LA SUPERVISIONE RELAZIONALE
Metodologia applicata all’individuo e ai gruppi
Metodologia applicata all’individuo e ai gruppi
Prefazione di Nadia Fina
Parte
1.
2.
3.
1.1
1.2
4.
2.1
5.
5.1
6. Cogliere
6.1
7.
7.1
7. Lettori di sogni ..................................................................... 155
7.1 Il racconto onirico ......................................................... 155
7.2 Contenere per fluttuare .................................................159
8. Artigiani degli intrecci ....................................................... 163
8.1 Teoria e tecnica ............................................................ 163
8.2 Il metodo .......................................................................165
8.3 Lavorare per ipotesi ..................................................... 168
9. Comunicare il senso della vita ............................................171
9.1 L’arte del tradurre...........................................................171
9.2 Parole per dirlo ..............................................................173
9.3 Vincere le difese .............................................................176
10. Donare la parola...................................................................181
10.1 Crescere insieme ............................................................181
10.2 Andare a bottega .......................................................... 184
di Nadia Fina*
Paola Scalari ha scritto un libro prezioso per tutti coloro che, a vario titolo, sono coinvolti nel campo della salute mentale e nella cura del sociale e il cui titolo sostanzia fin da subito una questione che ben rappresenta il suo modo di concepire il lavoro di supervisione: la questione relazionale.
La supervisione relazionale definisce la relazione come cornice concettuale dentro la quale la complessità formativa si inserisce. Le numerose vignette cliniche consentono al lettore di entrare, come osservatori partecipanti che traggono vero nutrimento, nei luoghi in cui il suo sapiente lavoro di analista supervisore si svolge, potendo così conoscere il metodo con cui opera. Che la supervisione sia individuale, gruppale, clinica, formativa, svolta nel campo privato o in quello istituzionale, Paola Scalari ci pone difronte alla necessità di fare i conti innanzitutto con un metodo di lavoro che assume la forma di un “lavorare insieme” per costruire contenitori dentro cui tempi, ruoli, funzioni non possano prescindere dalla qualità della relazione. L’autrice non ci propone però solo di riflettere sulla qualità della relazione tra gli attori coinvolti nel lavoro di supervisione in modo speculativo. Tutt’altro. Ci mette in contat-
* Nadia Fina vive e lavora a Milano. È una terapeuta individuale e di gruppo. Membro APG e IAAP. Terapeuta dell’adolescenza e della famiglia. Vicepresidente dell’Associazione COIRAG. È docente supervisore presso la scuola COIRAG all’interno della quale ricopre il ruolo di Preside. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali. Partecipato a libri collettanei e pubblicato, con Gabriella Mariotti, il testo Il disagio della Inciviltà. La psicoanalisi difronte ai nuovi scenari sociali che nel 2020 ha vinto il Premio Gradiva.
to profondo con l’intensità delle complesse emozioni che la narrazione del caso (o della situazione) generano nel “qui e ora” del lavoro che si sta compiendo insieme. Sono i pensieri e gli stati d’animo che continuamente emergono durante il lavoro di comune riflessione nel campo della supervisione, a generare quelle aperture di consapevolezza che accompagnano il ritmo del procedere verso forme di comprensione prima insospettabili. È grazie ai numerosissimi esempi clinici che costellano l’intero testo che ci è consentito di entrare nella parte viva e pulsante del suo lavoro dove emerge, tra l’altro e in modo estremamente chiaro per il lettore, come il paradigma di riferimento sia la relazione tra le soggettività interagenti. Un nucleo composito si delinea ed entra a pieno titolo nel progetto di cura: il terapeuta (o l’operatore coinvolto), affronta insieme al supervisore un vero viaggio la cui meta porta alla conquista di una nuova esperienza di sé. Questa forma di trasmissione del sapere procede attraverso la duplice conoscenza esplicita e implicita, consente movimenti di identificazione e de-identificazione che si muovono anch’essi su un duplice livello: verso il paziente “oggetto” di lavoro (sia esso individuo sia esso gruppo) e verso la figura dell’operatore/terapeuta nei confronti del supervisore. Questa doppia condizione diventa a tutti gli effetti una forma nuova di apertura esperienziale poiché, proprio grazie a questa complessa processualità, in tutti gli attori coinvolti avviene un passaggio interno dall’esperire un “oggetto soggettivo” su cui insieme si riflette, verso l’esperirlo come “soggetto soggettivo”, per citare una felice espressione di Jessica Benjamin. È un passaggio di valore euristico decisamente importante perché de-identifica l’individuo a questo punto pienamente soggetto del lavoro di supervisione, dalla patologia di cui soffre. Al “soggetto soggettivo” viene restituita la densità e la complessità che lo definisce in quanto umano, e nelle esperienze di supervisore che l’Autrice ci propone come vignette nel suo libro, questo passaggio si evidenzia con estrema chiarezza. Scalari ci ricorda costantemente che ciò che dobbiamo avere sempre presente è che l’incontro con il paziente è un incontro con la vita del paziente, e il “come” conosciamo definisce il “cosa” conosciamo di lui poiché gli affetti, le relazioni, i fenomeni mentali, dolorosi e non, sono dentro la vita del paziente che è una vita collettiva e culturale. “Come” conosciamo riguarda “cosa” andiamo a cercare, riguarda il tipo di struttura del sapere che un superviso-
re vuole trasmettere. È una tensione etica oltre che deontologica, che attraversa tutto il libro di Paola Scalari che aggiunge, se possibile, ulteriore intensità alla tridimensionalità con cui osserva, analizza e interpreta le situazioni che le vengono sottoposte. Inoltre, affinché si realizzi compiutamente questo transito al “soggetto soggettivo”, che è pieno riconoscimento identitario e che l’Autrice ci descrive non solo teoricamente, il supervisore/formatore deve analizzare profondamente i processi transferali e di idealizzazione del terapeuta/operatore/gruppo di lavoro, passando attraverso un’analisi attenta tanto del transfert positivo quanto del transfert negativo. Solo con queste condizioni preliminari i passaggi a seguire muoveranno nella direzione di un pieno riconoscimento della dignità del dolore come parte costitutiva dell’identità dell’essere soggetto.
Altre importanti considerazioni emergono nel libro e si sviluppano via via nelle diverse e feconde articolazioni che compongono il suo insieme. Vorrei soffermarmi sulla considerazione circa la consapevolezza necessaria, da parte del supervisore, di quanto in questo ruolo egli possa continuamente apprendere a sua volta dal supervisionato. Nelle considerazioni dell’Autrice, questa consapevolezza contribuisce a conformare perpetuamente, attraverso un lavoro di espansione comprensiva, il setting mentale. Per renderlo sempre più “setting saldo e sicuro” e per poterlo trasmettere in modo altrettanto saldo e sicuro. Apprendere ad apprendere come necessità permanente del mestiere del terapeuta, è questione fondamentale per la comprensione realistica del limite del setting. Nell’accettazione di questo limite è celato il processo stesso di maturazione clinica che trasforma i dubbi e le preoccupazioni sul deficit di prestazionalità del supervisionato, in autentica curiosità per il lavoro terapeutico e per il paziente. Comprendere cioè quanto sia importante accettare l’umano limite con cui ogni terapeuta è chiamato a fare i conti, consente di avviare quella ulteriore comprensione circa la necessità imprescindibile di raggiungere un ascolto che diviene “ascolto dell’ascolto”. Una forma di ascolto, cioè, che conduce alla consapevolezza di quali sono i vissuti del terapeuta sul paziente, di quali sono le emozioni in lui suscitate e di come può utilizzarle, rendendole vere e proprie avanguardie esplorative della relazione e della sua tenuta. Anche in questo senso, Scalari ci invita a considerare riflessivamente quan-
to l’identità squisitamente personale del terapeuta contribuisce a definire quella particolare forma di relazione con ciascun paziente. Una forma di equazione personale imprescindibile per il processo di cura. Nella visione condivisa del paziente con il supervisore si generano, nel mondo interno e mentale del terapeuta/ operatore in supervisione, tracce affettive che in quanto espressioni co-vissute tra gli attori della scena – cioè paziente, terapeuta, supervisore – rimangono nel tempo, generando via via una forma di apprendimento continuo e cumulativo. In questo senso la natura della supervisione si avvicina, come Scalari ci ricorda, a quella dell’analisi personale: la trasmissione del sapere avviene grazie al legame emotivo e di fiducia verso il supervisore. Come per il percorso di analisi, la relazione di supervisione è espressione di qualcosa di molto personale che il supervisore trasmette: un sapere che, come Ogden stesso afferma e a cui Scalari rimanda, riguarda il percorso umano e formativo un tempo attraversato dallo stesso terapeuta supervisore.
Un ulteriore elemento di riflessione che Paola Scalari ci sollecita, riguarda l’intimità relazionale tra supervisore e supervisionato. Una forma di intimità che non prevede solamente contenuti positivi e lineari. Anzi. Proprio grazie ai report clinici che ci propone, l’autrice ci mette difronte ai rischi di un pensiero “ingenuo” in proposito, che renderebbe il lavoro di apprendimento poco realistico e anzi piuttosto polarizzato sul versante mimetico di un “come se”. Al desiderio di conoscenza che inevitabilmente comporta forme imitative da parte del terapeuta in supervisione, deve proseguire una forma di apprendimento che Scalari paragona ad una forma d’arte. Possedere per rendere propria quella capacità del supervisore che affascina, farla materia propria plasmandola per ri-conquistarla. È una problematica che investe pienamente anche le supervisioni che avvengono nel campo istituzionale, poiché è in quel contesto che il terapeuta/operatore si trova a misurarsi con la necessità di una supervisione che lo aiuti a dare valore di appartenenza identitaria, valore che è in sostanza identificativo della stessa appartenenza professionale. Nelle situazioni descritte nel libro, appare evidente quanto la percezione identificante di questa forma di appartenenza, per realizzarsi non deve e non può eludere la consapevolezza di quanto la struttura psichica individuale che partecipa della gruppalità istituzionale in cui è inserita, corra continuamente il rischio di rimanere immersa in
una dimensione speculare all’Istituzione stessa e quindi catalizzata all’insieme di cui è parte. Queste considerazioni mi portano a quelle pagine del libro in cui l’Autrice si sofferma sulla generatività della supervisione in setting gruppale. Per la funzione che si attiva grazie a un pensiero consapevole circa il valore di una logica congiuntiva, che consente al suo interno continui epifenomeni. La natura associativa della supervisione in assetto gruppale dinamico, articolato e autenticamente circolante nella narrazione diventa espressione immediata della stessa complessità a cui i contenuti narrativi rimandano. Non a caso l’Autrice si sofferma a lungo sulla creatività prodotta dai gruppi di intervisione e di co-visione. Essi hanno la capacità di “intercettare transfert oppositivi” di “interrompere controtransfert proiettivi” di dare immediatamente “visibilità al latente”. È grazie al confronto tra metodologie diverse, ancor più se portate da professionisti a diverso titolo attivi nei progetti di cura ed educativi, che il setting gruppale di supervisione dona “coerenza a quanto osservato”. È un lavoro di vera co-creazione, frutto dell’impegno mentale continuamente condiviso che non consente di tornare più alle singole parti che lo hanno preceduto, pena la perdita del significato di quella forma di totalità che si sta compiendo. L’esperienza del gruppo di co-visione o di intervisione non satura, non ha bisogno di farlo poiché il dubbio, la differenza, l’incertezza, sono emergenti tutti di un modo di interrogarsi. E a questo proposito vorrei aggiungere che l’interrogarsi continuo, inteso come uno degli emergenti possibili, accoglie e trasforma quella forma di narrazione statica che a volte ci mette difronte al vissuto di essere senza via d’uscita. Si apre al futuro, grazie alla presentificazione di ciò che Scalari definisce essere la “valenza relazionale della supervisione”. Relazionale “in quanto modula nuovi assetti organizzativi del mentale”. Anche in merito a questi setting gruppali di cui Scalari ci racconta attraverso le vignette cliniche, risulta evidente come, le sollecitazioni di uno dei partecipanti che danno il via a ulteriori osservazioni da parte di altri, se inizialmente distanti e inconciliabili, divengono poi spunti fondamentali per un conferimento di senso dinamico alla complessità degli elementi emersi. È un vero e proprio lavoro di “co-creazione”, laddove ciò che emerge è il frutto di un impegno mentale condiviso dal quale non è più possibile tornare alle singole parti, se non perdendo il senso della totalità, appun-
to. L’Autrice insiste molto, e a ragione, su quanto la prospettiva fenomenologica della co-visione consente di cogliere quando, simultaneamente, il movimento del gruppo sia in grado di “mimare” le complesse intersezioni transferali e controtransferali della situazione clinica trattata, non dimenticando di prestare molta attenzione alla dimensione implicita. Rendere dicibile l’indicibile, allude a quel faticoso lavoro di rendere esplicito tutto quel campo di fenomeni impliciti che sottostanno a una relazione e che conducono a ciò che Stern definisce essere una “consapevolezza verbalizzabile”. La buona riuscita di un lavoro di supervisione concepito in questi termini, rende conquistabile una condizione di sufficiente libertà personale nell’esprimere i propri pensieri e il proprio sentire, confidando nei sottili legami di senso sincronicamente mossi dall’inconscio, condividendo quella particolare forma di consapevolezza che, al di là delle considerazioni esplicitate, si muove a un livello inconscio o implicito nel campo relazionale che coinvolge la coppia al lavoro, consentendo, come Scalari sostiene, di “creare” un significato condivisibile. L’assunto riguarda la possibilità di riconoscere l’enorme valenza motivazionale dell’intersoggettività che agisce a livelli multipli, generando qualcosa di specifico e unico che porta a qualcosa di nuovo a ciascun membro presente.
Se infatti uno scopo del terapeuta che lavora con il paziente o con il gruppo è quello di trasmettere e restituire un’immagine di sé come dotato di una mente che si muove secondo un funzionamento intenzionale e finalistico per lo sviluppo della sua personalità, il lavoro di supervisione condiviso nel setting gruppale (e in quello di scambio intervisione/co-visione), consente a ciascun terapeuta/operatore partecipante di sperimentare tanto il suo essere una mente attiva al lavoro, quanto l’essere testimone dell’emergere nel campo relazionale di qualcosa il cui senso è tutto da ricercare, scoprire, conoscere. Viene cioè implementato quel sentimento di curiosità che Scalari coniuga con quello di relazionalità. Come fossero due pilastri imprescindibili del lavoro di supervisione: per l’analista senior e per colui (individuo o gruppo che sia) che esperisce come forma di apprendimento. Accanto alla spiegazione di un procedimento sequenziale volto alla soluzione di una situazione problematica, nel setting gruppale si verifica il dispiegamento di un procedimento mentale e personale che diventa una guida interna alla soluzione di problemi complessi.
Così come avviene per l’incontro analitico tra terapeuta e paziente che può essere considerato un incontro su più livelli, tra inconscio e conscio all’interno di ciascuno e tra le diverse parti della psiche in relazione tra i due individui, Scalari riflette sul lavoro del gruppo in supervisione, puntualizzando che anche in questo contesto esperienziale il metodo terapeutico può essere pensato come un ampliamento della stessa fluttuazione tra le parti consce e inconsce degli attori presenti (e assenti), che rende ancora più complesso il movimento. Pur riferendosi all’attenzione fluttuante secondo una originaria concezione bioniana che riguarda prevalentemente la posizione del terapeuta in analisi, l’Autrice convincentemente ci invita a riflettere sulla reciproca interpenetrazione delle menti nell’incontro di supervisione, quella particolare condizione che ci consente di dire “Io sento che tu senti ciò che io sento”, oltre la capacità che io stesso posso avere di dichiarare a te supervisore. Momenti come questi possono orientare in modo del tutto inaspettato la storia relazionale in cui la persona o il gruppo supervisionato si trova. In momenti come questi, ci dice ancora Scalari, si genera uno stato nascente di comprensione, ancor prima che di consapevolezza piena, ma il cui significato si dilata. Torna in mente quello che Stern definiva essere il “now moment”, il “momento presente”, che avviene non in modo strutturato, eppure si caratterizza come esperienza intensa e immediata, che rivela verità davvero insospettabili sulla psiche in relazione. Questo stato emotivo, esattamente come avviene nelle situazioni di analisi, riguarda tanto il supervisionato quanto il supervisore. Nel gruppo in supervisione ad esempio, è l’assetto della mente dei membri del gruppo, fluttuante e intenta a scoprire, capire, riconoscere, che gli istanti emozionalmente carichi condivisi si caratterizzano come elementi definibili “qui e ora”, con un potere trasformativo senza pari. Mi ha molto colpito l’assonanza tra le considerazioni di Scalari e quelle di Stern: entrambi delineano come “ora soggettivo” ogni momento di cambiamento che implica un’esperienza inaspettata come esperienza reale. Un “ora” che diviene “momento presente” con una certa durata temporalmente contenuta, ma che mette in scena una storia emozionale riguardante la relazione. È qualcosa di diverso dall’insight, perché è qualcosa che va oltre la consapevolezza, rendendosi immediatamente capace di riscrivere il passato nel “qui e ora” e muoversi in modo dinamico verso il futuro.
Paola Scalari ci conduce nel metodo della supervisione rendendola “interosservabilità”, rimandando a un metodo “scientifico” – mi sia consentito dirlo – che si coniuga con una capacità artistica che lo nutre di emozioni profonde e coinvolgenti. Loewald in assonanza stretta con Ferenczi a cui Scalari rimanda più volte nel testo, sosteneva che le interpretazioni devono essere pensate non tanto e non solo come qualcosa che viene disvelato, quanto piuttosto come un reciproco connettere per mezzo del quale ognuno degli elementi messi in connessione guadagna o ri-guadagna significato, arricchendosi. E significato è proprio il termine che usiamo per il risultato di questa attività. Il compito emotivo dell’analista è immensamente faticoso, specialmente all’inizio della sua attività, quando cioè egli ha bisogno di sostegni. Il lavoro della supervisione assolve anche questa funzione. Essere un analista capace di rispondere, sia come professionista sia come persona, richiede un processo lungo. Ed è proprio per questo motivo che il problema dell’identità dello psicoanalista è strettamente legato a quello della formazione e del contesto istituzionale in cui essa avviene per quanto attiene, inoltre, ai rapporti interpersonali che permeano questo processo formativo. Questo libro è davvero prezioso. Non satura ma genera pensieri. Non si attesta su un supposto sapere ma coinvolge sollecitando riflessioni continue. Non pretende di insegnare ma di trasmettere e condividere una lunga sapiente conoscenza che è nata dall’esperienza.
È un libro che narra storie di persone e di esperienze vissute, di fatiche, ma soprattutto di una grande passione per un lavoro come quello che siamo chiamati a fare e con il quale l’Autrice continua a relazionarsi con la delicatezza che solo un sapere solido può determinare.
Ringrazio Paola Scalari per l’onore che mi ha conferito chiedendomi di scrivere questa prefazione: per me è stato un vero piacere di condivisione con lei.
La psicoterapia, così come ogni professione che si prenda cura del disagio umano, si fonda sulla capacità di creare una relazione, unica e irripetibile, che si sviluppa attorno al modo in cui ciascuno può influire sull’altro. Il clinico, ma anche l’assistente sociale o l’educatore creano un rapporto accogliente ed empatico con il paziente, l’utente o l’allievo affinché chi chiede aiuto possa sentirsi al sicuro mentre viene accompagnato nella ricerca di come poter vivere meglio. Durante questo percorso la supervisione relazionale, rivolta a tutti coloro che svolgono professioni che si prendono cura delle persone, trasmette un codice di lettura delle interazioni affinché, chi svolge una funzione di aiuto, si senta pienamente se stesso pur nell’incertezza del suo procedere verso la meta. Il divenire capaci di tollerare i disorientamenti, il saper lavorare per ipotesi, il proporre chiarimenti da perfezionare, lo sviluppare narrazioni insature richiede perciò di potersi appoggiare, con sicurezza e convinzione, a un modello di funzionamento della mente.
La supervisione relazionale dunque si propone di formare professionisti che procedono nella conoscenza dell’animo umano amando le incognite che devono sopportare, sviluppando la curiosità che li rende impavidi ricercatori, godendo della ricerca di quanto di sconosciuto li conduce nell’esplorazione, eccitante, spaventosa, meravigliosa, stupefacente, di ciò che, inaspettato, alla fine arriva a colpirli, toccarli, sconvolgerli e commuoverli. Nella supervisione relazionale, a partire da Wilfred R. Bion, fino alla teoria del campo dei post bioniani ed Enrique Pichon-Rivière, con tutti gli altri psicoanalisti argentini che hanno svi -
1.1
luppato la concezione operativa, viene approfondito quanto sia importante imparare a lavorare sia al singolare sia al plurale mantenendo lo stesso “sguardo ecografico”. Esso permette di osservare la Gestalt strutturale del gruppo interno ed esterno. È questa una visione capace di passare oltre al discorso manifesto per dare una forma narrativa all’intreccio emotivo del latente. La mente, inoltre, nella concezione operativa è sempre un gruppo. Come tale, quindi, va trattata sia in presenza di un’unica persona con il terapeuta, sia che egli si ponga come coordinatore di un aggregato umano.
Quest’arte, capace di vedere i gruppi dove si depositano i vissuti latenti, sarebbe interessante la si potesse apprendere immergendo i professionisti del prendersi cura in esperienze che la rendano sorprendente. Si potrebbe così trasmettere quel che finora si conosce su come si possa trasformare il mondo inconscio attraverso il dialogo intimo, la parola vitale e la comunicazione trasognante, che cercano di accompagnare la mente gruppale verso l’armonia. I professionisti che proseguiranno nel perfezionamento di questa metodologia lo faranno poi a modo loro potendo spendere i saperi che acquisiranno nei loro specifici campi di intervento. Saranno modalità originali che faranno attraversare i panorami interiori che vanno dispiegandosi oltre il visibile.
Il tema della trasmissione dei saperi è tuttavia oggi molto discusso poiché apprendere e continuare ad apprendere sono azioni poco contemplate dopo il raggiungimento dei titoli accademici. Svogliatamente, talvolta, i professionisti seguono formazioni imposte con la minaccia della punizione. Sono lezioni che vengono seguite solo per l’obbligo di accumulare crediti al fine di non uscire dagli albi professionali. Questi apprendimenti nulla hanno a che fare con il desiderio di seguire dei Maestri nell’Arte di dar voce all’inconscio per imparare il mestiere che permette di prendersi cura di chi soffre.
Continuare a studiare fuori dai sistemi scolastici accreditati però sostituisce la fatica di rispondere a quanto ufficialmente imposto con un senso di appagamento derivante dall’apprendere quanto corrisponde ai propri desideri. La motivazione personale riesce a far introiettare la teoria e la tecnica con un senso di piacere derivato dall’impadronirsi di un modo di operare che prima non apparteneva alle proprie conoscenze. Sentire che la mente si apre a inedite possibilità è infatti attraente, avvincente e appassionante.
Il segreto del soddisfacimento deriva da una formazione cercata, scelta, voluta e apprezzata. Il beneficio si ottiene permettendosi di godere di una prolungata e approfondita esperienza. La soddisfazione consiste nel far propria una metodologia di lavoro che è radicata sull’esistenza dell’inconscio in una sinergia relazionale con autori, maestri e colleghi che fanno sentire parte di una vasta comunità professionale che pone al centro del prendersi cura lo svelamento del mondo affettivo attraverso una costante rêverie.
La gioia del sapere si fonda sul senso di appartenenza a un gruppo eterogeneo che sollecita curiosità e voglia di rinnovamento. La gratitudine si nutre anche dell’affetto e della stima che lega gli allievi ai loro maestri e i formatori ai loro discepoli.
Le menti si dischiudono se amano ciò che incontrano.
La supervisione relazionale è in grado di creare un potente beneficio psichico, seppure costi impegno, fatica e, talvolta, scombussolamenti. Le tante lacrime che negli anni ho raccolto e asciugato sono una dolce e tenera manifestazione del dolore, della commozione e della trepidazione dei supervisionati. Rappresentano il senso di fiducia reciproco. Le ho amate tutte le volte che hanno fatto sgorgare dagli occhi sofferenza e consolazione, paura e speranza, affanno e sollievo, ansia e dolcezza.
La supervisione relazione propone allora una formazione che produce cambiamenti professionali, ma anche indirettamente personali, in quanto è capace di aprire a nuove possibilità di riflessione, di rievocazione e di rielaborazione.
Un apprendere che libera le menti per trasmettere ad altri la liberazione da ciò che emotivamente incatena a traumi del passato e del presente. Delle volte, purtroppo, sono questi anche degli aspetti depressivi introiettati nei percorsi scolastici che lasciano dentro più la paura di non essere all’altezza, performanti e ammirabili, che il gusto del sapere.
Siamo in un gruppo coordinato che si è avviato dopo un seminario teorico sulla lettura psicoanalitica del sociale con un approfondimento a partire dal testo di Marie Langer Maternità e sesso.
Vi partecipa la dott.ssa E.M., una signorile ed elegante donna dagli occhi
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color celeste cristallino e i capelli nero carbone. Da anni fa la psicoterapeuta e s’iscrive con costanza e dedizione a queste occasioni formative. M. viene con la speranza di imparare, ma anche con l’idea che lei non ce la potrà mai fare. Mi sono sempre chiesta il motivo di questa sua svalutazione e, in questa occasione, forse, l’ho compreso un po’ di più. Nella seconda sessione di supervisione, il dott. D.D. porta il caso di un bambino bruttino e fisicamente sgangherato che nessuno voleva. Figlio di una madre alcolista e tossicodipendente che lo lasciava da solo in casa chiudendolo, per interi giorni e qualche notte, in una lugubre e vuota stanza da letto. Un bimbo che ha vissuto a lungo in una famiglia dove prendeva botte e pativa i morsi della fame. Un ragazzino dall’aria provocante e fragile. Uno scugnizzo dai capelli ispidi e le ossa sporgenti. Un minore che è stato allontanato da casa dai servizi sociali portando però a una tale esasperazione la famiglia affidataria da indurla a rinunciare a tenerlo con sé. Un piccolo selvaggio agile e scattante come una scimmietta che chiede in tutti i modi di essere visto imbrattandosi di colore sul corpo, implora di essere guardato arrivando a rompere porte e sedie a calci e infine reclama l’essere voluto chiudendosi in bagno. Il dott. D. si lascia provocare senza reciprocare. Si fa attaccare fisicamente trasformando il bisogno di contenerlo in un caldo abbraccio. Mentre D. racconta questo commovente epilogo della sua psicoterapia, M. scoppia in un pianto dirotto. Non riesce a trattenere i singhiozzi. Pare essere tornata con la mente a una situazione del passato dove era abbandonata a se stessa. Dice: “Sono io quella bambina”. D., seduto accanto a lei, si torce, la guarda affettuosamente e l’abbraccia fisicamente accogliendola sul suo virile petto. La consola assieme a tutto il gruppo che si fa membra calde che la avvolgono silenziosamente. Tutti metaforicamente si stringono affettuosamente attorno a questa bellissima donna che fu una bimba abbandonata a se stessa. Ognuno sentendo risvegliarsi dentro di sé la parte infantile trascurata, triste e solitaria. Ciascuno avvicinandosi all’altro in cerca di un appoggio, un conforto, una rassicurazione.
È a questo punto che il gruppo diviene un’anima sola.
Vorrei porre l’attenzione sullo strumento della supervisione relazionale come occasione specifica per poter trasmettere un modello di lavoro con pazienti, utenti o alunni che pone al centro un sapere sull’interazione tra esseri umani.
La supervisione relazionale, declinata in diversi contesti individuali e gruppali, è un’opportunità fondamentale per contenere l’inquietudine esistenziale. Diventa l’occasione migliore per trasmettere un metodo utile per prendersi cura delle persone sofferenti. Consiste in un percorso per capire come si coltivino i rapporti interpersonali al fine di trasformarli e trasformarsi.
Tramanda un sapere analitico su come avviare, costruire e comprendere i vincoli che legano tra di loro gli esseri umani toccando, in contemporanea, aspetti emotivi e cognitivi.
Apre a un percorso formativo che può trasmettere un metodo di intervento a tutte le professioni che si prendono cura di un soggetto che soffre, patisce ed è fragile. La supervisione relazionale è uno strumento imprescindibile se vi è il desiderio di crescere professionalmente. È questo tuttavia un anelito che dovrebbe albergare in ogni operatore che si occupa della salute emotiva delle persone sofferenti. Ognuno può farlo partendo proprio dall’occuparsi di se stesso. Chi lavora attraverso la relazione deve essere il più possibile “padrone a casa sua”. Dovrebbe cioè possedere uno spazio interiore da lui esplorato, osservato e analizzato. Solo se ci si conosce si può aiutare l’altro a conoscersi.
Sigmund Freud, padre della psicoanalisi, suggeriva un’analisi personale ogni cinque anni, o perlomeno una trance di analisi da riprendere periodicamente per tenere in ordine la propria vita psichica. Nel trascorrere del tempo questo monito ha assunto la supervisione clinica, o analisi di controllo come viene chiamata soprattutto in Francia, quale adempimento a questa indicazione. Per ogni psicoterapeuta tenere in ordine la mente mentre cura la vita psichica di un paziente è dunque un dovere etico. Oggi però credo sia cruciale che ne possano usufruire anche altre professioni che si occupano dell’evoluzione identitaria di piccoli e grandi.
Recentemente si è posto il problema non solo di come vadano trasmesse le conoscenze necessarie al lavoro relazionale, ma anche su come sostenere l’utilità di offrire una supervisione a tutti coloro che si prendono cura dei disagi esistenziali. In contemporanea, sono nati molteplici dubbi su quale supervisione offrire alle figure professionali che non sono psicoanalisti, bensì psicoterapeuti, assistenti sociali, insegnanti, educatori oppure operatori sanitari. Queste questioni vanno analizzate con grande attenzione poiché, dall’indirizzo che prenderanno le risposte, dipenderà la vita psichica, la salute mentale e il benessere sociale di molte persone. Di conseguenza l’interrogativo fondamentale si articola su quali competenze debba possedere chi si definisce un supervisore che si occupa dei professionisti che si stanno prendendo cura delle
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persone che vivono delle difficoltà. Se le scuole che formano alla professione di psicoterapeuta, normalmente, hanno severi criteri per far accedere i docenti a questo incarico, fuori dal sistema di specializzazione, nell’ambito clinico, quali parametri si stanno usando o si potrebbero utilizzare per delineare il profilo professionale del supervisore? Inoltre, quale apporto la psicoanalisi, che ha dato vita storicamente a questa funzione di controllo a tutela del paziente, può offrire a chi si propone come supervisore di professionisti che lavorano stabilendo delle relazioni affettive, emotive, trasformative con i loro utenti o allievi?
Ipotizzo che solamente chi ha una formazione sufficiente per esplorare il mondo interno e non solo degli altri, ma soprattutto del proprio, può essere un professionista in grado di occuparsi del puer1 che deve evolvere, crescere, svilupparsi, realizzarsi.
Annamaria Burlini, psicosocioanalista, sottolinea:
Il Puer è il centro epistemologico della psicosocioanalisi, da cui derivano metodo e prassi. Puer indica in un primo luogo la condizione di figli, che ci rende tutti uguali e tutti unici. Il nostro essere figli si struttura nelle dinamiche più o meno felici della famiglia e i nostri figli si inseriscono in una linea di continuità, in un albero genealogico di appartenenza, che può essere inserito in un terreno, in un clima, più o meno favorevole alla crescita.2
Con Bion abbiamo imparato che l’essenziale è guardare al rapporto tra contenitore e contenuto. Egli, infatti, con i simboli del femminile e del maschile indica la capacità della madre di accogliere le proiezioni sensoriali del piccolino e restituirgliele bonificate, digeribili, comprensibili. Potremmo dire che l’essenza del modello della supervisione relazionale sta nella parola tra, cioè non riguarda né l’analista né il paziente, ma il campo creato dalla loro relazione intersoggettiva. Questo campo bipersonale o multipersonale lo crea però ogni operatore che lavora per contrastare il disagio, sia esso quello di un singolo sia esso quello di un gruppo familiare o di un qualsiasi altro contesto collettivo riunito per sviluppare nuovi saperi. Unicamente chi sa rappresentarsi e nominare il mondo degli affetti che si sviluppano dentro alle relazioni gruppali può quindi dare visibilità ai vissuti interiori che generano un modo di comportarsi disfunzionale nelle persone che stanno male, sono vulnerabili e si sentono smarrite.
L’abitudine maggiormente diffusa è invece quella di tenere il mondo dei sentimenti sotto il controllo della coscienza che ne dovrebbe dirigere ogni manifestazione. Soffocando le emozioni, impedendo loro quindi di esprimere quanto anelano comunicare, si votano però gli esseri umani all’infelicità e alla malattia. L’assenza di comprensione del mondo relazionale, che non riguarda il singolo soggetto ma il suo essere in rapporto con altri, genera pertanto, oggi più di ieri, pazienti, utenti e allievi ritenuti intrattabili. Si possono perdere le speranze oppure si possono affinare le competenze nella visione del lavoro gruppale. Sono queste delle abilità che la supervisione relazionale aiuta ad apprendere incontro dopo incontro.
Sono passati alcuni mesi da quando una mia giovane paziente, un po’ tarchiata e con la testa sempre sulle nuvole, mi chiese il nominativo di uno psicoterapeuta per una sua cara amica che, come lei stessa pochi anni prima, aveva crisi di panico e angosce claustrofobiche. La paziente mi raccontò come il giorno prima la sua amica le avesse telefonato scoppiando in un pianto a dirotto che l’aveva persuasa a correre urgentemente a casa della stessa. Anche l’amica, però, si stava precipitando verso l’abitazione della mia paziente e si persero tra il reticolo di calli che le conducevano da una parte all’altra della città sull’acqua. Ma all’altezza del ponte della Misericordia, unico senza sponde in tutta la città di Venezia, si incontrarono. L’amica era stata scaricata dalla sua psicoterapeuta che le avrebbe detto: “Io non posso fare più nulla per lei. Finiamola qui”.
La mia paziente, al di là della gratitudine per aver combattuto con lei i suoi sintomi, essendo ormai in chiusura della sua analisi, mi rammentò come tra noi era stato tutto all’inverso. Infatti, quando lei temeva di non venirne fuori, io l’avevo sempre sostenuta a lottare con le sue paure. E, seppure le suggerii che aveva bisogno di sapere se ci sarei stata per lei dopo l’imminente conclusione che la lasciava senza il contenitore analitico, quindi senza sponde e senza condivisione delle sue pene, pensai, tra me e me, che la collega aveva avuto davvero troppa paura al punto da non riuscire nemmeno ad accompagnare altrove la sua paziente. Forse l’essere abbandonati violentemente è l’incubo di ogni persona, non so. Forse quello della mia paziente fu solo un importante sogno sulla terapia e come tale infatti lo trattai.
Questo evento, in una tiepida giornata primaverile nella mia città ancorata sulla verde laguna, sono convinta però sia davvero accaduto. Per questo le diedi anche il nominativo di uno psicoterapeuta che supervisionavo da anni.
È a una catastrofica perdita di potenzialità umane che una supervisione potrebbe offrire il suo contributo, affinché i professionisti del prendersi cura, anziché darsi per vinti di fronte a strutture di personalità sofferenti, disadattate o disfunzionali,
possano esplorare il vissuto interiore con sonde adeguate. La supervisione relazionale si propone quindi di andare in profondità non vedendo il singolo separato dai suoi contesti gruppali, bensì osservando la sua mente come il deposito di parti o intere figure che animano la sua esistenza e che stanno in relazione tra di loro.
1 Berto, Scalari, 2013.
2 Basili, Burlini, Pagliarani et al., 1990.
Questo libro è un dono che l’autrice fa a tutti i professionisti che si occupano della cura, dell’aiuto e della crescita delle persone condividendo anni di esperienza in supervisioni individuali e di gruppo. Un dono ancora più prezioso perché delinea un metodo di supervisione, quello relazionale, che accompagna il lettore nell’apprendimento di un modello psicosocioanalitico attraverso il racconto di situazioni complesse accolte in setting individuali, gruppali e istituzionali.
La supervisione sostiene e supporta i professionisti a imparare ad ascoltare se stessi mentre ascoltano l’altro, fungendo da “spazio di digestione” di stati emotivi che possono intossicare la mente se non vengono compresi ed elaborati.
Attraverso un processo che prevede di “lavorare insieme”, articola contenitori relazionali che accolgono le situazioni di malessere e di disagio con l’obiettivo di dare parola a questi stati emotivi.
Nel libro la supervisione relazionale è presentata e raccontata come un’azione di cura umile e riparativa, quasi da “rammendatrice”. Un riparare, riannodare e risignificare legami che diventa necessario affinché chi cura continui a farlo bene stando bene.
Il testo, arricchito da numerosi esempi clinici che illustrano il metodo di lavoro dell’Autrice, esplora in profondità la supervisione relazionale nel campo della salute mentale, della cura sociale e del lavoro educativo, mettendo in luce come la relazione tra supervisore e supervisionato possa rappresentare la chiave per una pratica professionale consapevole e trasformativa.
“Questo libro è davvero prezioso. Non satura ma genera pensieri. Non si attesta su un supposto sapere ma coinvolge sollecitando riflessioni continue. Non pretende di insegnare ma di trasmettere e condividere una lunga sapiente conoscenza che è nata dall’esperienza.
È un libro che narra storie di persone e di esperienze vissute, di fatiche, ma soprattutto di una grande passione per un lavoro come quello che siamo chiamati a fare e con il quale l’Autrice continua a relazionarsi con la delicatezza che solo un sapere solido può determinare” (dalla Prefazione di Nadia Fina).
Paola Scalari è psicologa, psicoterapeuta, psicosocioanalista ed esercita a Venezia. Docente in Psicoterapia della coppia e della famiglia e supervisore alla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia della COIRAG Istituto di Milano e di Tecniche di conduzione del gruppo operativo nella consociata ARIELE Psicoterapia di Brescia. Nel 2001 nella 1a giornata dello psicologo è stata insignita dall’Ordine Psicologi del Veneto del primo premio per l’attività professionale svolta e, nel 2014, del riconoscimento di Eccellenza Professionale dalla città di Mestre-Venezia. Da anni è consulente, docente, formatore e supervisore di gruppi ed équipe di associazioni, enti e istituzioni che operano nei settori sanitario, sociale, educativo e scolastico.
Ha pubblicato per le edizioni la meridiana Adesso basta. Ascoltami! (2004), Divieto di transito (2005), Fuggiaschi (2005), ConTatto (2008), Padri che amano troppo (2009), Mal d’Amore (2011), A scuola con le emozioni (2012), Il codice psicosocioeducativo (2013), Parola di bambino (2013), Fili spezzati (2a edizione, 2016), In classe con la testa (2016), L’ascolto del Paziente (2018), Conoscere il gruppo (2020) e Migrare nel Web (2022).
ISBN 979-12-5626-054-6
Euro 20,00 (I.i.)