DIALOGANDO CON BLEGER
STRATEGIE PER IL CAMBIAMENTO SOCIALE E INDIVIDUALE
con il contributo di Leopoldo Bleger
PERCORSI
P sic oS ocioAnalitici
Indice
Prefazione .....................................................................7 di Wanda Ielasi
Introduzione .................................................................9 di Nicoletta Livelli
Prologo ......................................................................13 di Leonardo Speri
PARTE PRIMA
Lavorare con le aziende: il benessere delle persone .........................................37 di Paolo Magatti
La socialità sincretica in un gruppo di adolescenti tossicomani .................................................................55 di Maria Elena Petrilli
Apprendere dall’esperienza: dal “cerchio magico” alla spirale della conoscenza .....................................65 di Flavio Nosè
Vincoli e legami nel vivere quotidiano .....................73 di Paola Scalari
La figura di José Bleger..............................................85 Intervista a Leopoldo Bleger a cura di Sabrina Ferrari
PARTE SECONDA
L’importanza degli inquadramenti dall’epistemologia alla clinica .................................101 di Aurelia Galletti
Discriminazione e indiscriminazione in José Bleger............................................................113 di Mauro Rossetti
Lo psicoterapeuta “senza” ......................................123 di Annamaria Burlini
I gruppi operativi: apprendere insieme dall’esperienza .......................129 di Wanda Ielasi
POSTFAZIONI
Chaise longue e Psicoigiene ....................................137 di Lorenzo Sartini
Attualità di un libro .................................................145 di Leopoldo Bleger
Prefazione
di Wanda Ielasi
DIALOGANDO CON BLEGER
[…] L’indagine e l’azione sono inseparabili e si arricchiscono reciprocamente nel processo della prassi […] (in un) processo di costante interazione […] tale indagine operativa deve essere presa attentamente in considerazione sia dallo psicologo clinico che da ogni operatore sociale […]
José Bleger, Psicoigiene e psicologia istituzionale, 2011, p. 54
[…] (nella) epoca (attuale) contraddistinta dal dissolvimento dei legami umani […] operare per la salute psichica non equivale ad essere popolari.
Paola Scalari, Introduzione alla seconda edizione italiana, Psicoigiene e psicologia istituzionale, 2011, pp. 15-28
Ciascuno di voi è un politico […] è il tempo della responsabilità […] con quel gesto che responsabilità mi sto assumendo?
Guglielmo Minervini, comunicazione personale
Ciò che conta è la domanda “che fare adesso?”: io nel mio ambito, tu nel tuo ambito, ognuno di noi nel proprio ambito, cercando risposte non di parole, di formule, ma di azioni significative.
Luigi (Gino) Pagliarani, I due dolori del conflitto, in Amore senza vocabolario, 1996, p. 117
Introduzione
di Nicoletta Livelli
Se ci venisse chiesto se pensiamo, tutti noi risponderemmo affermativamente e addirittura considereremmo la domanda offensiva
José Bleger
STRATEGIE PER IL CAMBIAMENTO SOCIALE E INDIVIDUALE. L’ATTUALIZZAZIONE DEL PENSIERO DI JOSÉ BLEGER
Questo testo prende le mosse dalle giornate di studio “Strategie per il cambiamento sociale e individuale. L’attualizzazione del pensiero di José Bleger”, che nel 2011 promossero la riedizione del libro di José Bleger Psicoigiene e psicologia istituzionale. Psicoanalisi applicata agli individui, ai gruppi e alle istituzioni. Riedizione fortemente sostenuta dalla nostra associazione “Ariele Psicoterapia” e dalla casa editrice “edizioni la meridiana”. Le giornate di studio ebbero lo scopo di riattraversare la concezione operativa di Bleger che declina il punto di vista clinico sia nella “cura” della comunità che nella cura degli individui, dei gruppi, delle istituzioni e della polis. Tornando con la mente ai mesi di lavoro che precedettero l’evento, ricordo che ci sembrò importante pensare a uno spazio e a un tempo affinché operatori sociali, sanitari, clinici, politici, educatori, formatori e cittadini potessero confrontarsi e condividere pensieri in merito al prendersi cura delle relazioni umane. Un obiettivo ancora più necessario oggi, in un contesto segnato dalla crisi economica e dal disorientamento delle istituzioni, che sembrano aver perso il loro mandato sociale, lasciandoci testimoni di una trasformazione inquietante. Famiglie e individui sono in crisi, la sofferenza attraversa ogni livello della società e arriva al cuore della polis.
Se richiamo sulla scena il trauma profondo vissuto in tempo di Covid, le guerre che ammutoliscono il pensiero, generano lutti inelaborabili e amplificano il dramma dei flussi migratori, la crisi
Nicoletta Livelli
economica che amplia sempre più la distanza fra ricchi e persone che vivono sotto la soglia di povertà, mi appare oggi più che mai necessario “accudire e curare le relazioni in quest’epoca connotata da legami fragili”.
José Bleger ci offre una visione estremamente attuale su come favorire e sostenere cambiamenti negli individui, nei contesti lavorativi e nella polis per poter coltivare la speranza che il cambiamento non sia solo vissuto in modo catastrofico, ma possa essere sperimentato nelle sue trame più evolutive.
Ancora oggi, come sostenemmo allora, pensiamo all’importanza di dedicare uno spazio adeguato per conoscere, attraverso l’esperienza e la testimonianza di questo Maestro, come si può apprendere su di sé e sull’Altro, per poter individuare piste di lavoro innovative, al fine di aiutare gli operatori dell’area educativa, sociale e psicoterapeutica ad accogliere, contenere e supportare il dolore umano.
Da Bleger possiamo attingere nuovi spunti per ritrovare la direzione nel cui solco ripensare e sviluppare il lavoro clinico con gli individui, con i gruppi, con la comunità, affinando gli strumenti per intervenire nella complessità del mondo attuale.
Non potevamo dunque non immaginare un dispositivo di pensiero “corale”, un contenitore abitato da voci provenienti dal mondo della politica, delle aziende, della famiglia d’origine dell’autore, della scuola di specializzazione, degli psicoterapeuti operanti in vari assetti istituzionali, voci tutte idealmente dialoganti con José Bleger1.
Lo sguardo corale ci richiamava alla centralità della comunità e della politica, predisponendoci in apertura a un dialogo tra Leonardo Speri, testimone di un approccio clinico ai temi di sanità pubblica e Guglielmo Minervini, politico di profonda cultura e conoscenza del sociale, chiamato dalla collettività a farsi portavoce dei bisogni e dei disagi della collettività stessa. Il resoconto di quel confronto con l’esperienza di Minervini apre ora questo volume, come un prologo, invitandoci a riflettere sulle interconnessioni tra individuo e comunità e sulle leve da attivare per pro-
1 Per l’occasione, gli allievi del Training di Ariele Psicoterapia, guidati dal loro docente Alberto Grazioli, hanno animato l’avvio dei lavori con un input insaturo: un video intitolato “Polisguardo”. Attraverso sguardi sul sociale, il video mirava a sollecitare i presenti a spostare i propri vertici di osservazione, in un costante movimento ricorsivo tra passato, presente e futuro, per creare quel campo mentale gruppale necessario sia come sfondo sia come contenitore delle testimonianze e dell’appassionato confronto, i cui echi si sarebbero poi riverberati anche nei gruppi operativi.
Nicoletta Livelli tro tra la psicosocioanalisi, la psicoigiene e la psicologia sociale sia imprescindibile e fecondo per noi psicosocioanalisti, sia in termini teorici che operativi.
Mauro Rossetti riprende i concetti di simbiosi, ambiguità e socialità sincretica: fondamenti del pensiero di Bleger.
A partire da alcune parole chiave – individui, sofferenza, confusioni, differenziazioni – i testi successivi riprendono aspetti teorici, le tecniche e i campi di applicazione in cui la concezione blegeriana ha espresso maggiormente il suo contributo innovatore. Prezioso è il contributo di Annamaria Burlini che con il suo Psicoterapeuta senza propone “una visione generale del processo di crescita della teoria e della pratica psicoterapeutica in Ariele Psicoterapia in relazione all’incontro con J. Bleger”.
Ai gruppi operativi che coinvolsero i partecipanti all’evento fu affidato il compito di affrontare, rielaborare e riattraversare le tematiche emerse con l’obiettivo di rompere stereotipi, apprendere e favorire un possibile cambiamento: “Nell’insegnamento il gruppo operativo lavora su un argomento… ma nel trattarlo sviscera anche i diversi aspetti del fattore umano” (J. Bleger).
La testimonianza qui riportata di queste esperienze di lavoro in assetto di gruppo operativo mostra quanto possano essere vissuti con una partecipazione vivace, acuta e attenta alle sfumature, gli insegnamenti e la complessità dell’opera di J. Bleger, Un pensiero emozionato e grato va a tutti coloro che contribuirono a realizzare quell’impresa e a chi oggi riattraversa quell’esperienza, riallacciando e intrecciando pensieri, evidenziando nuovi nodi e incontrando nuovamente il pensiero del Maestro. Il percorso tracciato da questo volume, arricchito dalle postfazioni di Lorenzo Sartini e Leopoldo Bleger, testimonia e concretizza quella spirale dell’apprendimento che ci deve sempre ispirare nel superamento degli stereotipi e nella ricerca del nuovo.
PARTE PRIMA
Paolo Magatti
spetto agli interventi nelle organizzazioni aziendali, facendo esplicito riferimento a un paragrafo del saggio Psicoigiene e psicologia istituzionale, dedicato a questo tema.
In secondo luogo, cercherò di delineare alcune trasformazioni fondamentali che caratterizzano le organizzazioni (aziendali) nella nostra contemporaneità e che hanno un impatto sui modi con cui gli uomini e le donne vivono la loro esperienza di lavoro. Trasformazioni che in letteratura vengono solitamente lette attraverso la chiave interpretativa del passaggio dal paradigma fordista a quello post-fordista1. Per mettere in luce la natura di queste trasformazioni, mi riferirò a due distinte fonti: agli sviluppi più recenti del pensiero psicosocioanalitico sulle organizzazioni2 e –uscendo dai confini degli approcci psicodinamici – alla categoria analitica di biopotere/biopolitica, inaugurata da M. Foucault e ripresa in modo fecondo in recenti contributi, specificamente dedicati ai temi del lavoro3.
In terzo luogo, cercherò di tracciare alcune piste di lavoro che un consulente può percorrere oggi, sulla scia di Bleger, nel condurre degli interventi in contesti aziendali.
PSICOIGIENE IN AZIENDA.
UN COMPITO IMPOSSIBILE?
Nel saggio Psicoigiene e psicologia istituzionale, in cui Bleger fornisce un quadro generale del suo pensiero sugli interventi nelle istituzioni e sulle tecniche che lo psicologo sociale può adottare per “inquadrare” la sua azione, un paragrafo è specificamente dedicato ai contesti aziendali4.
Significativamente, tale paragrafo è collocato immediatamente dopo quello sull’ospedale come istituzione. Quasi per contrasto. La domanda implicita riguarda quindi quali sono le differenze più significative tra un intervento in azienda e uno in un’istituzione come l’ospedale, dove il compito primario è la cura.
1 Per una chiara e approfondita ricostruzione del dibattito sulla continuità o discontinuità tra il paradigma fordista e quello post-fordista, si veda Masino, 2005.
2 In particolare il riferimento sarà il saggio di Varchetta, 2007.
3 Si vedano in particolare: a cura di Demichelis e Leghissa, 2008; Bazzicalupo, 2006. Per un esame generale del concetto di biopolitica si consiglia la lettura di Bazzicalupo, 2010.
4 Pubblicato in Bleger, 2011, pp. 60-100.
Paolo Magatti conflitti generati in particolare dal trovarsi nel mezzo tra l’esigenza di realizzare utili per l’azienda e una certa identificazione con gli interessi e i problemi dei loro collaboratori, appartenenti alla medesima classe media.
Non ci racconta Bleger l’esito dell’intervento formativo. La sua attenzione è posta sulla conflittualità tra il ruolo ricoperto in azienda e il ruolo, per così dire, sociale. Il secondo caso riguarda un consulente chiamato in un’azienda per intervenire in una situazione “caotica” sfociata in uno sciopero, senza apparenti motivi di natura oggettiva; i salari pagati erano infatti superiori alla media del mercato. Il lavoro con il gruppo direzionale fece emergere una struttura paternalistica e seduttiva, che determinava una relazione di dipendenza nei confronti dei capi operai e bloccava processi di autonomia.
L’esito dell’intervento fu la nascita di un sindacato svincolato dalla direzione, nel quale gli operai si potevano riconoscere come soggetti autonomi. Potremmo dire che l’intervento diede vita ad un processo istituente, con una ridefinizione dei rapporti di potere all’interno dell’istituzione e la creazione delle condizioni necessarie per una maggiore autonomia della componente operaia. Dai due casi analizzati si possono ricavare tre aspetti significativi per una psicoigiene in azienda:
1. Lavorare sul benessere significa favorire l’emersione di un campo conflittuale, fino ad allora rimasto latente. Il consulente promuove il benessere aiutando l’istituzione ad attraversare le ansie che possono ostacolare l’emersione del conflitto e la sua elaborazione. Da una condizione caotica, fusionale, che rimanda – nella dimensione della clinica – alla posizione glischro-carica7, si passa alla manifestazione delle differenze, fino alla loro interazione dinamica.
2. Il secondo aspetto riguarda il fatto che il soggetto non è mai riducibile ai soli confini dell’organizzazione, ma rimanda sempre ad un fuori, ad un suo “essere sociale”. L’aver lavorato sul vissuto dei dirigenti, ha fatto emergere una tensione tra il ruolo organizzativo e il ruolo sociale. Ciò presuppone che il consulente sappia guardare anche oltre il confine organizzativo. In altre parole, il soggetto organizzativo rimanda sempre anche
7 Posizione glischro-carica (del nucleo-carion, vischioso-glischròs), o del nucleo indifferenziato, fusionale, precede la posizione schizo-paranoide.
a una dimensione “politica” che il consulente non può rimuovere o dimenticare. Una strategia fondamentale del suo compito è quella di “considerare la persona non soltanto come cliente, ma anche come soggetto”. Istituendo questa differenza tra cliente e soggetto, Bleger sembra sottolineare lo scarto sempre esistente tra l’essere umano (il “fattore umano”) e la sua collocazione, contingente, in un determinato ruolo organizzativo. L’essere umano non è mai riducibile a risorsa umana (HR, nel linguaggio contemporaneo).
3. In terzo luogo, un intervento di psicoigiene ha esito positivo se, come nel caso dell’azienda paternalistica, dà l’avvio a un processo istituente (il sindacato autonomo), che ridefinisce i rapporti di potere dentro l’istituzione e consente l’emergere di una soggettività maggiormente autonoma.
I tre aspetti che abbiamo messo in luce segnano uno spartiacque rispetto al movimento delle Human Relations8. Per esso, infatti, è necessario occuparsi degli esseri umani “per l’azienda”, mentre per la psicoigiene, ci si occupa degli esseri umani “in azienda”, ma “per gli individui” che ne fanno parte.
Nell’ultima parte del paragrafo, Bleger sembra oscillare nella sua posizione. Si legge tra le righe un dubbio sulle reali possibilità di intervenire in azienda, senza di fatto andare “contro gli interessi degli operai”.
In conclusione del paragrafo, Bleger lascia aperta la questione, passando il testimone, quasi in eredità, alle generazioni future. Ci dice infatti che
conviene […] rimandare l’attività in questo settore fintanto che lo psicologo non abbia accumulato esperienza in campi meno conflittuali e non si senta sicuro nell’inquadramento della situazione e nell’utilizzazione delle relative tecniche.9
Insomma, ci sembra dire Bleger, l’incontro tra psicoigiene e organizzazioni aziendali è un lavoro ancora da compiere.
8 In nota Bleger sottolinea come E. Jaques, a differenza degli altri autori del movimento delle Human Relations, riteneva necessario, prima di un intervento consulenziale, ottenere il consenso delle organizzazioni operaie.
9 Bleger, 2011, p. 97.
Flavio Nosè Più volte, in questi anni, mi sono soffermato sul percorso in Italia della Psichiatria e della Clinica Istituzionale nei suoi rapporti con la psicoanalisi, in particolare raccogliendo scritti del passato e attuali di vari autori in un volume realizzato in collaborazione con Giacomo Di Marco1. In questo percorso incontriamo la rottura della verticalità monolitica della struttura manicomiale, favorita dal sorgere dei “gruppi di discussione” con la loro orizzontalità e multi-professionalità. In questi gruppi era possibile riproporre
la crisi di conoscenza rispetto all’oggetto del sapere psichiatrico, la confusione dei ruoli all’interno delle équipe curanti, l’ambiguità e l’incertezza circa il significato stesso della terapia e della cura.2
In questa che potremmo definire apertura di dialogabilità avevano poi preso corpo esperienze di diversa matrice, fenomenologica, sociale, psicologica e psicoanalitica, che avevano reso più poliedrica e sfaccettata l’esperienza psichiatrica della psicosi. Dal deposito manicomiale irrigidito della psichiatria si era così passati ai vari “luoghi” della psichiatria e alla scoperta che con il cambiare dei luoghi cambiava anche la fenomenologia della malattia mentale e che alla diagnosi nosografica potevamo affiancare la diagnosi nosodromica, di percorso, che evolve e si modifica nel tempo3.
La realtà di questi anni ci ha però messo a contatto, accanto a questi aspetti evolutivi, anche con derive di varia natura che possiamo genericamente definire di tipo assistenzialistico e con la stereotipizzazione di pratiche terapeutiche. Quando dico questo penso allo svuotamento delle situazioni di gruppo nelle istituzioni psichiatriche, in primis la “riunione d’équipe”, così spesso sacrificata alle esigenze organizzative, ristretta progressivamente nei tempi e addirittura desertificata quanto a presenze; ma penso soprattutto alla residenzialità e alla semiresidenzialità psichiatriche e alle pratiche psicoterapiche individuali e di gruppo che vi si svolgono. Erano questi ultimi i luoghi di elezione per mettere alla prova la possibilità dell’incontro fra psichiatria e psicoanalisi, per dare corpo al desiderio di rendere terapeutiche le istituzioni… e sicuramente vi è stato un gran sorgere di Centri Diurni e di Comunità Terapeutiche a diverso orientamento e con diversi programmi, in molti casi assai ben organizzate e caratterizzate
1 Di Marco, 2010.
2 Petrella, 1980.
3 Rossi Monti, 2006.
in generale da un buon funzionamento. Con la sensazione però talvolta di un buon funzionamento che ha perso un po’ di vista la dimensione clinica, il senso di una valutazione psicopatologica orientata alla presa in carico. Il gruppo funziona bene, ma i pazienti non cambiano, o sono sempre gli stessi, oppure si allontanano per stanchezza o per un cambiamento di residenza; la comunità è ben organizzata, ma non ci sono dimissioni. Come se l’idea della mente come una struttura gruppale e all’istituzione curante come un insieme di gruppi avesse sì rappresentato una sorta di patrimonio culturale consolidato, ma non in grado di contrastare del tutto quella che potremmo definire la caduta di due illusioni. Le illusioni strutturali (basta cambiare i contesti di cura per evitare il potenziale di cronicizzazione insito nella psicosi stessa) e le illusioni tecnicistiche (vale a dire che esista una qualche tecnica o sistema di tecniche in grado in quanto tale di rendere meno difficile il rapporto col paziente psicotico), con il conseguente scivolamento verso pratiche stereotipate e “protocollari” (la psichiatria degli “interventi”), depersonalizzate, staccate dal nucleo di sofferenza dei pazienti, una psichiatria della “risposta al disturbo” (che si tratti di farmaci, procedure riabilitative o “pacchetti” di interventi psicoterapici ha poca importanza), senza la persona, senza psicopatologia e senza psicodinamica, come diceva Francesco Barale4 in una bellissima relazione di qualche tempo fa. Sono riflessioni che mi hanno portato, come dicevo, a rileggere alcuni scritti del passato, a tornare alle origini del movimento trasformativo della psichiatria italiana, trovando spunti e riflessioni di straordinaria attualità, che ponevano semmai la domanda sul come mai ce ne fossimo dimenticati o le avessimo perse per strada. È un interrogativo e una perplessità che l’occasione della riedizione di Psicoigiene e psicologia istituzionale, con cui siamo chiamati a confrontarci, ci ripropone soprattutto, per quanto mi riguarda e in relazione a quanto dicevo in precedenza, in riferimento al pensiero di Bleger sul funzionamento dei gruppi e sul rapporto tra gruppi e istituzioni. Il primo punto su cui vorrei soffermarmi è quello relativo al concetto di gruppo operativo, che Bleger riprende da Pichon-Rivière e che ci ripropone a proposito dell’insegnamento e dei suoi rapporti con l’apprendimento.
4 Barale, 2010.
Flavio Nosè Nell’impostazione tradizionale [dice Bleger] vi è un individuo o un gruppo che insegna e un altro che impara. Tale dissociazione deve essere eliminata, benché questo crei per forza di cose una certa ansia, provocata dal cambiamento e dall’abbandono di un comportamento stereotipato.
La possibilità di eliminare o attenuare la dissociazione è legata all’instaurarsi di un processo di apprendimento “che si ottiene solo cercando di imparare, cioè operando”, cioè mettendo in campo la propria conoscenza aperta al dubbio, al “non so”. Per Bleger, chi si ritiene portatore di un’informazione “completa” ha esaurito le sue possibilità di imparare dall’esperienza e di insegnare, che non è solo trasmettere delle informazioni; e quello che dovremmo fare con i gruppi operativi è proprio il cercare di tener vivo il pensiero sul fare, il mantenere attiva la dialettica tra soggetto e oggetto, tra teoria e pratica, cercando di rimuovere gli ostacoli a che questa dialettica si realizzi.
Non è necessario far nulla [dice ancora Bleger] per instaurare il processo dialettico del pensare, perché esso è spontaneo, ma c’è molto da fare per eliminare le barriere e i blocchi che impediscono il suo funzionamento.
Credo che, ripensando al lavoro psichiatrico di questi anni, nasca l’interrogativo se abbiamo sufficientemente tenuto presenti queste considerazioni sul gruppo operativo, se abbiamo tenuta viva la dialettica tra operatori e pazienti, tra psichiatri o psicologi e infermieri, tra salute e malattia, tra diagnosi di malattia e sofferenza dell’individuo. O non ci siamo piuttosto rifugiati nella certezza delle nostre conoscenze, biologiche piuttosto che psicologiche o sociali, facendo diventare l’oggetto del nostro operare la tecnica (il buon funzionamento di un gruppo, di un Servizio, ecc.) piuttosto che la cura?
Un secondo punto che mi sembra utile riprendere è quello che riguarda il rapporto tra gruppi e istituzioni e la funzione delle organizzazioni. È ben noto il pensiero di Bleger riguardo alla simbiosi e al sincretismo, termine quest’ultimo con il quale si indicano strati di personalità di un individuo che riemergono in uno stato di non discriminazione e che nella relazione terapeutica vengono depositati sul setting. Il sincretismo, o meglio la socialità sincretica secondo la dizione di Bleger, appartiene però anche alla vita di un gruppo, del quale rappresenta la struttura fondamentale, la matrice, che persiste in maniera variabile per tutta la vita del gruppo
stesso, scissa e “clivata” dalla parte più integrata, dall’Io di gruppo più mobile e dinamico.
Bleger definisce l’istituzione come l’insieme di norme, modelli e attività imperniate su valori e funzioni sociali e tiene distinto il concetto di istituzione da quello di organizzazione, intesa soprattutto come organizzazione gerarchica di funzioni.
Il gruppo [dice] è sempre un’istituzione molto complessa, o meglio è sempre un insieme di istituzioni, che nello stesso tempo tende a consolidarsi come organizzazione, con modelli propri e fissi.
E la fissità e la stereotipia dell’organizzazione nascono dal controllo sul clivaggio fra il livello integrato e il livello sincretico, di cui si diceva in precedenza, controllo che tende ad essere operato per immobilizzare l’area sincretica.
Un gruppo in cui si è arrestato il processo per lasciar posto alle sue caratteristiche di organizzazione si trasforma da gruppo terapeutico in gruppo antiterapeutico
si burocratizza nel senso che “i mezzi si trasformano in fini e si dimentica di essere ricorsi ai mezzi per conseguire determinati obiettivi”. È questo un passaggio di grande lucidità, che dà un senso a quella che Bleger considera una legge generale di tutte le organizzazioni, secondo la quale
in tutte le organizzazioni gli obiettivi espliciti per cui sono state create corrono sempre il rischio di passare in secondo piano, mentre acquisisce primaria importanza la perpetuazione dell’organizzazione in quanto tale.
È interessante la sottolineatura nella quale Bleger osserva che l’effetto burocratico iatrogeno connesso con la funzione latente di mantenere il clivaggio e controllare la socialità sincretica non appartiene solo alle organizzazioni psichiatriche, ma si manifesta come espressione della società che tende ad autodifendersi mantenendo una profonda scissione al suo interno tra ciò che considera sano e quello che ritiene malato, fra ciò che ritiene normale e quello che giudica anormale, trattando le devianze come se le fossero estranee e non la riguardassero.
Questa segregazione e questa scissione – sono ancora parole di Bleger – si trasmettono poi ai nostri strumenti e alle nostre conoscenze. In tal
Flavio Nosè modo, rispettare il clivaggio di un gruppo terapeutico e non esaminare i livelli di socialità sincretica, significa accettare questa segregazione sancita dalla società così come i suoi criteri normativi, accettare i meccanismi in base ai quali determinati soggetti risultano ammalati e segregati, nonché il criterio di adattamento applicato alla salute e alla malattia e la segregazione di quest’ultima intesa come “cura”.
L’assoluta attualità di queste considerazioni credo renda ragione di quanto affermavo circa lo stupore provato nel rileggere questo ed altri scritti in riferimento a quelle che dal mio punto di vista, come dicevo, sono le difficoltà dell’attuale cultura psichiatrica italiana, soprattutto in riferimento al trattamento delle patologie gravi. Il tema centrale rimane, penso, quello della trasmissione della conoscenza, ovvero della formazione, e quello della “cura”, strettamente connesso alla prima e credo non sfugga come attualmente nei Servizi, credo non solo psichiatrici, vi sia la tendenza a riproporre percorsi formativi poco condivisi in termini di pluri-professionalità, con il risultato di pratiche che credo Bleger definirebbe burocratizzate. Penso ad un episodio recente, ma ve ne sarebbero altri, in cui una psicologa ha ricevuto da parte di una psichiatra del Servizio un invio per una “psicoterapia cognitiva” di un paziente in trattamento per una sintomatologia depressiva. Al colloquio la psicologa aveva rilevato l’impossibilità ad una presa in carico psicoterapica per un paziente che non ne avvertiva la ragione e che aveva un livello culturale molto basso oltre che alcune difficoltà cognitive legate all’età. Alla richiesta di chiarimenti, la collega psichiatra aveva risposto con aria stizzita che non aveva nulla da dire se non che le “linee guida” erano chiarissime sul fatto che un paziente depresso andasse trattato farmacologicamente, cosa che lei aveva fatto, e con un supporto cognitivo comportamentale, che riteneva non spettasse a lei. Non si tratta ovviamente di rifiutare le linee guida o di dichiararne l’inutilità, quanto piuttosto di pensare che, qualunque siano le pratiche che adottiamo e qualunque sia il tipo di intervento, anche il più semplificato, occorre “tenere nella mente” ciò che è realmente in causa nella relazione terapeutica, dove
tenere nella mente [sono parole di Barale in riferimento alla psicosi] non vuol dire affatto svolgere raffinate analisi fenomenologiche o psicoanalitiche. Significa disporsi in modo recettivo all’esperienza della psicosi, con tutto ciò che essa contiene; essere in grado di farla transitare nello spazio mentale dell’incontro (spazio personale o spazio istituzionale), perché in questo transito essa possa innanzitutto trovare la pos-
sibilità di dispiegarsi, portando “in campo” tutto lo sgomento, la paura, i sentimenti radicalmente contraddittori della consensualità lacerata.
Da questo punto di vista, potremmo dire, sempre con Barale, che psicoanalisi, psicopatologia e fenomenologia sono orientatori indispensabili e non “tecniche” di intervento, sono organizzatori di uno sfondo di ricezione e comprensione in grado di farsi carico del “clivaggio” fra aree integrate e aree sincretiche, per ritornare su un linguaggio blegeriano, che vorrebbe dire, dal punto di vista clinico, ricuperare la soggettività di un individuo e riassumere la dimensione della “cura”.
Ci sono incontri che aprono per un istante il sipario su mondi possibili e modi possibili di abitarli. Sta a noi impedirne la chiusura, per recuperarne la visione.
L’incontro con l’opera di José Bleger mostra tutta l’attualità del suo pensiero, che vede la vita psichica del soggetto costituita dai legami sociali e coniuga la lettura dell’intrapsichico e del relazionale con il sociale e l’impegno politico.
Partendo dal presupposto che “l’indagine e l’azione sono inseparabili”, il pensiero di Bleger contrasta l’idea, che devasta anche lo spazio della politica, secondo la quale la comunità non serve a nulla perché, come diceva la Thatcher, “esiste solo l’individuo”. Bleger estende l’uso della psicoanalisi al trattamento della psicosi, all’utilizzo terapeutico dei gruppi e al lavoro con le istituzioni sanitarie e dell’istruzione. Per questo il compito dello psicologo – oltre alla cura – è quello di promuovere il benessere e la salute, intervenendo sulla “società malata”, produttrice di patologia.
Il senso e l’attualità dell’opera di José Bleger, sottolineati dagli interventi dei diversi autori, sono ulteriormente arricchiti da un’intervista a Leopoldo Bleger, psicoanalista e glio di José, e da una sua Postfazione al libro.