L'Alligatore-anno6_numero2

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Sapete veramente qual è il significato di lobby? Avete una vaga idea di come la riforma costituzionale inciderà sugli istituti del referendum abrogativo e dell’iniziativa legislativa popolare? Riuscite a realizzare la portata dell’introduzione delle azioni a voto plurimo nel diritto societario? Queste, e molte altre, sono domande a cui uno studente di giurisprudenza, cittadino informato e futuro operatore del mondo del diritto, deve saper dare una risposta. Su questo numero L’Alligatore offrirà, come di consueto, con taglio critico e approccio tecnico il proprio contributo. Dal lungo e accidentato percorso per la riforma anti-corruzione, oggetto di un appassionante dibattito in Senato, ad un’approfondita analisi della disciplina comunitaria sugli Organismi Geneticamente Modificati, tradizionalmente oggetto di grandi contrasti etici e giuridici in Italia quanto all’estero. Tra gli altri argomenti di questo numero, poi, lo studio dei pregi e delle criticità della nuova forma contrattuale del rent to buy e il nuovo regime europeo di risarcimento del danno derivante da condotte anticoncorrenziali, da sempre pilastro della cultura giuridica comunitaria ed elemento cardine dell’integrazione nell’ambito dell’Unione Europea. Troverete sul nostro sito altri approfondimenti: dalla mediazione penale minorile, elemento in crescita e dai profili positivi e affascinanti, ad un focus sul Quantitative Easing, fenomeno di cui l’83% degli under 35 in Italia ne è all’oscuro, approdando su questioni da sempre dibattute nel nostro paese come l’immigrazione. Buona lettura! Se vuoi collaborare con noi scrivi a: redazione@lalligatore.com


Trimestrale - Anno VI - Numero 2 - Milano, Aprile 2015 Direttore responsabile Niccolò Scremin Vicedirettore Francesco Bertolino Caporedattore Giulia Pirola Redazione Erik Brouwer Paolo Petralia Camassa Giacomo Dalla Valentina Adriana Spina Valentina Todeschini Ferdinando Vella Graphic designer Fulvio Volpi

Hanno collaborato a questo numero Dr.ssa Anna Ferrari Filippo Fiore Michele Loconsole Caterina Paone Miriam Pedruzzi Eleonora Perego Vittoria Petralia Silvia Rossi Dario Valoncini Roberta Zappalà Si ringrazia per le revisioni Prof. Giuseppe Arconzo Dott. Andrea Dalmartello Prof. Lucio Camaldo Dott. Riccardo Canitano Prof. Antonio Gambaro Prof. Gian Luigi Gatta Prof.ssa Silvia Giudici

Prof. Arturo Maniaci Prof. Francesco Rossi Dal Pozzo Direzione, Redazione e Sede Via Luigi Anelli, 12 - 20122 Milano redazione@alligatore.com www.lalligatore.com Proprietari Rocco Steffenoni, Eduardo Parisi, Sandro Parziale, Daniele Rucco, Niccolò Scremin. Tipografia gidesign s.r.l. - Via Bracciano, 10 - 20098 San Giuliano M.se (MI) Registrazione Tribunale di Milano n.34 del 07.02.2014

Tale pubblicazione è stata realizzata con il contributo dell’ Università derivante dai fondi per le attività culturali e sociali.


INDICE Diritto Costituzionale Caterina Paone Referendum e istituti di democrazia diretta nel disegno di legge costituzionale

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Giacomo Dalla Valentina Thank you for lobbying. Dal modello statunitense a quello europeo, fino al paradosso italiano della regolamentazione delle lobby

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Diritto Industriale Michele Loconsole I revirement della Corte di giustizia dell’UE in materia di brevettabilità di ovuli umani non fecondati

pag. 17

Diritto Civile Giulia Pirola Illecito endofamiliare: dalla “famiglia-comunità” al riconoscimento della responsabilità aquiliana

pag. 24

Vittoria Petralia La nuova fattispecie contrattuale del rent to buy: disciplina normativa e spunti interpretativi

pag. 28

Diritto Commerciale Filippo Fiore Brevi cenni sulle azioni a voto plurimo

pag. 33

Diritto Penale Eleonora Perego “L’altra metà” della riforma anticorruzione: due anni di piccoli passi

pag. 42

Diritto dell’Unione Europea Roberta Zappalà La direttiva UE 2014/104 e il nuovo regime di risarcimento del danno da illecito Antitrust

pag. 52

Dario Valoncini Legislazione Comunitaria in tema di OGM: bilanciamento di competenze tra Unione Europea e Stati Membri alla luce della direttiva 2001/18/CE

pag. 57


A Referendum e istituti di democrazia diretta nel disegno di legge costituzionale Caterina Paone Lo scorso 10 marzo, con 357 sì, 125 no e 7 astenuti, la Camera approva in seconda lettura il ddl Boschi. La tanto discussa riforma costituzionale posta come obiettivo primario del governo Renzi sembra dunque essere sul punto di vedere la luce a seguito di tale voto. Una riforma che, fin dalle linee d’indirizzo del ddl n° 1429, presentato alla commissione Affari Costitu-zionali del Senato l’8 aprile 2014 e all’Assemblea lo scorso 8 agosto, appare essere volta al duplice obiettivo di “rafforzare l’efficienza dei processi decisionali e di attuazione delle politiche pubbliche nel-le quali si sostanzia l’indirizzo politico […]; e, in secondo luogo, a semplificare e impostare in modo nuovo i rapporti tra i diversi livelli di governo, definendo un sistema incentrato su un nuovo modello di interlocuzione […] tra gli enti che compongono la Repubblica, volto a favorire il protagonismo dei territori nella composizione dell’interesse generale e la compiuta espressione del loro ruolo nel siste-ma istituzionale.”1 Sebbene gli interventi sulla carta costituzionale siano stati piuttosto consistenti (quasi sessanta gli ar-ticoli modificati o parzialmente ridefiniti), chi scrive intende concentrarsi in questo frangente sul tema, solo apparentemente marginale, della partecipazione diretta del popolo alla formazione delle fonti del diritto: in particolare sulla modifica degli artt. 71 e 75 Cost., relativi rispettivamente alla proposta dei progetti di legge di iniziativa popolare e all’istituto del referendum abrogativo. Le innovazioni in materia di iniziativa legislativa popolare Partendo dall’analisi di quello che dovrebbe essere il nuovo art. 71.1 Cost., la disciplina costituzionale attuale prevede che “il popolo esercita l'iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli.” L’art. 11 del ddl 1429 di riforma stabiliva ini-zialmente, nel testo adottato dalla commissione, l’innalzamento del numero di firme necessarie a 250.000. 1 Audizione del Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi, sulle linee programmatiche nel Resoconto stenografico della Seduta n. 5 di Mercoledì 9 aprile 2014 della Camera dei Deputati.

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L’iniziativa legislativa popolare nella storia costituzionale non ha mai avuto grande importanza. Dal 1979 soltanto tre proposte di legge, a fronte delle 260 presentate, sono poi realmente confluite in leg-gi; l’ultima di esse risale a 15 anni fa. Se però questo istituto, come viene ribadito da ogni parte politica, è uno strumento molto efficace per mantenere la politica in sintonia e contatto con il corpo elettorale, lasciando sottintendere quindi la volontà di porre un cambiamento di rotta nella presa in considera-zione di tali proposte, risulta difficile comprendere per quale motivo il numero delle firme richieste debba subire tale innalzamento. In questo senso la presidente della Camera Laura Boldrini, durante una conferenza stampa dello scorso luglio, ha rilevato come tale modificazione non solo non fosse saggia ma mandasse agli elettori un messaggio contrario volto a scoraggiare la partecipazione dell’opinione pubblica. A seguito dell’approvazione di un emendamento, frutto di un compromesso politico, approvato in pri-ma lettura al Senato e poi confermato dalla Camera, il numero è stato ridotto a 150.000. È stata inoltre aggiunta una seconda parte al secondo comma dell’art. 71, per cui “la discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte di legge d’iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari”. Anche questo rinvio ai regolamenti parla-mentari desta non poche perplessità: in particolare sorge spontaneo domandarsi perché non si è inse-rito direttamente, per lo meno, l’obbligo di pronuncia sulla richiesta da parte del Parlamento. In passato, infatti, non poche erano state le proposte volte a rendere realmente effettiva la discussione dei “ddl popolari”. A titolo esemplificativo, come spesso prospettato durante le audizioni parlamentari , quella di tradurre le iniziative popolari in referendum propositivi qualora il Parlamento non volesse o potes-se pronunciarsi.2 Un’ulteriore novità del ddl è l’aggiunta all’art. 71 di un terzo comma che accenna, sempre al fine di fa-vorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, a una possibile in-troduzione di nuovi istituti. Si tratta dei referendum propositivi e d’indirizzo nonché “di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali” 3. Anche in questo caso si tratta solo di un accenno, poi-ché le condizioni effettive e le modalità di attuazione sono demandate rispettivamente a una successi-va legge co2 AZZARITI, Resoconto stenografico dell’audizione alla I commissione Camera dei deputati del 15 ottobre 2014. 3 Art.11 del ddl 1429.

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stituzionale e a una legge ordinaria. Non sono mancate le critiche anche nei confronti di questa previsione: la formulazione adottata risulta eccessivamente ampia sia per il rinvio alla legge co-stituzionale (un'indeterminatezza sicuramente voluta dal legislatore costituente) sia per la concreta utilità e incisività di questi strumenti, di cui sarebbe stato opportuno specificare almeno i tratti essen-ziali. È difficile porre una discussione senza prima attendere le norme di attuazione ma è bene ricordare l'unico precedente di referendum di indirizzo, risalente al 19894 e relativo al conferimento di un man-dato costituente al Parlamento europeo. Un referendum ritenuto da molti nella sostanza inutile. Le innovazioni in materia di referendum abrogativo L’altro ambito di riforma su cui ci si intende soffermare in questa sede è l’intervento del ddl sull’art. 75 Cost., che prevede l’istituto del referendum abrogativo. In primo luogo, la modifica che appare subito evidente è quella del terzo comma, relativa ai fruitori di tale istituto. Mentre nel testo vigente è stabilito che hanno diritto al voto “tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati”, l’art. 15 del ddl 1429 stabilisce che vi hanno diritto “tutti gli elettori5. Questo mutamento di termini è collegato al nuovo art. 57 Cost., che ridefinisce il Senato della Repub-blica come organo non elettivo. Sarebbe apparso irragionevole mantenere il riferimento all’elezione della sola Camera dei Deputati quando si tratta dell’unico organo direttamente eleggibile dai cittadini6. Per quanto attiene invece al primo comma dell’art.75, il testo originario del disegno di legge non con-teneva cambiamenti, ma è opera della I Commissione Affari Costituzionali del Senato la modifica dell’art. 15 ddl 1429 volta a innalzare da 500.000 a 800.000 il numero delle firme richieste per la pre-sentazione dei quesiti referendari. Previsione contemperata dalla contestuale modifica del quorum di validità, essendo richiesta la partecipazione della maggioranza degli elettori che avessero partecipato all’ultima elezione della Camera dei deputati. 4 Appositamente introdotto con Legge Costituzionale 3 aprile 1989, n. 2. 5 Definizione data dall’art. 48 Cost che stabilisce: “Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età” 6 Art. 2 ddl 1429

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Tale progetto non sopravvive, però, all’assemblea senatoria, che riporta a 500.000 il numero delle fir-me richieste e mantiene il quorum della maggioranza degli aventi diritto. Si prevede inoltre che, qualo-ra la richiesta sia giunta da 800.000 elettori, il quorum equivalga non più alla maggioranza degli aventi diritto bensì alla maggioranza dei votanti delle ultime elezioni della Camera. Anche in questo caso si tratta di un tentativo di conciliazione tra le istanze volte alla totale abolizione del quorum e il fronte che invece sostiene strenuamente la necessità di esso. Una differenziazione in tal senso della determinazione del quorum pone però non poche perplessità. Emerge chiaramente dall’audizione di illustri costituzionalisti che tale modifica non abbia sostanzial-mente un fondamento razionale7 ma risulti, al contrario, un’assurdità8. Sembra quasi, anche in questo caso, che si tratti del risultato di un compromesso politico che, però, appare poco sensato: sarebbe stato molto più semplice fissare un unico quorum, in base ad un criterio, e nel rispetto di un valore. Un differente intervento sul referendum abrogativo sarebbe risultato, invece, necessario in quanto si tratta di un istituto che attraversa una fase di profonda crisi. Crisi che deriva principalmente da due ordini di fattori; in primo luogo dal mancato raggiungimento del quorum per tutti e 24 i referendum svoltisi tra il 1997 e il 2011. Il motivo di crisi maggiore deri-va,però, dalle numerose sentenze della Corte Costituzionale che dichiarano l’inammissibilità della maggior parte dei quesiti referendari proposti. Il giudizio di ammissibilità del referendum risulta ormai essere assai più pervasivo rispetto alla sua configurazione normativa9. La Consulta si è, infatti, spinta a elaborare limiti e requisiti attinenti alla formulazione del quesito, che rendono particolarmente difficile prevedere l’esito della decisione10. 7 Nicola Lupo. Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli (LUISS) di Roma. Resoconto stenografico audizione del 16/10/14 8 Mauro Volpi. Professore ordinario di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Perugia. Resoconto stenografico audizione 20/10/14. 9 Art. 33 c.4 l. 352/70 “ La Corte costituzionale, a norma dell’articolo 2 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, decide con sentenza, da pubblicarsi entro il 10 febbraio, quali tra le richieste siano ammesse e quali respinte, perche’ contrarie al disposto del secondo comma dell’articolo 75 della Costituzione. 10 Andrea Pertici commento alla Sent. 13/12 C.Cost.

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I numeri, a dimostrazione di ciò, parlano chiaro: in soli 5 anni, dal 2000 al 2005, a fronte dei 28 quesiti referendari presentati, ben 14 sono stati bocciati dalla Corte Costituzionale e anche negli ultimi 10 an-ni la tendenza è rimasta immutata. Un intervento opportuno sarebbe potuto consistere in un’anticipazione del sindacato sull'ammissibili-tà dopo la raccolta di un certo numero di firme, per esempio un terzo, rispetto a quelle necessarie. Si eviterebbe così l’inutile raccolta di 500-800.000 firme per poi verificare l’inammissibilità di quel re-ferendum11. Appare quindi evidente come la questione relativa alla modifica degli istituti di democrazia diretta nel processo legislativo sia in sostanza passata in sordina, inserita all’interno di una macro-riforma volta alla modifica radicale del bicameralismo e della ripartizione delle competenze Stato-regioni. Nelle di-chiarazioni di voto risultanti dai resoconti stenografici del Senato della repubblica non sono pochi i parlamentari che lamentano il pressapochismo e la scarsa attenzione posta a questa parte della rifor-ma. Quale sarà dunque in sostanza la portata della modifica degli articoli 71 e 75? A quali risultati si arri-verà attraverso la disciplina di dettaglio e i continui rinvii? Si tratterà di “strumenti di dubbia e improbabile utilità”12 o addirittura volti in sostanza a ridurre ulte-riormente i poteri dei cittadini13, oppure si raggiungerà realmente l’obiettivo di una partecipazione di-retta e più consapevole dell’elettorato?

11 M.Volpi, vedi supra 12 Azzariti, vedi sopra 13 Senatore DE PETRIS, Dichiarazione di voto

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A Thank you for lobbying. Dal modello statunitense a quello europeo, fino al paradosso italiano della regolamentazione delle lobby Giacomo Dalla Valentina “I lobbisti impiegano dieci minuti e tre pagine per farmi capire un problema. I miei assistenti hanno bisogno di tre giorni e di una tonnellata di cartacce.” John Fitzgerald Kennedy Premesse Lo studio dei linguaggi ci insegna che esistono parole, appartenenti tanto al linguaggio comune quanto a quello tecnico, che con il tempo finiscono per assumere connotati –positivi o negativi– distanti da quelli originari e tali da condizionare il modo stesso di rapportarsi all’oggetto cui si riferiscono. Un fenomeno di slittamento semantico che porta con sé conseguenze negative soprattutto per gli organi deputati alla regolamentazione di tali settori, destinati a scontrarsi contro disinformazione, ritrosia e scarsa professionalità. L’esempio paradigmatico è quello che sta intorno alla nozione di lobby, locuzione di derivazione anglosassone con cui si fa oggi riferimento a gruppi d’interesse che tentano di influenzare i legislatori su particolari materie 1. Termine di cui la stampa e la classe politica hanno fatto abuso per alludere a qualsiasi influenza esterna, più o meno legale, che si facesse sentire nei processi legislativi o, più generalmente, in ogni contesto politico decisionale. Un esempio recente è quello offerto, poco più di un anno fa, dalle proteste di alcuni deputati del Movimento 5 Stelle contro le politiche della maggioranza, accusata di essere “schiava delle lobby d’oro”, lamentando inoltre la presenza di “lobbisti mandati per controllare l’azione del Partito Democratico”2. L’utilizzo inappropriato e soprattutto dispregiativo, in questo caso come in innumerevoli altri, dell’attività lobbistica ha dato luogo ad 1 Così l’Oxford Dictionary definisce la lobby come “a group of people seeking to influence legislators on a particular issue”. 2 Il riferimento era alla presunta circostanza, riportata da Il Fatto Quotidiano, che un consigliere parlamentare, Luigi Tivelli, operasse in realtà da “lobbista” occulto.

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un’ambiguità che –con la conseguente difficoltà di formulare una disciplina adeguatamente completa e centrata– ha portato con il tempo ad una circostanza paradossale: nonostante l’enfatica pressione sul tema, dei più di quarantacinque progetti di legge che si sono succeduti dal 1976 ad oggi3, nessuno si è rivelato idoneo a confluire nell’adozione di una legge. Di cosa parliamo quando parliamo di lobby Da un punto di vista squisitamente etimologico, il termine lobby nasce intorno al diciannovesimo secolo in Regno Unito per fare riferimento all’atrio antistante la House of Commons, deputato a luogo di incontro tra i parlamentari e la società civile, già allora rappresentata da quei “gruppi di interesse” a cui, per metonimia, è oggi affibbiato l’appellativo di lobby. Già in quel modello elementare, quindi, si può individuare il core, il nucleo essenziale, dell’attività lobbistica, che mira a fungere da intermediaria tra i plurali interessi diffusi nella società, a mobilitare risorse nel tentativo di influenzare le scelte politiche e promuovere, così, gli interessi del gruppo stesso. Quella lobbistica è un’attività che può essere valutata, da un punto di vista di etica politica, in modi diametralmente opposti, sulla base della diffusione degli interessi di cui le singole lobby si fanno portavoce (essendo più facile che la lobby rappresentativa di una categoria ampia e unitaria sia ascoltata più di quella che sostiene istanze di una membership esigua, che sarà sostenuta più debolmente a livello di opinione pubblica e governo) ma soprattutto sulla base della concezione che si ha della stessa democrazia. È evidente che in un’idea di democrazia “classica” –plasmata sulla convinzione che il legislatore, in quanto personificazione dell’esito delle elezioni democratiche, sia unico detentore dell’interesse comune anche contro gli interessi particolari– i gruppi di pressione costituiscono un pericolo per la democrazia, ostacolando con effetti perturbatori l’attività decisionale politico-legislativa nel solo interesse di pochi. Ma tale concezione risente di una certa miopia: è ormai dato incontrovertibile che le costituzioni democratiche contemporanee “assumono il pluralismo e la diversità delle concezioni del bene nella società non solo come un dato di fatto ma anche come un valore da preservare”4 . In altre parole, il sistema politico contemporaneo 3 La prima fu la proposta dell’On. Santese (DC), che mirava a qualificare il lobbista con “l’addetto alle pubbliche relazioni”, mentre l’ultimo disegno di legge approdato in Parlamento è quello proposto dall’On. Puppato (PD), rubricato Norme in materia di disciplina dell’attività di rappresentanza di interessi e –alla data di stesura di questo articolo– in attesa di approvazione in Senato. 4 G. PINO, Diritti e interpretazione. Il ragionamento giuridico nello Stato costituzionale, pag. 9, Il Mulino, 2010.

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è fisiologicamente connotato dalla necessità di elaborare un’adeguata governance dei molteplici interessi mediante la ricerca del compromesso tra le varie istanze della società civile, e in questo nuovo e aperto modello governativo –in cui è oramai patologica la permeabilità verso le istanze particolari– sono necessarie “procedure dirette a creare ulteriori regole rivolte a tipologie di soggetti portatori di interessi particolari”5. Con l’effetto collaterale di erodere, in modo più o meno incisivo in base al contesto in cui ciò avviene, gli ambiti caratteristici della demarcazione tra Stato e società. Ed è in questo contesto che, come sostenuto da alcuni6, è diventato inevitabile prendere atto che le lobby esistono, che sono legittima espressione di una società multiforme e che possono concorrere al bene della democrazia nella misura in cui siano idonee a dare luogo a una “competizione che realizzi un equilibrio tra spinte e pressioni contrastanti, volto al conseguimento dell’interesse generale”7. Il modello statunitense Quello vigente negli Stati Uniti è il modello classico di regolamentazione dei gruppi di interesse, da tempo immemore additato dall’opinione pubblica nostrana come sintomo di un sistema costituzionale anomalo, difettoso. Si tratta di una valutazione dovuta più che altro all’associazione mentale della realtà lobbistica alla “lobby delle armi” (la National Rifle Association) e all’influenza di questa nelle scelte politiche americane in un settore, quello della regolamentazione delle armi da fuoco, che il nostro background culturale non ci permette di comprendere a pieno. Nel contesto statunitense, piuttosto, il fenomeno delle lobby ha tratto linfa vitale dalla trasformazione costituzionale che è seguita –seppur senza il formale mutamento della struttura decisionale– al passaggio dall’epoca liberale al modello “interventista” avviato con il New Deal, che ha progressivamente reso il Congresso, prima “motore” del governo federale, “un legislativo dalla produzione lenta e accidentata, per lo meno per ciò che riguarda le leggi di grossa incidenza politico-sociale”8. Questo fenomeno è stato ancora più enfatizzato dalla crescita di influenza di cui godono i particolari interessi organizzati presso i singoli membri del Congresso, dove i 5 G. MACRÌ, “Lobbies” in Digesto delle discipline pubblicistiche”, UTET, 2010. 6 P. PETRILLO, Le lobbies della democrazia e la democrazia delle lobbies. Ovvero note minime (e provvisorie) sul rapporto tra Parlamento e gruppi di pressione in Italia, in www.ildirittoamministrativo.it, 2011. 7 G. DE LUCA, “Lobby” in Dizionario Treccani di Economia e Finanza, 2012. 8 G. BOGNETTI, Lo spirito del costituzionalismo americano, parte II: “la Costituzione democratica”, pag. 257, Giappicchelli, 2000.

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lobbyists premono per ottenere misure che li avvantaggino, a prescindere dalla compatibilità di queste con il programma politico generale e contro ogni attesa di lavoro legislativo programmato, specie in ambito finanziario. In tale situazione di un’inevitabile frammentazione dell’influenza politica il Congresso ha provveduto in tempi brevi ad auto-tutelarsi con l’approvazione di una prima legge, il Federal Regulation of Lobbying Act del 1946 che, finalizzato a ridurre l’influenza dei lobbisti e incrementarne la trasparenza, ha trovato –dopo diverse modifiche improntate tutte a rendere più severa la disciplina– una sua riformulazione con il Lobbying Disclosure Act del 1995 in via definitiva, o quasi9. Gli elementi essenziali di questa disciplina sono ben evidenti. Da una parte, un’efficace perimetrazione, in quanto a definizioni, delle nozioni di “attività di lobbying” (ai sensi della quale si intende ogni contatto lobbistico ed ogni attività svolta a sostegno di tale contatto, compreso la preparazione, la programmazione, la ricerca ed ogni altro lavoro preparatorio), di “contatto lobbistico” (ogni comunicazione orale o scritta, comprese le comunicazioni elettroniche, comunque indirizzate ad un pubblico ufficiale appartenente ad un ufficio esecutivo o legislativo, svolta per conto di un cliente, e riguardante la formulazione, la modifica, l’adozione di […] una qualsiasi politica o presa di posizione del Governo degli Stati Uniti), di “lobbista” (con cui ci si riferisce a tutti coloro che, comunque stipendiati in denaro o altra forma, da un cliente per servizi che includono più di un “contatto lobbistico”, utilizzano il 20 per cento del proprio tempo di lavoro per l’attività di lobby, nell’interesse di quel cliente, in un tempo di tre mesi) e infine di “pubblico ufficiale”, sia esso appartenente all’esecutivo (Presidente federale, Vice Presidente, un qualsiasi impiegato dell’Ufficio esecutivo del Presidente, dell’Executive Schedule, dei Servizi militari o comunque un impiegato che […] che determini, decida o consigli politiche pubbliche) o al legislativo (e quindi i membri del Congresso, i loro membri dello staff, le Commissioni e i leader delle camere). Dall’altra parte, l’obbligo di registrazione dei lobbisti così come avviene per gli impiegati delle camere, in modo da agevolarne l’identificazione e la trasparenza nei contatti tra questi e i “pubblici decisori” e, in tale dinamica, l’introduzione di limiti posti ai donativi e ad “altre lusinghe” offerte ai parlamentari. Tutto ciò ha indubbiamente introdotto una maggiore trasparenza nella vita politica di Washington, senza però essere in grado di contrastare l’efficacia politicamente centrifuga del fenomeno lobbistico che, a detta di molti, co9 Essendo stato questo ulteriormente modificato dal Honest Leadership and Open Government Act del 2007, che ha proseguito sul percorso avviato dalle prime due leggi federali.

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stituisce oggi il fattore di maggior peso determinante nei concreti sviluppo della legislazione federale. Le lobby nell’Unione Europea Problemi preliminari e disciplina previgente Così come quelli nazionali anche il sistema costituzionale dell’Unione Europea è soggetto alla crescente pressione dei gruppi di interesse. Politologi e giuristi si sono spesso confrontati con il tema della forma che debba assumere la partecipazione di cittadini e organizzazioni all'interno dei processi decisionali dell’Unione che, com’è noto, sono svincolati dai tradizionali processi democratico-rappresentativi. È dunque una questione strettamente legata all’annoso tema del “deficit democratico”10, in quanto il riconoscimento dell’attività lobbistica realizza un passo avanti verso l’apertura ai principi di democrazia partecipativa e pluralismo proclamati dagli articoli 10 e 11 del Trattato sull’Unione Europea, dove si stabilisce solennemente che “ogni cittadino ha il diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione” e che “le istituzioni danno ai cittadini e alle associazioni rappresentative, attraverso gli opportuni canali, la possibilità di far conoscere e di scambiare pubblicamente le loro opinioni” e che “le istituzioni mantengono un dialogo aperto, trasparente e regolare con le associazioni rappresentative e la società civile”. Su questo fil rouge si è mossa così l’UE a partire dall’adozione, nel 2001, del Libro Bianco sulla governance europea, con il quale si metteva in luce la necessità di porre in contatto istituzioni e società civile, operando una “maggiore apertura dei processi di elaborazioni ed esecuzione delle politiche comunitarie ai cittadini e alle organizzazioni”11. Ma se i contenuti del Libro Bianco sono rimasti “buone intenzioni”12, perchè attuati solo nel senso di rendere più accessibili e comprensibili le decisioni dell’Unione, questi hanno assunto una più concreta fisionomia con una coeva comunicazione 10 Con ciò si intende l’accusa –da molti sostenuta e superata in parte dal Trattato di Lisbona– che il sistema e i meccanismi decisionali delle istituzioni comunitarie manchino di un’adeguata partecipazione democratica; siano cioè distanti dai cittadini europei e per la complessità del sistema istituzionale dell’Unione e, soprattutto, per la mancanza di adeguati strumenti di partecipazione alla sua vita politica. 11 D. FERRI, Dal Libro Bianco sulla governance al nuovo Registro per la Trasparenza: l’UE tra Participatory Engineering e democrazia partecipativa, in Rivista italiana diritto pubblico comunitario, fasc.3-4, 2012. 12 R. BIN, “Contro la governance: la partecipazione tra fatto e diritto” in G. ARENA, F. CORTESE, Per governare insieme: il federalismo come metodo. Verso nuove forme della democrazia, Cedam, Padova, 2011.

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della Commissione13(la quale, enfatizzando il ruolo di tali organizzazioni e il diritto fondamentale di formare associazioni per perseguire finalità comuni, poneva le basi per un quadro di consultazione per tener conto delle esigenze specifiche dei vari interessi in gioco) e, nel 2006, con il lancio dell’Iniziativa Europea per la Trasparenza. In virtù dell’iniziativa è stato introdotto due anni dopo un primo “Registro per i rappresentanti di interesse” (elaborato sulla base di una preesistente quanto scarna base dati a partecipazione volontaria chiamata CONECCS Consultation, the European Commission and Civil Society), affiancato da un Codice di Condotta che, composto da sette norme sulle modalità operative per i rappresentanti di interessi nei rapporti con i commissari europei, attribuiva alla stessa Commissione un ruolo centrale, essendo l’istituzione deputata a decidere dei reclami in merito alla violazione del Codice e applicare di conseguenza sanzioni amministrative. Tuttavia la scarsa trasparenza di questo sistema, rilevata anche dal Mediatore europeo nell’aprile 201114 , fece sì che il Registro della Commissione istituito nel 2008 avesse vita breve, dovendo essere sostituito da uno strumento più idoneo e stabile. La disciplina attuale Si giunge così alla pietra miliare della disciplina delle lobby nel contesto comunitario, quel “Registro sulla Trasparenza” istituito sulla base dell’Interinstitutional Agreement on a common Transparency Register siglato da Parlamento europeo e Commissione il 23 giugno 2011. Riferendosi espressamente all’articolo 11 del TUE come base giuridica, l’Accordo interistituzionale prosegue su quel percorso di promozione della trasparenza del processo decisionale europeo, regolamentando le modalità di partecipazione ad esso dei gruppi di pressione, e il Registro rappresenta il primo passo in questa direzione, invitando espressamente anche il Consiglio europeo e il Consiglio dell’Unione Europea ad aderire all’accordo. Dopo l’ovvia ma necessaria enunciazione che tale sistema di registro si fonda sui principi generali del diritto dell’Unione (impegnando in particolare le istituzioni ad assicurare lo stesso trattamento a tutti i lobbisti) e sul diritto degli eurodeputati ad esercitare il mandato senza restrizioni, l’Accordo si occupa di dare all’art. 8 una definizione univoca di lobby, ai sensi della qua13 COM(2002)704, Verso una cultura di maggiore consultazione e dialogo. Principi generali e requisiti minimi per la consultazione delle parti interessate ad opera della Commissione 14 Sulla base del Caso 3072/2009/MHZ, Mancanza della dovuta diligenza nel trattamento di una denuncia relativa al Registro dei gruppi di interesse, sollevato da una ONG in merito al mancato sanzionamento da parte della Commissione dei dati concernenti il bilancio relativo all’attività di lobbismo di uno specifico gruppo di interesse, ritenuti non corretti.

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le rientrano nell’ambito di applicazione del registro “tutte le attività svolte allo scopo di influenzare, direttamente o indirettamente, l’elaborazione o l’attuazione delle politiche e i processi decisionali delle istituzioni dell’Unione, a prescindere dai canali o mezzi di comunicazione impiegati”. I così individuati lobbyists (suddivisi per esigenze pratiche in più categorie: società di consulenza, studi legali e consulenti indipendenti, lobbisti interni, associazioni di categoria, ONG e centri di studio), sono all’art. 9 “chiamati a procedere alla registrazione” (per via telematica), mentre gli articoli seguenti escludono espressamente da tale onere le comunità religiose, i partiti politici e le autorità locali, a meno che queste non sostengano uffici, organismi giuridici o associazioni per rappresentarli nelle loro relazioni con le istituzioni dell’Unione. Con la registrazione i lobbisti consentono a che le informazioni fornite ai fini della registrazione siano rese pubbliche ma soprattutto si impegnano ad agire in conformità con il Codice di Condotta15 ai sensi del quale essi: • si identificano sempre con il proprio nome, facendo riferimento all’organismo per cui lavorano; • dichiarano gli interessi, gli obiettivi e le finalità promosse; • evitano di ottenere ottenere informazioni o decisioni in maniera disonesta; • non rivendicano alcuna relazione ufficiale con l’Unione nei rapporti con terzi; • si astengono dal vendere le copie dei documenti ricevuti da un’istituzione dell’Unione; • non inducono i membri delle istituzioni dell’Unione a contravvenire alle disposizioni e alle norme di comportamento. Nell’allegato IV, infine, sono previsti i percorsi sanzionatori che possono essere adottati –nel rispetto del diritto alla difesa e dei principi di proporzionalità– in caso di violazione del Codice di Condotta: questi saranno diversi a seconda della volontarietà, della gravità e della reiterazione della violazione. Il lobbismo “all’italiana”. Conclusioni In Italia manca, almeno sul piano nazionale, una qualsivoglia regolamentazione del fenomeno lobbistico. Allo stato attuale delle cose gli unici luoghi dove l’attività dei gruppi d’interesse è stata presa adeguatamente in consi15 Allegato III dell’Interinstitutional Agreement.

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derazione sono apposite leggi regionali delle “virtuose” Toscana16 , Molise17 e Abruzzo18, mentre lo Statuto della Regione Sicilia fa riferimento alla “partecipazione delle rappresentanze degli interessi professionali”, disciplinata dal Regolamento interno dell’Assemblea regionale. Non che il fenomeno lobbistico sia inesistente: si è detto19 che esso, nella sua “variante italiana” si fonda su un tipo di rappresentanza “non regolamentata dal punto di vista normativo” e “particolarmente condizionata dalla cultura politica nazionale”, divenendo quindi “un sistema basato sui rapporti diretti e immediati tra lobbista e decisore piuttosto che su forme indirette di pressione”. La mancanza di una disciplina espressa della materia delle lobby –e la contestuale difficoltà da parte di giuristi e legislatore di effettuare un reale e costruttivo dibattito intorno ad esse– discende da molteplici fattori: innanzitutto quel ruolo “pressoché monopolistico dei partiti politici nell’intermediazione tra società e Stato”20 che ha caratterizzato l’intera storia repubblicana, denotata dalla convinzione dall’assoluta capacità dei partiti politici (insieme ad importanti corpi sociali intermedi come i sindacati e la Chiesa cattolica) di operare quali efficaci aggregatori di interessi della collettività; ma anche un basso livello di cittadinanza attiva e una visione “mitologica” dell’interesse pubblico. È indubbiamente sintomo di un Parlamento debole –incapace cioè di catalizzare su di sé un ruolo chiave nei processi decisionali– l’ignorare un settore che, lasciato privo di copertura normativa, ha permesso la diffusione di “interessi oscuri” sottoposti spesso illecitamente alle attenzioni e ai voti dei parlamentari. E –per fare riferimento a una circostanza ancora fresca nella nostra memoria– gli effetti devastanti di questa realtà si possono scorgere, nei suoi aspetti più estremi, dalla mole di corruzione e contatti tra la politica e la criminalità organizzata che ancora affliggono il nostro Paese, prepo16 Legge regionale 18 gennaio 2002, n. 5, Norme per la trasparenza dell’attività politica e amministrativa del Consiglio regionale della Toscana, ai sensi della quale i lobbisti possono perseguire presso il Consiglio regionale interessi pertinenti alle loro finalità, richiedere di essere ascoltati dalle commissioni, accedere ai locali per ricevere informazioni e chiarimenti di carattere tecnico relativi agli atti di loro interesse. È a loro vietato di incidere sulla libertà di giudizio e voto dei consiglieri. 17 Legge regionale 22 ottobre 2004, n. 4, Norme per la trasparenza dell’attività politica e amministrativa del Consiglio regionale del Molise. 18 Legge regionale 22 dicembre 2010, n. 61 Disciplina sulla trasparenza dell’attività politica e amministrativa e sull’attività di rappresentanza di interessi particolari. 19 M. C. ANTONUCCI, Rappresentanza degli interessi oggi. Il lobbying nelle istituzioni politiche europee e italiane, Carocci, 2012. 20 P. PETRILLO, La disciplina dei gruppi di pressione a livello regionale: il caso della Regione Toscana, in “Amministrazione in cammino”.

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tentemente emersi con l’inchiesta Mafia Capitale. È evidente che una legge sulle lobby non sarà in grado di cambiare tali dinamiche criminali che sono quasi congenite: questo però non nasconde che esigenze di trasparenza e fluidità in materia di democrazia partecipativa e contatto con la politica debbano oggi essere ascoltate con particolare solerzia e attenzione.

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A Il revirement della Corte di giustizia dell’UE in materia di brevettabilità di ovuli umani non fecondati Michele Loconsole Il tema della brevettazione delle invenzioni biotecnologiche ed in particolare di quelle che concernono la persona umana, è sempre stato al centro del dibattito giuridico, portando alcuni studiosi (1) a coniare addirittura un termine ad hoc, quello di biopolitica del diritto, per definire le scelte legislative al riguardo. Ciò che ha sempre connotato la vicenda è ovviamente il dualismo tra la necessità di tutelare, da un lato la ricerca scientifica, dall’altro di evitare l’erosione di alcuni dei più “sacri” diritti della persona umana. È in un contesto come questo che si colloca la sentenza del 18 dicembre dello scorso anno della Corte di Giustizia dell’Unione europea chiamata ad esprimersi sulla richiesta di interpretazione del termine “embrione” nella causa C-364/13 promossa dall’ISCC contro l’Ufficio brevetti e Marchi del Regno Unito. Ebbene la grande sezione del massimo organo giurisdizionale dell’Unione ha stabilito che non vi rientrano in essa gli ovuli umani non fecondati ottenuti mediante un determinato procedimento bio-ingegneristico, da cui si desume la brevettabilità di questi ultimi. Una decisione dirompente, se si pensa che solo tre anni prima la stessa corte sul medesimo punto si era espressa in maniera opposta, qualificando come potenziali embrioni (e quindi non brevettabili) le stesse cellule ottenute con lo stesso procedimento. Per capire la portata di questa decisione, anche alla luce della correttezza etico-giuridica di questa scelta, occorre fare un passo indietro e capire come si è arrivati, talvolta in maniera difficoltosa, a questa presa di posizione. Il contesto normativo Sin dagli anni Settanta del secolo scorso si è sentita l’esigenza di estendere ed uniformare le tutele date alle invenzioni industriali anche al settore biotecnologico, preso atto che quest’ultimo è enormemente cresciuto negli ultimi quarant’anni. La Convezione Europea sul Brevetto, sottoscritta a 1 L. MARINI, Brevetto biotecnologico e cellule staminali nel diritto comunitario - Giurisprudenza commerciale fasc. III anno 2013 p. 586

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Monaco il 5 ottobre del 1973 ha stabilito i requisiti di brevettabilità fondamentali poi via via recepiti negli ordinamenti nazionali. In particolare le Alte parti contraenti della Convenzione avevano voluto inserire una clausola che limitasse il diritto alla brevettazione alle sole invenzioni che non fossero mere scoperte e il cui sfruttamento non fosse contrario all’ordine pubblico e al buon costume; definizioni queste ultime demandate alle giurisprudenze dei singoli stati con la sola eccezione della non deducibilità della contrarietà all’ordine pubblico dal mero contrasto con norme di legge o regolamentari (2). L’adesione dell’Unione europea alla convenzione di Marrakech del 15 aprile 1994 aveva inoltre fatto sempre più pressante l’esigenza del legislatore comunitario di uniformare le tutele e le condizioni di brevettabilità nei singoli stati membri. L’obiettivo è stato raggiunto con l’adozione da parte del Parlamento e del Consiglio della Direttiva 98/44 che ha dettato le norme fondamentali in materia, recepite dall’Italia in momenti successivi nel 2006 e nel 2010 (3). Il legislatore europeo ha dunque preso atto del fatto che la biotecnologia e l’ingegneria genetica hanno acquisito una funzione crescente in una vasta gamma di attività industriali, che devono essere protette giuridicamente. In particolare la possibilità di accedere allo strumento brevettuale è visto più che come una “privativa” verso altri potenziali concorrenti nel medesimo campo, come una precisa volontà di remunerare una attività altamente dispendiosa. Molte contestazioni sorgono su questa scelta del legislatore comunitario, spesso accusato di bloccare la ricerca e di “privatizzarla” consentendo la brevettazione di prodotti attinenti alla ricerca di base: ebbene occorre però tenere presente che senza un ingente, direi al limite dell’utopistico, investimento pubblico, l’accesso alla brevettazione è l’unico strumento per rendere appetibile l’investimento in ricerca al privato. Con le indubbie ricadute positive sull’intera comunità. Per usare le parole di Giuseppe Sena: “Se è vero, come si è osservato, che vi sono scoperte ed invenzioni fondamentali, frutto della ricerca di base, che possono determinare un insieme di applicazioni tecnologiche a larghissimo ventaglio, è altrettanto certo che è necessario promuoverne la produzione, la accessibilità e la circolazione, proprio per favorire quello sviluppo tecnico che da esse deriva. Se si ritiene che il sistema dei brevetti stimoli l’attività inven2 Art. 52 n.1 della Convenzione sulla concessione di brevetti europei firmata a Monaco il 5 ottobre 1973. I requisiti di brevettabilità di una invenzione sono la liceitò, l’industrialità, la novità e l’altezza inventiva. Per approfondire vedi tra gli altri: G. SENA, I diritti di invenzione sui disegni e modelli di utilità – Giuffrè, Milano, 2011; VANZETTI – DI CATALDO, manuale di diritto industriale, VI ed, Giuffrè, Milano, 2009. 3 In particolare la direttiva è stata recepita con il d.lgs. 30/2005, detto Codice della proprietà industriale e intellettuale, successivamente emendato dal d.lgs. 131/2010 e successive modificazioni

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tiva, la divulgazione e la circolazione delle invenzioni, non vi è alcun motivo per disapplicarlo proprio nella fase più rilevante della ricerca, costituita appunto dalla ricerca di base. Il prezzo che la comunità paga alla ricerca sarà evidentemente maggiore quanto più importanti sono i suoi risultati, e l’istituto della esclusiva brevettuale assicura appunto tale equilibrio” (4). La brevettazione e il corpo umano Chiarita la ratio sottesa alla concessione di brevetti in campo biotecnologico, ci si può ora addentrare nella normativa relativa al corpo umano, chiamata in causa più volte dalla giurisprudenza dell’Unione europea, non ultima nella sentenza del dicembre dello scorso anno. L’art. 5 par. 1 e 2 della direttiva afferma che il corpo umano, nei vari stadi della sua costituzione e del suo sviluppo, nonché la mera scoperta di uno dei suoi elementi […] non possono costituire invenzioni brevettabili. È fatta salva la possibilità di brevettare un elemento isolato, ottenuto mediante un procedimento tecnico, anche se identico a uno già presente in natura. La norma appena analizzata distingue dunque tra invenzione e scoperta, nel solco della teoria classica della tutela della proprietà intellettuale, che da dignità alla mera invenzione e non anche alla scoperta. La peculiarità della normativa del settore biotecnologico consiste però nell’allargamento della sfera di brevettabilità alla “scoperta” di qualcosa che già in natura esiste, ma viene rivelata alla comunità con tecniche innovative e assolutamente meritevoli di tutela (5). Un esempio può essere quello delle sequenze di DNA: sebbene sia sicuramente assoggettabile alla tutela brevettuale garantita del codice della proprietà intellettuale una molecola sintetizzata in laboratorio, non così pacifica sarebbe, ad una prima analisi, la brevettazione di sequenze di DNA naturali ma scoperte con tecniche biomedicali assolutamente nuove e innovative. La norma pone dunque anche queste ultime al pari delle invenzioni, sebbene la loro qualificazione sia ancora non del tutto pacifica: 4 G. SENA, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche – Riv.dir. ind. Fasc. II, 2000 p. 65 5 Ampio dibattito ha suscitato negli stati uniti l’intervento della corte suprema nei casi, Myriad e Maho, rispettivamente del 2012 e del 2013, nel quale si è delineato il confine di brevettabilità di geni, restringendolo secondo un indirizzo che dagli studiosi è stato chiamato indirizzo “tecnico”. In particolare, muovendo dal presupposto che secondo lo USC si può brevettare solo “everything under the sun is made by men” (Bilski v. Kappos, 561 US (2010) per valutare la brevettabilità dei geni umani bisogna fare riferimento a qualità come l’originalità e l’applicabilità a livello industriale della tecnica biomedicale adottata, più che sulla novità. Per approfondire vedi la sentenza Association for Molecular Pathology v. Myriad Genetics, F.3d (Fed. Cir. 2011). In dottrina: COLANGELO, la tutela delle invenzioni biotecnologiche in Europa e negli Stati uniti alla luce dei casi brüstle e myriad genetics - Giur. comm., fasc.1, 2012, pag. 35

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c’è chi parla di mere invenzioni “di uso”, nel senso di consentire la brevettazione solo per le concrete applicazioni rivendicate, e chi invece le classifica come normali invenzioni di prodotto. La prima tesi sembra da preferirsi, come peraltro suggerito dal Parlamento europeo in una risoluzione datata 26 ottobre 2005 volta a circoscrivere le privative brevettuali su materiale genetico umano (6). La situazione si fa più delicata quando si parla di embrioni umani. La direttiva premette anzitutto che “il diritto dei brevetti deve essere esercitato nel rispetto dei principi fondamentali che garantiscano la dignità e l’integrità dell’uomo […]. Considerando inoltre che le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali devono a loro volta essere escluse dalla brevettabilità, eccetto quelle a fini terapeutici che si applicano e sono utili all’uomo”. (7) Il limite invalicabile è dunque quello della dignità umana, tutelato a livello dell’Unione, e quello dell’ordine pubblico, demandato alla tutela dei singoli stati membri, in ragione anche delle differenze religiose e culturali che connotano ciascuna realtà nazionale. L’art. 6 par. 1 traduce nei seguenti termini questa volontà, vietando “la concessione di brevetti che riguardino le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali”. Il nostro ordinamento riporta il medesimo precetto all’art. 81-quinquies del codice della proprietà industriale. La volontà del legislatore è quantomai chiara e condivisibile: si vuole evitare in qualsivoglia maniera di incentivare o tutelare attività che prevedano l’uso strumentale e selettivo di esseri umani per fini assolutamente inconciliabili con i principi di tutela dell’integrità dell’individuo. I criteri di proporzionalità e di “bilanciamento dei fini” utilizzati dalla giurisprudenza per misurare la legittimità di determinate domande di brevetto hanno escluso categoricamente che si possa ricorrere a tecniche scientifiche, anche in via incidentale, che comportino la distruzione o manipolazione di embrioni umani, anche qualora siano volte a effettuare studi su malattie gravi e con alto tasso 6 In particolare si discute se i diritti derivanti dalla brevettazione coinvolgano non già tutti i potenziali usi del DNA brevettato, ma solo quelli specificamente rivendicati. “Assume importanza centrale, al riguardo, stabilire se i brevetti biotecnologici debbano essere autorizzati secondo il modello classico della disciplina brevettuale, in virtù del quale l’inventore può rivendicare il diritto all’esclusivo sfruttamento di tutti i possibili impieghi futuri dell’invenzione brevettata, o se la portata del brevetto vada circoscritta in modo che possa essere rivendicato unicamente l’uso dichiarato nella domanda di brevetto (c.d. tutela basata sugli scopi)”. Per approfondire vedi L. MARINI, Brevetto biotecnologico e cellule staminali nel diritto comunitario - Giurisprudenza commerciale fasc. III anno 2013 p. 586 7 Direttiva 98/44, considerando 16 e 42

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di mortalità. (8).

Il caso Brustle: gli interventi della Corte di Giustizia dell’UE del 2011 e del 2014 La sentenza che ha riacceso le polemiche sulle scelte del legislatore comunitario in materia di brevettazione di embrioni umani e di tecniche scientifiche ad essi annessi è stata quella emessa il 18 ottobre 2011 nella causa C-34/10, passata agli onori accademici come “caso Brustle”. Oliver Brustle è titolare di un brevetto di invenzione relativo alla produzione di cellule progenitrici dei neuroni che prevede il loro ottenimento da cellule staminali embrionali. Le staminali sono estremamente versatili in quanto “pluripotenti” ed in grado, se utilizzate nei primi stadi della loro vita, di specializzarsi e di sopperire ad eventuali deperimenti o distruzione di cellule adulte. In particolare la tecnica brevettata dal sig. Brustle avrebbe risolto il problema della produzione soprannumeraria, e dunque dannosa, di queste cellule in seno al sistema nervoso del soggetto a cui vengono impiantate. La tecnica dell’uso delle staminali in neurobiologia è peraltro la strada battuta dagli scienziati per la cura di malattie neurodegenerative gravi come il morbo di Parkinson. Greenpeace eV ha invece proposto ricorso al Tribunale federale dei brevetti di Germana adducendo la nullità del brevetto in questione in quanto consistente in una tecnica che si basa sull’eliminazione di cellule staminali soprannumerarie, a detta del ricorrente cellule potenzialmente generatrici di embrioni umani, e dunque illeciti ai sensi dell’art. 2 par. 2 del PatentGesetz tedesco (9). Il tribunale di appello solleva dunque una questione pregiudiziale in quanto la definizione di “embrione umano” è da ricondursi alla direttiva 98/44 la cui interpretazione deve spettare alla Corte di Giustizia dell’UE. La corte viene dunque investita del delicato compito di definire che cosa si intenda per “embrione umano” e dunque fino a quale stadio di evoluzione cellulare possa parlarsi di mera cellula (aperta dunque alla brevettazione) e ove invece si parli di “embrione” e il diritto alla tutela brevettuale debba recedere nei confronti di quello sacro e involabile della vita e dell’integrità fisica. La Corte risponde in maniera netta, dettando una definizione estremamen8 Vedi caso Brustle di seguito riportato. 9 Che testè cita: “non possono essere concessi brevetti per le utilizzazioni di embrioni umani a fini industriali o commerciali”. Vedi art.2 comma 2 punto 3) del PatG. La giurisprudenza comunitaria ha poi esteso questo divieto anche ai fini di ricerca scientifica.

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te ampia di embrione umano, ricomprendendovi oltre alle cellule uovo sin dalla fecondazione, senza distinguere dunque in “fasi evolutive” della cellule, anche gli ovuli non fecondati manipolati con l’inserzione di nuclei di cellule adulte o fatti sviluppare mediante partenogenesi. Ha invece rimandato al giudice nazionale il dovere di qualificare le staminali ottenute da blastocisti come embrioni o meno, essendo quest’ultima valutazione afferente al buon costume di cui all’art. 6 par. 1 della direttiva 98/44, norma da “colorarsi” a seconda degli apprezzamenti etico-morali peculiari di ogni stato membro. Ribadisce infine, al punto 3) delle conclusioni, che “in alcun modo può essere concessa la tutela brevettuale a tecniche che prevedono la distruzione di embrioni umani”. L’allargamento della sfera di non brevettabilità, se da un lato ha ribadito la centralità della tutela della persona umana in ogni sua forma, ha dall’altro notevolmente compresso la possibilità economica di proseguire nella ricerca scientifica in questo delicato e costoso campo. In particolare oggetto di critiche è stata la scelta di censurare la brevettabilità di ovuli non fecondati ma sviluppatesi mediante partenogenesi. Il revirement del 2014 e l’allargamento della sfera di brevettabilità Poco più di tre anni dopo la sentenza Brustle, la Corte è stata chiamata ad esprimersi nuovamente sulla definizione di embrione umano, questa volta su richiesta della High Court of Justice del Regno Unito. L’Internetional Stern Cell Corporation ha presentato due domande di brevetto relative rispettivamente a tecniche per la produzione di cornee sintetiche mediante l’uso di staminali ottenute da cellule uovo non fecondate ma sviluppatesi mediante la tecnica della partenogenesi, e l’altra relativa al procedimento di ottenimento di queste ultime. L’ufficio brevetti e marchi d’oltremanica ha negato il brevetto adducendo proprio la sopracitata giurisprudenza Brustle, che allarga anche agli ovuli non fecondati ma sviluppati con partenogenesi la qualifica di embrioni umani, riconducendo dunque la fattispecie tra quelle sottratte alla brevettazione ex art. 6 par. 2 della direttiva 98/44, trasposta dal legislatore inglese nel punto 3 lettera d) dell’allegato A2 dello UK Patents Act. La convenuta ha tuttavia allegato in giudizio l’assoluta inidoneità della partenogenesi alla generazione di embrioni umani. La partenogenesi, detta anche germinazione virginale, è una particolare tecnica biotecnologica che prevede che l’ovulo non venga fecondato dal maschio, bensì fatto dividere per mitosi e poi manipolato, impiantando in una cellula il materiale genetico della gemella mitotica. Il risultato è che l’ovulo così ottenuto – detto anche partenote - contiene solo materiale genetico femminile, inidoneo a generare un embrione umano con corredo

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cromosomico completo (ha semplicemente il doppio DNA “femminile”). È peraltro una tecnica riproduttiva presenta anche in natura, che viene denominata però partenogenesi naturale, per distinguerla da quella qui esaminata, che prende il nome di partenogenesi artificiale. (10) Le evidenze scientifiche hanno dunque indotto la Corte a ritracciare i precedenti larghissimi confini semantici del termine embrione umano, nella cui definizione vengono dunque esclusi gli ovuli non fecondati ottenuti partenogeneticamente, giacchè “inidonei, secondo le conoscenze scientifiche attuali, a generare un embrione umano”. (11) La particolare attenzione all’evolversi dello stato della tecnica e del progresso scientifico testimoniano dunque la necessità di adeguamento tempestivo dell’ordinamento giuridico e delle norme brevettuali alle mutevoli evidenze scientifiche, anche per non mortificare la possibilità di dare continuità agli ingenti investimenti economici in settori come la ricerca di base, settore chiave tanto per il progresso economico quanto per quello medicosanitario della società italiana ed europea.

10 http://www.treccani.it/enciclopedia/partenogenesi_%28Enciclopedia_della_Scienza_e_ della_Tecnica%29, ma anche GENUARDI e NERI, Genetica umana e medica, II ed. – Elsevier, 2010 11 Motivazioni della sentenza emessa il 18 dicembre 2014 dalla Grande sezione della Corte di Giustizia dell’UE nella causa C-364/13

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A Illecito endofamiliare: dalla “famiglia-comunità” al riconoscimento della responsabilità aquiliana Giulia Pirola

In tempi recenti, la giurisprudenza italiana ha favorito l’ingresso dell’istituto della responsabilità civile nella “roccaforte” delle relazioni familiari1. Infatti, anche la Suprema Corte2 ha avuto occasione di riaffermare la responsabilità extracontrattuale in capo al genitore che non abbia adempiuto i propri doveri genitoriali nei confronti del figlio biologico, riconoscendo la risarcibilità anche dei danni non patrimoniali. Tale decisione si iscrive nel processo evolutivo del diritto di famiglia italiano, in cui si assiste ad una progressiva valorizzazione delle posizioni individuali all’interno della stessa: così, al centro della disciplina delle relazioni familiari sta la persona, con i suoi bisogni ed esigenze3, sicché la prevalenza viene accordata agli interessi dei singoli membri piuttosto che quelli “superiori” del nucleoistituzione. Per vero, già a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, in virtù delle trasformazioni sociali e culturali che hanno interessato l’Italia, il modello di relazioni familiari che aveva in mente il legislatore del Codice civile del 1942 è entrato in crisi, dimostrandosi sempre più anacronistico; nel giro di cinquant’anni, il “padre-padrone” ha perduto la sua auctoritas e il suo potere, mentre la moglie, insieme ai figli, hanno conquistato una maggiore autonomia. In sostanza, il diritto di famiglia ha dovuto adeguarsi al cambiamento dei tempi, abbandonando l’impostazione gerarchica, “per fare posto alle libere scelte”4. 1 Da ultimo, v. M.R. MARELLA- G. MARINI, Di cosa parliamo quando parliamo di famiglia. Le relazioni familiari nella globalizzazione del diritto, Laterza, 2014, 4, ove si dà atto che dal principio del neminem laedere ex art. 2043 cod. civ. “la comunità familiare (…) è stata immune per secoli, e solo di recente tale principio ha trovato applicazione anche tra i suoi membri”. 2 Cass., 16 febbraio 2015, n. 3079, allo stato salvo errore inedita. 3 Anche in tal senso si evoca il fenomeno cui conviene il nome di “privatizzazione delle relazioni familiari”. 4 M. SESTA, Manuale di diritto di famiglia, Padova, 2013, 6 ss.

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Di qui, l’introduzione del c.d. divorzio del 1970, frutto di una visione politico-culturale poi confermata in sede referendaria; oltre alla riforma del diritto di famiglia del 1975, volta a dare piena attuazione alle disposizioni costituzionali e, in particolare, al principio di uguaglianza nella famiglia. Si pensi, infine, alla recente riforma della filiazione (legge n. 219/2012, seguita dal D.Lgs. n. 154/2013), che ha introdotto alcune novità di rilievo in materia di famiglia, fra cui, a titolo esemplificativo, la unicità dello stato di figlio (con la abolizione della distinzione fra figli “legittimi” e figli “naturali”5) e la trasformazione della “potestà” genitoriale in “responsabilità” genitoriale. Pertanto, il legislatore appare sempre più incline a garantire all’individuo uno spazio familiare rispettoso del valore e dell’autonomia dei singoli membri e delle loro relazioni, segnando, così, il definitivo passaggio dalla c.d. famiglia-istituzione alla c.d. famiglia-comunità, già considerata dalla Carta costituzionale (art. 2) quale formazione sociale deputata al pieno sviluppo dell’individuo, le cui posizioni giuridiche reclamano una tutela che non conosca alcun genere di limitazione. Entro questo contesto, dunque, si colloca l’irruzione della responsabilità aquiliana nel recinto delle dinamiche endofamiliari. In particolare, sono oggi definitivamente superate le resistenze degli interpreti, soprattutto pratici, ad attribuire ad un componente della famiglia, seppur vittima di un illecito all’interno della stessa, una tutela piena e conforme al diritto comune delle obbligazioni. Più precisamente, l’orientamento giurisprudenziale innovativo viene inaugurato nel 2005, quando la Suprema Corte6 sottolinea la “non autosufficienza” del diritto di famiglia ed afferma che il comportamento contrario ai doveri familiari può essere fonte di un danno ingiusto, risarcibile ex art. 2043 c.c., sulla base della ritenuta inviolabilità del diritto del singolo componente al rispetto della propria persona, sicché – precisa la Cassazione – sarebbe erroneo opinare che “diritti definiti come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all’interno di un contesto familiare”. Al centro dell’attenzione del diritto non vi è più, quindi, l’istituzione-famiglia in quanto tale, bensì l’individuo che ne fa parte, che può aspirare ad una tutela extracontrattuale quando si verifichi una “violazione della persona 5 In realtà, come è stato messo in luce dai primi interpreti della riforma, non è stato completamente attuato il princpio della parità di trattamento giuridico dei figli biologici (o non matrimoniali): cfr. per tutti A. MANIACI, La rifoma della filiazione. Profili successori, Relazione al Convegno organizzato da Convenia in data 4 e 5 febbraio 2014 a Milano su “Le nuove frontiere in materia di successioni e famiglia” (disponibile allo stato on line in https://www. youtube.com/watch?v=BoCZuTfrrP0). 6 Cass. 10 maggio 2005, n. 9801, in Fam. e dir., 2005, 365 ss.

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umana intesa nella sua totalità, nella sua libertà-dignità, nella sua autonoma determinazione al matrimonio, nelle sue aspettative di armonica vita sessuale, nei suoi progetti di maternità, nella sua fiducia in una vita coniugale fondata sulla comunità, sulla solidarietà e sulla piena esplicazione delle proprie potenzialità nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui tutela risiede negli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost.”. L’“illecito endofamiliare” allude, partanto, ad una serie di fattispecie (di responsabilità extracontrattuale), in cui danneggiante e danneggiato sono legati, ovvero sono stati legati, da un rapporto di coniugio o di parentela, nonchè da un rapporto biologico di procreazione o, ancora, da un rapporto para-familiare7. Così, sono stati ravvisati gli estremi della responsabilità extracontrattuale nei casi in cui si verifichi una condotta omissiva del genitore nei confronti del figlio non riconosciuto o tardivamente riconosciuto, qualora da ciò consegua un pregiudizio per quest’ultimo, consistente nel non aver potuto sviluppare compiutamente la propria personalità, anche a causa dell’assenza o del disinteresse del genitore biologico8. Pertanto, gli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione dei figli, ex art. 147 c.c., sorgono a carico dei genitori al momento e per il solo fatto della nascita e persistono fino al conseguimento della indipendenza economica dei primi. La violazione di tali obblighi può essere causa di danni anche non patrimonali (in termini di privazione dell’affetto), risarcibili proprio quando siano in gioco interessi costituzionalmente garantiti. Come affermato dalla Suprema Corte, “la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole, a causa del disinteresse mostrato nei confronti dei figli per lunghi anni, ben può integrare gli estremi dell’illecito civile, cagionando la lesione di diritti costituzionalmente protetti, e dar luogo ad un’autonoma azione dei medesimi figli volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 c.c. È un comportamento rilevatore di responsabilità genitoriale l’avere deprivato i figli della figura genitoriale paterna, che costituisce un fondamentale punto di riferimento soprattutto nella fase della crescita, e idoneo ad integrare un fatto generatore di responsabilità aquiliana”9. 7 Cfr. G.F. BASINI, Infedeltà matrimoniale e risarcimento. Il danno «endofamiliare» tra coniugi, in Fam., pers. e succ., 2012, 92 ss. 8 Cfr. ad es. Trib. Venezia, 18 aprile 2006, in Resp. civ. e prev., 2007, 927; App. Bologna, 10 febbraio 2004, in Fam. e dir., 2006, 511; da ultimo, Trib. Milano, 23 luglio 2014, in www. altalex.com. 9 Così, Cass. 22 luglio 2014, n. 16657, in www.ilcaso.it.

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Concludendo, in tema di famiglia, la giurisprudenza italiana negli ultimi dieci anni ha dato segnali di un forte cambiamento sempre più in linea con il dettato costituzionale. Ha, infatti, apprezzato apertamente il mutamento di prospettiva dell’istituto rispetto a quello che era l’approccio del legislatore del ’42. Si è voluto, in questo senso, dare più spazio ai componenti della famiglia e alla loro personalità, che va tutelata a tutti i costi, in quanto valore di rango costituzionale. Nell’ottica di una “nuova famiglia”, quale luogo di libero sviluppo della persona, giurisprudenza e dottrina hanno dotato i suoi membri di uno strumento di protezione contro le violazioni poste in essere al suo interno per colmare le lacune di tutela, ormai inaccettabili. Il legislatore non è, comunque, rimasto insensibile a questa esigenza; basti pensare, infatti, che dal 2006, sia pure con riferimento ai rapporti coniugali o paraconiugali in crisi, ha espressamente contemplato il rimedio risarcitorio per gravi inadempienze dei doveri familiari che comportino un concreto pregiudizio (v. art. 709-ter cod. proc. civ.). In ogni caso, tornando alla responsabilità aquiliana e al suo ingresso nelle dinamiche familiari, se è vero che il rimedio sembra andare in una giusta direzione, in linea con i principi espressi dalla Carta Fondamentale, ci si interroga su come verranno risolti tutti quei casi di confine - e nella pratica sono molti - in cui non è sempre facile dare prova di aver subito un ingiusto pregiudizio da parte di una di quelle persone che, invece, avrebbero dovuto impedirlo.

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A La nuova fattispecie contrattuale del rent to buy: disciplina normativa e spunti interpretativi Vittoria Petralia E’ noto che l’Italia, tra i Paesi avanzati, è quello in cui maggiormente il cittadino ha sempre manifestato una particolare affezione per la proprietà immobiliare. Tuttavia la perdurante crisi economica, le difficoltà di accesso al credito ed, invero, anche una fiscalità sempre più pesante sul ‘mattone’, hanno notevolmente ridotto negli ultimi anni - soprattutto (ma non solo) per le giovani coppie - la possibilità di coronare il sogno dell’acquisto della propria casa. Al fine di cercare di superare tali difficoltà, gli operatori economici del settore - ivi comprese le stesse imprese di costruzione, gravate nel tempo da una notevole mole di ‘invenduto’ - hanno provato ad elaborare alcune proposte contrattuali genericamente ricomprese nella prassi con la formula sintetica, mutuata dal diritto anglosassone, del c.d. rent to buy. Si tratta di ipotesi tutte riconducibili a schemi contrattuali che, facendo da ponte tra i contratti tipici della locazione e della compravendita, possono consentire agli interessati di coniugare il possesso attuale di un immobile con la facoltà di acquisirne la proprietà in un momento successivo. Il nostro ordinamento ha già conosciuto casi di vendite ad effetti reali differiti (si pensi alla fattispecie della “vendita con riserva della proprietà” disciplinata dagli artt. 1523 e seguenti del Codice Civile) al fianco delle quali, nella prassi, sono stati utilizzati altri articolati contrattuali per raggiungere gli effetti programmati: - la locazione con un collegato patto di opzione (indubbiamente la formula più semplice): il potenziale acquirente stipula un contratto di locazione dove è prevista anche un’opzione di acquisto dell’immobile locato; - ovvero la locazione con collegato preliminare di vendita: le parti in questo modo assumono un impegno maggiormente vincolante, in quanto, assieme al contratto di locazione, esse stipulano anche un contratto preliminare di futura vendita entro un termine stabilito. Nessuna delle ipotesi citate ha, però, fornito uno strumento ritenuto pienamente soddisfacente dal mercato e, di conseguenza, le ipotesi concrete in cui le parti potenzialmente interessate hanno percorso queste strade sono rimaste confinate a numeri davvero poco significativi. In questo contesto, il legislatore, nell’intento di recepire le istanze del mercato immobiliare e spinto dall’esigenza di risolvere le criticità derivanti

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dalla mancanza di una specifica normativa in materia, è intervenuto direttamente con il Decreto Legge 12 settembre 2014 n. 132 (convertito dalla legge 11 novembre 2014 n. 164), c.d. “Sblocca Italia”, ove all’art. 23 ha codificato la fattispecie contrattuale che - al di là dell’utilizzazione o meno del termine rent to buy con il quale oramai usualmente la si identifica riceve, così, una sua specifica ‘tipizzazione’. Recita, infatti, il predetto art. 23: “1. I contratti, diversi dalla locazione finanziaria, che prevedono l’immediata concessione del godimento di un immobile, con diritto per il conduttore di acquistarlo entro un termine determinato imputando al corrispettivo del trasferimento la parte di canone indicata nel contratto, sono trascritti ai sensi dell’articolo 2645-bis codice civile. La trascrizione produce anche i medesimi effetti di quella di cui all’articolo 2643, comma primo, numero 8) del codice civile. 1-bis. Le parti definiscono in sede contrattuale la quota dei canoni imputata al corrispettivo che il concedente deve restituire in caso di mancato esercizio del diritto di acquistare la proprietà dell’immobile entro il termine stabilito. 2. Il contratto si risolve in caso di mancato pagamento, anche non consecutivo, di un numero minimo di canoni, determinato dalle parti, non inferiore ad un ventesimo del loro numero complessivo. 3. Ai contratti di cui al comma 1 si applicano gli articoli 2668, quarto comma, 2775-bis e 2825-bis del codice civile. Il termine triennale previsto dal comma terzo dell’articolo 2645-bis del codice civile è elevato a tutta la durata del contratto e comunque ad un periodo non superiore a dieci anni. Si applicano altresì le disposizioni degli articoli da 1002 a 1007 nonché degli articoli 1012 e 1013 del codice civile, in quanto compatibili. In caso di inadempimento si applica l’articolo 2932 del codice civile. 4. Se il contratto di cui al comma 1 ha per oggetto un’abitazione, il divieto di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 20 giugno 2005, n.122, opera fin dalla concessione del godimento. 5. In caso di risoluzione per inadempimento del concedente, lo stesso deve restituire la parte dei canoni imputata al corrispettivo, maggiorata degli interessi legali. In caso di risoluzione per inadempimento del conduttore, il concedente ha diritto alla restituzione dell’immobile ed acquisisce interamente i canoni a titolo di indennità, se non è stato diversamente convenuto nel contratto. 6. In caso di fallimento del concedente il contratto prosegue, fatta salva l’applicazione dell’articolo 67, terzo comma, lettera c), del regio decreto 16 marzo 1942 n.267, e successive modificazioni. In caso di fallimento del conduttore, si applica l’articolo 72 del regio decreto 16 marzo 1942 n.267, e

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successive modificazioni; se il curatore si scioglie dal contratto, si applicano le disposizioni di cui al comma 5. 7. Dopo l’articolo 8, comma 5, del decreto-legge 28 marzo 2014, n.47, convertito con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2014, n.80, è aggiunto il seguente: “5-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche ai contratti di locazione con clausola di trasferimento della proprietà vincolante per ambedue le parti e di vendita con riserva di proprietà, stipulati successivamente alla data di entrata in vigore della presente disposizione.”. 8. L’efficacia della disposizione di cui al comma 7 e’ subordinata al positivo perfezionamento del procedimento di autorizzazione della Commissione Europea di cui all’articolo 107 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), di cui è data comunicazione nella gazzetta ufficiale.”. Si tratta, dunque, di una fattispecie contrattuale nuova, nella quale si fondono - e sono espressamente richiamate, laddove applicabili discipline proprie di diverse fattispecie giuridiche che, attraverso la loro armonizzazione, assumono un assetto autonomo. Concretamente, cosa accade: il proprietario consegna fin da subito l’immobile al conduttore-futuro acquirente, il quale paga il canone; dopo un certo periodo di tempo il conduttore può decidere se acquistare il bene, detraendo dal prezzo una parte dei canoni pagati. Se, per esempio, tra le parti si convenisse la vendita di un appartamento per il prezzo di euro 100.000, esse potrebbero accordarsi per un canone di 1.000 euro mensili, stabilendo che una parte di tale cifra - ad esempio euro 500, venga consegnata quale corrispettivo per il godimento del bene, come un normale canone di locazione (così che risulti destinata a “perdersi” proprio come in una normale locazione), mentre la restante parte di euro 500 venga imputata in conto al pagamento del prezzo della compravendita, con l’effetto di ridurre il prezzo finale di vendita. Gli interessi delle parti vengono, in tal modo, maggiormente tutelati dalla espressa previsione della necessità di trascrivere il contratto, con la conseguente opponibilità ai terzi dell’accordo, mutuando la disciplina prevista dal Codice Civile per i contratti preliminari all’art. 2645-bis. Conformemente ai principi generali dell’ordinamento giuridico, che non vede di buon occhio l’apposizione di eccessivi vincoli alla libera circolazione dei beni, l’effetto “prenotativo” per l’acquisto del bene viene espressamente limitato al comma 3 del testé citato art. 23 al termine massimo di 10 anni dalla stipulazione del contratto; fermo restando che il ‘conduttore’, sebbene titolare del diritto di acquistare, non sarà mai obbligato ad acquistare il bene, mentre il concedente troverà idoneo ristoro a tutela della propria posizione contrattuale in virtù del disposto

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del comma 5, art. 23, il quale prevede la restituzione dell’immobile ed il diritto di trattenere le rate ricevute a titolo di indennità. Nulla vieta che le parti, nel corso delle loro trattative, concordino che il conduttore sia obbligato ad acquistare, ma in tale ipotesi ci si troverà davanti ad una disciplina contrattuale diversa dal rent to buy. Così, data la tipizzazione della fattispecie, al contratto disciplinato dall’art. 23 non dovrebbero applicarsi le norme vincolistiche proprie delle leggi 392/19781 e 431/19982 in tema di locazione di immobili urbani ed abitativi. Come si accennava poc’anzi, per le tutele e le discipline del contratto il legislatore fa espresso richiamo, in quanto applicabili, alle norme previste per regolamentare i rapporti tra usufruttuario e nudo proprietario, intendendo probabilmente, in tal modo, tracciare una netta differenza tra la disciplina del contratto di locazione e quella del rent to buy. E’ opportuno sottolineare come le norme in esame, malgrado le sopra evidenziate esigenze principalmente sottese alle stesse, non sono state limitate all’ipotesi del trasferimento di soli immobili abitativi, bensì risultano riferibili a qualsiasi immobile: appartamenti, autorimesse, cantine, negozi, uffici, capannoni e persino terreni; non solo, la disciplina è applicabile perfino ad immobili in costruzione e in tali ipotesi occorrerà fare riferimento alle prescrizioni specifiche previste per gli acquirenti di siffatte tipologie di immobili di cui al D. lgs. 122/2005, richiamato dal comma 3 dell’art. 23 dello “Sblocca Italia”. Da un esame necessariamente sommario del nuovo istituto, risulta di tutta evidenza come il perimetro normativo proposto dal legislatore preveda al suo interno un ampio ricorso all’autonomia privata delle parti, le quali saranno libere di riempirne il contenuto con regolamentazioni il più possibile aderenti alle proprie esigenze, nel rispetto dei limiti posti dall’ordinamento in materia contrattuale. Il ricorso, dunque, ad un professionista della contrattazione immobiliare - si pensi in primis al notaio - garantirà un idoneo e proficuo utilizzo della recente proposta normativa, al fine di affrontare con completezza, serietà e professionalità ogni singola questione fin dal momento iniziale, evitando danni futuri. Ci si chiede se l’istituto, dai primi vagiti di cui stiamo parlando, evolverà alla maturità di una figura contrattuale del tutto strutturata e, come tale, 1 Legge 27 luglio 1978, n. 392 (“Equo Canone. Disciplina delle locazioni di immobili urbani”), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 29 luglio 1978, n. 211 2 Legge 9 dicembre 1998, n. 431 (“Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti ad uso abitativo”), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 15 dicembre 1998, n. 292

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utilizzabile dagli utenti in conformità degli intenti che ne hanno ispirato l’istituzione. Al riguardo, non si può prescindere dall’esprimere alcune considerazioni in ordine al trattamento fiscale che verrà, nella prassi, riservato all’istituto del rent to buy. Già prima dell’introduzione ‘ufficiale’ della nuova figura contrattuale, l’Amministrazione Finanziaria si è espressa con alcuni timidi interventi nel tentativo di offrire una soluzione quantomeno condivisa sulle imposte da applicare, ma i chiarimenti forniti non sono stati ritenuti dagli operatori e soprattutto dagli interessati sufficientemente confortanti. La recentissima Circolare 4/E, emessa in data 19 febbraio 2015 dalla Agenzia delle Entrate, ha fornito alcuni chiarimenti in merito al regime fiscale applicabile ai contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili, ai fini delle imposte dirette e di quelle indirette. Ha stabilito, nel caso di specie, che il trattamento fiscale da applicare al canone complessivo corrisposto dal conduttore andrà diversificato in base alla funzione (godimento dell’ immobile e acconto del prezzo) per la quale dette somme vengono corrisposte, così configurando -concretamenteuna ‘duplicità’ di corrispettivo. Quindi, per la quota di canone imputata al godimento dell’immobile troveranno applicazione le disposizioni previste, sia ai fini delle imposte dirette sia ai fini di quelle indirette, per i contratti di locazione. In merito, invece, alla quota di canone imputata a corrispettivo del trasferimento, essa sarà considerata come un “acconto sul prezzo di vendita” e andrà, come tale, assimilata ai fini fiscali. Sembra, comunque, indiscutibile che per i futuri acquirenti siano in ogni caso applicabili, in presenza dei prescritti requisiti, le agevolazioni fiscali per l’acquisto della ‘prima casa’. Da ultimo, il Consiglio nazionale del Notariato, in una nota elaborata al fine di commentare la circolare di cui sopra, si è espresso con alcuni rilievi critici sulla scelta di tassare il rent to buy come se fosse un contratto “bifronte”: sarebbe stato preferibile3, probabilmente, a detta del Notariato, trattare l’istituto come un tipo contrattuale a sé stante, valorizzandone l’unicità e evidenziandone maggiormente le peculiarità, invece di considerarlo come una mera sommatoria di una locazione e di una compravendita.

3 Angelo Busani, Rent to buy, patto “doppio”, Sole 24 Ore, 17 marzo 2015

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A Brevi cenni sulle azioni a voto plurimo Filippo Fiore

Il decreto legge 24 giugno 2014, n. 91, poi convertito con modificazioni tramite la legge 11 agosto 2014, n. 116, ha introdotto molteplici novità, anche nel campo del diritto societario, tra le più notevoli delle quali si deve annoverare l’introduzione delle azioni a voto plurimo e delle azioni a voto maggiorato, superando in questo modo il principio, stabilito nel 1942 e sopravvissuto alla riforma del diritto societario del 2003, per il quale ad un’azione spetta al massimo un voto. Nella sua azione, il Legislatore ha operato su due distinti livelli, diversificando nettamente l’ambito riguardante le società per azioni c.d. “chiuse” da quelle quotate: per quanto riguarda le prime ha abrogato il divieto di emissione di azioni a voto plurimo, permettendo in questo modo di emettere una nuova categoria di azioni aventi diritto di esprimere un numero di voti superiore ad uno, ma inferiore a tre, per quanto riguarda le società quotate, pur mantenendo intatto il divieto riguardante l’emissione di azioni a voto plurimo, ha permesso non solo l’emissione di azioni con diritto di voto limitato e scaglionato, ma anche la possibilità di prevedere delle azioni a voto maggiorato,1 ovvero delle azioni con diritto ad una maggiorazione del voto qualora vengano detenute dallo stesso azionista per un periodo di tempo statutariamente determinato, ma non inferiore a due anni, seguendo il modello delle loyalty shares previste dall’ordinamento francese. Qui tratteremo unicamente delle azioni a voto plurimo previste per le società per azioni c.d. “chiuse”, non solo per lo spazio non infinito, ma anche per non rischiare di voler estendere eccessivamente l’argomento, mancando, già più di quanto non faremo in ogni caso, di toccare i nodi vitali dell’argomentazione e per cercare di dare maggiore unità e coerenza al ragionamento. 1 Le azioni a voto maggiorato possono comunque essere emesse anche dalle società per azioni c.d. “chiuse” vd. M.S. SPOLIDORO, Il voto plurimo: i sistemi europei, Relazione al XXVIII Convegno di studio “Adolfo Beria di Argentine” su Unione Europea: concorrenza tra imprese e concorrenza tra stati, Courmayeur, 19-20 settembre 2014, p. 15, disponibile presso http://www.cnpds.it/documenti/relazione_prof_spolidoro.pdf.

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Il decreto legge n. 91/2014 non introduce un istituto del tutto sconosciuto al nostro ordinamento, anzi, precedentemente alla codificazione del 1942, le azioni a voto plurimo erano piuttosto diffuse nel nostro paese. Questa diffusione ebbe inizio con la fine della Prima Guerra Mondiale, quando, a causa della forte svalutazione monetaria, quest’istituto fu utilizzato largamente per impedire acquisizioni di società italiane da parte di soggetti esteri favoriti dal cambio con una lira più debole.2 Dal punto di vista giuridico ciò fu possibile in quanto nel Codice di Commercio nel 1882 non era presente nessun valido argomento che escludesse le azioni a voto plurimo, né tantomeno detto codice recepiva il principio di proporzionalità tra potere e rischio, che era stata evitato con cura dal Legislatore con l’obiettivo di tutelare il complesso degli azionisti e evitare un accentramento di potere giudicato eccessivo nelle mani di chi venisse a controllare forti percentuali azionarie.3 In ogni caso le discussioni non mancarono, come dimostrano le vicende della sottocommissione D’Amelio, nella quale fu evidente il contrasto che sorse tra chi, come Cesare Vivante, era favorevole all’introduzione nel testo di legge di una norma che prevedesse le azioni a voto plurimo, purché il numero totale dei voti ad esse attribuite fosse inferiore alla somma dei voti spettanti alle altre azioni, e chi, come gran parte dei membri della sottocommissione, temeva che dette azioni potessero trasformarsi in uno strumento di consolidamento del potere di soci di maggioranza che avevano conquistato la loro posizione di predominio con audaci speculazioni finanziarie piuttosto che con un cauto e costruttivo esercizio dell’industria.4 Malgrado la diffidenza di parte della dottrina, la legittimità delle azioni a voto plurimo ebbe comunque la sua consacrazione a livello giurisprudenziale con la sentenza della Corte di Cassazione del 15 luglio 1926, che ne riconobbe la validità, pur statuendo dei limiti onde ad evitare abusi.5 Dunque, in questo modo, fino alla codificazione del 1942 il nostro ordinamento conobbe le azioni a voto plurimo, che vennero appunto abrogate con il Codice Civile introdotto in quell’anno, il quale recepiva come principio cardine nella società per azioni la proporzionalità tra rischio e investimento. Questo stato di cose durò all’incirca fino al 1974, quando 2 S. ALVARO, A. CIARAVELLA, D. D’ERAMO, N. LINCIANO, Le deviazioni dal principio un’azione-un voto e le azioni a voto multiplo, in Quaderni giuridici della CONSOB, n. 5 gennaio 2014, p. 24; A. SCIALOJA, Il voto plurimo nelle società per azioni, Foro it., 1925, I, 757, cit. in S. ALVARO, A. CIARAVELLA, D. D’ERAMO, N. LINCIANO, op. cit., p. 24, nota 64. 3 B. MASSELLA DUCCI TERI, Appunti in tema di divieto di azioni a voto plurimo: evoluzione storica e prospettive applicative, Riv. dir. soc., 2013, p. 750 e nota 27. 4 M. BIONE, Il voto multiplo: digressioni sul tema, Giur. comm., 2011, I, p. 663 5 Cass. 15 luglio 1926, Foro it., 1926, I, 713, con nota di A. SCIALOJA, cit. in B. MASSELLA DUCCI TERI, op. cit., p. 750, nota 29.

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iniziò quel lento processo legislativo che, passando per la riforma del 2003 e arrivando al decreto legge di cui trattiamo, ha praticamente abbandonato questo principio. Infatti nel 1974 il Legislatore introdusse, in forza della legge 216/1974, le azioni di risparmio, ovvero delle azioni che mancavano completamente del diritto di voto, mancanza che era compensata da un privilegio negli utili. Un altro e ben maggiore passo verso l’allontanamento dal principio di proporzionalità tra rischio e potere fu segnato dalla riforma del 2003. Il d.lgs. 6/2003 ha infatti segnato una cesura, demandando all’autonomia statutaria e contrattuale ampi frangenti che prima erano regolamentati dalla legge.6 Basti pensare alla facoltà di emettere ulteriori categorie di azioni oltre a quelle tipizzate dalla legge, alla facoltà di attribuire i titoli azionari in modo non proporzionale ai conferimenti, nonché alle azioni prive di voto e di alcun privilegio patrimoniale, solo per citare alcune delle novità introdotte dalla riforma del 2003. Malgrado questo progressivo allontanamento dal principio di proporzionalità tra rischio e potere, fino a pochi mesi fa era sopravvissuto il divieto di emettere azioni a voto plurimo previsto dal comma 4 dell’art. 2351 cod. civ. Col decreto legge 91/2014, infatti, questo divieto è stato abrogato, come è stato detto sopra, ed è stata introdotta la possibilità, per le sole società per azioni c.d. “chiuse”, di emettere appunto le azioni a voto plurimo che rappresentano una categoria di azioni a sé. Questi titoli azionari, secondo quanto disposto dal nuovo comma 4 dell’art. 23517 garantiscono al loro possessore il diritto ad un numero di voti non superiore a tre, che possono essere espressi in ogni assemblea, oppure limitatamente ad alcuni argomenti determinati,8 inoltre tale diritto può essere subordinato statutariamente al verificarsi di condizioni non meramente potestative, ovvero di “condizioni non rimesse al mero arbitrio di alcuno”.9 Per quanto attiene all’introduzione di una previsione statutaria di questa nuova categoria di azioni all’interno delle società è stata dettata una disciplina specifica. Se infatti per quanto riguarda le società di nuova costituzione l’emissione o la previsione di 6 E. BARCELLONA, Rischio e potere nel diritto societario riformato fra golden quota di s.r.l e strumenti finanziari di s.p.a., Giappichelli, Torino, 2012, p. 16-17. 7 “Salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative. Ciascuna azione a voto plurimo può avere fino a un massimo di tre voti.” 8 M. SAGLIOCCA, Il definitivo tramonto del principio “un’azione, un voto”: tra azioni a voto multiplo e maggiorazione del voto, Riv. not., 2014, p. 934. 9 A. BUSANI, M. SAGLIOCCA, Le azioni non si contano ma si “pesano”: superato il principio one share one vote con l’introduzione delle azioni a voto plurimo e a voto maggiorato, Società, 2014, fasc. 10, p. 1053.

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un’eventuale emissione azioni a voto plurimo nello statuto non presenta particolari difficoltà10, un discorso a parte è da fare è per le società già esistenti che vogliano emettere titoli azionari di questa categoria. Nel primo caso infatti, alla dottrina11 non sembrano sorgere gli estremi che legittimerebbero il diritto di recesso, mentre qualora venisse introdotta tout court una clausola statutaria prevedente la possibilità di emettere azioni a voto plurimo, secondo parte della stessa12 potrebbe sorgere in capo al socio dissenziente il diritto di recesso secondo quanto previsto alla lett. g.) del comma 1, dell’art. 2347 cod. civ., riguardo “le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto e di partecipazione”. Questo indirizzo, però, può essere accolto unicamente qualora prevalesse quella parte della dottrina13 favorevole all’interpretazione più ampia del senso di “ modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto e di partecipazione”, la quale ritiene giusta causa di recesso anche il solo pregiudizio al diritto e non la sola modificazione diretta; altrimenti, se prevalesse l’indirizzo avverso14 e forse maggioritario, il diritto di recesso non sarebbe probabilmente ritenuto esercitabile nel caso di introduzione di azioni a voto plurimo. Forse è proprio a causa della delicatezza della questione dell’introduzione delle azioni a voto plurimo in società che prima non le prevedevano, che il Legislatore ha voluto dettare la sopraddetta disciplina specifica che, attraverso la modificazione dell’art. 212 delle disposizioni attuative del codice civile, prevede un aggravamento del quorum per la modificazione in questo senso degli statuti delle società iscritte nel registro delle imprese prima del 31 agosto 2014. Secondo quanto previsto da questa disciplina le società iscritte prima di quella data potranno introdurre la previsione delle azioni a voto plurimo unicamente con l’approvazione di almeno i 2/3 del capitale rappresentato in assemblea su un quorum costitutivo di più della metà del capitale sociale in prima 10 Non presenterebbe particolari problemi nemmeno la delega della decisione sull’emissione di azioni a voto plurimo in caso di aumento di capitale all’organo amministrativo ex art. 2443 cod. civ., in quanto dovrebbe essere dettagliata e determinare in modo netto e preciso l’ammontare dell’aumento di capitale, nonché il numero ed i diritti, anche amministrativi delle azioni a voto plurimo. vd. A. BUSANI, M. SAGLIOCCA, op. cit, p. 1053. 11 A. BUSANI, M. SAGLIOCCA, op. cit, p. 1054. 12 A. BUSANI, M. SAGLIOCCA, op. cit, p. 1055. 13 vd. L. DELLI PRISCOLI, L’uscita volontaria del socio dalle società di capitali, Giuffré, Milano, 2005, p. 177; L. DELLI PRISCOLI, Delle modificazioni dello statuto, diritto di recesso, artt. 2437-2437 sexies, in Il Codice civile Commentario, Giuffré, Milano, 2013, p. 47. 14 vd. V. CALANDRA BUONAURA, Il recesso del socio di società di capitali, Giur. comm., 2005, I, p. 295-296; G.V. CALIFANO, Il recesso nelle società di capitali, CEDAM, Padova, 2010, p. 137; seppur in modo meno netto V. DI CATALDO, Il recesso del socio di società per azioni, in Il nuovo diritto delle società di capitali. Liber amicorum di Gian Franco Campobasso, UTET, Torino, 2007, p. 228.

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convocazione, mentre per la seconda convocazione il quorum costitutivo è ridotto ad almeno un terzo, rimanendo comunque invariato il quorum di approvazione dei 2/3. Per le società iscritte a registro dal 1 settembre 2014 rimane invece l’iter ordinario di modificazione dello statuto previsto dal codice, salvo eventuali deroghe statutarie.15 Un’altra particolare disciplina è prevista per un aspetto tutt’altro che secondario, la permanenza delle azioni a voto plurimo dopo un’eventuale quotazione in borsa. Se infatti come è stato detto all’inizio dell’articolo, il Legislatore ha mantenuto il divieto per le società quotate di emettere azioni a voto plurimo, allo stesso tempo ha previsto esplicitamente nel comma 2 del nuovo art. 127-sexies T.u.f., introdotto dal medesimo decreto legge in sede di conversione, la possibilità di conservare le azioni a voto plurimo con tutti i loro diritti e le loro caratteristiche. Oltre a ciò, lo stesso articolo prevede la possibilità di emettere ulteriori azioni dello stesso tipo con lo scopo di mantenere inalterato il rapporto tra le diverse categorie azionarie limitatamente ai casi di aumento di capitale, fusione e scissione. Chiaramente questa previsione del Legislatore non è scevra da conseguenze, che proveremo più avanti ad analizzare brevemente. Passando ora a cercare di esaminare alcune delle questioni più delicate delle novità introdotte dal decreto, ci limiteremo a notare come vi sono almeno tre campi in cui è possibile sollevare dei dubbi: quello meramente applicativo, uno riguardante le possibili conseguenze del totale abbandono del principio di proporzionalità tra rischio e potere ed uno riguardante la conservazione delle azioni a voto plurimo dopo la quotazione della società. Per quanto attiene il campo meramente applicativo, tra i vari problemi che potrebbero essere trattati, saltano agli occhi quello della compressione della possibilità di esercitare determinati diritti collegati all’obbligo di titolarità di una determinata quota del capitale sociale e quello dell’alterazione dell’equilibrio dei quorum costitutivi e deliberativi nelle assemblee. Riguardo al primo problema intorno la legittimazione all’esercizio di alcuni diritti (come ad esempio il diritto di chiedere la convocazione dell’assemblea previsto dall’art. 2367 cod. civ.) che è data dal controllo di una determinata quota di capitale, sembra tuttavia che non sorgano realmente difficoltà. Infatti come si è appena detto il presupposto per l’esercizio del diritto è la titolarità di una determinata quota del capitale e non di una percentuale sul totale dei voti esercitabili.16 Se quindi la prima 15 A. BUSANI, M. SAGLIOCCA, op. cit, pp. 1054-1055 16 vd. ad esempio l’art. 2367 cod. civ. che parla di obbligo di convocazione dell’assemblea qualora la richiesta provenga “... da tanti soci che rappresentino almeno il ventesimo del

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questione riportata si dimostra, osservato il tenore letterale della legge, un falso problema, un altro discorso è da fare per il secondo problema. Se da un lato appare ovvio che il quorum dovrebbe essere tarato non sul capitale in sé stesso, ma sul capitale in quanto dotato del diritto di voto,17 tuttavia manca nel codice un espresso riferimento a ciò18 e, se pure è presente nel nuovo art. 127-quinquies, comma 8, T.u.f., riguardo le sole società quotate, l’indicazione di come la maggiorazione del voto vada computata anche per la determinazione dei quorum costitutivi e deliberativi (che certamente sarà utilizzabile analogicamente anche per le società c.d. “chiuse”) sarebbe stato preferibile, a mio modestissimo avviso, introdurre una norma affine anche nel codice civile. A questo problema va inoltre aggiunto che con l’introduzione delle azioni a voto plurimo viene ulteriormente ridotto, se possibile, quel minimo ruolo di tutela degli azionisti di minoranza che il quorum costitutivo poteva ancora in qualche modo rappresentare. Infatti con l’introduzione delle azioni a voto plurimo vi è il rischio che le azioni ordinarie si possano trovare in qualche modo addirittura in una condizione svantaggiata rispetto alle azioni speciali. Ciò va inteso nel senso che, se prima del decreto legge 91/2014 le azioni ordinarie avevano diritto di voto in un’assemblea generale, dove tutti i titoli azionari avevano diritto ad un solo voto (e quindi vi era una maggiore possibilità per il singolo azionista di tutelare il proprio interesse, per quanto ciò fosse limitato generalmente dalla presenza di un saldo gruppo di controllo), ora probabilmente si diffonderanno situazioni di assemblee generali largamente controllate da titolari di azioni a voto plurimo, comprimendo ulteriormente la possibilità per i singoli azionisti di tutelare il proprio interesse. In questo modo gli azionisti detentori di azioni ordinarie rischierebbero di trovarsi nella posizione dei titolari di azioni speciali, i quali non hanno diritto di voto in assemblea generale, ma allo stesso tempo non costituirebbero una categoria di azionisti avente il potere di bloccare, tramite una delibera della loro assemblea di categoria, eventuali decisioni dell’assemblea generale che rischiassero di compromettere i loro interessi, come possono fare i titolari delle azioni speciali secondo quanto previsto dall’art. 2376 cod. civ.19 Per quanto riguarda le varie conseguenze del totale abbandono del principio di proporzionalità tra rischio e potere, ci sarebbe da dire tanto, capitale sociale nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio e il decimo del capitale sociale nelle altre...” 17 A. BUSANI, M. SAGLIOCCA, op. cit, p. 1056. 18 vd. art. 2366 cod. civ., la cui unica indicazione interpretabile in tal senso è la – ovvia esclusione dal computo del quorum delle azioni prive del diritto di voto. 19 A. BUSANI, M. SAGLIOCCA, op. cit, p. 1056.

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sicuramente troppo per queste pagine, e sarà perciò necessario limitarsi solo a qualche considerazione sul ruolo che aveva il divieto di emettere azioni a voto plurimo e sui motivi che hanno spinto a conservare tale norma fino al 2014. Se il principio di proporzionalità tra rischio e potere era un architrave fondamentale del diritto societario nel codice del 194220, abbiamo visto come da esso il Legislatore si sia progressivamente allontanato a partire dal 1974 per arrivare quasi a un suo totale abbandono nel 2003. Con la riforma del 2003 il divieto di emissione di azioni a voto plurimo è stato però mantenuto, suo malgrado, in un sistema che lasciava all’autonomia statutaria margini sempre più ampi nella determinazione dei diritti amministrativi delle azioni e che stabiliva la derogabilità della proporzionalità tra conferimento e partecipazione al capitale sociale, affiancato da un’altra norma inderogabile che statuiva il divieto di emettere azioni aventi diritto di voto limitato per un valore superiore alla metà del capitale sociale. Questi due divieti nel nostro ordinamento operavano in modo convergente, garantendo un minimo di equilibrio tra il conferimento e la facoltà di indirizzare la gestione,21 espletando così un compito che non poteva ridurre il ruolo del divieto di emissione di azioni a voto plurimo a quello di mero relitto del passato.22 Alcune critiche,23 giustamente per un certo verso, ritenevano contraddittorio mantenere il divieto di azioni a voto plurimo, quando la legge consentiva di emettere azioni totalmente prive del diritto di voto, in quanto emettendo azioni a voto plurimo od emettendo azioni senza diritto di voto veniva leso sempre il principio di proporzionalità tra potere e rischio e il pericolo di accentramento del potere in mano a pochi azionisti restava il medesimo, ottenendo in questo modo lo stesso risultato.24 C’è da dire, però, che pur essendo in effetti questo atteggiamento in qualche modo una forma di ipocrisia, garantiva, in un mondo ove la tendenza a 20 Esso era ancora definito “canone fondamentalissimo del diritto societario” nel 1990, vd. F. D’ALESSANDRO, Aumento di capitale, categorie di azioni e assemblee speciali, Giur. comm., 1990, II, p. 582, cit. in E. BARCELLONA, op. cit., p. 19. 21 M. NOTARI, cit. in N. ABRIANI, S. AMBROSINI, O. CAGNASSO, P. MONTALENTI, Le società per azioni, in G. COTTINO (diretto da), Trattato di diritto commerciale, IV, t. 1, p. 305, nota 252, CEDAM, Padova, 2010; E. BARCELLONA, op. cit., p. 216-217. 22 M. BIONE, op. cit., p. 680. 23 “in un sistema che ammette le azioni senza diritto di voto è soltanto una ipocrisia, che in sede di riforma sarebbe da non perseguire, escludere le azioni a voto plurimo, perché poi il risultato è assolutamente identico” C. ANGELICI in M. VIETTI, F. AULETTA, G. LO CASCIO, U. TOMBARI, A. ZOPPINI (a cura di), La riforma del diritto societario. Lavori preparatori. Testi e materiali, p. 1684, Giuffré, Milano, 2006. cit. in B. MASSELLA DUCCI TERI, op. cit, p. 754, nota 50. 24 vd. L. SCHIUMA, Controllo, governo e partecipazione al capitale, p. 162, nota 46, CEDAM, Padova, 1997.

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demandare sempre di più all’autonomia statutaria e a ridurre la portata delle norme inderogabili, un argine contro il rischio di infeudamento della società in mano ad un gruppo ristretto di azionisti detenenti quote minime del capitale sociale. Venuto meno questo divieto è considerevolmente aumentato il rischio dell’infeudamento, soprattutto in mancanza di norme che regolamentino l’emissione da parte della stessa società di azioni a voto plurimo e di azioni senza diritto di voto. Sarebbe stato forse meglio limitare l’autonomia statutaria per evitare che, facendo leva sulla contemporanea emissione di queste due categorie di azioni, sia possibile controllare con partecipazioni davvero infime interi gruppi societari.Questo rischio ora delineato diventa ancora più concreto osservando, come già detto, che le società per azioni che abbiano emesso azioni a voto plurimo le conservano intatte nei loro diritti e nelle loro prerogative dopo un’eventuale quotazione. E’ tuttavia vero che questa previsione legislativa può essere un incentivo per l’imprenditore a quotare la propria società vedendo assai ridotto, per non dire annullato, il rischio che la diluizione della sua partecipazione porti la sua società ad essere facilmente oggetto di acquisizioni da parte di terzi. Un altro vantaggio che può essere ascritto a questo istituto è quello della continuità dell’indirizzo di gestione, essendo la società sotto lo stretto controllo di un determinato soggetto. Di contro, la possibilità di conservare le azioni a voto plurimo dopo la quotazione porta notevoli inconvenienti. Oltre al già citato rischio che grandi gruppi societari vengano controllati da chi ha in essi un investimento minimo, c’è da notare come in generale lo scollamento tra proprietà e potere è stato indicato come un elemento che tende a compromettere l’efficienza dei mercati finanziari.25 Un elemento forse di ancora maggiore importanza è costituito dal pregiudizio che l’emissione di azioni a voto plurimo reca alla contendibilità della società, ovvero di come dette azioni possono costituire un ostacolo praticamente invalicabile in caso di scalate ostili26. Critiche in questo senso sono state sollevate anche da una parte della dottrina americana, che ha appunto osservato la diffusione negli Stati Uniti dell’istituto delle azioni a voto plurimo, che in quel paese ha una lunga storia27, come strumento di difesa 25 N. ABRIANI, in N. ABRIANI, S. AMBROSINI, O. CAGNASSO, P. MONTALENTI, op. cit., p. 304. 26 N. ABRIANI, in N. ABRIANI, S. AMBROSINI, O. CAGNASSO, P. MONTALENTI, op. cit., p. 306. 27 Le azioni a voto plurimo sono inoltre diffuse anche tra le società operanti nel campo dell’alta tecnologia (Facebook, Google, etc.), dove hanno avuto un notevole successo in quanto permettono una vasta circolazione dei titoli azionari e un serrato controllo da parte dei fondatori dell’azienda, elemento che probabilmente contribuisce alla fiducia degli investitori nella società, vd. S. ALVARO, A. CIARAVELLA, D. D’ERAMO, N. LINCIANO, op. cit., p. 45.

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contro i c.d. takeover.28 Questo problema, che forse è forse il punto più delicato e più sentito riguardo all’emissione di questa categoria di titoli azionari, ha contribuito alla previsione nella direttiva 2004/25/CE, di quello che viene definito con un anglicismo una breaktrought rule, ovvero un meccanismo che porta all’annullamento del voto multiplo in caso di Opa al verificarsi di determinate condizioni. Nel recepire questa direttiva il Legislatore, però, si è limitato a lasciare all’autonomia statutaria la facoltà di prevedere o meno l’applicazione quest’istituto29, vanificando di fatto la possibilità di avere un valido strumento per arginare le criticità portate in questo campo dall’introduzione delle azioni a voto plurimo. Concludendo, la riforma (perché alla fine di questo si tratta), attuata con il decreto legge 91/2014, presenta, come tutte le cose di questo mondo, vantaggi e svantaggi e può, come è stato detto, essere un incentivo alla quotazione, essendo uno strumento che garantisce all’imprenditore una tutela dalle acquisizioni, ma allo stesso tempo si presta ad essere il mezzo ideale per controllare grandi gruppi societari con piccoli investimenti, con tutti problemi che ciò comporta. Quello che appare certo è che avrebbero potuto essere introdotti degli accorgimenti per tutelare meglio gli azionisti di minoranza,30 come - ad esempio - l’esclusione del voto plurimo per quanto riguarda materie per le quali è richiesta la maggioranza qualificata. In ogni caso bisognerà ancora aspettare per poter vedere quanto e come questo istituto verrà utilizzato a livello pratico e quali conseguenze avrà.

28 F.H. EASTERBROOK, D.R. FISCHEL, The economic structure of corporate law, Harvard University Press, Cambridge, 1991, cit. in N. ABRIANI, in N. ABRIANI, S. AMBROSINI, O. CAGNASSO, P. MONTALENTI, op. cit., p. 306. 29 S. ALVARO, A. CIARAVELLA, D. D’ERAMO, N. LINCIANO, op. cit., p. 53. 30 A. BUSANI, M. SAGLIOCCA, op. cit, p. 1057; S. ALVARO, A. CIARAVELLA, D. D’ERAMO, N. LINCIANO, op. cit., p. 61-63.

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A “L’altra metà” della riforma anticorruzione: due anni di piccoli passi Eleonora Perego “Onorevoli Senatori, la lotta alla corruzione è diventata una priorità nelle agende politiche internazionali, anche per effetto della profonda crisi che coinvolge le più avanzate economie mondiali: il diffondersi delle prassi corruttive, minando la fiducia dei mercati e delle imprese, determina, tra i suoi molteplici effetti, una perdita di competitività per i Paesi”.1 Con tale incipit, il 15 marzo 2013 è stato presentato alla Presidenza del Senato il disegno di legge n. 19 a firma del senatore Grasso e altri2: la prima significativa mossa d’attacco contro la corruzione, il voto di scambio, il falso in bilancio, il riciclaggio dopo la L. 190/2012. Un’iniziativa che non è rimasta chiusa tra le mura di Palazzo Madama, ma che ha aperto il dialogo con i cittadini italiani, attraverso una piattaforma virtuale3 dove chiunque può manifestare le proprie idee, rappresentare problemi di distorta applicazione delle leggi esistenti, commentare le proposte avanzate. Invero, sin dall’inizio della XVII legislatura, numerosi parlamentari hanno presentato proposte aventi come obiettivo l’introduzione di un’ulteriore riforma dei reati di corruzione4, unificati con il d.d.l. n. 19 di cui sopra in un unico testo il giorno 14 maggio 2014; testo che, attualmente è all’esame della Commissione giustizia del Senato. Il punto di “partenza”: La Legge Severino n. 190/2012 Per comprendere appieno la portata del d.d.l. 19 e il dibattito che sta infervorando Palazzo Madama, è necessario tracciare i punti salienti del provvedimento che ha segnato una prima inversione di tendenza nella politica 1 Dal D.d.l. del Senatore Pietro Grasso, pubblicato su http://www.senato.it/service/PDF/ PDFServer/DF/292049.pdf 2 Senatori Grasso, Astorre, Capacchione, Cirinnà, Cuomo, D’Adda, Fedeli, Gatti, Rita Ghedini, Guerrieri, Mineo, Moscardelli, Parente, Puglisi, Puppato, Saggese, Scalia, Sollo, Zanda, Bubbico, Di Giorrgi, Lucherini, Favero, Elena Ferrara, Padua, Ricchiuti, Zanoni, Albano, Orrù, Pezzopane, Lo Giudice, Spilabotte. 3 www.piattaformaperlagiustizia.it 4 Disegni di legge nn. 657, 711, 846, 847, 851 e 868.

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criminale italiana, dopo un decennio di interventi volti sistematicamente ad affievolire la capacità di risposta del sistema penale alla criminalità dei colletti bianchi. Nel corso della XVI legislatura, dopo l’approvazione della legge 116/2009, di ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite fatta a Merida nel 2003, il 31 ottobre 2012 è stata approvata definitivamente la L. 190/2012, recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”. La c.d. “Legge Severino”, dal nome dell’allora Ministro della Giustizia, in sede di approvazione ha affrontato e superato la questione di fiducia posta dal Governo Monti, cosa che non ha influito sul testo se non determinando la complessiva rinumerazione del provvedimento, che consta oggi di due soli articoli5. Tra i principali profili di intervento della Legge in chiave preventiva sono da segnalare l’individuazione nella Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (CIVIT) l’Autorità nazionale anticorruzione (il ruolo è, attualmente, ricoperto dal Dipartimento della funzione pubblica)6, a cui è assegnato il compito di individuare gli interventi per il contrasto alla corruzione e avente poteri di vigilanza, ispettivi e di rimozione di atti contrastanti con i piani anticorruzione e le regole sulla trasparenza dell’attività amministrativa. Istituita in attuazione dell’art. 6 della Convenzione di Merida del 2003 e degli artt. 20 e 21 Convenzione di Strasburgo), e l’attribuzione al Dipartimento della Funzione Pubblica del compito di predisporre un Piano Nazionale Anticorruzione (PNA), secondo le linee di indirizzo adottate da apposito Comitato interministeriale e tenuto conto dei singoli piani, triennali di prevenzione della corruzione definiti dalle amministrazioni centrali e locali sulla base dei parametri prescritti. Sono state dettate inoltre specifiche misure volte alla trasparenza dell’attività amministrativa, compresa l’attività relativa agli appalti pubblici e al ricorso ad arbitri, e nell’attribuzione di posizioni dirigenziali oltre a misure per l’assolvimento di obblighi informativi ai cittadini da parte delle pubbliche amministrazioni. Un segno, questo che il principio della trasparenza (basilare non solo del diritto costituzionale italiano, ma anche nel diritto dell’Unione europea7 è garanzia di buon funzionamento della Pubblica Amministrazione e la prima arma cui il legisla5 I 27 articoli approvati dalla Camera il 14 giugno sono diventati due: l’articolo 1, con i suoi 83 commi, contiene la disciplina sostanziale, mentre l’art. 2 reca la sola clausola di invaranza finanziaria. 6 Benedetto Bevilacqua, in “Le misure sanzionatorie amministrative e penali della Legge anticorruzione (L. 6 Novembre 2012, n.190)”, Diritto Penale Contemporaneo (http://www. penalecontemporaneo.it/upload/1369402874BEVILACQUA%202013a.pdf) 7 Si vedano: art. 97 Costituzione italiana ma anche l’art. 15 TFUE e gli artt. 41-42 Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE

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tore dovrebbe ricorrere per risolvere i problemi di corruzione. Sul piano repressivo-penalistico, la Legge Severino ha previsto che il reato di concussione (art. 317 c.p.) sia riferibile al solo pubblico ufficiale e non più anche all’incaricato di pubblico servizio. Inoltre, il reato di cui all’art. 318 c.p., relativo alla c.d. corruzione impropria del pubblico ufficiale e ora rubricato “Corruzione per l’esercizio della funzione”8 è stato riformulato in modo da rendere più evidente il confine che lo separa dalla c.d. corruzione propria di cui all›art. 319 c.p. (la quale rimane ancorata alla prospettiva del compimento di un atto contrario ai doveri d›ufficio). Sono stati anche inseriti ex novo nel codice penale gli articoli 319-quater, relativo al delitto di “Induzione indebita a dare o promettere utilità” (che richiama l’originaria c.d. concussione per induzione), che punisce sia il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che induce il privato a pagare (reclusione da 3 a 8 anni) sia il privato che dà o promette denaro o altra utilità (reclusione fino a 3 anni); e il delitto di “Traffico di influenze illecite” (nuovo art. 346-bis) che sanziona chi sfrutta le sue relazioni con il pubblico ufficiale al fine di farsi dare o promettere denaro o altro vantaggio patrimoniale come prezzo della sua mediazione illecita. Le novità del d.d.l. “Grasso” L’applicazione della L. 190/2012, invero, ha evidenziato la necessità di ulteriori provvedimenti volti a completare il provvedimento, a modificarlo, a precisarlo, nonché a inasprire le sue previsioni, per certi versi ancora troppo blande per la lotta contro la corruzione. Il testo unificato e ad oggi in discussione al Senato non tocca in verità l’impianto generale delle riforma del 2012 sotto il profilo della descrizione delle fattispecie criminose9, tuttavia introduce importanti novità, che segnano una nuova svolta nella battaglia al fenomeno corruttivo nelle sue molteplici manifestazioni. Oltre a prevedere una maggiore efficacia delle pene acces8 Nella versione precedente, l’art. 318 c.p. era rubricato “Corruzione per un atto d’ufficio”. L’attuale testo, invece, recita: “Il pubblico ufficiale, che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, riceve indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.” La riforma del 2012 ha eliminato il riferimento al compimento di “atti”, e l’espressione “esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri” rimanda genericamente a qualunque attività che sia esplicazione diretta o indiretta dei poteri inerenti all’ufficio. 9 Francesco Viganò in “I delitti di corruzione nell’ordinamento italiano: qualche considerazione sulle riforme già fatte, e su quel che resta da fare”, Relazione al Congresso italospagnolo svoltosi presso l’Università degli Studi di Milano il 29 e 30 maggio 2014, Diritto Penale Contemporaneo.

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sorie (art. 32-ter e quinques) e in generale un maggior inasprimento del massimo edittale della pena per la corruzione propria (art. 319 c.p., nel d.d.l. dieci anni), la induzione indebita (319-quater c.p. la cui nuova cornice edittale va dai quattro ai dieci anni), viene ripristinata, nell’art. 317 c.p. l’equiparazione tra pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio. Viene inoltre abrogato il secondo comma dell’art. 319-quater c.p., proponendo così di eliminare la punibilità del privato vittima degli abusi del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio. Tra i punti di svolta anche la riforma dell’articolo 416-ter c.p., che persegue lo scambio elettorale politico-mafioso10: la norma viene infatti riformulata con l’aggiunta della voce “altra utilità” tra le ragioni dello scambio, con l’effetto di allargare l’applicazione della legge stessa. A tal proposito, il Presidente del Senato Grasso ha chiarito che tale riforma segue la linea d’azione di Libera e del Gruppo Abele11 con la campagna “Riparte il futuro”. L’introduzione nel nostro ordinamento di una fattispecie unificata di riciclaggio e auto riciclaggio, per rispondere alle indicazioni contenute nelle direttive comunitarie in materia12, nonché nella Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale. Al centro del d.d.l., inoltre la modifica all’art. 161 c.p., con la quale si stabilisce che l’interruzione dei termini di prescrizione per i delitti di corruzione non può comportare l’aumento di più della metà del tempo necessario a prescrivere, e il ripristino della punibilità del falso in bilancio Sul punto, il Presidente Grasso ha evidenziato come le riforme al diritto penale commerciale del 2002 abbiano pregiudicato in maniera gravissima l’affidamento dei terzi facendo venir meno la trasparenza dei bilanci delle società. Viene così riformulata integralmente la disciplina, soprattutto attraverso l’eliminazione delle cause di non punibilità13. 10 L’articolo recita: “La pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416-bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416bis in cambio della erogazione di denaro”. 11 Attualmente Libera è un coordinamento di oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate per costruire sinergie politico-culturali e organizzative capaci di diffondere la cultura della legalità, e con il principale intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia (da: http://www.libera.it/ flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/41). Gruppo Abele, invece, è un’associazione nata a Torino nel 1965 e fondata da don Luigi Ciotti, con l’impegno di saldare l’accoglienza delle persone con la cultura e la politica, prestare aiuto a chi è in difficoltà e cercare di rimuovere così tutto ciò che crea emarginazione, disuguaglianza, smarrimento. 12 In particolare la direttiva 2005/60/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 ottobre 2005, e la direttiva 2006/70/CE della Commissione, del 4 agosto 2006 13 Oggi, invece, chi falsifica il bilancio, se non supera per ogni singola operazione falsificata

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A Un tira-e-molla al Senato: i punti infuocati Alla data del 4 dicembre 2014, l’esame del d.d.l. è risultato sospeso in attesa dell’annunciata presentazione da parte del Governo di una propria proposta in materia di riforma dei reati di corruzione14. Ma è soltanto dalla fine del mese di gennaio del nuovo anno che gli animi della politica si sono risvegliati e hanno iniziato a tradurre le parole in fatti. Il 4 febbraio 2015, il Ministro della Giustizia Andrea Orlando e il viceministro Enrico Costa, al termine di un vertice di maggioranza, hanno annunciato il raggiungimento di un accordo della maggioranza sul testo, rispondendo così all’eco del Presidente del Consiglio Matteo Renzi, che ha voluto parlare anche di “una questione educativa, culturale”, per spiegare che non bastano le leggi a combattere la corruzione. Da tal giorno i quotidiani hanno dato il via ad una appassionata cronistoria delle ore, dei giorni, delle settimane di Palazzo Madama, per seguire l’incessante saliscendi di emendamenti, votazioni, rinvii, ostruzionismi che si sono susseguiti negli ultimi due mesi, e che anche in questi giorni non dà cenno di arrestarsi. Un primo scioglimento dell’intricata matassa di proposte di riforma si è avuto con l’approvazione, in Commissione giustizia al Senato, di un emendamento presentato dal Movimento Cinque Stelle, che aumenta le pene, minima e massima, per il reato di corruzione compiuto da pubblici ufficiali. Ad oggi, dunque, si passa da quattro a sei anni per il minimo edittale, e da otto a dieci anni per il massimo edittale15. Viceversa, è stato bocciato l’innalzamento della pena minima e massima per il reato di induzione indebita da parte dei pubblici ufficiali, tale per cui il testo dell’articolo 319-quater c.p. rimane quello tutt’ora in vigore. In tema di prescrizione, la riforma del d.d.l. del Senatore Grasso (v. supra), che allunga della metà i termini per i reati di corruzione, fino ad arrivare a un massimo di diciotto anni, ha avuto un forte impatto in Parlamento: numerosi sono stati gli ostruzionismi, le spaccature all’interno della maggioranza così come in tutte le altre forze politiche, tali da causare un rilevante rinvio sull’esame della questione. Secondo le ultime notizie, nel testo del disegno di legge giunto in aula, i termini di il 10 per cento del valore reale della singola operazione o non supera importi consistenti rispetto al valore dell’attività societaria, non è punibile. 14 Il 23 dicembre 2014 il Governo ha presentato alla Camera dei Deputati il testo di un disegno di legge recante “Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale per il rafforzamento delle garanzie difensive e la durata ragionevole dei processi e per un maggiore contrasto al fenomeno corruttivo, oltre che all’ordinamento penitenziario per l’effettività rieducativa della pena”. 15 Il Giornale, 25 febbraio 2015.

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prescrizione sono stati raddoppiati. Uno dei punti più controversi concerne ancora, ad oggi, il regime sanzionatorio del reato di falso in bilancio: i primi giorni di Marzo vi era stata la significativa proposta di un emendamento da parte del Governo, trasmesso al ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi, grazie al quale il testo non prevedeva più soglie di non punibilità né in percentuale né rispetto al volume d’affari, mantenendo una distinzione solo tra società quotate (che sono la stragrande maggioranza) e non quotate e abbassando la pena per queste ultime. Ci si preparava ad un vero passo in avanti, dal momento che il d.d.l originario del governo (v. supra) prevedeva soglie di non punibilità per le società non quotate. Tuttavia, in data 19 marzo, la Commissione giustizia del Senato (il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva infatti precisato che l’emendamento non sarebbe approdato direttamente in aula), ha approvato l’emendamento includendo la previsione sulla “tenuità del fatto”16 per il falso in bilancio, che rischia di indebolire, ancora, la certezza della sanzione apportata in origine anche per le società non quotate. Con ciò la Commissione di Palazzo Madama ha finalmente ultimato l’esame del disegno di legge anticorruzione e, lo stesso giorno, vi è stata la relazione in aula, mentre il voto è stato rinviato alle prossime settimane. L’intricata questione della punibilità del privato nell’art. 319-quater (II) c.p.: la Sentenza “Maldera”17 Merita una nota di riflessione, alla luce dell’approdo del disegno di legge in aula, l’attuale vigenza del secondo comma dell’art. 319-quater c.p.18, che pare non abbia subito modifiche (contrariamente alla proposta del Senatore Grasso). Rimane, dunque, la punibilità per il privato che è indotto da un pubblico ufficiale a dare o promettere denaro o altra utilità. La sentenza “Maldera” delle Sezioni Unite ha avuto infatti origine dal con16 Quando l’entità del danno è esigua, sono previste misure che consentono al giudice di archiviare direttamente il processo. 17 Cassazione Penale, Sez. Un. 14 marzo 2014, n. 12228, Maldera. 18 Il testo dell’art. 319-quater ad oggi vigente, rubricato, “Induzione indebita a dare o promettere utilità”, recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità è punito con la reclusione da tre a otto anni. Nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità è punito con la reclusione fino a tre anni.”.

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trasto giurisprudenziale alimentato dalla formulazione equivoca, poco chiara, utilizzata dal legislatore della L. 190/2012 (v. supra) nell’introdurre l’ulteriore fattispecie di reato dell’art. 319-quater c.p.. L’ambiguità della figura emerge soprattutto nella sua posizione nell’ordinamento penale, a metà strada tra le riformate figure di concussione e corruzione19: essa non solo non ha risolto il problema del rapporto tra concussione e corruzione (che sussiste da sempre nel campo dei delitti contro la pubblica amministrazione), ma ha anche introdotto altri quesiti interpretativi non meno complessi, e che riguardano i rapporti tra induzione indebita, concussione e corruzione. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono dunque intervenute all’interno di un quadro normativo divenuto eccessivamente complesso e frammentato, fornendo quei principi e criteri direttivi che mancavano alla prassi e rinvenendoli da un lato nella ratio legis della disposizione, e dall’altro nel sistema, a partire dai principi costituzionali che lo fondano. In particolare, esse si sono pronunciate sulla rilevante questione interpretativa posta dalla riforma del 2012: “quale sia la linea di demarcazione tra la fattispecie di concussione (prevista dal novellato art. 317 c.p.) e quella di induzione indebita a dare o promettere utilità (prevista dall’art. 319-quater c.p. di nuova introduzione) soprattutto con riferimento al rapporto tra la condotta di costrizione e quella di induzione e alle connesse problematiche di successine di leggi penali nel tempo”. La chiave di lettura20 della sentenza sta nel circoscrivere l’ambito della concussione, e pertanto degli spazi di impunità del privato, attraverso una nozione restrittiva di “costrizione”: del fatto risponde anche il soggetto indotto, l’extraneus che “… non costretto ma semplicemente indotto da quanto prospettatogli dal pubblico funzionario disonesto, effettui in favore di costui una dazione o una promessa indebita di denaro o di altra utilità”. Proprio la punibilità dell’indotto, affermano le Sezioni Unite, costituisce una fondamentale premessa per affrontare “il vero cuore del problema, che risiede nell’individuazione della linea di confine tra la costrizione e l’induzione”. Ciò perché la prima scelta che i giudici in concreto sono chiamati a compiere riguarda la sussunzione della fattispecie alternativamente nella concussione (che comporta l’impunità del privato) ovvero nell’induzione indebita (che assoggetta l’indotto a una pena seppur lieve). Solo successivamente, escluso che il fatto rientri nell’art. 317 c.p., sempre all’interno di una logica negoziale, si dovrà qualificare il fatto ex art. 318 c.p. 19 Gian Luigi Gatta, in “La concussione riformata, tra diritto penale e processo. Note a margine di un’importante sentenza delle Sezioni Unite”, Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2014, n. 3. 20 Si veda la nota 19.

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o ex art. 319-quater c.p. Ecco perché la Cassazione ha proceduto a tracciare il confine tra concussione e indebita induzione (termini evincibili dal dato normativo). Quest’ultima nozione si ricava essenzialmente in negativo: “ … il verbo indurre spiega una funzione di selettività residuale rispetto al verbo costringere presente nell’art. 317 c.p., … quei comportamenti del pubblico agente, pur sempre abusivi e penalmente rilevanti, che non si materializzano però nella violenza o nella minaccia di un male ingiusto e non pongono il destinatario di essa di fronte alla scelta ineluttabile ed obbligata tra due mali parimenti ingiusti”. Le Sezioni Unite, dunque, si sono servite di parametri oggettivi: un primo criterio risiede nella dicotomia “minaccia – non minaccia”, ed impone quindi di interpretare i concetti di “violenza” e di “minaccia”. Differentemente dalla concussione, le modalità della condotta induttiva sono sì forme di pressione psichica, ma differenti, più o meno ai margini della minaccia (esse accolgono la persuasione, la allusione, il silenzio e persino l’inganno e altro). Un secondo criterio risiede nell’alternativa posta di fronte al privato: mentre nella concussione si prospetta un male ingiusto, nell’induzione indebita si presenta un “vantaggio indebito” al privato, il quale rimane sedotto dalla prospettiva del pubblico agente, e persegue interessi privati a danno di interessi pubblici. In definitiva, chi effettua la dazione o anche solo la promessa dell’indebito ne risponde penalmente, salva l’ipotesi in cui l’indebito venga “estorto (o carpito fraudolentemente) dall’agente pubblico, ossia salvo il caso in cui il privato subisca un’offesa a interessi facenti capo alla propria persona, rimanendo vittima di un abuso di potere incarnato in un atto di vera e propria sopraffazione”. Una lente di ingrandimento sui numeri della corruzione e il “primato” dell’Italia E intanto, sembra che nell’Italia della “crisi”, nell’Italia povera, il grande flusso di denaro spostato dal fenomeno corruttivo non si arresti e, anzi, si muova sempre più velocemente. All’inizio dell’anno giudiziario 2014, il procuratore generale aggiunto della Corte dei Conti, Maria Teresa Arganelli, ha illustrato nella sua relazione delle cifre impressionanti: la corruzione in Italia vale circa 60 miliardi di euro l’anno (il 4% del Pil nazionale), a fronte dei soli 75 milioni di euro inflitti quali condanne di primo grado. Anche il rapporto annuale dell’O.N.G. internazionale “Transparency International”, ossia il “Corruption Perception Index 2014”, rileva l’impietosa realtà

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del momento: l’Italia è prima per corruzione tra i paesi dell’Ue, e occupa il 69esimo posto nella classifica generale (già così nel 2013) composta da 175 paesi del mondo, al pari della Grecia e della Bulgaria. In sostanza, il nostro paese si colloca tra le nazioni al mondo che non raggiungono neppure la sufficienza in trasparenza21. Un segno estremamente negativo per l’Italia, ma prevedibile se non scontato, visti i recenti scandali e fallimenti dell’Expo e del Mose, e visto il ritardo con cui il nostro Paese sta rispondendo alle sollecitazioni europee in tema di autoriciclaggio, prescrizione, falso in bilancio, sensibilizzazione dell’opinione pubblica e whistleblowing22. Il danno della corruzione, una “zavorra per lo sviluppo23 Riprendendo le parole del Presidente del Senato Grasso, espresse nel d.d.l., “… la corruzione ostacola lo sviluppo economico e contrasta con i princìpi di buon governo e di etica della politica e che, specie se di livello «sistemico», finisce con il costituire una minaccia per lo Stato di diritto, la democrazia, il principio di eguaglianza e la libera concorrenza …”. I costi, anche solo percepiti, del fenomeno corruttivo, infatti, sono enormi, in primo luogo quelli economici, in particolare l’impatto di questi costi sulla crescita del Paese: la corruzione diffusa altera, innanzi tutto, la libera concorrenza e favorisce la concentrazione della ricchezza in capo a coloro che accettano e beneficiano del mercato della tangente a scapito di coloro che invece si rifiutano di accettarne le condizioni. In secondo luogo rilevano i costi indiretti, quali quelli derivanti dai ritardi nella definizione delle pratiche amministrative, nonché dal cattivo funzionamento degli apparati pubblici e dei meccanismi previsti a tutela degli interessi collettivi. Infine, ma non meno importanti, sono i costi di sistema, non misurabili in termini 21 Huffington Post, 3 dicembre 2014. Si noti che l’indice dell’O.n.g. internazionale è un termometro che si basa utilizzando 12 differenti fonti di dati da ben 11 diverse istituzioni internazionali che registrano la percezione della corruzione nel settore pubblico negli ultimi due anni. 22 Per questo motivo Transparency ha lanciato in Italia un servizio Allerta Anticorruzione: una piattaforma online (alac.transparency.it) nella quale il cittadino può accedere e segnalare presunti casi di malaffare. E lo può fare anche in forma anonima. Milano e Roma sono state le prime città che hanno usufruito con successo dell’iniziativa. L’Agenzia delle Entrate, come già previsto dalla L. 190/2012, con la pubblicazione di un “piano triennale di prevenzione alla corruzione”, il 30 Gennaio 2015 ha emanato un provvedimento che consente di far partire le azioni concrete relative al nuovo strumento di denuncia anonima contro la corruzione, mediante una piattaforma di comunicazione anonima e crittografata. 23 Titolo di un numero dello scorso dicembre di Scenari economici del Centro studi Confindustria, “La corruzione zavorra per lo sviluppo”.

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economici, ma fondamentali perché minano i valori che tengono insieme l’assetto democratico, quali, tra gli altri, l’eguaglianza, la fiducia nelle Istituzioni e la legittimazione democratica delle stesse. Ieri si è detto “domani” In definitiva, non si può fare altro che notare come l’esame degli originari disegni di legge presentati nel 2013 dal Senatore Grasso e nel 2014 dal Governo hanno attraversato un iter di arresti, rinvii, rallentamenti e ripartenze. Non da ultimo, la conferenza dei capigruppo di palazzo Madama ha deciso di mettere in calendario nella settimana dal 17 al 19 marzo quello che avrebbe dovuto concludersi nella prima settimana di marzo, con un susseguirsi di slittamenti che sembra non avere fine. Sono quasi due anni che i cittadini italiani e l’Unione europea aspettano nuove regole da parte del Paese contro la piaga della corruzione: e nelle more del procedimento, continuano gli ostruzionismi da parte di tutte le forze politiche, che hanno contribuito a impantanare i lavori già lenti della Commissione. Ad oggi, finalmente, il disegno di legge è giunto in aula, ma la strada per la votazione e il raggiungimento della certezza del diritto sembra senza fine.

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A La direttiva UE 2014/104 e il nuovo regime di risarcimento del danno da illecito Antitrust Roberta Zappalà

È stata pubblicata in data 25 dicembre 2014 una direttiva dell’Unione Europea che si aspettava da tempo: la direttiva 2014/104/UE1. Lo scopo di quest’ultima è quello di facilitare, finalmente, a livello europeo, il risarcimento dei danni derivanti da condotte anticoncorrenziali e da altre violazioni della normativa a tutela della concorrenza; ancora oggi sono infatti molti gli Stati membri a non avere previsto all’interno del proprio ordinamento un quadro efficace di risarcimento dei soggetti danneggiati. Chi ritiene di essere tra gli specifici destinatari di tale danno quindi non dovrà più, grazie a questa direttiva, dimostrare che determinate pratiche anticoncorrenziali (ad es. un’intesa sui prezzi di beni o servizi ovvero sulla spartizione di clienti ovvero ancora sulla manipolazione di gare di appalto) abbiano prodotto effetti dannosi, ma dovrà invece solamente provare che gli effetti dannosi (ora, presunti ex lege) si sono prodotti nella sua sfera economica e sono di una determinata entità. Numerosi sono poi gli altri aspetti rilevanti come quelli riguardanti la l’accesso alle prove rilevanti, la divulgazione degli elementi di prova, i limiti a tali diritti e le sanzioni finalmente previste per l’inottemperanza delle disposizioni previste, l’effetto da riconoscere alle decisioni nazionali e tanti altri. La disomogeneità legislativa tra gli stati da un lato, e una serie di limiti in capo al soggetto leso dall’altro, rendono, oggi, questo tipo di risarcimento molto difficile da ottenere e l’inerzia da parte dei legislatori nazionali, ove tollerata, finisce per tradursi in una lesione del diritto a un ricorso effettivo e ad un’efficace tutela giurisdizionale, come stabilito anche all’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Ecco quindi che tramite l’intervento di questa direttiva si potrà finalmente porre rimedio a questa situazione attraverso l’obbligo imposto agli stati 1 È possibile trovare a questo indirizzo l’intero testo della direttiva: http://eur-lex.europa. eu/legalcontent/IT/TXT/?uri=CELEX: 32014L0104

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membri UE di modificare le proprie disposizioni interne qualora fossero in contrasto con il raggiungimento di un effettivo ed equo indennizzo a favore dei danneggiati. Al contempo essa definisce le modalità di coordinamento tra i due canali di applicazione delle disposizioni a tutela della concorrenza, ossia l’applicazione a livello privatistico (c.d. private enforcement) e l’applicazione a livello pubblicistico da parte delle autorità garanti della concorrenza degli Stati membri (c.d. public enforcement). La direttiva dovrà essere recepita dagli stati membri entro il 27 dicembre 2016 e al fine di raggiungere gli scopi prefissati incentiverà l’uso delle cd.”follow-on actions in” in tutto il territorio. Base giuridica La base giuridica della direttiva è composta dagli artt. 103 e 1142 del TFUE, in quanto essa persegue due scopi parimenti importanti e indissolubilmente legati fra loro: da un lato l’attuazione dei principi di cui agli articoli 101 e 102 del TFUE e, dall’altro lato, l’adozione di condizioni più uniformi per le imprese che operano nel mercato interno, evitando che un approccio eccessivamente disomogeneo da parte degli Stati membri a questi temi finisca per tradursi in discriminazioni a danno di alcuni cittadini e imprese per i quali l’esercizio dei diritti che discendono dai Trattati potrebbe risultare meno favorevole. Contenuto Innanzitutto è opportuno analizzare, almeno nelle loro linee generali, gli aspetti principali su cui si concentra il testo della direttiva. Già dal capo II è possibile individuare le disposizioni più innovative, quelle che disciplinano l’accesso agli elementi di prova da porre a sostegno della domanda di risarcimento e i suoi limiti (artt. 5 e 8). Questo aspetto è decisivo nell’ottica di garantire un’effettiva tutela ai soggetti vittime di un illecito antitrust, perché essi, generalmente, non dispongono dei documenti necessari per la dimostrazione degli elementi costitutivi della fattispecie, disponibili invece solo alle autorità che hanno compiuto le indagini. I giudici nazionali dovranno essere dotati del potere di ordinare, su istanza motivata di parte, la divulgazione delle prove rilevanti in possesso dell’altra parte o di terzi, secondo un criterio di proporzionalità e con adeguate misure di tutela delle informazioni riservate, vista la delicatezza del tema e 2 Il ricorso all’art. 114 del TFUE si è reso necessario proprio perché l’atto UE incide anche sulle norme nazionali

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l’impossibilità per il giudice dell’UE di derogare al principio di autonomia procedurale degli Stati membri, sostituendosi al legislatore dell’Unione. Al soggetto cui è richiesta la divulgazione dovrà essere garantita la possibilità di essere preventivamente sentito dal giudice. Per le prove incluse nel fascicolo di un’autorità garante della concorrenza sono previsti alcuni limiti In particolare (una vera e propria “black list” di documenti di cui non può mai essere chiesta l’esibizione), le dichiarazioni legate a un programma di clemenza e le proposte di transazione sono rigorosamente sottratte alla divulgazione e, qualora ottenute grazie l’accesso al fascicolo di un’autorità di concorrenza, sono inammissibili nelle azioni risarcitorie. Gli Stati membri dovranno prevedere sanzioni per l’inottemperanza all’ordine di divulgazione o agli obblighi imposti dal giudice a tutela di informazioni riservate, per la distruzione di prove rilevanti e per la violazione dei limiti all’uso delle prove previsti dalla direttiva. Il problema del tipo di effetto da riconoscere alle decisioni nazionali è invece trattato nel capo III della direttiva. A tale proposito l’art. 9 prevede che una decisione definitiva di un’autorità nazionale garante della concorrenza (di seguito AGN), che abbia accertato una violazione degli artt. 101 e 102 del TFUE, costituisca “automaticamente” la prova di tale violazione dinanzi ai giudici dello stesso Stato membro in cui si è verificata l’infrazione3. L’effetto vincolante però riguarda soltanto le decisioni adottate dall’AGN dello Stato membro a cui appartiene il giudice adito. Per le decisioni adottate dalle autorità di altri Stati membri la direttiva richiede invece che siano utilizzabili almeno a titolo di prova. La direttiva interviene anche in tema di prescrizione dell’azione risarcitoria (art. 10). E’ previsto che il termine di prescrizione sia sospeso o, a seconda del diritto nazionale, interrotto se un’autorità di concorrenza ha avviato un procedimento sulla stessa fattispecie oggetto dell’azione risarcitoria; la sospensione non può protrarsi oltre un anno dal momento in cui la decisione relativa alla violazione è diventata definitiva o dopo che il procedimento si è chiuso in altro modo. Viene fissato un regime di responsabilità solidale tra imprese che hanno violato congiuntamente il diritto della concorrenza con il proprio compor3 http://www.eurojus.it/la-direttiva-sul-risarcimento-del-danno-da-illecito-antitrust-armonizzazione-delle-regole-nazionali-in-tema-di-private-enforcement-o-occasione-mancata/

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tamento (art. 11): ciascuna di esse è tenuta a risarcire l’intero danno e il danneggiato può esigere da ciascuna il pieno risarcimento fino ad essere totalmente risarcito. Sono previste due deroghe al regime della responsabilità solidale, per i casi in cui la violazione sia stata commessa da una piccola o media impresa e per i casi in cui l’impresa convenuta abbia ottenuto l’immunità dalla sanzione in applicazione di un programma di clemenza4. Un insieme di disposizioni della direttiva è poi dedicato alla questione del trasferimento del sovrapprezzo (Capo IV, artt. 12-16), In sostanza tali disposizioni mirano, da un lato a riconoscere che il risarcimento del danno spetti a quel “chiunque” di giurisprudenziale affermazione; dall’altro lato che siano evitati casi di arricchimento senza causa, ovvero siano concessi risarcimenti del danno superiori al danno effettivamente subito dall’attore. La direttiva affida alla Commissione il compito di emanare linee guida per i giudici nazionali sulle modalità di stima della parte del sovrapprezzo trasferita sull’acquirente indiretto. In tema di quantificazione del danno (art. 17), la direttiva richiede che i giudici nazionali abbiano il potere di stimare l’ammontare del danno quando esso non possa essere accertato con esattezza in base alle prove disponibili e la facoltà di chiedere l’assistenza dell’autorità nazionale di concorrenza. Il secondo paragrafo dell’art. 17, peraltro, introduce una presunzione della sussistenza di un danno qualora la violazione delle norme sulla concorrenza consista in un “cartello”, poiché in questo caso è quasi sempre presente un sovrapprezzo illegale. La direttiva contiene infine alcune disposizioni sugli strumenti di composizione consensuale delle controversie (Capo V, artt. 18 e 19), nell’ottica di favorirne l’utilizzo in alternativa alle ordinarie azioni risarcitorie dinanzi ai giudici. In particolare, è previsto che il termine di prescrizione dell’azione risarcitoria sia sospeso per la durata del procedimento di risoluzione stragiudiziale e che i giudici abbiano il potere di sospendere fino a due anni l’eventuale procedimento concomitante. La conclusione di una transazione consensuale comporta la riduzione della richiesta di risarcimento presentata dal soggetto leso dall’infrazione antitrust per la quota di danno imputabile al soggetto con cui è stato raggiunto l’accordo; la parte rimanente del risarcimento grava sui coautori dell’infrazione che non hanno partecipato alla transazione, salvo che questi siano nell’impossibilità di pagare. 4 La norma prevede peraltro un regime di favore per le piccole e medie imprese come definite nella raccomandazione 2003/361/CE della Commissione, che, a determinate condizioni e fatte salve alcune deroghe, potranno essere ritenute responsabili solo nei confronti dei propri acquirenti diretti ed indiretti.

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La direttiva si chiude con il Capo VII dedicato alle disposizioni finali. Per il recepimento della direttiva da parte degli Stati membri è fissato il termine ultimo del 27 dicembre 2016. E’ previsto che le misure nazionali adottate per rispettare le disposizioni sostanziali della direttiva non si applichino retroattivamente; per le altre misure nazionali di recepimento è esclusa l’applicazione alle azioni risarcitorie intentate prima del 26 dicembre 20145. Appare quindi evidente come, nonostante le novità introdotte fossero già da tempo attese, lasciano ancora spazio ad ulteriori miglioramenti e approfondimenti; in particolar modo la direttiva presenta dei dubbi interpretativi che verranno molto probabilmente colmati dai prossimi interventi di soft law da parte della Commissione. Assisteremo dunque ad un quadro di maggiore trasparenza e certezza del diritto grazie ad un’armonizzazione, che non era ancora stata eseguita, delle regole nazionali.

5 http://www.assonime.it/AssonimeWeb2/dettaglio.jsp?id=256446&idTipologiaDettagl io=372

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A Legislazione Comunitaria in tema di OGM: bilanciamento di competenze tra Unione Europea e Stati Membri alla luce della direttiva 2001/18/CE Dario Valoncini Il percorso legislativo in materia di Organismi Geneticamente Modificati1 è a livello europeo in continuo sviluppo, naturale conseguenza dell’evoluzione scientifica e tecnologica nel loro campo di applicazione. All’interno di questo percorso evolutivo di continua revisione della normativa vigente i due attori principali sono indubbiamente la Commissione Europea (organo esecutivo e parzialmente legislativo) e l’EFSA – European Food Safety Authority, un’agenzia ad hoc che si occupa principalmente di sicurezza alimentare2. Il percorso evolutivo della produzione normativa dagli “anni’ 90” ad oggi Prima di analizzare la travagliata storia legislativa europea in materia di OGM e i suoi recenti sviluppi è bene sapere di cosa si occupa l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare. Il ruolo di quest’Agenzia Europea, nata a Parma nel 2002, viene definito all’interno del regolamento n.1829/2003 e dalla direttiva 2001/18/CE. Tra i suoi impieghi principali ci sono la consulenza scientifica e comunicazione di rischi, esistenti ed emergenti, collegati a tematiche alimentari. Mentre la Commissione europea e gli stati membri sono incaricati di autorizzare o meno l’utilizzo di OGM sul territorio europeo o nazionale, la valutazione tecnica e scientifica di ogni prodotto OGM e dei potenziali rischi derivanti da questi per la salute ambientale, umana e animale, è compito dell’agenzia. Il compito dell’EFSA non riguarda esclusivamente la valutazione dei rischi relativi a OGM ma qualunque problematica relativa alla sicurezza del cibo e della catena alimentare. Tra i precedenti 1 Come risulta dal sito dell’EFSA: “Per “organismo geneticamente modificato” (OGM) si intende un organismo il cui materiale genetico è stato modificato con modalità che non avvengono naturalmente per fecondazione e/o per ricombinazione naturale. Gli OGM possono essere vegetali, animali o microrganismi quali batteri, parassiti e funghi.” 2 The European Food Safety Authority (EFSA) is the keystone of European Union (EU) risk assessment regarding food and feed safety. In close collaboration with national authorities and in open consultation with its stakeholders, EFSA provides independent scientific advice and clear communication on existing and emerging risks. EFSA is an independent European agency funded by the EU budget that operates separately from the European Commission, European Parliament and EU Member States.

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già analizzati da questa istituzione ritroviamo infatti studi sulla sicurezza di alcuni ingredienti alimentari allergenici, fitofarmaci e problematiche di sanità veterinaria (es. Influenza aviaria, encefalopatia spongiforme bovina3). La valutazione sulla sicurezza alimentare dei nuovi prodotti è il primo di una serie di parametri che EFSA analizza al fine di autorizzarne l’immissione in commercio. Una commissione specializzata nello studio di OGM si occupa di analizzare i profili relativi all’allergenicità, microbiologia, tossicologia e genetica molecolare di ogni prodotto prima della sua messa in circolazione. La lunga storia legislativa della normativa europea OGM nasce nel 1990 con l’emanazione di due Direttive connesse tra di loro, la Direttiva 90/219/CEE e 90/220/CEE del 23 aprile 1990. Rispettivamente, queste due direttive, disciplinavano l’impiego confinato di microrganismi geneticamente modificati4 e l’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati, recepite rispettivamente nei decreti legislativi n.91 e n.92 del 3 marzo 1993. Al di là di profili tecnici e scientifici5, che non verranno discussi in questa sede, le principali innovazioni procedurali e legislative riguardano il ruolo degli stati membri all’interno del processo autorizzativo dei prodotti OGM. All’articolo 4 della direttiva 90/220/CE troviamo infatti quelli che sono alcuni dei doveri degli stati membri e i confini alla loro autonomia. É necessario, infatti, che si tenga osservanza delle procedure di notifica e autorizzazione disposte all’interno della direttiva e che l’autorità nazionale designata (per l’Italia è il Ministero della Salute) svolga compiti d’ispezione e protezione delle informazioni riconosciute di natura confidenziale. Dal 3 La BSE è stata diagnosticata per la prima volta nel 1986. Dal 1989 la Commissione europea e gli Stati membri dell’UE mettono a punto una serie completa di misure per gestire il rischio di BSE nell’Unione europea (UE). Esistono due forme di BSE: quella classica e quella atipica. Per il momento è stato dimostrato che soltanto l’agente infettivo responsabile della BSE classica può essere trasmesso all’uomo. 4 Escludendo quindi dal suo campo di applicazione i seguenti aspetti; conservazione, coltura, trasporto, distribuzione, smaltimento e impiego di MGM (Microrganismi Geneticamente Modificati). 5 I principali elementi tecnici e scientifici delle direttive 219 e 220 sono i seguenti: - gli organismi geneticamente modificati sono classificati in gruppo I (non patogeni, innocui per l’ambiente) e in gruppo II (tutti gli altri); - le operazioni di ricerca e di sviluppo sono distinte in tipologia A riguardante quelle su scala limitata e tipologia B, di natura industriale e commerciale; - gli utilizzatori di organismi geneticamente modificati hanno l’obbligo di procedere alla valutazione preventiva dei possibili rischi biologici e di prendere adeguate misure di protezione della salute umana e dell’ambiente;

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punto di vista pratico si nota l’assenza di una vera e propria autonomia decisionale, da parte degli stati membri i quali, oltre ai normali doveri di controllo e notifica, rimangono vincolati alle decisioni prese da Bruxelles. La produzione normativa, tuttavia, negli anni a seguire non si è fermata e anzi è diventata più produttiva che in precedenza. Negli anni a cavallo della fine del millennio si apre un periodo di moratoria di fatto da parte dell’Unione Europea nei confronti dell’immissione dei prodotti e dei derivati OGM. La direttiva 219/90 è stata infatti modificata con la direttiva 98/81/ CE e, da ultimo, abrogata dalla direttiva 2001/18 che ha recato le nuove disposizioni che si applicano a partire dal 17/10/2001.6 All’interno del suo testo la direttiva 2001/18 sottolinea la validità e ancor più la necessità del principio di precauzione in ambito di OGM. Questo principio si fonda sulla necessità di precauzione nella gestione del rischio su tematiche di natura ambientale o relative alla salute di esseri umani, animali o vegetali. Il principio di precauzione si basa su tre elementi fondamentali, che è necessario verificare per l’adozione di qualsiasi pratica considerata potenzialmente pericolosa per le categorie sopracitate: l’identificazione di potenziali rischi derivati dall’adozione della pratica, un’attenta valutazione scientifica di quest’ultima e l’assenza di certezza scientifica che permetta di escludere la presenza dei rischi potenziali prima della messa in atto della pratica stessa. L’Unione Europea basa su questo principio, frequentemente usato nel diritto internazionale7, molte delle proprie politiche che interessano la salute dell’ambiente e dei suoi abitanti. Senza dubbio uno dei temi all’interno dei quali viene utilizzato questo principio è l’introduzione di prodotti OGM nel mercato Europeo. Oltre a questo richiamo del principio di precauzione, la direttiva prevede che l’autorizzazione per l’emissione nell’ambiente di prodotti OGM sia a tempo determinato e che si svolga una valutazione dell’impatto ambientale del prodotto più severa di quella sancita nelle precedenti fonti normative.8 Nel 2003 sono inoltre emanati due Regolamenti 1829/2003/CE e 1830/2003/CE concernenti l’autorizzazione e la tracciabilità di alimenti e 6Normativa sugli OGM http://www.camera.it/cartellecomuni/leg14/RapportoAttivitaCommissioni/testi/13/13_cap09_sch01.htm 7 “Il principio di precauzione è un’espressione coniata in Germania negli anni 1970 e divenuta di uso corrente alla fine degli anni 1990, in seguito all’esigenza percepita a livello internazionale di definire un livello di compatibilità tra lo sviluppo tecnico-scientifico, necessario al progresso dell’umanità, e il controllo dei rischi e delle minacce associate a tale sviluppo.” Enciclopedia Treccani 8 La direttiva è stata recepita all’interno dell’ordinamento italiano con il D.lgs. n. 224/2003

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mangimi derivati da OGM (Food & Feed). Questi due Regolamenti vanno a coprire quegli aspetti pratici riguardanti la commercializzazione e la produzione, spesso di massa, di tali prodotti. La necessità di una normativa a riguardo è inequivocabile, viste nel contesto europeo non solo la capacità produttiva del settore primario ma anche di quello terziario, nella fattispecie legato al commercio. Proprio il discorso della tracciabilità di alimenti e mangimi diventa di fondamentale importanza nel momento in cui il mercato europeo è composto da grandi esportatori di prodotti finiti ma è un grande importatore di prodotti grezzi, in particolar modo agricoli. Si pensi infatti al numero sempre crescente delle importazioni da parte dell’Unione Europea nei confronti di prodotti come mais e soia provenienti da Brasile, Stati Uniti d’America e Cina, da sempre dei giganti nel mercato.9 Basti pensare che solo nel Belpaese vengono utilizzate ogni anni 4 milioni di tonnellate di farina di soia, l’84% della quale OGM, importata proprio da Brasile e USA.10 Il principio di precauzione lascia sicuramente intendere un atteggiamento molto cauto da parte dell’Unione Europea, che è stato definito in dottrina come una moratoria di fatto sull’introduzione di prodotti OGM nel mercato europeo. Tra gli anni 1998 e 2004 all’interno dell’Unione Europea non è stato autorizzato nessun nuovo prodotto di derivazione OGM, proprio in virtù del principio di precauzione che sta alla base di tutta la normativa prodotta in questi anni. L’approccio europeo in materia di Organismi Geneticamente Modificati è stato senza dubbio prudente e quest’atteggiamento è stato fonte di forti discussioni e dispute internazionali. Gli Stati Uniti d’America hanno infatti portato il caso della moratoria europea di fronte all’Organizzazione Mondiale del Commercio, ritenendo che l’Unione Europea stesse arbitrariamente discriminando un prodotto.11 La vicenda, diventata poi uno dei case cardine in ambito WTO, ha visto gli Stati Uniti d’America (e le nazioni terze del caso, cosiddette Third Parties) vincitori12 9 Agriculural trade in 2013: EU gains in commodity exports http://ec.europa.eu/agriculture/trade-analysis/map/2014-1_en.pdf 10 La guerra degli ogm a Expo 2015: anche Coldiretti, Eataly e Slow Food sul fronte del no http://milano.repubblica.it/cronaca/2014/09/30/news/ogm-96958709/ 11 DS291 - European Communities — Measures Affecting the Approval and Marketing of Biotech Products 12 “The panel further found that, by applying this moratorium, the European Communities had acted inconsistently with its obligations under Annex C(1)(a), first clause, and Article 8 of the SPS Agreement because the de facto moratorium led to undue delays in the completion of EC approval procedures. The panel, however, found that the European Communities has not acted inconsistently with its obligations under other provisions raised by the complaining parties, including Articles 5.1, 5.5, 5.6, 2.2 or 2.3 of the SPS Agreement.” - DS291- WTO

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e ha quindi obbligato l’Unione Europea ad attuare una messa a punto della normativa affinché questa non leda i principi del diritto WTO, in particolare il divieto alla discriminazione di un prodotto nel libero commercio tra gli stati aderenti all’Organizzazione Mondiale del Commercio. L’Unione Europea si è trovata dunque di fronte alla necessita di un cambio di rotta nelle proprie politiche agricole interne. Il risultato di questi avvenimenti può rinvenirsi all’interno non solo dei due regolamenti sopracitati, 1829 e 1830/2003/CE, ma anche nella Raccomandazione 556/2003, contenente le linee guida per i governi regionali e nazionali sulla coesistenza tra colture convenzionali, biologiche e OGM. Il concetto di coesistenza delle colture viene per la prima volta inserito nell’art.26bis della direttiva 2001/18/CE (confluito poi nel regolamento 1829/2003/CE) con la generica possibilità di adottare, da parte degli stati membri, misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM, andando così ad evitare la contaminazione di altre colture, di natura tendenzialmente biologica o convenzionale.13 Con il concetto di coesistenza si apre quindi una nuova era per l’utilizzo e l’immissione nel mercato europeo di prodotti geneticamente modificati. Il mercato europeo, i governi nazionali e non da ultimi i cittadini non sono mai stati apertamente a favore dell’utilizzo di OGM e infatti, nonostante l’apertura del mercato, la macchina legislativa non si è fermata e ha modificato di nuovo la normativa nel 2010. Con la raccomandazione 2010/C200/01 viene abrogata la raccomandazione 556/2003, grazie alla normativa più recente si concede maggiore libertà agli stati Membri per favorire l’attuazione di misure in grado di evitare contaminazioni tra i prodotti derivati da agricolture biologiche e convenzionali, tra le quali la possibilità di creare delle “zone senza OGM”. Le autorizzazioni, fino a questo momento concesse dalla Commissione stessa, con validità su tutto il territorio dell’Unione Europea, dovranno seguire un differente iter autorizzativo. Il cambiamento viene spiegato come segue, il primo passo vede come soggetto principale l’EFSA, l’introduzione di un eventuale prodotto viene sottoposta al parere scientifico di un comitato appartenente all’organo, e quindi di un’autorizzazione da parte della UE, tramite una sua agenzia. Questo parere tuttavia non ha caratteristiche vincolanti e potrà essere sovvertito, o semplicemente non considerato dagli stati Membri i quali potranno decidere di impedire la coltivazione OGM su tutto o parte del territorio grazie alla “clausola di salvaguardia” per motivi di sicurezza sanitaria o ambientale. 13 “La proposta di regolamento di revisione della direttiva 2001/18/CE in tema di coltivazione degli organismi geneticamente modificati e la sentenza del T.A.R Lazio Roma sez. III Quater, del 23.04.2014, n. 4410: Quale possibile coordinamento alla luce dei principi di sussidiarietà e precauzione”, Eurojus, Francesco Rossi dal Pozzo

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Modifiche della direttiva 2001/18/CE in merito alla possibilità per gli Stati Membri di restringere o proibire le coltivazioni OGM all’interno dei propri territori Motivo d’orgoglio per la Presidenza Italiana in ambito di sicurezza ambientale e sanitaria è stato il voto favorevole di 480 europarlamentari per la modifica, in seconda lettura, della direttiva 2001/18/CE. L’inserimento delle disposizioni all’art. 26 ter (“Coltivazione”) e quater (“Misure transitorie”) consente agli Stati membri quella liberà di cui si parlava sopra: una valutazione soggettiva su base nazionali di quelli che possono essere i rischi alla salute e ambientali in conseguenza all’approvazione di una determinata coltura OGM all’interno dello stato. Questa valutazione nazionale può anche sovvertire l’autorizzazione della Commissione stessa. Il risultato è chiaramente un sintomo di quella che è la direzione presa dalla Commissione Juncker, il cui indirizzo politico punta sicuramente a dare più spazio al peso politico dei singoli Stati, perlomeno in temi come salute e ambiente. I punti fondamentali che sono stati toccati da questa apparentemente piccola ma sostanziale riforma sono tre. Prima di tutto la valutazione sui rischi ambientali, di competenza dell’EFSA, dovrà essere aggiornata ogni due anni, tenendo conto sia dello sviluppo tecnologico-scientifico, sia del principio di precauzione. La seconda innovazione portata da questa riforma è la possibilità da parte degli Stati Membri, di chiedere, tramite la Commissione Europea, alle imprese produttrici di OGM di escludere i territori degli stati dalla lista di Paesi nei quali richiedere l’autorizzazione europea alla coltivazione. Notiamo anche in questo caso una forte autonomia lasciata ai singoli Stati Membri e non più di esclusiva degli organi comunitari. Gli stati membri potranno quindi decidere di vietare direttamente la coltivazione in base alle motivazioni indicate nella direttiva. Infine viene introdotto un periodo di attesa da parte degli Stati Membri che vogliono imporre il divieto, 75 giorni, per ricevere il parere della Commissione europea. Durante questo periodo di attesa gli agricoltori non potranno comunque procedere ad alcuna operazione concernente la semina del prodotto sottoposto a divieto.14 A questo punto è necessario analizzare l’art. 26Bis della direttiva 2001/17/ CE, rubricato “Misure volte ad evitare la presenza involontaria di OGM”, introdotto dal reg. 1829/03. Questo articolo sicuramente sprona la Commissione a sviluppare orientamenti sulla coesistenza tra le colture tradizionali 14 Ufficio stampa del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali

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e quelle sottoposte a trattamenti di modificazione genetica, anche se resta il dubbio su come porre dei limiti fisici alla diffusione di queste colture. La produzione normativa trova in questo caso un limite intrinseco che è quello della forza della natura. Viene infatti difficile pensare a interventi normativi che possano fermare la fioritura, l’impollinazione e la conseguente espansione di una determinata coltura GM a discapito di una coltura tradizionale o addirittura biologica. È quindi immediato interrogarsi su quali possano essere i rimedi a questi eventi naturali: si pensi alla possibilità di avere una “presenza involontaria” sul territorio di uno stato che non ha consentito l’utilizzo della coltura in questione. La risposta, parziale, arriva dall’ultima modifica dell’articolo in questione. La disposizione aggiornata prevede infatti che i paesi che intendano autorizzare la coltura di OGM prevedano anche delle misure necessarie, in particolare in zone di frontiera, atte ad evitare contaminazioni tra colture di diversa natura. Tra i rimedi che sono stati teorizzati, si annoverano l’introduzione di zone cuscinetto (c.d. Buffering zones) e l’installazione di barriere per il polline15. Catene montuose, tratti di mare e altre barriere naturali rimangono le migliori misure per far fronte ad un possibile contagio. L’interrogativo che sorge spontaneo riguarda responsabilità e risarcimento in caso di contagio, l’unica risposta a questo quesito ci verrà tuttavia data dalla giurisprudenza della Corte di Giustzia Europea nei prossimi mesi. I fondamenti essenziali delle politiche europee in materia di OGM sono quindi sicurezza e libertà di scelta, sia del consumatore sia dell’agricoltore. Infatti, viene ad oggi consentito l’utilizzo di colture OGM ma con la necessità che il vaglio di ogni singolo prodotto OGM (si parla fondamentalmente di singole sementi come il tanto discusso MON 810, una varietà di mais nata dai laboratori della Monsanto) provenga dall’EFSA e che gli stati membri autorizzino l’utilizzo del prodotto sul suolo nazionale. Sicuramente la questione non finirà e gli sviluppi normativi saranno molteplici, anche alla luce della possibilità da parte dell’Unione Europea di firmare l’accordo TTIP, il quale include alcuni aspetti riguardanti la commercializzazione di prodotti OGM e di carne sottoposta a trattamenti con anabolizzanti. Sulle due sponde dell’Atlantico le idee sono profondamente diverse, risultato non solo di politiche differenti ma anche di tradizioni e culture alimentari notoriamente contrastanti. Nelle prossime settimane ci si aspetta una comunicazione ufficiale da parte delle Autorità Europee per la definitiva applicazione della direttiva 2001/18/CE con le sue ultime modifiche. Il passaggio di testimone dal legislatore europeo a quello nazionale è indubbiamente un passo avanti dal punto di vista delle ripartizioni delle competenze tra l’Unione Europea e gli Stati membri ma 15 Diritto pubblico comparato ed europeo 2013, Volume 1, Aa.vv. Pag.293

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rischia di lasciare troppe ambiguità giuridiche e una frammentazione della disciplina in materia. Proprio in base a questi punti le grandi multinazionali potrebbero attaccare i divieti nazionali di fronte all’Organizzazione Mondiale del Commercio. Conclusioni Sul piano nazionale, e non solo, i riflettori sono sicuramente puntati su Expo 2015 - Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita. A poche settimane dall’inizio dell’evento vi è ancora molta incertezza su quella che è la linea politica in tema di OGM all’interno dei padiglioni, dove la tematica principale è il nutrimento dell’uomo. Questo tema è uno dei punti principali del dibattito scientifico sulla necessità dell’uso di colture a base di OGM: uno degli argomenti più forti a favore dell’utilizzo degli OGM deriva proprio dal fatto che la popolazione umana crescerà con una rapidità tale che per il 2050 l’utilizzo di colture tradizionali non basterà a sfamare tutti. Argomentazioni di natura ambientale e salvaguardia della biodiversità sono sicuramente le più gettonate da chi si trova viceversa a fare opposizione.16 Se i padiglioni saranno OGM-free non è assolutamente chiaro, e la presenza non solo di nazioni favorevoli all’utilizzo di questa tipologia di colture ma anche di molte multinazionali ben note per questo tipo di pratiche lascia trasparire una risposta negativa. La posizione di via Rovello, sede di EXPO 2015 S.p.A., sembra essere di apertura. Lo stesso commissario unico Giuseppe Sala ha dichiarato che si deve pensare ad Expo come ad una “piattaforma inclusiva”. Sembra quindi che l’eventuale presentazione di prodotti OGM da parte degli aderenti non verrà censurata. Nessuna certezza insomma, anche se l’ultima parola spetta sempre al consumatore finale. Proprio a tal riguardo gli ultimi numeri parlano chiaro: negli Stati Uniti d’America, mentre l’88% degli scienziati sostiene che sia sicuro mangiare prodotti derivati da organismi geneticamente modificati, solo il 37% dei consumatori è dello stesso avviso17; in Italia questa percentuale si ferma al 20% circa.18 Dati sicuramente rassicuranti per il mercato del Made in Italy e del biologico, attori principali all’interno dell’evento EXPO 2015.

16 World may not have enough food by 2050: Report http://www.cnbc.com/id/102086930#. 17 American Association for the Advancement of Science http://www.aaas.org/ 18 OGM: Coldiretti, 8 italiani su 10 favorevoli a libertà divieto http://www.coldiretti.it/News/Pagine/749---11-Novembre-2014.aspx

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