L'Alligatore-anno3_numero1

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Anno 3 Numero 1

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Per un nuovo anno accademico che inizia, un nuovo numero de L’Alligatore popola i corridoi universitari. Anche in quest’occasione siamo riusciti a coprire buona parte delle aree del diritto, dal pubblico al privato. Scendendo nello specifico, l’apertura è dedicata ad un tema di stretta attualità: il referendum abrogativo della legge elettorale. Ci si interroga sull’ammissibilità dei questiti alla luce della giurisprudenza costituzionale sul tema. Rimanendo nel diritto pubblico troverete una riflessione sulla ventilata proposta di introdurre in Costituzione il vincolo di pareggio del bilancio dello Stato. Cambiando prospettiva si discuterà della portata pratica di un nuovo e importante istituto privatistico: la class-action. L’attualità fa ancora da padrona nel diritto penale; ci sarà una ricostruzione del processo Infinito alla ‘Ndrangheta milanese, che si colloca nell’intento di pubblicare abstract di tesi di laurea. Si tratta di un processo pendente di straordinaria importanza storica e giuridica, forse ancora troppo sottovalutato. Inoltre troverete un articolo sul reato culturalmente motivato, una questione sempre più rilevante in una società orientata al multiculturalismo. Lo spazio delle rubriche sarà dedicato alla prosecuzione dello studio sullo stato delle professioni legali; in questo numero viene esplicitata dall’autore una dettagliata e alternativa proposta di riforma. Infine troverete una piccola novità. Un articolo di law and literature dove si cercherà di analizzare il requisito di idoneità degli atti del tentativo di reato a partire dal film I soliti ignoti di Mario Monicelli. Chiude il numero una recensione del romanzo Vento scomposto di Simonetta Agnello-Hornby. Come sempre ci auguriamo che L’Alligatore aiuti gli studenti della Facoltà ad appassionarsi al diritto non solo come materia di studio ma come uno strumento per affrontare criticamente l’attualità. Con questo auspicio vi auguriamo una buona lettura e vi diamo appuntamento alle iniziative di presentazione del nuovo numero. Rocco Steffenoni Eduardo Parisi Sandro Parziale Daniele Rucco

www.lalligatore.org


Anno 3 Numero 1



L’ALLIGATORE La rivista degli studenti di giurisprudenza della Statale di Milano Redazione: Rocco Steffenoni Eduardo Parisi Sandro Parziale Daniele Rucco

Hanno collaborato: Alessio Fionda, Federica Ghisleni, Paola Marta Martino, Ugo Pecchioli, Francesca Prati

Ringraziamo i professori e i ricercatori della FacoltĂ che ci hanno sostenuto in questa iniziativa Milano, Ottobre 2011


Tale progetto è finanziato con il contributo dell’UniversitĂ degli Studi di Milano derivante dai fondi previsti per le attivitĂ culturali e sociali.

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INDICE Editoriale

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Diritto Pubblico

Ugo Pecchioli, Francesca Prati Sfida al Porcellum: la parola alla Consulta Rocco Steffenoni Introdurre in Costituzione l’obbligo di pareggio del bilancio pubblico è opportuno e necessario?

pag. 13 pag. 20

Diritto Civile

Paola Marta Martino La class action è legge. Analisi di un istituto al banco di prova della prassi legale

pag. 27

Diritto Penale

Federica Ghisleni La ‘Ndrangheta in Lombardia: il maxi-processo “Infinito” Daniele Rucco Il reato culturalmente motivato

pag. 37 pag. 45

Rubriche

Alessio Fionda La riforma della professione forense – parte terza Formazione e reclutamento degli avvocati: una proposta di riforma possibile Sandro Parziale “I soliti ignoti col sistema del buco rubano pasta e ceci”: il requisito della idoneità degli atti del tentativo

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pag. 56

pag. 67


Sandro Parziale Recensione di “Vento Scomposto�

pag. 72

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Editoriale

L’Alligatore nasce dall’esigenza di scrivere e discutere dell’attualità che ci circonda utilizzando gli strumenti giuridici che studiamo in Università. Nell’Università italiana ci si forma sui libri. Si studiano i manuali e si ricevono lezioni quasi sempre frontali. Accade poi che un giorno, concluso il corso di laurea, ci si ritrovi spaesati di fronte ad un mondo che parla una lingua diversa da quella ascoltata fino al giorno prima dentro le aule. Nelle Università americane o comunque di modello anglosassone si tende invece ad avere un approccio molto più attivo e spedito che rende gli studenti apparentemente più facilitati nel mondo della pratica giuridica.

Il progetto Alligatore non vuole muovere una critica al sistema didattico universitario italiano, anzi. Crediamo che una formazione teorica sia imprescindibile per ogni educazione che si rispetti, proprio affinché si formino dei giuristi piuttosto che dei meri pratici del diritto senza una visione d’insieme e di critica riformista. Noi riteniamo che il modello italiano sia un fattore di forza ma che, per non sembrare fine a se stesso, debba essere integrato da attività concomitanti allo studio teorico che permettano allo studente di rendersi conto di come possa utilizzare le sue conoscenze.

L’Alligatore, fondato spontaneamente da noi studenti nel Settembre del 2009, è la realtà che avremmo voluto trovare in Università appena iscritti. Invece no, abbiamo dovuto immaginarlo prima e dargli una forma poi. Per tutti questi motivi vorremmo – ambiziosamente - che il sostegno della Facoltà fosse sempre più attivo e che non si fermasse al finanziamento, ancorché essenziale e fin da subito presente. Vorremmo che la Facoltà e i suoi organi prendessero contezza del 9


fatto che le 750 copie del precedente numero si sono letteralmente volatilizzate in Università non appena esposte in atrio e che l’attenzione al progetto è sempre maggiore da parte degli studenti.

Ci piacerebbe che la Facoltà se ne assumesse l’onere istituzionale riconoscendo il progetto come meritevole di approvazione e sostegno, ma che al tempo stesso ne lasciasse la piena gestione agli studenti come accade nelle lungimiranti esperienze delle student review anglosassoni. Quindi buona lettura e cercateci per partecipare: www.lalligatore.org o redazione@lalligatore.org.

Rocco Steffenoni, Eduardo Parisi, Sandro Parziale, Daniele Rucco

Ottobre 2011

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DIRITTO pubblico

l’alligatore 11


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Sfida al Porcellum: la parola alla Consulta. Ugo Pecchioli e Francesca Prati Lo scorso 16 luglio è stata lanciata una raccolta di firme per promuovere un referendum abrogativo della legge elettorale vigente (n. 270 del 2005) nota alle cronache politiche come Porcellum. Il risultato, ottenuto in poco più di due mesi, è stato straordinario: il 30 settembre sono state depositate presso l’Ufficio Centrale della Cassazione 1.200.000 sottoscrizioni. Ciò tradisce un forte malcontento della cittadinanza nei confronti dell’attuale sistema elettorale. A breve la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi sulla ammissibilità o meno dei quesiti proposti.1 Il Parlamento si trova dunque ad un bivio: aspettare l’esito del Referendum, oppure evitarlo legiferando in materia elettorale. Entrambe le opzioni presentano aspre difficoltà. L’esito positivo del Referendum avrebbe un impatto politico molto forte e condurrebbe quasi certamente alla caduta del Governo: cambiare le regole fondamentali del gioco, implica sempre una nuova partita. D’altra parte trovare un accordo fra le forze politiche in questa materia è estremamente difficile: essa infatti vede contrapporsi, all’interno dei vari schieramenti, gli interessi dei grandi partiti agli interessi dei piccoli. Qualunque sarà la scelta, quel che è certo è che il Parlamento si trova di fronte ad una grande sfida. Molti commentatori e alcuni protagonisti della vicenda si sono auspicati un intervento del Parlamento. Sergio Romano dalle colonne del Corriere di qualche giorno fa ha scritto che: “se il referendum avrà l’effetto di trasformare la rissa in dialogo e confronto, dovremo ringraziare non soltanto i suoi promotori, ma anche, uno per uno, quelli che lo hanno firmato.” Mentre Stefano Passigli, ex Senatore dell’Ulivo, ha auspicato che il referendum “possa essere una, metaforica, pistola alla tempia del Parlamento perché faccia la riforma elettorale. Una sollecitazione armata”. Adesso gli occhi sono puntati sulla prossima decisione della Corte Costituzionale: infatti l’esito del vaglio di ammissibilità non è affatto scontato. Per capire le problematiche che la Consulta si troverà ad affrontare è bene

1 L’articolo 2 della Legge Cost. 11 Marzo 1953, n.1 affida, infatti, alla Corte Costituzionale la competenza di giudicare l’ammissibilità dei quesiti referendari ai sensi dell’ articolo 75.2 della Costituzione.

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fare un passo indietro nel tempo e ripercorrere la complessa evoluzione dei sistemi elettorali in Italia.

La prima disciplina fu adottata nel 1948 sulla falsariga del decreto legislativo luogotenenziale n. 74 del 1946, introdotto per eleggere l’Assemblea costituente. La legge disponeva un meccanismo proporzionale per l’elezione della Camera. Per il Senato invece era previsto che 238 seggi venissero assegnati con metodo maggioritario in collegi uninominali e i restanti 77 ripartiti con il proporzionale. L’impostazione formalmente maggioritaria appena descritta risultava però immediatamente e singolarmente neutralizzata dal fatto che, per l’attribuzione del seggio con tale metodo, fosse necessario raggiungere una percentuale elevatissima di voti validi, pari al 65%. Qualora tale soglia non fosse stata raggiunta era previsto che, in via residuale, la distribuzione dei seggi avvenisse con metodo proporzionale su base regionale. L’esito fu che nell’intera storia della Prima Repubblica solo 30 Senatori furono eletti con sistema maggioritario, invertendo puntualmente il fisiologico rapporto tra regola ed eccezione. Storicamente si comprende il perché della scelta di un sistema proporzionale pressoché puro: dopo trent’anni di regime le varie forze politiche dovevano misurare la loro rappresentatività e sentivano l’esigenza che tutte le voci avessero la possibilità di esprimersi. Tuttavia tale sistema, che aveva l’indubbio vantaggio di rispecchiare l’effettiva volontà degli elettori, determinò una fortissima instabilità nei governi, al punto che nell’arco di undici legislature – dal 1948 al 1993 – se ne susseguirono ben quarantanove! Vorremmo sottolineare che stabilità e governabilità sono la risultante di una complessa architettura istituzionale della quale il sistema elettorale non è che un elemento. In altri termini non si può stabilire una relazione meccanica fra sistemi elettorali ed esiti politici; possiamo solo valutarne la tendenziale influenza in un dato contesto. Dal 1991 in poi la storia del nostro sistema elettorale è stata segnata da una serie di fondamentali referendum; è perciò necessario intrecciare la nostra esposizione con un’analisi della giurisprudenza costituzionale in merito. La prima sentenza rilevante in materia di referendum elettorali è la n. 29 del 1987. In quest’occasione la Corte, occupandosi dell’ammissibilità di un quesito referendario relativo alla composizione e al funzionamento del

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CSM, enucleò alcuni principi generali, basilari per la successiva giurisprudenza. Le leggi che regolano il funzionamento di organi di rilievo Costituzionale, ragionava la Corte, sono norme “costituzionalmente necessarie”; questo non significa che non possano essere modificate, ma comporta che i suddetti organi debbano essere sempre dotati di tali leggi, senza possibile soluzione di continuità. Questo principio mal si concilia con lo strumento del referendum abrogativo il quale cancellerebbe la disciplina tout court, senza, per sua natura, poterne prevedere un’altra. La ratio è evidente: se all’abrogazione dovesse seguire una empasse istituzionale, il sistema intero sarebbe esposto a un rischio gravissimo. Il primo tentativo di modifica della legge elettorale per via referendaria avvenne nel 1991. La consultazione però non si svolse perché la Corte giudicò inammissibili i quesiti proposti. Le richieste presentate coinvolgevano vari aspetti della norma: abolizione delle preferenze plurime; possibilità di un candidato di presentarsi in più di due collegi; abolizione della soglia del 65% di voti validi necessaria per assegnare il seggio ad un senatore. Quest’ultima proposta, la più importante, aveva come obbiettivo quello di garantire l’effettivo funzionamento del modello maggioritario, formalmente previsto dalla legge del 1948, ma reso di fatto inoperante come abbiamo già spiegato. I quesiti cercavano di conformarsi con il principio affermato nella già citata pronuncia dell’87: proponendo un’abrogazione soltanto parziale della normativa, non avrebbero privato l’ordinamento della sua disciplina elettorale indefettibile; ciò nonostante non riuscirono a sottrarsi alle censure della Corte, poiché la loro formulazione fu ritenuta oscura, nonché foriera un triplice ordine di problemi. Primo: non risultava affatto chiaro come si sarebbero ripartiti i voti tra la quota maggioritaria e quella proporzionale, una volta abolita la soglia del 65%. La normativa di risulta avrebbe quindi posto problemi interpretativi tali da renderla di fatto inutilizzabile. Si sarebbe così riproposto lo scenario già censurato nell’87. Secondo: la pluralità interpretativa della normativa di risulta minava la possibilità di un voto consapevole da parte degli elettori. Terzo: si poneva il dubbio se tali quesiti fossero rispettosi della natura meramente abrogativa dello strumento referendario o piuttosto non avessero carattere manipolativo

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o surrettiziamente propositivo.

Nel 1993 il comitato referendario tornò alla carica e questa volta ottenne dalla Corte un riscontro positivo. La formulazione del quesito fu giudicata sufficientemente chiara, univoca ed omogenea, in grado di garantire una normativa di risulta auto-applicabile e la possibilità di un voto consapevole degli elettori, in conformità con quanto aveva disposto la Consulta nelle sue decisioni precedenti. Tuttavia, nell’accogliere la proposta referendaria, la Corte tralasciò di affrontare la questione cruciale – da lei stessa rilevata nella sentenza n. 47 del 199 – relativa alla compatibilità tra la natura esclusivamente abrogativa del referendum e il quesito così come formulato dai promotori. Le incoerenze e le oscillazioni riscontrabili nella giurisprudenza della Consulta sono dovute a una singolare congiuntura di fattori. Primo: nel nostro ordinamento il referendum è solo abrogativo; secondo: il referendum in materia elettorale è permesso in quanto non espressamente escluso ai sensi dell’art 75 comma 2 Cost. Terzo: l’abrogazione totale in materia elettorale è inammissibile. Segue che l’abrogazione parziale appaia l’unica veste nella quale sia possibile presentare quesiti elettorali in materia (a meno che non si voglia ritenere valida la tesi della c.d. “reviviscenza” come spiegheremo in seguito). Questa soluzione pone comunque perplessità in quanto implica l’ammissione di un referendum manipolativo se non addirittura propositivo.

Un curioso aneddoto sulla storia della Costituzione contribuisce ad alimentare le forti perplessità sul punto; pare, infatti, che l’ultima versione dell’Art. 75 approvato dalla Costituente annoverasse fra le materie in cui non sarebbe stata ammissibile la consultazione referendaria anche quella relativa ai sistemi elettorali (insieme, come noto, a leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali). Tuttavia, a causa di banale un errore tipografico, il testo definitivo della Carta ci ha consegnato la norma così come oggi la conosciamo. Con sentenza n. 32 del 1993 il quesito fu dichiarato ammissibile: votarono il 77% degli aventi diritto esprimendosi all’82% a favore dell’abrogazione. Tuttavia la legge di risulta fu sistema elettorale vigente solo per pochi mesi.

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Il 4 Agosto dello stesso anno il Parlamento approvava una nuova disciplina elettorale, nota come Mattarellum, sostanzialmente delineata sul risultato del referendum. Le leggi n. 276 e n. 277 introdussero un sistema misto per l’elezione di entrambe le Camere. maggioritario per la ripartizione del 75% dei seggi, proporzionale per il restante 25%. Sotto l’egida di questa normativa si sono avvicendate tre legislature e la bellezza di otto governi in dodici anni.

Nel 2005 il Parlamento tornò a esprimersi approvando la disciplina tuttora vigente, c.d. legge Porcellum, la quale prevede un sistema proporzionale, corretto mediante l’attribuzione di un premio di maggioranza. Per quanto riguarda l’elezione della Camera, tale premio è assegnato alla singola lista o coalizione che abbia ottenuto il maggior numero di voti, assicurandole così il 53,8% dei seggi. Per il Senato il premio di maggioranza è invece garantito su base regionale, in modo tale che la coalizione vincente ottenga il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. Sono previste inoltre soglie di sbarramento diverse a seconda che si tratti di Camera o Senato. Nel primo caso si ha lo sbarramento del 4% per le liste non collegate e per quelle collegate ad una coalizione che non abbia superato detta soglia, del 2% per la liste collegate ad una coalizione che l’abbia superata. Nel secondo, invece, è previsto uno sbarramento del 3% a livello regionale per la coalizione e dell’8% per la lista non in coalizione. Inoltre è negata all’elettore la possibilità di esprimere una preferenza tra i candidati. Il sistema è quindi detto a liste bloccate. Quest’ultimo aspetto nonché il premio di maggioranza previsto hanno suscitato forti critiche e non solo dall’opposizione, lo stesso estensore della norma Roberto Calderoli non esitò a definirla una “porcata” da cui appunto il suggestivo nome Porcellum.

Dubbi sulla legittimità costituzionale di diversi profili della disciplina sono stati sollevati da alcuni costituzionalisti. Secondo i Ceccanti e Fusaro, l’esclusione dei voti della Val d’Aosta ai fini dell’attribuzione del premio di maggioranza violerebbe il principio di uguaglianza del voto. Secondo Pinelli invece la previsione di sbarramenti variabili, in ragione della partecipazione o meno di un partito ad una coalizione, è irragionevole e contraddittoria; infatti la legge da un lato mira ad evitare la frammentazione e dall’altro tende a favorirla.

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Nel 2009 si svolse un’ulteriore consultazione referendaria che però non incise sulla disciplina vigente in quanto non venne raggiunto il quorum necessario per la sua validità. Si arriva dunque a questo Settembre e alle proposte referendarie sulle quali a breve la Consulta sarà chiamata a pronunciarsi. Trattasi di due quesiti: uno volto all’abrogazione totale della disciplina vigente, l’altro ad un’abrogazione parziale della stessa.

Come abbiamo visto l’ipotesi di abrogazione totale contrasta con il principio della legge “costituzionalmente necessaria”; tuttavia, nell’ottica dei promotori, questo scoglio può essere superato attraverso la c.d. “reviviscenza” . Secondo questa tesi l’abrogazione di una legge a sua volta abrogante darebbe luogo al ripristino della disciplina previgente; nel caso specifico quindi un abrogazione totale del Porcellum riporterebbe in vita il Mattarellum. La maggior parte della dottrina si è però sempre espressa negativamente nei confronti di questa teoria. Già il diritto romano aveva codificato un brocardo che escludeva espressamente l’operatività del meccanismo. La parte minoritaria della dottrina favorevole alla reviviscenza ha sostenuto che si possa stabilire un’analogia tra l’annullamento derivante dalla dichiarazione d’illegittimità costituzionale da parte della Consulta – caso in cui sembra operare tale meccanismo – e l’abrogazione in sede referendaria. Difficile non rilevare l’arditezza di tale posizione: infatti la censura della Corte si fonda sul rilievo di un originario vizio di costituzionalità della legge, non già su una libera scelta del corpo elettorale.

L’obbiettivo perseguito con il secondo quesito è quello modificare singole disposizioni del testo vigente in modo tale da ottenere come risultato una disciplina simile al Mattarellum. Si cerca così di aggirare le critiche nelle quali realisticamente potrebbe incorrere il primo quesito. Tuttavia in questo caso l’eventuale esito positivo del referendum darebbe luogo ad una disciplina fortemente incerta; eventualità, come abbiamo visto, a più riprese censurata dalla Consulta.

Nonostante queste forti perplessità sull’ammissibilità dei quesiti referendari dobbiamo rilevare come la questione della legge elettorale sia estremamente singolare. Infatti essa si sottrae per sua natura al sindacato di

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costituzionalità, che nel nostro ordinamento è possibile solo in via incidentale. Dato che alla luce del principio di autodichia delle Camere, competente in materia di contenzioso elettorale sono le Camere stesse, è fortemente improbabile, per non dire impossibile, che un Parlamento eletto con una legge elettorale sospettata di incostituzionalità, possa essere indotto a mettere in discussione sé stesso, sottoponendo alla Consulta la valutazione della disciplina in forza della quale è stato eletto.

In questo senso la ventura pronuncia di ammissibilità sarà ad altissima tensione: da una parte l’ammissibilità dei quesiti appare dubbia; dall’altra il paese ha espresso con forza l’esigenza di esprimersi su uno dei gangli fondamentali della democrazia, che si troverebbe, in caso di dichiarata inammissibilità dei quesiti, ostaggio del Parlamento e privo di tutela sia sul piano giuridico, essendo precluso il sindacato di costituzionalità, sia su quello politico, venendo sottratto alla consultazione popolare.

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Introdurre in Costituzione l’obbligo di pareggio del bilancio pubblico è opportuno e necessario? Rocco Steffenoni La Bce ci ha chiesto maggior “rigore”. La politica negli ultimi mesi ha risposto con due proposte di legge costituzionale volte a modificare l’articolo 81 della Costituzione in materia di bilancio pubblico. L’una proviene da via XX Settembre e porta la firma del ministro Tremonti, l’altra di sapore bipartisan porta la firma di Nicola Rossi, ex senatore del Pd e ora appartenente al gruppo misto. Oggi, a fronte della crisi economica da indebitamento a cui stiamo assistendo, le tanto acclamate politiche di “rigore” sollecitano un ridimensionamento delle norme in materia di bilancio pubblico in direzione di una progressiva armonizzazione dei criteri di deficit e debito. La questione è purtroppo chiara. Le spregiudicate politiche di indebitamento condotte dagli Stati in questi anni per sostenere l’aumento dei costi pubblici hanno ingenerato un circolo vizioso i cui costi sociali sono ormai esorbitanti. In Italia il rapporto tra debito pubblico e Pil dagli anni ’80 ad oggi è pressoché raddoppiato raggiungendo l’attuale 120%, con un’incisività degli interessi sul debito intorno al 4,5% del Pil italiano (circa 75 mld di euro). Questa morsa del debito sovrano è figlia di uno sfrontato uso politico di tale indebitamento, perpetrato – come ha icasticamente rilevato la Corte Costituzionale1 – indipendentemente dal principio sotteso al disposto del quarto comma dell’art. 81 della Costituzione per cui “ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte”. Ma tale norma generale è rimasta mera Costituzione formale e la sua in attuazione ha contribuito significativamente a frenare la crescita economica del nostro paese. 1 Corte Costituzionale, Sent. 1/1966 “Si deve pertanto ammettere la possibilità di ricorrere, nei confronti della copertura di spese future, oltre che ai mezzi consueti, quali nuovi tributi o l’inasprimento di tributi esistenti, la riduzione di spese già autorizzate, l’accertamento formale di nuove entrate, l’emissione di prestiti e via enumerando, anche alla previsione di maggiori entrate, tutte le volte che essa si dimostri sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, in un equilibrato rapporto con la spesa che s’intende effettuare negli esercizi futuri, e non in contraddizione con le previsioni del medesimo Governo, quali risultano dalla relazione sulla situazione economica del Paese e dal programma di sviluppo del Paese: sui quali punti la Corte potrà portare il suo esame nei limiti della sua competenza.”

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Luigi Einaudi nel 1946 ammoniva già con preveggenza l’Assemblea Costituente che “mentre una volta erano esse [Camera e Senato] che resistevano alle proposte di spesa da parte del Governo, negli ultimi tempi spesso è avvenuto che proprio i deputati, per rendersi popolari, hanno proposto spese senza nemmeno rendersi conto dei mezzi necessari per fronteggiarle”2. Diverse sono le conseguenze strutturali dell’indebitamento sovrano. Una prima conseguenza è quella che si incardina nell’aumento del costo per il nostro paese nel finanziarsi sui mercati. Infatti tale costo è direttamente proporzionale alla fiducia che il paese riesce a dimostrare circa la tenuta dei propri conti pubblici, della crescita economica e quindi della possibilità che in concreto vengano soddisfatte le ragioni dei creditori. I declassamenti ad opera delle agenzie di rating e il dibattito attorno al differenziale tra il rendimento (spread) tra Bund tedeschi e Btp italiani sta proprio attorno ai conseguenti aumenti dei costi di finanziamento per lo Stato Italiano.3.

A fronte di questa tempesta finanziaria e degli oggettivi ingenti costi di queste politiche di indebitamento a più voci si è parlato della necessità di attuare politiche pubbliche su deficit e debito pubblico. La Germania nel 2009 ha completato una riforma costituzionale (Föderalismusreform II) che intervenisse nel rapporto tra Federazione e Länder fornendo un sistema normativo adeguato a contenere gli eccessi che vi erano stati nel ricorso all’indebitamento di questi ultimi. Tra le molte modifiche apportate, interessa qui sottolineare come sia stato prescritto che “i bilanci della Federazione e dei Länder, di norma, devono essere portati in pareggio senza ricorrere al prestito” (art.109 § 3). E’stata così eliminata la c.d “golden rule” sulla possibilità di indebitamento in conto capitale che aveva dato adito ad ingenti forme indebitamento a livello dei Länder tedeschi4.

2 Luigi Einaudi, presso la seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, il 24 ottobre 1946. 3 Per di più l’eventualità di un tracollo da parte degli Stati che non riuscissero a far fronte ai propri debiti è addirittura oggetto di “scommesse speculative” tramite lo strumento derivato dei Cds (credit default swap) contrattati nei cd. mercati over the counter , ossia fuori dal normale circuito della Borsa (sic!), in cui chi acquista debito sovrano assume una sorta di polizza assicurativa che garantisca i creditori degli Stati dall’eventuale fallimento degli stessi. 4 La riforma costituzionale tedesca del 2009 (Föderalismusreform II) e il freno all’indebitamento, a cura di: S. Marci, n. 287 , XVI legislatura, Servizio Studi Senato, Aprile 2011.

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In Francia si sta invece ancora discutendo sull’introduzione di una “legge quadro d’equilibrio della finanza pubblica” a cui verrebbe costituzionalmente attribuita una superiorità gerarchica rispetto alle leggi primarie e che diverrebbe per la Corte Costituzionale francese parametro di legittimità delle norme ordinarie di spesa; vaglio che tra l’altro sarà preventivo5. Il principio del pareggio di Bilancio non è di certo nuovo nel panorama giuridico europeo; infatti lo troviamo già menzionato nella Costituzione di Weimar del 1919. La ragione è molto semplice: non è possibile che la linea di Governo di un paese persegua i propri obiettivi scaricandone le conseguenze sulle generazioni a venire. La ragione risiede in un chiaro principio democratico e liberale che si può definire col motto no debit without representation. Si richiama infatti a questo principio una delle due proposte italiane di riforma costituzionale (N.Rossi) che intende introdurre un concetto di solidarietà intertemporale tra le generazioni: il c.d. principio della equità intergenerazionale. Le proposte costituzionali italiane che prendiamo in considerazione, ossia quella Tremonti6 e quella Rossi7, pur proponendo soluzioni parzialmente differenti contengono delle posizioni comuni. Prima di tutto entrambe intendono modificare la Costituzione inserendovi l’obbligo di pareggio di bilancio, cui segue una serie di complessi strumenti derogatori dello stesso principio nel caso di avversità del ciclo economico tali da non poter efficacemente attuarne le auspicate politiche di pareggio. L’aspetto certo peculiare della proposta Tremonti consiste nella ripresa dell’idea d’ispirazione francese di una legge di verifica e correzione delle politiche di deficit e bilancio che assuma i caratteri di legge rinforzata da una maggioranza qualificata dei 2/3 dei componenti.

Invece, la proposta Rossi si presenta come nettamente più complessa: essa infatti prevede una menzione esplicita in Costituzione di un limite massimo della spesa pubblica al 45% del Pil; prevede l’obbligo di pareggio di bilancio sia per lo Stato (comprendente anche le amministrazioni pubbliche) che per le Regioni, ma non per Province e Comuni per i quali è invece esplicitamente consentito il ricorso a politiche di debito purché giustifica-

5 Projet de loi constitutionnelle relatif à l’équilibre des finances publiques http://www.senat.fr/rap/l10-568/l10-5683.html 6 Proposta di legge costituzionale 8 settembre 2011. 7 Proposta di legge costituzionale 2 Agosto 2011, Senato della Repubblica, XVI Legislatura.

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te da motivi d’investimento.

Ma al di là dei singoli e peculiari tecnicismi presenti in ogni proposta, la questione di fondo consiste se sia davvero necessaria ad oggi una riforma di tal genere, per lo più di una riforma costituzionale con tutte le conseguenze che ne derivano (specie in termini di complessità di iter). Vogliamo davvero inoltre investire la Corte Costituzionale di un’ulteriore competenza lasciandone invariata la attuale struttura organizzativa costituzionale? Non si può nascondere lo scetticismo per questa proposta di riforma. Prima di tutto perché sorge da una premessa errata, ossia che i problemi connessi al disavanzo pubblico abbiano origine e si estinguano unicamente attorno alla struttura deficitaria del nostro ordinamento. A fronte di questo le posizioni che si sono costituite nel dibattito dottrinario sono due: da una parte chi sostiene che sia necessario anteporre alle scelte parlamentari in materia di bilancio pubblico dei “paletti” automatici, vale a dire norme inderogabili; dall’altra chi in virtù della sovranità parlamentare predilige una maggior tutela e garanzia della discrezionalità. Di certo riteniamo che sia alquanto asfittico il dibattito che propende per una politica legislativa dell’automatismo, volta ad esautorare i rappresentati della discrezionalità nella gestione del bilancio pubblico e del suo tendenziale pareggio. I tentativi di limitare la discrezionalità del Parlamento, come quello di cui stiamo discutendo, non sono che interventi che assumono come premessa generale una concezione di politica troppo contingente: vale a dire che l’immoralità della gestione pubblica dei nostri tempi sia un aspetto strutturale e imprescindibile, da prevenire con una politica legislativa restrittiva di stampo prettamente automatistico. Ne consegue che il sapore di queste proposte di riforma costituzionale ricorda molto un tentativo di “sigillare” alcuni macchinosi precetti senza preoccuparsi di inserire effettivi incentivi e disincentivi (anche morbidi) per indirizzare il quotidiano operato della politica.

Da un’analisi generale dell’ordinamento si può notare come si possano fin da subito utilizzare strumenti già esistenti e nettamente più celeri per far fronte a queste esigenze di bilancio. Ciò non fa che accalorare la posizione di chi ritiene che tali proposte di riforma non siano altro che spot fatti al solo scopo di calmare temporaneamente i mercati e quindi assolutamente non forieri di un qualche effetto reale. Gli strumenti a tutela della tenuta

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della spesa – come già sostenuto – esistono e sono: il rispetto del patto di stabilità europeo, il rispetto del virtuoso “patto di stabilità interno” tra Stato e Regioni e un poco di sana morale pubblica da parte degli amministratori che dovrebbe essere alla base di ogni sana e rigorosa gestione della cosa pubblica.

Ma fintantoché la premessa logica rimarrà – come affermava Enrico Berlinguer nel 1981 – che “i partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela” allora essi difficilmente attueranno politiche atte a ridimensionare davvero la spesa pubblica in relazione al Pil, in funzione di una riduzione del deficit e di una crescita omogenea per un’Italia che ha sempre più bisogno di coesione sociale.

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La class action è legge. Analisi di un istituto al banco di prova della prassi legale Paola Marta Martino Dal 1° gennaio 2010, dopo una lunga serie di rinvii, è entrato in vigore l’’articolo 140-bis del Codice del Consumo e anche in Italia sono così introdotte le famose class action. In italiano si traduce azione di classe. Definizione che non ha preso molto piede come pure l’espressione «azione di risarcimento collettivo», sebbene sia più chiara. Piace il riferimento alla classe, che sta per gruppo di persone accomunate dallo stesso problema con una certa azienda. La class action dà ai cittadini la possibilità di unire le forze in tribunale, ridurre le spese giudiziarie e aumentare il proprio potere contro i colossi industriali. Il vantaggio è lampante: l’unione fa la forza. Sulla carta, si tratta di una straordinaria occasione per rendere effettiva la tutela dei consumatori in tutte quelle situazioni nelle quali si controverte in relazione ad importi di valore modesto, per i quali solitamente si rinuncia ad intraprendere un’azione legale. Sfortunatamente, però, accostandosi al testo normativo, si riscontrano non pochi profili dubbi, a partire dai soggetti legittimati ad esperire tale tipo di azione.

Il comma 1 dell’art 142-bis recita: “…ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa, può agire per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni.”. La lettera della legge porta alcuni a pensare che la possibilità di attivare la procedura dell’azione collettiva sia rimessa all’iniziativa del singolo cittadino, unico caso in Europa; mentre le organizzazioni dei consumatori, che negli altri paesi hanno piena legittimazione ad agire, sono relegate ad un ruolo comprimario. Ad occuparsi della questione per prima è stata l’ordinanza della Corte d’appello di Torino del 23 settembre 2011. I giudici torinesi hanno dichiarato l’ammissibilità della class action avviata da tre correntisti attraverso l’associazione Altroconsumo contro la banca Intesa-S.Paolo. La difesa della banca aveva cercato di bloccare sul nascere l’azione, sostenendo l’impossibilità per l’associazione di rappresentare in giudizio gli interessi e le pretese dei tre correntisti.

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La Corte d’Appello però, faceva notare che l’azione collettiva deve essere considerata «quanto a legittimazione attiva della parte proponente ed a modalità di assunzione dell’iniziativa in un’ottica, quanto al rapporto tra rappresentato ed ente rappresentante, irriducibile a quella prevista dall’articolo 77 del Codice di Procedura Civile1». Il rapporto tra componente della classe e associazione riguarda dunque il piano della rappresentanza processuale semplice «riconducibile secondo taluno al genus della rappresentanza tecnica, in qualche modo assimilabile alla procura alle liti, sotto il profilo dell’ausilio tecnico nella gestione della lite di massa, senza alcuna interferenza sulla titolarità, né sulla disponibilità del rapporto sostanziale dedotto con l’azione risarcitoria». Nella stessa ordinanza è perciò stato dato il via libera alla coesistenza in giudizio sia dei correntisti sia dell’associazione, visto che al rappresentante di Altroconsumo non è stata attribuita la qualità di parte sostanziale. La questione della legittimazione ad agire è importante. Sarebbe infatti difficile prevedere che quello stesso Sig. Gino Bianchi, che finora rinunciava ad agire per i pochi euro di un prodotto difettoso, possa trovare il coraggio di azionare la nuova class action assumendosi la responsabilità di agire anche per conto di tutti gli altri consumatori nella medesima situazione. Senza contare il rischio, previsto dalla norma, di incorrere in una pesante condanna alle spese qualora l’azione fosse giudicata infondata. Infatti chi attiva la procedura corre il rischio di risarcire l’impresa nel caso in cui l’azione collettiva non sia ammessa dal giudice.

Infine, la Corte d’Appello di Torino si è concentrata sul secondo grande problema della norma de qua, confermando il dettato legislativo. La previsione che la class action può essere applicata solo a illeciti compiuti successivamente all’entrata in vigore della norma il 15 agosto 2009. La Corte sposa la linea della natura sostanziale dell’azione collettiva: non si tratta, cioè, di uno strumento solo processuale e – pertanto – un’applicazione retroattiva è da censurare. Nessun risarcimento collettivo potrà essere richiesto per i danni causati ai consumatori prima del 16 agosto 2009. In

1 Art 77 Cpc: Rappresentanza del procuratore e dell’institore - Il procuratore generale e quello preposto a determinati affari non possono stare in giudizio per il preponente, quando questo potere non è stato loro conferito espressamente per iscritto, tranne che per gli atti urgenti e per le misure cautelari. 
Tale potere si presume conferito al procuratore generale di chi non ha residenza o domicilio nello Stato e all’institore.

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pratica i piccoli risparmiatori danneggiati dalle passate truffe finanziarie non potranno unire le loro forze. Una volta capito chi, vorremmo anche sapere cosa l’articolo 140-bis tutela. E qui si mostra la seconda grave lacuna della previsione legislativa. La norma individua al comma 1 l’oggetto della tutela nei diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti di cui al comma 2. Ma al comma 2, tutelati dall’azione collettiva sono solo ”i consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione identica”, oppure i consumatori finali di un determinato prodotto che vantino diritti identici nei confronti del relativo produttore o ancora i consumatori o gli utenti con diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali. Chiaro è che la possibilità di ricorso è limitata ad interessi identici. Questo restringe la casistica ad un ambito di eccezionalità, poiché nella realtà non esistono interessi identici, ma soltanto omogenei.

Delineati i due primi grandi problemi proviamo a ripercorrere i vari passaggi dal punto di vista di chi si trovi a voler (o dover) esperire una class action. La prima questione da affrontare è capire a chi deve essere proposta domanda. La legge è chiara nel dire che deve essere proposta “al tribunale ordinario avente sede nel capoluogo della Regione in cui ha sede l’impresa.”. Non sono tuttavia evidenti i criteri di coordinamento tra questa disposizione e il principio enunciato dalle Sezioni Unite della Cassazione con l’ordinanza n. 14669 del 1° ottobre 2003 e l’Ordinanza n. 24262 del 26 settembre 2008, in sede di regolamento di competenza, che, nell’individuare il giudice competente, ha affermato che il foro del consumatore é esclusivo e speciale, sicché la clausola che stabilisca come sede del foro competente una località diversa da quella di residenza o di domicilio elettivo del consumatore é presuntivamente vessatoria e, pertanto, nulla, anche qualora il foro indicato come competente coincida con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 Cod. Civ. . A questo punto si aspetta il giudizio di ammissibilità o meno della domanda collettiva, che tra l’altro, può essere respinta quando “il proponente non appare in grado di tutelare adeguatamente l’interesse della classe”. Oltre ad un giudizio discrezionale rimesso al mero apprezza-

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mento del giudice, questo significa di fatto inibire alle associazioni la possibilità di proporre azioni di classe se come collaboratori non hanno alle spalle uno studio legale associato. E comunque in ogni caso vi deve sempre essere la presenza di un legale presso la sede dell’associazione poiché il reclamo contro l’ordinanza che dichiara l’inammissibilità dell’azione va proposto nel termine perentorio di 30 giorni dalla notifica della stessa. E questa va fatta, presumibilmente, presso la sede dell’associazione proponente. Se non c’è un legale che s’incarichi di rispettare le scadenze, raccogliere e conservare gli atti con la consapevolezza che la conoscenza tecnica acquisita gli conferisce, diventerebbe molto rischioso affidare tutto alla gestione di un privato cittadino. … Se siamo fortunati e il giudice ammette la nostra domanda, potrebbe sbarrarci la strada il comma 9 dell’art 140-bis, il quale condiziona la procedibilità della domanda alla pubblicità-notizia per consentire tempestiva adesione ai consumatori. Chiarissimo sul punto della procedibilità condizionata, l’articolo non sembra però spiegarci chi debba anticipare le spese per detta pubblicità, o come si possa stabilire preventivamente quanti consumatori intenderanno aderire all’iniziativa e, perciò, se e in che misura sia possibile spalmare i costi sugli stessi; considerato, inoltre, che le associazioni non godono di un contributo statale per dare adeguata pubblicità sui media ad un’azione di classe. La questione si presenta come uno dei problemi pratici che maggiormente potrebbe scoraggiare il singolo attore ad esperire una class action: il fatto che non si riesca in nessun modo a determinare ex ante l’impegno economico che viene richiesto; inoltre i consumatori possono (non devono) aderire all’azione nel termine di 120 giorni dalla notifica dell’atto introduttivo. Aggiungendo a questo anche il fatto che si esclude un altro istituto processuale sino ad oggi vivente (l’intervento volontario nel processo), dalla norma di desume la previsione di uno schema “blindato” del procedimento. Se un consumatore si trova all’estero e rientra dopo la scadenza dei 120 giorni previsti per l’adesione all’azione, rimane fuori dalla partita e se vuol far valere un analogo diritto deve agire in proprio, con un esborso considerevole. . La norma, purtroppo, lascia aperte altre domande significative, come quale sia il rito che si deve seguire, se quello ordinario o quello del lavoro. Inoltre, troppo vaste sembrano essere i profili rimessi all’arbitrio e alla discrezionalità del magistrato. Non viene peraltro indicato nessun termine tra l’ini-

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zio della controversia e il deposito della sentenza, nemmeno ordinatorio. Disposizioni sovrabbondanti rispetto al processo civile sono previste invece per l’esecutività della sentenza: se il singolo si convince ad esperire autonomamente l’azione, se il giudice – con prudente apprezzamento – la dichiara ammissibile, se il cittadino riesce a fare adeguata pubblicità della stessa e se infine il giudice emette sentenza, non è ancora detta l’ultima parola, poiché la sentenza diviene esecutiva solo dopo 180 giorni dal deposito. Ciò potrebbe significare che se un’impresa viene condannata al pagamento di un importo ragguardevole potrebbe avere il tempo di chiedere il fallimento con buona pace dei consumatori-attori. Il comma 12 della legge continua statuendo che le somme di risarcimento erogate sono esenti da maggiorazioni di sorta nel periodo suddetto di 180 giorni. Questo però sembrerebbe andare, oltre che contro i consumatori, anche contro il dettato dell’art 1224 c.c. che stabilisce che gli interessi sono dovuti per legge. . Probabilmente è anche per tutti questi motivi che le class action esperite in Italia si possono contare sulle dita di una mano. Le associazioni dei consumatori, che si sono battute per ottenerle, avrebbero forse desiderato un’azione più simile a quelle americane. Poche cose riescono a spaventare le grandi imprese americane come le class action. Negli Stati Uniti, patria delle cause collettive di risarcimento, le aziende tremano di fronte all’eventualità che i loro clienti possano ammalarsi o andare incontro a incidenti a causa di prodotti con difetti di fabbricazione o di ingredienti nocivi, perché in questo modo si espongono a richieste di risarcimento dalle quali spesso escono con le ossa rotte. Dagli anni Sessanta a oggi, sono state tante le multinazionali costrette a risarcimenti miliardari. Nessun settore è rimasto escluso, dalla sanità alle auto, dalle sigarette agli elettrodomestici. Quella dei ricorsi collettivi è diventata una sorta di industria che dà lavoro a schiere di avvocati senza pari nel resto del mondo. . Un caso che ha fatto la storia è quello che ha visto come legittimato passivo le multinazionali del tabacco, che hanno dovuto sborsare 4,4 miliardi di dollari per venire incontro alle richieste di migliaia di fumatori danneggiati dalle sigarette. In America peraltro paga anche lo Stato: il ministero degli Interni, accusato di aver gestito male i fondi destinati alle tribù indiane che vivono nelle riserve, ha

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deciso un mese fa di chiudere la partita versando 3,4 miliardi di dollari.

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Niente del genere invece qui da noi. Se a danneggiare i cittadini sono gli ospedali, le scuole, le aziende dello Stato o qualsiasi ufficio pubblico non è previsto nessun tipo di risarcimento. I cittadini vittima dei disservizi pubblici possono ricorrere collettivamente davanti a giudice ma la sentenza potrà solo garantire le prestazioni richieste, a costo zero. Per esempio se la lista d’attesa per un intervento chirurgico in ospedale è troppo lunga, il giudice potrà chiedere che migliori l’organizzazione. Ma se le lungaggini dipendono dalla mancanza di strumenti o di sale operatorie, il problema rimarrà insoluto e i pazienti non avranno un euro perché – dice la legge – i miglioramenti dovranno avvenire senza alcuna spesa aggiuntiva per lo Stato.

Sembra inutile, tuttavia, paragonare due istituti talmente eterogenei tra loro da presentare forti differenze già a livello strutturale. Infatti nel diritto nordamericano la class action può essere esercitata da uno o più soggetti , membri di una “classe”, che chiedono che la sentenza emanata dal giudice abbia effetti ultra partes per tutti i componenti presenti e futuri della classe. I membri di una classe possono decidere di non avvantaggiarsi dell’azione altrui e di esperire una loro propria azione individuale, esercitando il cosiddetto opt-out right. Se, invece, gli stessi decidono di avvantaggiarsi dell’azione altrui non devono far altro che rimanere inerti: modello esattamente inverso a quello delineato dal legislatore italiano che prevede, per chi voglia aderire agli effetti dell’azione un atto di adesione espresso. Gli effetti della sentenza, infatti, fanno stato solo per gli aderenti. Le differenze strutturali si affiancano anche a quelle di scopo; le class action americane, infatti non prevedono solo un risarcimento a tutela del cittadino, ma anche la possibilità di ottenere i punitive damages. Figura totalmente estranea al nostro ordinamento, i danni punitivi sono volti alla realizzazione di finalità pubblicistiche di deterrenza e punizione proprio perché si tratta di un caso in cui si è arrecato un pregiudizio ad una pluralità di soggetti. I punitive damages non sono stati accolti, forse coerentemente, nel nostro ordinamento, dove la responsabilità civile risponde a funzioni esclusivamente compensative che precludono al danneggiato di lucrare somme eccedenti il danno effettivamente subito. Questo istituto, d’altra parte, non è neanche assimilabile alla risarcibilità dei danni non patrimoniali o morali che è sempre condizionata all’accertamento della sofferenza o della lesione determinata dall’illecito e non può considerarsi

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provata in re ipsa. Secondo Assoconsumatoritalia questa class action non è di alcuna utilità nell’accrescere la tutela dei consumatori contro le furbizie, i raggiri e le truffe. L’ associazione puntualizza su due aspetti non secondari: “si tratta di una procedura che ha come conseguenza la paralisi dei tribunali, poiché ogni consumatore coinvolto dovrà depositare lì la propria documentazione probatoria; infine, se il risarcimento verrà ammesso dal giudice questo sarà correlato a quanto previsto dalle c.d. Carte dei servizi che prevedono solo risarcimenti simbolici.” Possiamo concludere auspicando che, pur nella consapevolezza di troppi evidenti limiti dell’attuale normativa, le azioni collettive saranno sperimentate anche per comprenderne a fondo le inefficienze.

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DIRITTO Penale

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La ‘Ndrangheta in Lombardia: il maxi-processo “Infinito” Federica Ghisleni La pervasiva presenza delle associazioni di stampo mafioso in Lombardia non costituisce certamente una novità per la procura di Milano né per i pochi giornalisti addetti ai lavori: a partire dagli anni ‘50 fino ad arrivare ai giorni nostri, la mafia è infatti arrivata al Nord, ha messo radici e ha assunto una posizione di rilievo nel mondo dell’economia, spesso anche grazie al sostegno di imprenditori lombardi compiacenti. Sconcerta tuttavia che, nonostante l’impressionante numero di inchieste, – come ad esempio il celebre “Blitz di San Valentino” del 1983 o le più recenti “Cerberus” e “Parco Sud” – di arresti e di processi ad esponenti dei clan, i rappresentanti delle istituzioni cittadine abbiano più spesso negato o nella migliore delle ipotesi minimizzato l’esistenza delle associazioni mafiose. L’esempio più celebre è senza dubbio quello del prefetto milanese Gian Valerio Lombardi che, nel 2000, dichiarò “A Milano la mafia non esiste”1. Segnali positivi giungono finalmente dalla nuova amministrazione comunale guidata dal sindaco Giuliano Pisapia, impegnata da mesi nel partecipato e vivace dibattito relativo all’istituzione di una Commissione antimafia2 che vigili sulle possibili infiltrazioni di gruppi criminali negli appalti relativi ad Expo 2015. Tale scelta si è resa assolutamente necessaria anche a seguito agli arresti del 13 luglio 2010: più di 160 presunti affiliati alla ‘ndrangheta sono infatti stati sottoposti alla misura della custodia cautelare in carcere nell’ambito della più grande indagine condotta nei confronti dell’associazione mafiosa di carattere ‘ndranghetista stanziata sul territorio lombardo. L’operazione “Il Crimine”

L’operazione denominata “Il Crimine”, che ha comportato l’arresto di 280 soggetti, di cui 160 solo in Lombardia, riunisce diverse indagini, 1 Notizia disponibile al seguente indirizzo: http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/10_gennaio_22/prefetto-milano-mafia-non-esiste-lombardimaroni-1602329198462.shtml. 2 Le dichiarazioni del sindaco Giuliano Pisapia sulla Commissine antimafia sono disponibili al seguente indirizzo: http://www.youtube.com/ watch?v=mOoeC8y1Bo8.

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tra cui “Patriarca” (condotta dalla Procura di Reggio Calabria), “Tenacia” e “Infinito” (condotte dalla Procura di Milano). Hanno collaborato con la dott.ssa Ilda Boccassini diversi magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia milanese, tra cui Alessandra Cecchelli, Alessandra Dolci, Paolo Storari, il collega di Monza Salvatore Bellomo e presso la procura reggina Nicola Gratteri, Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino. L’immagine che ne esce è la fotografia inedita della ‘ndrangheta del terzo millennio: la criminalità calabrese si è data una “cupola”, detta «Provincia» o «Crimine», retta da un capo supremo. Secondo gli inquirenti quest’ultimo sarebbe Domenico Oppedisano, detto “Don Mico”, arrestato nel blitz dello scorso luglio. Era stato nominato “capo-crimine” nel settembre del 2009, in occasione della festa della Madonna di Polsi, ma non disponeva del potere di prendere autonomamente delle decisioni; la sua si trattava piuttosto di una figura super partes individuata anche in base all’età e all’esperienza. A lui, in sostanza, spettava il compito di dirimere i contrasti che potevano sorgere in seno alle varie ‘ndrine e di mantenere quell’equilibrio labile che ha portato la ‘ndrangheta ad essere l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo, leader del narcotraffico internazionale. Al “Crimine” corrispondono tre diversi mandamenti: il Centro (cui appartiene la città di Reggio Calabria), Ionica e Tirrenica. Ogni mandamento è formato dalle locali, ed ogni locale è composta a sua volta da più ‘ndrine, ossia famiglie che possono contare su almeno una decina di affiliati. Per poter creare queste articolazioni, si legge del decreto di fermo dell’operazione “Crimine”, «non può mancare l’assenso di San Luca», che di solito è concesso durante il vertice annuale che si tiene all’inizio di settembre presso il Santuario della Madonna di Polsi1. L’inchiesta “Infinito”

Il ramo milanese dell’operazione “Crimine”, denominato dagli inquirenti “Infinito”, è una lunga e complessa indagine condotta essenzialmente dall’Arma dei Carabinieri, in particolare dal Nucleo Investigativo del Gruppo Carabinieri di Monza, con alcuni apporti investigativi di altri servizi di Polizia Giudiziaria. I risultati raggiunti dalle indagini sono stati di eccezionale rilievo, forse senza precedenti, in punto di aggiornamento e approfondimento del 1 M. PORTANOVA, G. ROSSI, F. STEFANONI, Mafia a Milano, sessant’anni di affari e delitti, Ed. Melampo, Milano 2011, p. 443.

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la conoscenza del fenomeno ‘ndrangheta. Per quanto concerne la regione Lombardia, in particolare, secondo gli inquirenti risultano operare 16 locali1 nei seguenti comuni: Milano, Cormano, Bollate, Bresso, Corsico, Legnano, Limbiate, Solaro, Pioltello, Rho, Pavia, Canzo, Mariano Comense, Erba, Desio e Seregno2. In quattro anni di indagini si ha la notizia di oltre quaranta summit organizzati nei dintorni di Milano, a volte finalizzati all’assegnazione di doti3. L’elemento di maggior rilievo emerso dalle indagini è costituito dalla conferma dell’esistenza di un’autonoma struttura di livello intermedio, denominata “Lombardia” dagli indagati, i cui rapporti con la Calabria non sono di facile interpretazione. L’esistenza di tale struttura di coordinamento delle locali lombarde era emersa già nell’indagine “Nord-Sud”, grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Saverio Morabito4 e nell’indagine calabrese “Armonia”, nella quale si dà conto di una lunga conflittualità tra la “Lombardia” e la “casa madre”, poiché gli esponenti di vertice delle cosche calabresi si sarebbero rifiutati per lungo tempo di riconoscere identico valore alle doti degli affiliati delle locali originarie rispetto a quelle di cui venivano insigniti gli affiliati lombardi. In sostanza, la Calabria avrebbe per lungo tempo tenuto in soggezione la “Lombardia” 1 La (o il) locale è la principale struttura organizzativa della ‘ndrangheta; essa non necessariamente coincide con una precisa zona geografica in quanto all’interno dello stesso comune vi possono essere più locali. Più ‘ndrine nella stessa zona possono formare la locale che per la sua nascita necessita di almeno 49 affiliati; ogni locale ha un proprio capo, il capo locale, che ha potere di vita e di morte su tutti, un contabile, che gestisce le finanze, ed in particolare gestisce la cd. bacinella o bacinetta o valigetta, e un crimine, che governa le attività illecite. Le tre cariche appena riferite (cariche da non confondere con i gradi) formano la cd. Copiata, terna di nomi che allorquando un affiliato si presenta in una “locale” diversa da quella di appartenenza (una sorta di codice per il riconoscimento) o quando gli viene richiesto da un affiliato di grado superiore deve ripetere. 2 Ordinanza di custodia cautelare in carcere Tribunale di Milano, 5 luglio 2010, Gip Andrea Ghinetti, p. 64. 3 «La dote può essere definita come un valore di merito che si conferisce ad un affiliato, e man mano che questo valore aumenta, aumenta la dote stessa, in quanto si passa da un grado ad un altro», N. GRATTERI, A. NICASO, Fratelli di sangue: la ‘ndrangheta tra arretratezza e modernità, Ed. Pellegrini, 2006, p. 235. 4 Per conoscere in maniera più approfondita il contenuto delle dichiarazioni rilasciate nei lunghi anni di collaborazione con la giustizia di Saverio Morabito, si consiglia la lettura del libro di P. COLAPRICO e L. FAZZO, Manger calibro 9. Vent’anni di criminalità a Milano nel racconto di Saverio Morabito, Ed. Garzanti.

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come una sorta di colonia. Uno degli ultimi responsabili della Lombardia è stato individuato dagli inquirenti nella persona di Carmelo Novella, detto “Compare Nuzzo”, esponente di spicco della cosca Gallace di Guardavalle. Inserito nel 2004 nella lista di persone da arrestare per associazione mafiosa nell’ambito dell’indagine “Mythos”, coordinata dalla DDA di Catanzaro, Novella riesce a fuggire; dopo 5 mesi di latitanza viene catturato ma a causa della decorrenza dei termini viene scarcerato e torna in Lombardia. Qui inizia a maturare il suo progetto “secessionista” volto a rendere le locali lombarde autonome rispetto a quelle calabresi di riferimento e dipendenti dall’organo intermedio Lombardia e dal suo capo, cioè se stesso1. Si tratta indubbiamente di un progetto rivoluzionario poiché destinato a far venir meno uno dei cardini su cui si fonda il sistema ‘ndrangheta ossia la sovranità della singola locale, e volto altresì a recidere il “cordone ombelicale” tra la madrepatria calabrese e le sue affiliazioni al Nord. Un simile progetto non poteva che trovare l’opposizione della “madrepatria”, dei capi lombardi con i più stretti legami con il paese d’origine e degli anziani di lungo corso2; l’avversione maturata nei suoi confronti emerge chiaramente da una conversazione tra Domenico Oppedisano e Nicola Gattuso. Quest’ultimo afferma: “Questo Novella sta facendo lo schifo, compare Mico”; Oppedisano concorda e dice che Novella “sta dando cose”, cioè cariche, a iosa, cosa che nella loro ottica è certamente da considerarsi inopportuna ed esecrabile3. Il 14 luglio 2008 Carmelo Novella viene ucciso da due killer a volto scoperto presso il bar “Il circolino” di San Vittore Olona, in provincia di Milano. In seguito alle indagini effettuate e grazie alle dichiarazione rilasciate dal collaboratore di giustizia nonché ex affiliato Antonino Belnome, reo confesso dell’omicidio e già condannato in primo grado alla pena di 11 anni e 6 mesi4, è stato interamente ricostruito il contesto all’interno del 1 Per un approfondimento sulla figura di Carmelo Novella e sul suo progetto autonomista si veda E. CICONTE, ‘Ndrangheta padana, Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010. 2 Ordinanza di custodia cautelare in carcere Tribunale di Milano, 5 luglio 2010, Gip Andrea Ghinetti, p. 68. 3 Decreto di fermo di indiziato di delitto della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, Procuratore Aggiunto Dr. Giuseppe Pignatone, p. 410. 4 Notizia disponibile al seguente link: http://archiviostorico.corriere.it/2011/settembre/14/clan_condannati_Danno_all_immagine_co_8_110914018.shtml

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quale è maturato l’omicidio, e sono stati individuati il movente, i mandanti e gli esecutori materiali dello stesso. Nell’epoca immediatamente successiva all’omicidio si apre il problema della successione; già ad agosto avanzano lo loro candidatura Vincenzo Mandalari e Cosimo Barranca1, ed entrambi cercano di acquisire l’appoggio degli “anziani”. Nell’autunno del 2008 gli inquirenti registrano tutta una serie di conversazioni che vertono sul tema della “successione” e viene documentato l’infittirsi degli incontri tra i principali affiliati alla Lombardia. Il 15 settembre viene registrata un’importante conversazione a bordo dell’auto di Vincenzo Mandalari; l’affiliato Pietro Francesco Panetta lo informa di aver sentito, quando si trovava in Calabria, che la Provincia stava lavorando per istituire una “camera di passaggio”:“A breve qua la Provincia manderà cristiani qua sopra ad aprire una camera di controllo, una camera di passaggio come quella che c’era a Magenta (...)”. Dalle numerose conversazioni intercettate si evince come, dopo l’omicidio Novella, la Provincia calabrese abbia ripreso il controllo della Lombardia adottando una soluzione di transizione: ciò spiega il significato della “camera di passaggio” o di controllo che, secondo l’accezione dei due boss, dovrebbe essere una specie di unità di crisi con il compito di traghettare l’organizzazione lombarda fuori dall’emergenza; ciò che conta è prendere tempo fino a che gli animi non siano pacificati e le aspirazioni lasciate da parte. Il “traghettatore” di questa prima fase viene individuato in Giuseppe “Pino” Neri, detto “l’Avvocato” a causa della laurea in giurisprudenza conseguita all’università di Pavia. È proprio Neri a presiedere il celebre summit del 31 ottobre 2009 tenutosi al circolo “Falcone e Borsellino” di Paderno Dugnano, interamente ripreso dalle telecamere degli inquirenti e di eccezionale importanza poiché consente di seguire “in diretta” l’elezione del referente del Nord Italia, designato nella persona di Pasquale Zappia2. Il processo

1 Secondo gli inquirenti il primo sarebbe il responsabile della locale di Bollate mentre il secondo di quella di Milano nonché membro di vertice dell’organo Lombardia 2 Il video del summit è consultabile al sito: http://tv.repubblica.it/cronaca/ ndrangheta-il-summit-nell-aula-falcone-ripreso-dai-carabinieri/50472/49898; la trascrizione integrale del discorso di Pino Neri è disponibile alla pag. 425 del decreto di fermo di indiziato di delitto della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, Direzione Distrettuale Antimafia del 5 luglio 2010.

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Il 15 dicembre 2010, in una conferenza stampa congiunta dei magistrati di Milano e di quelli di Reggio Calabria tenutasi al Palazzo di Giustizia, è stata annunciata la possibilità di un maxi-processo proprio a Milano. I pubblici ministeri, tramite le parole del procuratore aggiunto Ilda Boccassini, hanno chiesto di procedere con il giudizio immediato per i soggetti sottoposti alla custodia cautelare il 13 luglio 2010. Il procuratore Pignatone ha sottolineato come l’inchiesta sia nata dalla stretta e fondamentale collaborazione tra i due capoluoghi: “La sinergia è del resto la carta vincente per sconfiggere un’organizzazione come la ‘ndrangheta che ha capacità espansiva in molti territori, nel Nord Italia, ma anche in Svizzera, in Germania, in Olanda, in Canada e Australia”. Durante la conferenza stampa Ilda Boccassini, che ha coordinato l’operazione “Crimine”, ha lanciato un allarme sull’omertà degli imprenditori lombardi: “Nonostante il maxiblitz che nel luglio scorso ha portato a decine di arresti tra Milano e Reggio Calabria, nel capoluogo lombardo gli imprenditori non denunciano di essere vittime di episodi di estorsione e usura. A Milano non risultano denunce di imprenditori. Non possiamo immaginare che, dopo l’operazione “Crimine”, i fenomeni di estorsione e usura siano stati eliminati. Nonostante l’operazione di luglio e gli interrogatori di persone che hanno ammesso i fatti, non ci stanno pervenendo denunce. Questo è un dato sintomatico di cui dobbiamo prendere atto. Non abbiamo davanti alla porta una serie di persone che chiedono di parlare con noi e denunciare usure, danneggiamenti, incendi, strane sparizioni nei cantieri che, pure, sappiamo esistono ancora, perché le stiamo monitorando. Dobbiamo cercare di capire perché nessun imprenditore denuncia”1. Il processo si è successivamente diviso in due tronconi, poiché 119 soggetti hanno optato per il giudizio abbreviato mentre i restanti hanno

1 Le parole dell’intervento del procuratore aggiunto Ilda Boccassini sono tratte dal seguente articolo: http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/15/ndrangheta-ilda-boccassinidenuncialomerta-degli-imprenditori-milanesi/82080. Il tema dell’omertà degli imprenditori lombardi è stato ripreso dal procuratore aggiunto Boccassini anche nel corso di un partecipatissimo incontro avvenuto lo scorso 4 maggio presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano; durante il seminario, organizzato con la collaborazione dell’associazione Libera, il PM ha infatti dichiarato: “Per un anno e mezzo ho chiesto di essere informata giorno per giorno su incendi e danneggiamenti, betoniere che andavano a fuoco, capannoni distrutti, colpi di pistola contro assessori o messi comunali, episodi concentrati in zone ben precise. Nessuno dei danneggiati ha mai fornito alle forze dell’ordine il minimo indizio, nessuno ha mai ammesso di avere ricevuto minacce”.

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scelto il giudizio ordinario; quest’ultimo ha preso il via lo scorso 11 maggio e, ad oggi, non è ancora concluso. Nel corso delle prime udienze il tema più dibattuto dalle difese è stato quello della presunta incompetenza territoriale del Tribunale di Milano. Secondo i legali, infatti, non esisterebbe in Lombardia un’associazione di tipo mafioso coesa e autonoma rispetto alla ‘ndrangheta calabrese, ma solo delle locali dipendenti dalla “madrepatria”. La sede del “vincolo associativo”, pertanto, a giudizio degli avvocati difensori, sarebbe Reggio Calabria o, eventualmente, le città lombarde in cui si manifestano le varie locali. Il PM Alessandra Dolci nel corso dell’udienza del 7 luglio ha replicato rilevando come in ben 150 pagine dell’ordinanza si trovi descritta la struttura intermedia denominata “La Lombardia” e come di questa facciano parte soggetti di origine calabrese che tuttavia possono vantare un periodo di residenza più che trentennale nella nostra regione, condizione quest’ultima che ha permesso il consolidamento di un’autonoma struttura criminale lombarda. Nonostante l’insistenza dei difensori il Tribunale ha emesso un’ordinanza con la quale ha respinto l’eccezione d’incompetenza territoriale; il Presidente Balzarotti ha spiegato che tutti gli imputati sono accusati di aver fatto parte dell’associazione Lombardia ed è perciò irrilevante il fatto che le locali mantengano collegamenti costanti con la “madrepatria” calabrese. Il luogo di consumazione del reato associativo previsto e punito dall’art. 416-bis è pertanto riconducibile al territorio di competenza del Tribunale di Milano. Un altro tema ampiamente dibattuto è stato quello della costituzione delle parti civili; a colpire particolarmente, più che la presenza dell’avvocato rappresentante la Regione Calabria, è stata l’iniziale assenza della Regione Lombardia e quella del Comune di Milano. Nel corso dell’udienza del 13 giugno le protagoniste sono state le associazioni della società civile quali la “Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane” presieduta da Tano Grasso e “SOS Impresa” di Confersercenti. Dopo l’iniziale assenza e le conseguenti polemiche, anche la Regione Lombardia si è costituita parte civile. Attualmente risultano costituiti la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’Interno, il Ministero della Difesa, il Commissario straordinario antiracket, i Comuni di Bollate, Desio, Pavia, Seregno e la provincia di Monza e Brianza. Proprio in relazione alle numerose parti civili presenti nel processo, l’avvocato Roberto Rallo, difensore di Pino Neri, ha “rispolverato” la celebre invettiva dei “professionisti dell’antimafia” di Leonardo Sciascia contro il giudice Paolo Borsellino, ospitata in prima pagina dal Corriere

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della Sera il 10 gennaio 1987. Secondo l’avvocato Rallo, infatti, “i nuovi professionisti dell’antimafia sono le associazioni antiracket che si costituiscono parte civile di processo in processo, da Reggio Calabria a Milano, anche se nessuno dei loro iscritti è stato materialmente danneggiato dagli imputati. Così facendo esse realizzano solo l’autoreferenzialità delle loro associazioni, spendendo tra l’altro soldi pubblici”. Tano Grasso ha così replicato alla polemica sollevata dall’avvocato Rallo: “A parte che la FAI non prende contributi pubblici, ormai da vent’anni le associazioni si costituiscono ai processi. Noi tuteliamo un interesse diffuso, quello della libertà d’impresa. All’avvocato di Neri direi questo: è importante che noi ci siamo proprio perché anche al Nord le vittime dirette non denunciano e non vanno in tribunale, salvo rari casi. E questo dimostra la forza del vincolo omertoso che vogliamo spezzare”. In relazione a quest’ultimo aspetto è necessario sottolineare l’importanza della presenza in sede processuale di associazioni come “SOS Impresa” e la FAI, poiché, come ha più volte ricordato la dott.ssa Boccassini, uno dei problemi fondamentali della Lombardia è proprio l’assenza di denunce da parte degli imprenditori sottoposti ad estorsione e dei cittadini usurati; tale clima di omertà contribuisce certamente a rafforzare le associazioni presenti sul nostro territorio. In seguito alla pausa estiva il 23 settembre le udienze sono riprese nell’aula bunker di Piazza Filangieri: nel corso dell’ultima è iniziata l’escussione del primo teste indicato dall’accusa, il Tenente Colonnello Roberto Fabiani, responsabile del coordinamento delle indagini nel Nucleo Operativo dei Carabinieri di Monza. Nella sua deposizione egli ha cercato di ricostruire sommariamente l’inizio e lo sviluppo dell’indagine “Infinito”, le tecniche investigative utilizzate ma soprattutto ha fornito una panoramica della terminologia della ‘ndrangheta, spiegando ai giudici il significato di numerosi termini emersi dalle oltre 68.000 ore di intercettazioni acquisite. Nel corso delle udienze fissate nei prossimi mesi, il dibattimento entrerà nel vivo e mostrerà le varie strategie difensive poste in essere dai legali dei presunti boss. Di certo nessuno potrà più dire, come ha fatto non molto tempo fa il Prefetto Lombardi “A Milano la mafia non esiste”.

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Il reato culturalmente motivato1 Daniele Rucco Le società occidentali sono interessate da fenomeni di immigrazione che spesso costituiscono un terreno di confronto e di scontro anche per l’ordinamento giuridico. In materia penale un peso rilevante sta assumendo il reato culturalmente motivato, ossia un comportamento realizzato da un soggetto appartenente ad un gruppo di minoranza, che è considerato reato nel gruppo di maggioranza. Questo stesso comportamento, tuttavia, all’interno del gruppo del soggetto agente è condonato o accettato come comportamento normale o approvato, o addirittura è incoraggiato o imposto2. Le tipologie dei reati culturalmente motivati possono essere ricondotte ad una sorta di numero chiuso; 1) violenza in famiglia: fatti e maltrattamenti realizzati in contesti culturali caratterizzati da una concezione dei poteri spettanti al capofamiglia, diversa rispetto a quella a cui si ispira oggi la cultura italiana. La violenza è lo strumento per punire chi si sottrae alle regole sociali ed al codice etico cui il capofamiglia è, invece, rimasto ancora profondamente legato; 2) reati a difesa dell’onore: vendetta di sangue, onore sessuale; 3) reati di riduzione in schiavitù a danno di minori; 4) reati contro la libertà sessuale: reati in cui sono vittime ragazze minorenni che nella cultura d’origine dell’imputato non godono di una particolare protezione ovvero donne adulte, alle quali la cultura dell’imputato non riconosce una piena libertà di autodeterminazione in ambito sessuale; 5) mutilazione genitali femminili, circoncisioni maschili e tatuaggi ornamentali “a cicatrici”: suggeriti o talvolta imposti dalle convenzioni sociali o dalle regole religiose del gruppo culturale di origine; 6) reati in materie di sostanze stupefacenti: riguardanti sostanze il cui consumo è ritenuto lecito e talvolta addirittura raccomandato per l’esercizio di un culto religioso; 7) reati consistenti nel rifiuto di mandare i figli a scuola a causa di riserve di tipo religioso culturale rispetto alla scuola a cui i figli sono stati assegnati; 8) reati concernenti l’abbigliamento rituale, riguardante casi in cui l’usanza o la tradizione di indossare un velo (burqa) è stata vagliata alla luce della loro possibile rilevanza penale rispetto ad alcune figure di reato poste a tutela della sicurezza pubblica. I migranti giungendo nel Paese di arrivo portano con sé un background

1 Fabio Basile, Immigrazione e reati culturalmente motivati: il diritto penale nelle società multiculturali. Milano, Giuffré, 2009. 2 F. Basile: opera citata, definizione pag 41-42.

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culturale comprensivo di usi, tradizioni, sistema di valori, diverso – e per certi aspetti nuovo rispetto a quello presente nella società di arrivo. Le usanze di un gruppo di marocchini, per esempio, sicuramente divergono rispetto a quelle occidentali. Di regola, un immigrato, una volta insediatosi nella nuova realtà non recide completamente i propri legami culturali, al contrario, cerca di riprodurre nel nuovo stato l’ambiente di origine, cercando di conservare integro quel sistema di valori che è proprio della sua cultura. Il background culturale, assume rilievo particolare allorché si crea un conflitto con una norma penale dell’ordinamento del gruppo di maggioranza. Il reato culturalmente motivato, infatti, scaturisce dal conflitto fra una norma culturale, propria della cultura di un soggetto straniero, e una norma giuridica propria dell’ordinamento penale dello Stato dove viene commesso il comportamento penalmente rilevante.

L’interrogativo a cui bisogna rispondere è: quale rilevanza attribuire ad un comportamento da un lato penalmente rilevante per l’ordinamento dello Stato, e dall’altro conforme ai parametri culturali del soggetto agente? La risposta è particolarmente impegnativa dal momento che gli ordinamenti dei paesi europei, recettori dei flussi immigratori, non contengono una norma di diritto penale di parte generale che detti un’apposita disciplina per il reato commesso in conformità ad una norma culturale.

Le scienze antropologiche hanno dimostrato come la cultura sia radicata nella scienza umana, tanto che risulta impossibile una scissione totale fra l’uomo e la sua cultura. L’uomo è “un animale portatore di cultura”: anche le funzioni umane che corrispondono ai bisogni fisiologici, come la fame, il sonno, il desiderio sessuale sono plasmate dalla cultura. Niente in lui è puramente naturale: l’uomo si conforma al modello culturale proprio della sua società, fin da bambino riceve un’educazione fondata su parametri culturali di riferimento propri della sua società che inevitabilmente avranno una profonda incidenza nella sua fase adulta. Si assiste ad un processo di inculturazione, ossia di inscrizione della cultura nella persona dell’uomo che avrà rilevanza per tutta la vita. Gli antropologi ritengono che esiste un elemento culturale in ogni comportamento umano e un’ interpretazione precisa di tali comportamenti deve avvenire alla luce della cultura. La cultura riceve, dunque, un posto preminente nell’analisi dei fattori motivazionali dell’agire umano: “ i modelli culturali possono avere forza motivazionale in quanto tali modelli non solo definiscono e descrivono il

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mondo ma fissano anche obbiettivi, sia consapevoli che inconsapevoli, e suscitano o includono desideri”3. Ogni cultura è un sistema di aspettative: per quali tipo di comportamenti l’individuo prevede di essere ricompensato o punito. In cosa consiste la ricompensa e la punizione4. Nonostante in questa sede non sia possibile un esauriente approfondimento del concetto di cultura , è bene precisare che nell’ambito dei reati culturalmente motivati ci si riferisce alla cultura espressione di un numero determinato di individui, che condividono una lingua comune e hanno un legame con un territorio geografico, di regola di importanti dimensioni. Dunque il riferimento è alla cultura dei gruppi di persone come i francesi, i tunisini, gli italiani, i marocchini, i pakistani, etc. Il prodotto dei fenomeni di immigrazione è stata una commistione di culture di gruppi socio-politici: da un lato cultura della società occidentale, presente ab origine nello Stato, dall’altro, la cultura del gruppo più o meno ampio insediatosi nello Stato.

Studi di filosofia politica5 si sono espressi in termini di cultura pervasiva, per indicare una cultura che si caratterizza per particolare densità, ricchezza, spessore, e risulta capace di influenzare plurimi aspetti della vita delle persone che ad esse partecipano. Una cultura è pervasiva quando assume rilievo in un complesso spettro di ambiti, compresi quelli di fondamentale importanza per il benessere degli individui. Ma perché una cultura pervasiva, cioè in grado di incidere con forza nei rapporti sociali, può assumere rilevanza in materia penale? La risposta va rintracciata nel fattore culturale che parimenti domina la stessa legge penale. La cultura del legislatore penale, infatti, è intrisa di riferimenti culturali condivisi dalla maggioranza dei destinatari cui la legge è rivolta. Il diritto penale è il “ramo del diritto (…) nel quale si esprimono le fondamentali scelte di valore costituenti il nocciolo duro dell’identità nazionale”. Emblematico del legame esistente fra la cultura del Paese e la legge penale è la Relazione del Guardasigilli Alfredo Rocco. “Lo Stato ci appare come un’unità non solo sociale, ma altresì etnica, legata da vincoli di razza, di lingua, di costume, di tradizioni storiche, di moralità, di religione e vivente, quindi, non di puri bisogni materiali ed economici, ma anche e soprattutto, di bisogni psicologi o spirituali, siano essi intellettuali o morali o religiosi”. 3 Strauss, richiamato da Basile, in op. cit. pag 27 4 Klukhon- Kroeber, richiamato da Basile in op. cit. pag 27. 5 Margalit – Raz, National Self-Determination, in Journal of Philosopy 1990, pag 439 ss.

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Esiste dunque, un rapporto di reciproca implicazione tra il complesso delle norme culturali di una società e le sue norme penali: la dottrina italiana6 mette in luce come “autonomia formale dei sistemi normativi [penale e culturale] non significa isolamento del fenomeno giuridico dal contesto in cui e per cui il diritto è posto. Se i sistemi penali assumono certi contenuti e non altri, non è per capriccio del legislatore e nemmeno dei despoti, ma perché i detentori del potere normativo giuridico hanno sentito l’opportunità di apprestare tutela coattiva a dati assetti di beni o interessi, o a dati valori in qualche modo connessi all’esistente sistema sociale. In questo senso l’apparato statale coercitivo non può non essere in relazione - come sovrastruttura- con una struttura sociale e culturale storicamente determinata (…). Un sistema come quello penale, con i suoi costi e la sua incidenza spesso drammatica, non sarebbe concepibile al di fuori di uno stretto rapporto dei suoi lineamenti e contenuti fondamentali, con un contesto sociopolitico che li produce e li giustifica”. Ebbene, una volta che i soggetti migranti si stabilizzano nel nuovo posto, si verificano due effetti rilevanti per l’ordinamento penale: da un lato, non tutti i destinatari della legge penale condividono quel substrato culturale presente nella legge penale stessa, giacché buona parte di coloro che sono portatori di una cultura diversa si discosteranno dal condividere parte della legge penale; dall’altro, l’ordinamento penale non prende in considerazione i fattori culturali nuovi, che derivano dal processo di immigrazione. Questo è, dunque, il quadro di riferimento in cui matura e si inserisce il fenomeno del reato culturalmente motivato: una cultura espressione di un popolo di ampie dimensioni, che a seguito di un processo di immigrazione, si affianca alla cultura di un gruppo socio-politico di maggioranza, già presente nel territorio dello Stato; un ordinamento penale che ha, oltre ai destinatari di sempre, dei destinatari nuovi appartenenti al gruppo di minoranza, i quali non si sono ancora inseriti nel gruppo di maggioranza, in quanto il loro processo di integrazione non è avvenuto o è ancora in corso. Una cultura nuova, diversa, pone una sfida, un terreno di conflitto e confronto, all’ordinamento penale, in quanto “viene spezzata quella convergenza tra disapprovazione sociale e disapprovazione legale”. In una prospettiva di prevenzione generale, c.d. positiva, è indispensabile che i destinatari condividano il valore del bene giuridico che la norma penale vuole proteggere. Quanto più sarà esteso il consenso dei destinatari alla

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Pulitanò: L’Errore pag.139

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norma penale, tanto più sarà efficace la funzione pedagogica della norma penale. Parimenti la possibilità per il destinatario di conoscere la norma penale violata è alla base di un sistema penale efficiente: solo una tendenziale coincidenza tra norme penali e norme culturali costituisce, in effetti, una condizione in presenza della quale è più agevole, per il consociato, conoscere i contenuti delle norme penali. Succede, dunque, che il migrante trovi nel luogo di arrivo un diritto penale diverso rispetto a quello del luogo di partenza e che tale diversità sia dovuta, almeno in alcuni settori e almeno da alcuni punti di vista, alla diversità di cultura. Il passaggio dei confini da no Stato all’altro, viene a coincidere con il passaggio ad un ordinamento penale diverso, talora significativamente diverso, da quello del migrante. Tutto ciò ha implicazioni rilevanti per il diritto penale ogniqualvolta un immigrato commetta un fatto previsto come reato nell’ordinamento giuridico di quel luogo, ma che risulta, invece, conforme, o per lo meno tollerato, nella cultura del luogo di origine.

I reati culturalmente motivati inducono i giudici italiani e di altri paesi europei a prendere in considerazione anche le motivazioni culturali7 alla base del fatto: sempre più spesso si richiede un’estensione della cognizione processuale anche al background culturale, alla mentalità e alle tradizioni di origine dell’imputato, affinché si giunga ad una più corretta valutazione dei fatti, e a una decisione a lui più favorevole. Come viene regolato il reato culturalmente motivato dal legislatore? Il legislatore degli ordinamenti europei, legislatore italiano incluso, non prevede una disposizione di parte generale concernente la materia dei reati culturalmente motivati: l’assenza, tuttavia, è giustificata. La previsione di una disposizione che dia rilievo specifico alla diversità culturale è foriera di rischi di varia natura, almeno sotto due profili importanti. In primo luogo, un riconoscimento pro reo assoluto e incondizionato alla rilevanza culturale metterebbe in pericolo la tutela dei diritti fondamentali di un individuo, che riceva la sua massima protezione proprio nella norma penale. Si finirebbe per legittimare condotte lesive di diritto fondamentali dell’individuo. In secondo luogo, la vittima del reato culturalmente motivato è un membro – spesso debole o minore – che vuole emanciparsi

7 Come messo in evidenza da studi antropologici, l’agire umano è il prodotto della cultura dell’uomo, un’interpretazione completa dei comportamenti dell’uomo, deve essere fatta alla luce della sua cultura.

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dalla cultura del proprio gruppo di origine8; un riconoscimento incondizionato dell’esimente culturale avrebbe in questi casi l’effetto deleterio di privarlo del suo diritto di autodeterminazione. Questa assenza, tuttavia, non esonera il giudice dall’affrontare (e, ove possibile, dal risolvere) il problema: la motivazione culturale, sottesa alla condotta, deve entrare a far parte degli elementi di cui il giudice terrà conto per decidere in modo giusto sulla responsabilità dell’imputato. In che modo il giudice deve interpretare il riferimento culturale? Alla luce della cultura del legislatore penale oppure alla luce della cultura del soggetto agente? Potrebbe la motivazione culturale integrare un’ipotesi di scriminante culturale ex art. 51c.p.? Innanzitutto la questione in base alla cultura di chi si valutano gli elementi normativi culturali della fattispecie non ha ricevuto ancora una risposta definitiva valida in astratta da parte della dottrina e della giurisprudenza, le quali finora hanno preso posizioni solo in relazione a singoli elementi culturali presenti in specifiche fattispecie criminose. Dunque, laddove una fattispecie di reato sia tipizzato mediante l’impiego di un elemento normativo culturale, in sede di accertamento del fatto questo deve essere valutato in base alla cultura del legislatore e si rinvia la valutazione di tale elemento in base alla cultura del soggetto agente alla successiva fase dell’accertamento della colpevolezza. Se il reato è doloso, occorrerà chiedersi se l’imputato non versi in una situazione di errore su un elemento normativo di fattispecie produttivo di un errore sul fatto che costituisce reato, rilevante ai sensi dell’art. 47 co.3 c.p9.

8 Caso di omicidio della giovane Pakistana, Hina, uccisa dal padre per essersi ribellata al codice etico e alle regole di comportamento alle quali erano ancora radicati i suoi familiari. La ragazza, infatti, aveva scelto di aderire alla cultura occidentale, anziché essere una “buona musulmana”. Tribunale di Brescia 2008; Corte di Appello di Brescia 2008; Corte di Cassazione 2009. 9 Art. 47 co. 3 c.p. “L’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato”. Per esempio: Corte d’appello di Bologna 6 ottobre2006 e Cass. 2 agosto 2007, in Dir. Pen. Proc. 2008 pag.498, hanno escluso la responsabilità penale di un cittadino originario del Magreb, imputato del delitto di maltrattamenti in famiglia ai danni della figlia, motivando che nel caso specifico non sussiste il dolo di maltrattamenti, giacché le percosse inferte dal padre alla figlia “furono rivolte a reprimere comportamenti della figlia, ritenute [dal soggetto agente] scorrette, e quindi non furono espressione di una volontà di sopraffazione e disprezzo, necessaria, invece ai fini della sussistenza del dolo di maltrattamenti. (Basile: op. citata pag 370)

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Sotto il profilo dell’antigiuridicità, la motivazione culturale può essere talvolta invocata come causa di giustificazione, integrando quindi un’ipotesi di esercizio di un diritto ai sensi dell’art.51 c.p., in particolare del diritto alla propria cultura (right to culture).10 Il diritto alla propria cultura va, tuttavia, bilanciato con il diritto/bene giuridico che la norma penale vuole tutelare, ed è destinato pertanto a soccombere quando il fatto consiste in un’offesa di beni di elevato rango costituzionale (in particolare modo la vita, l’integrità fisica, la libertà sessuale, la dignità della persona, l’uguaglianza dei coniugi). Sia la giurisprudenza della Cassazione sia i giudici di merito hanno, dunque, affermato il principio dello “sbarramento invalicabile”, secondo il quale: “I principi costituzionali dettati: dall’art. 2 della Costituzione attinenti alla garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo (integrità fisica e libertà sessuale); dall’art. 3 della Costituzione relativi alla pari dignità sociale, all’eguaglianza senza distinzione di sesso e al compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (…), costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione di diritto e di fatto, nella società civile di consuetudini e valori che si pongono come antistorici a fronte dei risultati ottenuti.”11 L’esimente culturale, al contrario, può ricevere riconoscimento allorquando la condotta del soggetto agente non offende un diritto fondamentale della persona e, inoltre l’offesa al bene giuridico non è elevata. Le corti italiane nel bilanciamento del diritto dell’imputato alla propria cultura (diritto che talora coincide con il diritto alla libertà religiosa) con i beni di rango secondario, o in ogni caso con offese di grado minimo, hanno dato prevalenza al primo, riconoscendogli, quindi, piena efficacia scriminante. Un’ultima precisazione risulta doverosa. Nonostante la protezione apprestata dal diritto penale ai beni giuridici di elevato rango costituzionale non arretri in presenza di un reato culturalmente motivato, ciò non significa che il giudice debba ignorare il conflitto motivazionale presente nell’imputato. Dunque, se la motivazione cultura-

10 Il diritto alla propria cultura è esplicitamente contemplato dall’art. 27 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato in Italia con l. 15 dicembre 1977, n. 176): “… le persone appartenenti alle minoranze etniche non possono essere private del diritto di avere, in comune con gli altri membri del loro gruppo, la propria vita culturale, di professare e praticare la loro religione, di utilizzare la loro lingua” 11 Cass. 16 dicembre2008.

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le non scuote l’antigiuridicità del fatto, potrà avere peso in sede di commisurazione della pena nella prospettiva di una concezione “gradualistica” della colpevolezza.

Tale concezione, applicata nel quadro del reato culturalmente motivato, prende in considerazione la motivazione culturale, fortemente determinante della condotta, al fine di spiegare come nel caso concreto dal soggetto agente non si poteva esigere un comportamento lecito. Secondo tale impostazione la colpevolezza è un concetto graduabile la cui misura risulta tanto maggiore quanto più agevole per il soggetto agente sarebbe stato rispettare la prescrizione dell’ordinamento giuridico e, per converso, tanto minore, quanto più difficile sarebbe stato il rispetto di tale prescrizione. L’interpretazione appena esaminata può indurre il giudice a considerare la motivazione culturale una circostanza attenuante generica, ex art. 62 bis c.p., in virtù del fatto che la cultura spesso orienta il comportamento di una persona, il suo modo di prendere una decisione, scemando il livello di razionalità, esigibile dalla norma penale. Potrebbe essere, dunque, questa la via percorribile per attribuire il giusto peso nel caso concreto alla motivazione culturale, giungendo quindi ad una pena giusta “ritagliata” sull’autore del fatto.

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Rubriche

l’alligatore 54


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LA RIFORMA DELLA PROFESSIONE FORENSE - parte terza Formazione e Reclutamento degli avvocati: una proposta di riforma possibile Alessio Fionda Breve riassunto dei precedenti due articoli Nel primo articolo (Anno 2 Numero 2) dedicato alla professione di avvocato abbiamo compiuto un rapido excursus socio-economico della professione forense: da semplice studente di giurisprudenza, passando per il praticantato, l’esame di stato e la professione vera e propria. Abbiamo delineato un quadro assai sconfortante, caratterizzato da scarsa preparazione, disoccupazione, bassi redditi, poche tutele e mediocre specializzazione. Nel secondo articolo (Anno 2 Numero 3) abbiamo analizzato, seppur a sommi capi, la riforma dell’ordinamento della professione forense datata 23 novembre 2010 approvata dal Senato ed attualmente all’esame della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e abbiamo concluso affermando che, “soprattutto in materia di accesso alla professione, formazione, esame di stato e garanzia del reddito, ben altri strumenti possono essere messi in campo” rispetto ad una mediocre riforma che nei suoi presupposti non sembra risolvere alcuno dei grandi problemi che attanagliano gli avvocati italiani. Lo scopo di questo terzo ed ultimo articolo è proprio quello di provare ad ipotizzare una regolamentazione alternativa almeno in materia di formazione, praticantato ed esame di stato ossia dei temi di maggiore interesse per degli studenti di giurisprudenza. Abbiamo provato a tracciare una riforma che a nostro parere potrebbe davvero riuscire a incrociare gli interessi delle diverse parti in gioco (quelli che gli anglosassoni definiscono stakeholders). Per questo tipo di operazione abbiamo utilizzato un approccio comparatistico, prestando attenzione da un lato alla regolamentazione adottata dagli altri Stati europei, in particolare a quelli che per tradizione giuridica sono maggiormente simili al nostro contesto, e dall’altro un approccio

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multidisciplinare sia giuridico-formale che sociale, economico e formativo. In questa sede, per ovvie ragioni di spazio, daremo conto della comparazione con il sistema francese che per vicinanza di ordinamenti giuridici e tempi della riforma dell’avvocatura può essere considerato un utile termine di paragone.

In Francia, l’accesso alla professione è disciplinato dalla legge n. 71-1130 del 31 dicembre 1971, modificata nel 2004, e dal decreto n. 91-1197 del 27 novembre 19911. La formazione iniziale per avvocati prevede l’ottenimento della laurea in giurisprudenza (maîtrise en droit) della durata di quattro anni o di un diploma equivalente e il superamento di un esame di ingresso ad un centro regionale di formazione professionale (Centre de formation professionelle d’avocat). I candidati ammessi seguono un ciclo di formazione della durata di 18 mesi suddivisi in tre sessioni. I primi sei mesi sono dedicati alla frequenza di corsi e discipline fondamentali. I successivi sei mesi sono dedicati alla realizzazione di un progetto pedagogico individuale che permette all’allievo avvocato di iniziare ad avviare la propria carriera verso una determinata professione. A tale scopo egli dovrà effettuare uno stage presso un’amministrazione, una collettività locale o un’impresa, scegliendo i corrispondenti insegnamenti. L’ultima parte della formazione consiste in uno stage presso uno studio legale. Al termine della formazione il candidato deve sostenere un nuovo esame finalizzato al conseguimento del certificato di idoneità alla professione di avvocato (CAPA). Inoltre grazie ad una riforma del 2004 l’allievo avvocato può essere inquadrato in un contratto di apprendistato alle condizioni previste dal codice del lavoro. In tal caso, il praticante viene remunerato da un tutore (maître de stage) al quale sono assegnati obiettivi precisi, e viene inquadrato dal centro regionale di formazione che può essere riconosciuto come centro di formazione di apprendistato. Infine l’esame di stato in Francia è poi così strutturato: - Redazione di un atto di procedura o di un atto giudiziario; - - 1

Esame orale che parte da un dossier di diritto civile, commerciale, sociale, penale, amministrativo o comunitario; Esame orale di lingua straniera;

Fonti: www.senato.it , www.cnb.avocat.fr

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Si potrebbe applicare, con i necessari correttivi che tengano conto delle “peculiarità nostrane”, un sistema di questo tipo al contesto italiano? Ci riferiamo a una nuova politica pubblica in materia di reclutamento e formazione dell’avvocatura che abbia alcuni connotati ben precisi: 1. Individui l’origine dei problemi di fondo, ovvero nella struttura della formazione universitaria; 2. Si caratterizzi per la previsione di sanzioni ma anche di incentivi e premi;

3. Prediliga la ricerca della migliore soluzione per il funzionamento del sistema di formazione e reclutamento degli avvocati; 4. Preveda un sistema di continuo monitoraggio e valutazione.

A mio avviso, un provvedimento che porterebbe un beneficio strutturale in un’ottica di lungo periodo potrebbe essere il seguente: • Riportare la preparazione giuridica di base ad un corso, ad accesso libero, di laurea triennale in scienze giuridiche di carattere teorico (strutturato sui modelli attuali dei corsi in giurisprudenza) almeno per i primi due anni, a cui far seguire un eventuale terzo anno di carattere professionalizzante per chi intende fermarsi alla laurea di primo livello. • Biennio di specializzazione in Legge all’interno delle 41 Scuole di specializzazione per le professioni legali già istituite che chiameremo Laurea magistrale in Legge, così strutturata: o Accesso programmato: In questa fase sarà determinante il merito e la valorizzazione delle pratiche d’orientamento professionale. A differenza della triennale, a tal fine diviene sensata l’introduzione di un test d’ingresso. Un test che valuti le conoscenze istituzionali in materia di diritto privato e penale, procedura civile e penale e diritto costituzionale e amministrativo, essenziali per poter iniziare dei corsi avanzati e di carattere pratico nelle stesse aree del diritto. Il test potrebbe avere anche un’ulteriore parte di comprensione di testi e dedicata al ragionamento logicogiuridico. Gli eventuali periodi di stage ed Erasmus potrebbero aggiungere punteggio. Da escludere invece il voto

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di laurea, la media degli esami ed eventuali privilegi per laureati in corso; sarebbero incentivi per le università e gli stessi studenti a preferire la facoltà di giurisprudenza più semplice e veloce; Pratica del diritto: A questo punto gli anni della specializzazione non possono ripetere l’approccio didattico teorico utilizzato negli insegnamenti del triennio; le aule dovrebbero essere composte da massimo 50-60 persone. Il principio della sperimentazione attiva del diritto si esplicherebbe attraverso l’analisi dei casi, la simulazione delle procedure processuali, la redazione di atti e pareri, oltre al contatto diretto e continuo con il mondo delle professioni legali.  Possiamo ipotizzare come dovrebbe essere strutturato l’insegnamento di diritto processuale civile avanzato da 8, 9 o 10 crediti: • Didattica frontale per un terzo dell’insegnamento; • Seminars e lectures anche a cura degli stessi studenti per un altro terzo; • Esercitazioni sugli atti processuali e simulazione dei riti processuali per il rimanente terzo; • Studio individuale; Alternanza studio – lavoro obbligatoria: al termine del primo anno comune o durante lo stesso periodo a didattica sospesa, gli studenti seguirebbero un breve tirocinio curriculare a carattere formativo e di orientamento presso uno studio legale pubblico o privato o presso un ufficio giudiziario; Ulteriore specializzazione interna: Il secondo anno sarebbe dedicato, invece, ad un percorso d’approfondimento di un’area del diritto e alla redazione della tesi di laurea; il percorso di approfondimento è scelto anche in base alla precedente esperienza di tirocinio e alle attitudini personali dello studente che potrà utilizzare i servizi di orientamento messi a disposizione obbligatoriamente dalla struttura didattica del corso di laurea; Frequenza obbligatoria: A fronte della richiesta allo stu-

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dente di un intenso impegno giornaliero ne segue che l’unica via percorribile è quella di una frequenza assidua; o Borse di studio per gli studenti a basso reddito familiare; volte sia a copertura dei costi di residenzialità e del costo opportunità degli studenti che avrebbero potuto lavorare durante il corso di studi sia delle tasse universitarie, che inevitabilmente dovrebbero essere più alte delle attuali, almeno per i più abbienti, considerato anche l’impegno maggiore delle stesse scuole nella tipologia di formazione; o Limite di due tentativi per poter accedere alla nuova Laurea magistrale in Legge. Anche in questo caso il lettore potrebbe pensare che sia una norma “ingiusta”, in realtà è una disposizione efficiente, meritocratica ed egualitaria. Efficiente perché all’interno di un “Sistema Italia” che vede i giovani entrare nel mercato del lavoro troppo tardi, perdendo il periodo migliore per fare esperienze di lavoro, significherebbe non lasciare in sospeso per anni studenti speranzosi di accedere alla magistrale. Meritocratica perché dà a tutti le stesse possibilità e premia la preparazione degli studenti. Egualitaria perché mette sullo stesso piano lo studente con scarsi mezzi economici e lo studente abbiente che ben potrebbe permettersi di ripetere all’infinito il test di ammissione avendo alla base una famiglia che lo mantiene economicamente. o La laurea magistrale in Legge è l’unica che permette l’accesso alle professioni legali classiche: notaio, magistrato e avvocato.

Governance della nuova Laurea magistrale in Legge. - Come si accennava in precedenza la nuova Laurea magistrale dovrebbe essere istituita laddove sono già presenti le Scuole di specializzazione legale. Attualmente, secondo i dati del MIUR, risultano attivi 76 corsi di laurea in giurisprudenza a ciclo unico e 68 corsi di laurea in scienze dei servizi giuridici (che permettono il passaggio a partire dal quarto anno al ciclo unico in giurisprudenza) per un totale quindi di 144 corsi di laurea nelle scienze giuridiche; le facoltà di giurisprudenza sono 61 mentre le Scuole di Specializzazione attive sono 41 a numero chiuso per un numero massimo di 5 mila studenti. La riforma permette una razionalizzazione del numero di corsi di laurea e una loro

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maggiore concentrazione; la conseguenza sarebbe quella di avere una riduzione dei corsi di laurea per l’accesso alle professioni legali da 76 a 41.

Per la nuova laurea magistrale in Legge potrebbe non essere necessario istituire un numero chiuso a livello nazionale, come avviene per le Scuole di Specializzazione, ma solo a condizione che le strutture siano in grado di garantire il non superamento del numero massimo di studenti per aula, stage curriculari per ogni studente, organizzazione della didattica come descritta sopra. Ogni corso di Laurea magistrale in Legge dovrebbe vedere la presenza di una Commissione composta dai rappresentanti della struttura didattica, degli studenti, degli avvocati, della magistratura e del notariato con il compito di valutare la didattica e l’efficacia del percorso di studi, supervisionare la corretta attuazione degli stage, verificare l’attuazione dei rapporti con il mondo delle professioni e curare la redazione delle diverse convenzioni con il mondo delle professioni.

Al termine del percorso di studi magistrali in Legge • Chi intende intraprendere la strada della professione di avvocato, deve seguire 24 mesi di pratica obbligatoria accompagnata da un piano formativo personalizzato (PFP), curato dall’ordine territoriale degli avvocati, al termine del quale, solo se sono stati raggiunti gli obiettivi formativi il praticante è ammesso all’esame di stato. Il periodo di pratica può iniziare già nel corso degli studi, negli ultimi sei mesi precedenti alla data della laurea. • Nel piano formativo personalizzato (PFP) sono contenute le mansioni e le aree all’interno delle quali il praticante opererà, il nome del “dominus-tutor”, i corsi di formazione che seguirà, il compenso pattuito e gli altri aspetti contrattuali. • Gli ordini più all’avanguardia potrebbero avviare dei veri e propri sistemi informativi nei quali registrare i piani di formazione individuali e il resoconto delle attività svolte dal praticante in sostituzione del libretto cartaceo; • Gli ordini territoriali in collaborazione con le università (in particolare le facoltà di scienze della formazione) o altri soggetti (pensiamo agli esperti di risorse umane) avviano percorsi di forma-

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zione obbligatori a favore dei “dominus-tutor” che seguiranno i praticanti a loro assegnati (un po’ come avviene per i tutor degli apprendisti); • Il praticante-avvocato ha diritto ad un vero contratto di lavoro, ipoteticamente strutturato sul modello dell’apprendistato di alta specializzazione2 oppure su un ipotetico contratto di praticantato che preveda dei minimi retributivi su base regionale3 e contributivi e che non sia inserito all’interno dell’alveo del lavoro subordinato stricto sensu ma di quello a causa mista ovvero di formazione e lavoro dotato, in ogni caso, di un’ampia flessibilità; • Il praticante ha l’obbligo di seguire nel corso dei 24 mesi alcuni corsi di formazione tenuti dalle scuole forensi i cui costi sono solo parzialmente a carico del praticante stesso. I corsi devono caratterizzarsi per la loro multidisciplinarietà, quindi non solo su materie giuridiche ma anche organizzative, economiche, psicologiche e linguistiche. Pensiamo - ad esempio - alle tecniche di negoziato e risoluzione stragiudiziale delle controversie, agli approcci dell’analisi economica del diritto, all’informatica, alle abilità e alle competenze per organizzare efficacemente il proprio lavoro o il proprio studio legale, alle lingue straniere. • Va da sé che la conclusione del percorso consista in un Esame di stato riformato e semplificato. Se la selezione è già stata realizzata a monte e se il percorso ha già individuato i migliori potenziali avvocati che senso ha un nuovo grande esame di stato tecnico-formalistico con costi e impiego di risorse umane a dir poco eccezionali? (Non dimentichiamo i 40.000 candidati all’anno e i 1.800 commissari di esame, con scandali annessi). Il nuovo Esame di stato, dovrà essere capace di concentrarsi sulle potenzialità di sviluppo e sulle competenze fino allora acquisite dal candidato

2 L’apprendistato di alta specializzazione (che risulta poco attuato), è disciplinato dall’art. 50 del D.Lgs n. 276/03. Prevede l’acquisizione di un diploma o il conseguimento di un titolo universitario attraverso dei percorsi che alternino alta formazione e lavoro. Possono accedervi esclusivamente le persone di età compresa tra i 18 e i 29 anni. 3 Significa lasciare un margine discrezionale a livello regionale se non addirittura provinciale in quanto esistono notevoli differenze a livello territoriale in relazione al volume di affari degli studi legali; basti dire la profonda differenza in termini di compenso e carico di lavoro tra chi svolge una pratica presso uno studio legale di Milano o Roma e chi svolge il tirocinio in uno studio legale di una provincia periferica del Sud Italia.

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prendendo atto delle diverse specializzazioni presenti. Un esame di stato quindi, che cesserebbe di essere una lotteria per diventare il coronamento di un percorso caratterizzato da pari opportunità ma anche da severità e rigore. Esame che potrebbe essere, quindi, composto da un’unica prova scritta e da una prova orale con la conseguente velocità di correzione e svolgimento delle sessioni di esame.

I Benefici strutturali della Riforma

I benefici di una riforma strutturale di questo tipo sono:

• Ingresso in un mercato del lavoro “bianco” anziché “grigio-nero” a 24-25 anni. • Riduzione dei tempi di conseguimento della Laurea magistrale in Giurisprudenza (che ricordiamo collocarsi intorno ai 28 anni). • Riduzione del tasso di disoccupazione e di inattività dei laureati in giurisprudenza. • Riduzione dei tempi per il conseguimento dell’abilitazione professionale, che passerebbe dai 32 anni di media attuale a 27-28 anni. • Taglio degli elevati costi di formazione universitaria e post-universitaria a carico dei praticanti; provate a pensare che cosa sia il business di coloro i quali lucrano sui praticanti tra corsi di preparazione all’esame di stato e libri di testo che promettono preparazioni miracolose, oppure ai casi delle agenzie che organizzano viaggi in Spagna per conseguire l’abilitazione; • Reale concorrenza tra gli studi legali e fine definitiva del praticantato fittizio: solo i professionisti che garantirebbero formazione e un contratto potrebbero avere dei praticanti e sarebbero i praticanti ben formati e informati che, una volta a regime la riforma, sceglieranno gli studi dove andare; • Miglioramento della preparazione giuridica e trasversale ossia dell’insieme delle competenze necessarie per poter svolgere nel modo migliore la professione legale; • Deflazione definitiva dell’incontrollato numero dei candidati all’esame di stato e contestuale beneficio per il reclutamento di giovani laureati in giurisprudenza nella Pubblica Amministrazione che oggi si riversano in migliaia nei pochi posti pubblici disponibili;

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• Aumento controllato, negli anni, del numero degli avvocati esercenti la professione con contestuale beneficio strutturale per il sistema giudiziario; • In definitiva, a monte, filtri basati sul merito e le attitudini personali, anziché grandi “barriere nozionistiche e inique” a valle, con conseguente facilità di programmazione del progetto di vita professionale di un 22enne rispetto ad un over 30.

Compatibilità della riforma con le professioni di Notaio e Magistrato, gestione del periodo di transizione e piano volontario di occupabilità.

Per quanto riguarda la compatibilità della nuova Laurea magistrale in Legge con chi intende intraprendere la strada della magistratura attraverso le Scuole di specializzazione legale non ci sarebbero particolari cambiamenti rispetto al regime attuale, se non una modificazione della didattica delle Scuole di Specializzazione che si ritroverebbero con studenti più formati e preparati e quindi con la possibilità di approfondire ancora meglio le diverse aree del diritto. Inoltre, con una laurea magistrale del tipo sopra descritto si potrebbe finalmente attuare la disposizione prevista nella legge finanziaria 2007, la quale prevede, per gli studenti che hanno affrontato 5 anni di studi in legge, che la durata della scuola di specializzazione sia solamente di un anno anziché due. Va da sé che la scuola di specializzazione sarebbe scelta in massima parte da coloro che intendono diventare magistrati dal momento che per i praticanti avvocati ci sarebbe già l’obbligo di frequenza dei corsi delle scuole forensi. Si potrebbe dunque immaginare una scuola nella quale gli studenti alternino lo studio al lavoro pratico nei tribunali. Non si rileva alcun problema con la professione di notaio che - ricordiamo - prevede di poter iniziare il tirocinio 6 mesi prima del conseguimento della laurea ed una durata del tirocinio stesso pari a 18 mesi per accedere all’esame di stato.

Il periodo di transizione dovrebbe essere caratterizzato dalla graduale attivazione, anno per anno, dei nuovi corsi di laurea triennale e magistrale. Dovrebbe essere altresì stabilito un termine di 5 anni entro il quale conseguire tutte le lauree dei vecchi ordinamenti (basti pensare che a 9 anni dalla cancellazione della vecchia laurea quadriennale in giurisprudenza ci sono ancora migliaia di studenti che non hanno completato il proprio percorso di studi). La riforma del praticantato, invece, dovrebbe partire

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da subito e applicarsi anche ai praticanti attuali.

Un altro intervento necessario dovrebbe essere un piano di riformazione e ricollocamento delle migliaia di praticanti e avvocati a basso reddito che intendono abbandonare volontariamente la professione per potersi riqualificare. Colloqui di orientamento, formazione, incontri domanda-offerta di lavoro, indennità di ricollocazione, accordi con le pubbliche amministrazioni rappresenterebbero un investimento necessario da parte delle istituzioni per poter definitivamente superare la situazione di crisi attuale con contestuale effetto deflativo sul numero dei candidati all’Esame di stato e sugli avvocati iscritti all’albo ma con un volume di affari del tutto inadeguato per garantirsi un certo livello di reddito. Una riforma che accontenta tutti? Per quale motivo una riforma di questo tipo potrebbe trovare il consenso trasversale di tutti gli attori in gioco? Studenti, avvocatura, università, istituzioni? Chiudere le facoltà di giurisprudenza più piccole e con la didattica e ricerca più scadenti sarebbe auspicabile ma in concreto impossibile. Il compromesso sarebbe rappresentato dal concedere a tutte le 61 facoltà di giurisprudenza l’istituzione del triennio in scienze giuridiche ma nel permettere l’avvio della Laurea magistrale in Legge solo laddove sono costituite le 41 Scuole di specializzazione per le professioni legali, molte delle quali istituite attraverso convenzioni tra le diverse facoltà di giurisprudenza. L’obiettivo è quello di creare delle vere e proprie Law Schools che formino con rigore gli avvocati e i magistrati di domani. Per colmare la perdita di studenti, nell’eventualità potrebbero essere istituite lauree magistrali vicine a quelle in Legge con l’obiettivo, ad esempio, di formare giuristi di impresa o preparare (meglio di quanto fa oggi una laurea in giurisprudenza) specialisti per la pubblica amministrazione. Gli studenti potrebbero giocarsi, in un sistema di questo tipo, le loro carte fatte d’impegno, sacrificio, formazione continua, parità di chance per il figlio dell’operaio come per il figlio dell’avvocato, evitando alla soglia dei 30 anni delusioni irrimediabili delle proprie aspettative. Si metterebbe, infine, un freno alla trappola infernale della precarietà che caratterizza molti laureati in giurisprudenza. L’avvocatura vedrebbe finalmente esaudita la richiesta di diminuire il numero di praticanti e controllare un accesso alla professione scisso dalla domanda di lavoro. Tuttavia, in modo più equo e meritocratico rispetto a un draconiano numero chiuso al primo anno delle facoltà di giurisprudenza o all’ammissione al praticantato o peggio ancora attraverso un Esame

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di stato burocratico e costoso. Allo stesso tempo, all’avvocatura viene richiesto un maggiore impegno nel momento della formazione degli studenti in quanto dovrebbe essere presente sia nella definizione dei programmi, sia nell’offerta degli stage presso i propri studi legali, sia nella valutazione complessiva della didattica. A fronte di tirocinanti avvocati già “impratichiti” e orientati è richiesto l’obbligo di contrattualizzare il rapporto di lavoro e la frequenza ai corsi di formazione per il “dominus-tutor”. La domanda, quindi, è d’obbligo: perché il Parlamento e i Ministeri competenti (Istruzione e Giustizia) non perseguono da subito una riforma di questo tipo?

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“I soliti ignoti col sistema del buco rubano pasta e ceci”: il requisito della idoneità degli atti del tentativo Sandro Parziale “Rubare è un mestiere impegnativo, ci vuole gente seria, mica come voi! Voi, al massimo... potete andare a lavorare!” (Tiberio ai complici, dopo il fallimento del colpo) Sorprenderà forse che in una rivista di diritto, per quanto studentesca, si trovi un articolo che tratta di un film. E non di un film ambientato nelle aule giudiziarie come quelli tratti dai legal-thriller americani, bensì di una delle pellicole più rappresentative della commedia all’italiana: I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli, il grande regista tragicamente scomparso lo scorso autunno. Questo film ci offrirà l’opportunità di “giocare” con il diritto penale e i suoi istituti, spesso ritenuti così distanti dal buon senso comune e liquidati a “roba da giuristi”. In particolare ci occuperemo qui dell’istituto del tentativo di reato, disciplinato all’art. 56 del codice penale, ai sensi del quale risponde di delitto tentato “chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto… se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.” Nel film una banda di ladruncoli progetta un furto ai danni del Monte di Pietà di Roma. Si tratta di cinque uomini provenienti dal sottoproletariato delle borgate romane, le stesse descritte da Pasolini nel suo Ragazzi di vita: il balbuziente pugile fallito ma discreto dongiovanni “Peppe er Pantera” (Vittorio Gassman), l’orfano Mario Angeletti (Renato Salvatori), il vecchietto sempre affamato Pierluigi “Capannelle” (Carlo Pisacane), il siciliano Michele “Ferribotte” Nicosia (Tiberio Murgia), gelosissimo della sorella Carmela (una splendida Claudia Cardinale) e infine Tiberio (Marcello Mastroianni), padre di un dolcissimo bambino del quale è costretto a occuparsi da solo poiché la moglie si trova in carcere a causa di una pena pecuniaria per contrabbando di sigarette convertita in pena detentiva1.

1 Negli anni in cui è stato girato ed è ambientato il film (1958), i condannati a pena pecuniaria, se insolvibili, si vedevano convertire la propria multa o ammenda nella pena detentiva della specie corrispondente, reclusione o arresto. La disciplina, che comportava un’evidente e irragionevole disparità nei confronti dei cittadini non abbienti (come nel caso della moglie di Tiberio), è stata modifi-

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Personaggi espressione di una società, quella italiana della fine degli anni cinquanta, proveniente da una economia prevalentemente contadina e artigiana e che, forse impreparata, si proiettava, grazie al boom economico, verso una società industriale di massa propria dei paesi economicamente più sviluppati. Il piano sembra semplice: consiste nell’introdursi, attraverso una carbonaia, nel cortile di uno stabile e, passando sopra un lucernario, entrare in un appartamento sfitto che si trova a muro con la stanza del Monte dei Pegni dove sono contenuti i valori. Una volta sfondata la parete non dovranno far altro che forzare la cassaforte e rubarne il contenuto. La banda inizia allora una più o meno meticolosa fase di organizzazione e pianificazione del furto, compiendo una serie di atti – diremmo - preparatori: un lavoro “sc-sc-scientifico, s-s-si capisce”. Fanno appostamenti sul luogo, riescono a filmare la cassaforte in modo da individuarne il modello, interpellano un noto ladro, Dante Cruciani (Totò), che ormai “in pensione” si guadagna da vivere insegnando il mestiere alle giovani leve: quest’ultimo consiglia il mezzo migliore per sfondare la parete dell’appartamento attigua alla stanza del Monte di Pietà e la tecnica migliore per forzare la cassaforte, fornendo perfino gli strumenti adatti. Tuttavia in uno degli appostamenti scoprono che l’appartamento non è vuoto: le proprietarie, due anziane signore, sono tornate ad abitarlo insieme alla loro giovane donna di servizio. L’imprevisto non scoraggia la banda che, attraverso il fascino di Peppe, riesce ad avvicinare con l’inganno la giovane Nicoletta la quale lo informa che le due zitelle il giovedì hanno l’abitudine di andare in campagna e fermarsi a dormire, lasciando l’appartamento libero. La banda fissa allora il colpo per il giovedì successivo. La sera prevista per il colpo, dopo una serie di imprevisti incontrati durante il percorso e che danno luogo a esilaranti sketch, i quattro2 riescono a penetrare nell’appartamento e immediatamente iniziano l’opera di sfondamento della parete; ma a conclusione del lavoro i nostri simpatici ladruncoli scoprono di aver abbattuto la parete sbagliata, finendo per trovarsi nella cucina dell’abitazione. Le due signore avevano infatti cambiato la disposizione dei mobili della casa: ormai rassegnati, i quattro finiscono attorno al tavolo a mangiare la pasta e ceci trovata nella cucina. Se questo è il fatto proviamo a immaginare di quale/i reato/i possano ricata nel 1981: oggi le pene da conversione sono la libertà controllata e il lavoro di pubblica utilità. Vedi Marinucci Dolcini, Manuale di diritto penale – Parte generale 3° ed., Milano 2009, pag. 533. 2 Mario, innamoratosi della sorella di “Ferribotte”, ha nel frattempo abbandonato il suo proposito criminoso trovando lavoro presso un cinema.

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spondere gli autori, presupponendo l’applicabilità delle norme oggi vigenti. Certamente non risponderanno di furto consumato ai danni del Monte di Pietà, poiché non sottraggono né si impossessano del contenuto della cassaforte. Si può parlare allora di una responsabilità per tentativo del reato di cui all’art. 624-bis primo comma c.p.3? Dopotutto, si può sostenere, il piano della banda era proprio quello di introdursi nel Monte dei Pegni e rubare il contenuto della cassaforte. Il tentativo costituisce un fondamentale “banco di prova” del modello di diritto penale adottato in un dato ordinamento: a seconda che il concetto di reato accolto sia di impronta soggettivistica, dando rilievo alle intenzioni criminose manifestate dal soggetto agente, oppure oggettivistica, che inquadra il reato come specifica offesa a un bene giuridico, saranno diversi la struttura e il trattamento sanzionatorio del tentativo. L’art. 56 c.p. richiedendo il requisito della idoneità degli atti, ossia la concreta capacità della condotta di creare un pericolo di lesione al bene giuridico, e disponendo una sensibile riduzione di pena, rispetto al delitto consumato, conferma la scelta oggettivistica del nostro legislatore: non si ha reato se non c’è offesa al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice. Il tentativo, poiché “l’azione non si compie o l’evento non si verifica”, esprimendo un grado minore di offesa al bene giuridico viene punito meno severamente. Viceversa, adottando la concezione soggettivistica, autore del delitto tentato e autore del delitto consumato andrebbero puniti con uguale pena, rilevando per entrambi la manifestazione della medesima volontà delittuosa. Per rimproverare alla banda il tentativo di furto in abitazione dobbiamo quindi chiederci se sono stati compiuti atti idonei, diretti in modo non equivoco, a commettere il reato in questione, prima ancora di indagare sulle intenzioni degli autori. Sul requisito della direzione univoca degli atti, che individua il momento in cui un soggetto pone in essere condotte penalmente rilevanti, il dibattito in dottrina e giurisprudenza non è ancora sopito, ma, semplificando, 3 L’art. 624-bis comma-1 c.p. così dispone: Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 309 euro a 1032 euro. È il c.d. furto in abitazione, dove per luogo destinato a privata dimora giurisprudenza e dottrina intendono non soltanto l’abitazione ma anche quegli spazi dove la persona vi svolge attività della vita privata, comprensivo anche della vita lavorativa (Ferrando Mantovani, Diritto penale. Parte speciale II - Delitti contro il patrimonio, terza edizione, Padova 2009, pag.85.). Nel nostro caso quindi il locale del Monte di Pietà sembra rientrare nelle ipotesi previste dalla fattispecie incriminatrice citata.

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possiamo comunque sostenere che gli atti compiuti fino a quel momento (l’ingresso furtivo nell’appartamento, l’opera di sfondamento della parete, l’essere in possesso di strumenti per aprire la cassaforte, ecc.) erano inequivocabilmente diretti a commettere il furto4. Si può dire però che queste attività erano anche effettivamente idonee a raggiungere lo scopo che la banda si era prefissato, ossia introdursi nella stanza del Monte dei Pegni dove era contenuta la cassaforte? La risposta è, a parere di chi scrive, nella comica conclusione del colpo: i nostri quattro amici hanno completamente sbagliato parete, finendo per abbattere quella attigua alla cucina della stessa abitazione. La cassaforte dell’esercizio non ha corso il pericolo di venire aperta e gli oggetti ivi contenuti di venire rubati. Il giudizio sulla idoneità degli atti va formulato ex ante, bisogna cioè riportarsi idealmente al momento dell’inizio dell’esecuzione del delitto e chiedersi se il bene ha concretamente corso il pericolo di essere leso: nel nostro caso al momento in cui i quattro autori hanno iniziato a sfondare la parete. Circa la base del giudizio, ossia le circostanze che devono essere prese in considerazione ai fini della idoneità dell’azione, dottrina e giurisprudenza sono divise tra chi sostiene che il giudizio relativo alla concreta possibilità di offendere il bene giuridico debba farsi tenuto conto di tutte le circostanze – conosciute e non dagli autori – (giudizio a base totale) e chi sostiene invece che questo debba effettuarsi tenuto conto solo delle circostanze conosciute o conoscibili dagli agenti (giudizio a base parziale). Tale contrasto di opinioni però nel nostro caso non è rilevante perché Nicoletta aveva detto a “Peppe er Pantera” che le due anziane signore avevano modificato la disposizione dei mobili all’interno delle stanze, dunque la circostanza era quantomeno conoscibile. Sarebbe stato sufficiente usare maggiore accortezza, una volta entrati nell’appartamento, per rendersi conto che la parete era quella sbagliata. Insomma i soliti ignoti, ad avviso di chi scrive, non sono riusciti a convincerci della loro responsabilità per il tentativo di furto ai danni del Monte di Pietà, a causa della inidoneità della loro condotta. Potranno però rispondere per qualche altro tipo di reato o dovranno venire definitivamente assolti? I quattro imbranati personaggi hanno fino a quel momento presumibilmente integrato i reati di violazione di domicilio (art. 614 c.p.) 4 Giurisprudenza e dottrina sono divise tra chi ritiene che la direzione univoca degli atti individui solamente gli atti esecutivi del reato, con esclusione di quelli meramente preparatori, e chi sostiene che si possa parlare di univocità quando ci si trovi di fronte ad “atti che parlano da sé”, ossia di atti che, se riguardati dal punto di vista di un osservatore esterno, non possano essere interpretati se non come diretti a un determinato delitto.

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e di danneggiamento (art.635 c.p.), in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, per essersi introdotti furtivamente nell’appartamento delle due anziane signore ed aver sfondato la parete della sala da pranzo. Senza andare oltre usando il film per ragionare su temi di diritto, anche per non snaturare troppo uno dei capolavori di Monicelli, si spera di essere riusciti nell’intento di percorrere un approccio diverso alla materia che studiamo5.

5 Non si tratta peraltro di una novità: nel nostro piano di studi è previsto, come esame a scelta, il corso di Diritto processuale civile comparato, dal quale si è preso spunto per l’articolo, che adotta proprio questo approccio.

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Recensione di Vento scomposto Sandro Parziale Autrice: Simonetta Agnello Hornby Titolo: Vento scomposto Editore: Feltrinelli (collana Universale economica) Anno di pubblicazione: 2010 Prezzo: 9,50 euro Pagine: 405

Vento scomposto mi è stato regalato prima delle vacanze estive. Ringraziando per il pensiero ho messo da parte il libro, preso da letture di tutt’altro genere, con la promessa di dargli un’occhiata in un prossimo futuro. Tornato dalle vacanze e terminata la precedente lettura ho preso in mano il romanzo, un po’per cambiare totalmente genere letterario un po’per riprendere confidenza con il diritto in vista degli esami di settembre. Vento scomposto è infatti un romanzo ambientato nelle aule giudiziarie e Simonetta Agnello Hornby, l’autrice nata a Palermo ma che dal 1972 vive e lavora a Londra, è un avvocato. Il libro può essere inquadrato nel genere del legal-thriller, anche se la definizione può risultare fuorviante poiché, a

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differenza dei classici thriller, non ci troviamo di fronte a uno o più omicidi bensì a un dramma familiare: un padre accusato dai servizi sociali di avere abusato della figlia. I Pitt sono una tipica famiglia dell’alta borghesia londinese. Mike è un merchant banker di successo mentre Jenny, la moglie, è consulente di una celebre catena di negozi. Vivono insieme alle loro due figlie in una zona altolocata di Londra. Amy, la più grande, ha otto anni e frequenta una prestigiosa scuola privata mentre la piccola Lucy, di quattro anni, è iscritta a una scuola pubblica, in attesa che si liberi un posto nell’istituto dove studia la sorella: “una famiglia felice e normale”, come recita il retro di copertina. Ed è proprio la maestra di Lucy, Mrs. Dooms, che, analizzando alcuni disegni della bambina, inizia a sospettare che la piccola possa essere vittima di abusi sessuali in famiglia. La maestra avverte i servizi sociali che concordano con i coniugi Pitt di far visitare le bambine da una psichiatra, la dottoressa Cliff, la quale conferma l’abuso da parte del padre. I coniugi, per risolvere la situazione e difendersi dalle accuse, si rivolgono allora a Steve Booth, avvocato specializzato in diritto di famiglia, e al suo piccolo studio legale situato a Brixton, celebre quartiere della periferia londinese che ha dato i natali tra gli altri al duca bianco David Bowie.

Dopo i primi giorni di timida e quasi svogliata lettura sono stato letteralmente assorbito dal romanzo, che mi ha procurato diverse notti insonni nel tentativo di giungere al più presto alla soluzione finale della vicenda. Il caso dei coniugi Pitt infatti è il filo portante del libro, che l’autrice segue dalla fase iniziale, passando per le varie udienze del processo e fino allo sconvolgente colpo di scena finale. Tuttavia non è solo il processo relativo al presunto abuso subito dalla piccola Lucy ad avermi inchiodato alle pagine di Vento scomposto. Si può anzi dire che il vero cuore del romanzo è lo Studio Wizens, lo studio legale dove Steve Booth lavora aiutato dalle sue due segretarie Pat e Sharon. Viene infatti descritto il lavoro quotidiano dell’ avvocato e della sua squadra nella preparazione dell’udienze, nella pianificazione delle mosse e nel rapporto con i clienti. L’autrice segue infatti anche le vicende degli altri clienti dello studio: madri tossicodipendenti che rischiano che il figlio venga sottratto dai servizi sociali, mogli maltrattate dai mariti, bambini con difficoltà di apprendimento a cui la famiglia sembra non provvedere adeguatamente. Si finisce col trovarsi talmente immersi nelle molte micro-storie al punto che si rischia di perdere contatto con la vicenda principale. Ma la Hornby è altrettanto brava a ravvivare l’attenzione sul caso di Lucy raccontan-

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doci non solo le varie fasi processuali ma anche spaccati della vita della famiglia Pitt durante il procedimento (a Mike è stato infatti imposto dal giudice l’allontanamento dalla casa e ha diritto a vedere le figlie solo in orari stabiliti e con la presenza di altre persone) e dei sentimenti che attraversano i singoli coniugi.

Senza svelare altro della trama del libro, ancora qualche riga per riflettere sul genere letterario di Vento scomposto. Il legal-thriller permette infatti allo studente di giurisprudenza di intravvedere uno dei possibili sbocchi del percorso di studi iniziato. Affascina perché, salvo i casi di chi ha già confidenza con studi legali per esperienze personali o per tradizione familiare, difficilmente in Università si riesce a capire cosa realmente andremo a fare una volta usciti dalle aule. Vero è che si tratta pur sempre di fiction e dunque il racconto sulla carta è tutto da verificare nel concreto, ma il fatto che gli scrittori siano prima di tutto avvocati, magistrati o comunque “operatori del diritto”(si pensi anche a Grisham, Carofiglio o al meno conosciuto Michele Navarra, di cui avevamo recensito il suo Per non aver commesso il fatto) garantisce un minimo di aderenza alla realtà. Ma non si tratta solo di questo. Come spiega accuratamente l’autrice nella nota introduttiva al romanzo, Vento scomposto nasce anche come forma di critica al Children’s Act del 1989; una legge nata per tutelare il minore, e ammirata per tale proposito, ma che nella pratica e nell’attuazione ha spesso tradito gli scopi per i quali era stata varata. Sebbene la Hornby sia brava nel bilanciare figure positive e negative, per evitare di scadere nel qualunquismo, nel libro è sufficientemente chiara la critica nei confronti dei servizi sociali e del sistema delle perizie, e quindi dei periti. Senza entrare nello specifico in questioni che riguardano il diritto inglese e che dunque sono lontane dal nostro ordinamento, credo sia opportuno porsi una domanda: che il romanzo, e il legal-thriller in particolare, sia uno strumento per portare all’attenzione dell’opinione pubblica le problematiche e gli elementi di criticità dell’ordinamento giuridico, spesso noti soltanto ai giuristi se non addirittura ai soli cultori di una determinata branca?

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