustizia del Senato. La norma

2 A questo scopo la legge di riferimento è la l.n.335 del 1995 per quanto riguarda il trattamento pensionistico e la nota INAIL del 9 luglio 2004 per quanto riguarda il trattamento assistenziale. 3 Tra l’altro opportuno sottolineare che a differenza degli anni di studi universitari che sono riscattabili presso l’INPS quindi possono concorrere agli anni necessari per il conseguimento della prestazione pensionistica, gli anni prestati in qualità di praticante, non soggetti a contribuzione previdenziale, non sono riscattabili in alcun modo. 4 Tuttavia in alcune occasioni i giudici si sono trovati a dover costituire un rapporto di lavoro subordinato laddove vi fosse una particolare situazione nella quale il praticante in concreto fosse un lavoratore subordinato per via delle mansioni espletate (caso del praticante che in realtà effettua esclusivamente lavori di segreteria e di amministrazione)

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proposta disponeva che: “il tirocinio professionale non determina l’instaurazione di rapporto di lavoro subordinato anche occasionale” e fin qui nessuna differenza con il testo di legge ma poi la norma continuava affermando che “in ogni caso (il che significa sempre), al praticante avvocato è dovuto un adeguato compenso (non rimborso(!)) commisurato all’apporto dato per l’attività effettivamente svolta ovvero quello convenzionalmente pattuito. Infine, riprendiamo in esame la deroga per gli enti pubblici: le pubbliche amministrazioni, nelle quali è eseguito il periodo di tirocinio, sono esonerate dall’obbligo del rimborso congruo per l’attività svolta dopo il primo anno; come a dire che, da una parte, il praticante avvocato degli enti pubblici e dell’Avvocatura dello Stato è un praticante di fascia inferiore a cui non spetta alcun tipo di rimborso e d’altra parte si toglie dall’imbarazzo la pubblica amministrazione che non saprebbe, in ogni caso, che tipo di esecuzione pratica dare alla norma.

2. La formazione obbligatoria Un elemento di sicura novità, rispetto all’attuale regolazione, sta nell’obbligo della formazione durante il periodo di praticantato. L’art. 41 della proposta di legge dispone che “Il tirocinio, oltre che nella pratica svolta presso uno studio professionale, consiste altresì nella frequenza obbligatoria e con profitto, per un periodo non inferiore a ventiquattro mesi, di corsi di formazione di indirizzo professionale tenuti da ordini e associazioni forensi, nonché dagli altri soggetti previsti dalla legge” Ad un regolamento del CNF è demandata la disciplina particolare dei corsi di formazione e tuttavia anche qui alcuni rilievi critici: il primo è che è sparito in sede di commissione il comma 3 proposto dal CNF in relazione ai costi dei corsi di formazione, con la previsione che questi fossero solo in parte a carico dei praticanti e che fossero istituite borse di studio ed agevolazioni. Disposizione, a maggior ragione necessaria, considerata la norma precedente sul tirocinio professionale. Desta problemi pratici poi il periodo di 24 mesi, con il rischio che il praticante che non sia riuscito ad iscriversi al primo corso utile veda posticipare l’inizio stesso del praticantato ovvero si veda preclusa la possibilità di sostenere l’esame di stato decorsi 24 mesi di pratica ma non i due anni di corso.

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3. L’Esame di Stato 40.000 candidati all’anno, 1800 commissari di esame; bastano questi numeri, unici in Europa, per comprendere le difficoltà oggettive dell’esame di stato per l’accesso alla professione di avvocato e tuttavia anche in questo caso non si registra un cambiamento sostanziale rispetto all’attuale disciplina. Restano le tre prove scritte con i due pareri di civile e penale e con la redazione dell’atto giudiziario di diritto amministrativo, penale o civile. Unica nota di carattere pratico che potrebbe portare ad un’oggettiva maggiore difficoltà da parte dei candidati nel superare la prove scritte è il fatto che diventano vietati i codici commentati con la giurisprudenza fino ad ora concessi. La prova orale invece prevede delle materie obbligatorie ossia diritto civile, penale, processuale civile e processuale penale e la deontologia forense e due materie, invece, a scelta (lavoro, tributario, commerciale, comunitario ed internazionale privato, amministrativo, costituzionale, ordinamento giudiziario) Anche per l’esame di stato la proposta del CNF era differente e volta ad un maggiore pragmatismo. Come noto, il praticante di solito approfondisce o l’ambito civile o l’ambito penale o l’ambito amministrativo tenuto conto che ognuna di queste macro aree ha poi decine di sottosistemi, ognuno di essi vastissimo5. Era prevista, infatti, all’art. 46 un’unica prova scritta con la redazione di un atto che postulasse la conoscenza del diritto civile e processuale civile o del diritto penale e processuale penale o del diritto amministrativo e processuale amministrativo. Occorre però dire che la norma era così configurata in quanto poggiava su due prove di preselezione informatiche, la prima preliminare all’ingresso nella pratica, la seconda preliminare all’accesso alle prove scritte sulla falsariga di quanto accade per i concorsi in magistratura. Entrambe le ipotesi sono state cancellate dal Senato. L’esame orale è invece identico in entrambi i testi come pure il divieto dei codici commentati. Infine, concretamente, è facile prevedere che, venute meno le prove di preselezione e la prova scritta unica non ci sarà alcuna riduzione dei tempi di

5 Pensiamo alla vastità della categoria “diritto civile” che va dal diritto commerciale al diritto di famiglia fino al diritto delle assicurazioni e al diritto del lavoro; si pensi al diritto penale che tocca il diritto penale societario, il diritto penitenziario, il diritto penale delle pubbliche amministrazioni ecc.. alle diverse branche del diritto amministrativo: diritto urbanistico, diritto degli enti locali, diritto degli appalti pubblici ecc…

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correzione degli scritti che, attualmente, vanno dai sette ai dieci mesi ma in alcuni sessioni si è superato l’anno.

4. Specialisti e formazione continua Viene superata la categoria dell’avvocato generalista e si stabilisce la nascita degli avvocati specialisti finora formalmente non ammessa. In pratica, fin’ora un avvocato non può pubblicizzarsi quale, ad esempio, avvocato specialista in diritto amministrativo o in diritto di famiglia. Tale particolarità separa profondamente la professione forense da quanto avviene, invece, per la professione medica - l’oculista è un medico ma ognuno di noi sa che è ben differente dall’ortopedico - così come per altre professioni un ingegnere civile è cosa ben diversa da un ingegnere nucleare – e dietro la scrivania di questi soggetti avremo quasi sempre un titolo di studio che dimostri la loro specializzazione; nel caso dell’oculista troveremo oltre alla laurea in medicina e chirurgia anche la specializzazione in oftalmologia, mentre nel caso dell’ingegnere civile non una generica laurea in ingegneria ma una laurea in ingegneria civile e la relativa abilitazione. Avvocati specialisti che per definirsi tali avranno dovuto seguire un corso obbligatorio di formazione di durata definita dai regolamenti del Consiglio Nazionale Forense. Infine, la formazione continua degli avvocati, disciplinata come obbligatoria anche dal punto di vista legislativo: (finora lo era solo dal punto di vista regolamentare) “L’avvocato ha l’obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore esercizio della professione nell’interesse dei clienti e dell’amministrazione della giustizia.” (art. 10)

5. Seconde conclusioni Si conclude il nostro secondo viaggio nella professione di avvocato. Se il primo viaggio ha cercato di raccontare seppur per sommi capi ma, in ogni caso, nel modo più analitico possibile la situazione sociale ed economica dell’avvocato focalizzandosi sul fatto che prima di diventare un avvocato affermato bisogna essere studente, praticante e giovane avvocato; questo secondo articolo ha delineato alcuni punti fondamentali di nostro interesse della riforma. Sicuramente, un lettore-viaggiatore attento avrà compreso che un leitmotiv contraddistingue il presente contributo ossia l’insoddisfazione per la presente novella legislativa.

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Riteniamo, tuttavia, che tale critica sia fondata per almeno tre ragioni. La prima ragione è tecnico-giuridica; alcune norme lasciano sia ampi dubbi interpretativi, come quella del rimborso spese dei praticanti sia ampie ipotesi di incompatibilità con il diritto comunitario (non abbiamo avuto tempo di discuterne ma in particolare si fa riferimento alla disciplina della forma giuridica degli studi professionali, del diritto della concorrenza, della riserva di consulenza giuridica ecc…). La seconda ragione è l’approccio utilizzato, la Commissione Giustizia del Senato, formata quasi esclusivamente da avvocati, ha deciso di partire dal testo del Consiglio Nazionale Forense copiandolo quasi integralmente e laddove vi sono state modifiche queste sono risultate quasi sempre peggiorative per il futuro dei giovani professionisti. La terza ragione si fonda sulle tecniche di analisi dell’impatto della legislazione e dell’analisi costi-benefici, non c’è stato alcun lavoro di analisi statistica e della letteratura significativa e le audizioni della Commissione non hanno coinvolto esperti (economisti, sociologi, analisti di politiche della formazione e del lavoro ecc…) in grado di suggerire correzioni più decisive. Per tali motivi, oggi il testo è fermo alla Commissione Giustizia della Camera in attesa di avere un quadro conoscitivo più pregnante. Viene in mente, in queste occasioni, il professor Crisanto Mandrioli che sosteneva che non si possa supplire al deficit di risorse, di mezzi e di organizzazione del sistema di giustizia civile italiano con la legge. Allo stesso modo non si può pensare con una mediocre riforma, che allo stato attuale lascia tutti insoddisfatti, possa risolvere i problemi di decenni di incuria da parte del legislatore sulla disciplina forense. Ogni politica pubblica, anche quelle in materia di regolazione delle professioni ordinistiche, dovrebbe utilizzare, per pensare di avere un qualche successo concreto, un mix intelligente tra sanzioni tout court e sanzioni positive, tanto care alla sociologia del diritto, e che nel testo sono pressoché inesistenti. Eppure, siamo convinti che, soprattutto in materia di accesso alla professione, formazione, esame di stato e garanzia del reddito, ben altri strumenti possono essere messi in campo. Nel terzo e ultimo viaggio delineeremo le alternative di riforma possibili sia allo status quo sia al testo di legge uscito dal Senato della Repubblica.

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