
Un testo nato da conversazioni con Andrea De Domenico, funzionario delle Nazioni Unite, e accompagnato dalle preghiere di Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme

Nandino
Capovilla
Un testo nato da conversazioni con Andrea De Domenico, funzionario delle Nazioni Unite, e accompagnato dalle preghiere di Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme
Capovilla
Prefazione di Norberto Julini
Un testo nato da conversazioni con Andrea De Domenico, funzionario delle Nazioni Unite e accompagnato dalle preghiere di Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme
Demolizioni degli edifici in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme
la terra e ti usano violenza
Le colonie e le violenze dei coloni in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme
Checkpoint e libertà di movimento in Cisgiordania,
Parlare, svelare, informare, denunciare, documentare, testimoniare sono forme di resistenza nonviolenta per opporsi a un poderoso apparato disinformativo, ricco di denaro e di connivenze.
Per testimoniare occorre aver visitato la Palestina, aver incontrato palestinesi che hanno scelto la resistenza nonviolenta e israeliani dissidenti che praticano la disobbedienza civile di fronte alle pratiche disumanizzanti dei loro governi.
La “narrazione”, o “hasbarà” in ebraico, è diventata infatti un’arma di guerra per giustificare ciò che non è consentito dal diritto internazionale: cacciare il popolo palestinese dalla sua terra, trattare chi rimane come ospite temporaneo in posizione subordinata all’occupante, confinarlo in territori sempre più ristretti senza diritti e risorse vitali; aggredire, imprigionare, terrorizzare, uccidere chi vorrebbe soltanto vivere in pace sulla propria terra.
Perseverare nella bugia originaria dichiarata più di un secolo fa: “Un popolo senza terra per una terra senza popolo”, mantiene aperta e conflittuale la questione palestinese. Quest’arma è usata con intensità martellante e dilagante pervasività su gran parte dei mezzi di comunicazione d’ogni genere e comporta notevole dispendio di risorse milionarie fornite dai governi israeliani e dalle lobby sioniste presenti soprattutto negli Stati Uniti.
Tutto questo genera una rete d’informazione che divulga ovunque sempre lo stesso messaggio: la Palestina appartiene al popolo ebraico per “diritto divino” e gli “arabi” la occupano provvisoriamente, si ostinano a rimanerci e non riconoscono a Israele il diritto di esistere. Altra bugia generatrice di odio e contrasto.
Per questo opporsi alle operazioni militari di pulizia etnica, di violenta apartheid e di possibile genocidio1, comporta esercitare la resistenza con un’operazione nonviolenta di verità: questo libro ne è veritiera testimonianza.
* Coordinatore di Pax Christi in Italia.
1 Si fa riferimento alla “Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio” adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 9 dicembre 1948 ed entrata in vigore il 12 gennaio 1951. Il 14 novembre 2024 un comitato speciale dell’ONU, creato nel 1968 per monitorare le azioni di Israele nel Territorio palestinese occupato, ha affermato in un rapporto che “la guerra di Israele a Gaza è coerente con le caratteristiche del genocidio, con vittime civili di massa e condizioni di pericolo per la vita intenzionalmente imposte ai palestinesi” (fonte: Ufficio dell’alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite).
Solo rispecchiandoci nel volto di ciascun palestinese per raccoglierne la storia e ascoltarne la sofferenza, potremo fare verità che è principio di pace, come al contrario la menzogna è strumento di guerra.
Questo libro raccoglie il lavoro di Nandino e Betta, che hanno documentato storie attinte da una fonte pura, non inquinata da pregiudizi o da ideologie, ma capace di elencare, numerare, datare, verificare come è nella missione dell’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), preposto al coordinamento dell’azione umanitaria delle diverse agenzie delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative (ONG).
In questo libro la verità fattuale ha nomi di persone, indica luoghi, tempi, sequenze documentate. Sono storie contrassegnate da parole (bussola, supplica, volti...) usate come segnali d’attenzione al carattere specifico della testimonianza o come avvisi di pericolo da cui guardarsi.
Storie che servono a “illuminare le verità sepolte” da cumuli di menzogne e da macerie di una “catastrofe intellettuale”, come afferma Roberta De Monticelli2. Una catastrofe che ci riguarda e da cui non usciremo indenni, ancorché ne abbiamo la presunzione.
Ignorare il massacro in corso sia perché si volge lo sguardo altrove o perché si vive l’ignoranza della questione palestinese, iniziando la narrazione dal 7 ottobre del 2023, è colpa inescusabile e avrà conseguenze distruttive anche per il nostro presente e futuro. Noi occidentali infatti perderemo la forza e l’efficacia del diritto che ci siamo dati sulle macerie ancora fumanti di un’Europa a pezzi, costellata da cimiteri di caduti d’ogni popolo.
Se il diritto evapora per incuria e impunità dovremo ricominciare daccapo? Se non si applica per fermare un probabile genocidio in diretta come quello di Gaza e della meno ricordata Cisgiordania, non si potrà applicare più e sarà la regressione di un’intera “civiltà” al diritto del più forte.
Ma un’altra domanda non lascia in pace e interpella i credenti in Gesù di Nazaret, quella di Michel Sabbah, già patriarca palestinese dei cristiani latini, e ora come nuovo Giobbe, “il perseguitato” nella lingua ebraica, che interroga ogni giorno Dio stesso chiedendo ragione dell’angoscia presente, ma con la fede e la speranza di chi afferma: “Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!”. La polvere a cui è ridotta Gaza e quanti sotto quella polvere giacciono ancora. Una polvere non inerte, piena di umanità frantumata, fertile di resistenza e non di resa. Per questo don Nandino ne raccoglie le invocazioni quotidiane, ritrovabili sul sito di “Bocchescucite”, le diffonde, ne fa preghiera per nutrire la nostra consapevolezza, la nostra speranza. Essere “bocche scucite”, che non tacciono, che denunciano,
2 Postfazione al testo J’accuse di Francesca Albanese e Christian Elia, ed. Fuori Scena, 2023.
annunciano con speranza l’avvento del kairos, il tempo propizio per il riconoscimento della Palestina e del suo popolo, contrastando il progetto di annientamento e di sostituzione che procede impunemente da decenni: da quando l’arrivo dei coloni sionisti interruppe la secolare convivenza pacifica tra i fedeli delle tre religioni del Libro. Iniziò allora il progetto di colonialismo d’insediamento anacronistico e tuttora in tragica progressione.
Per contrastare la “dissolvenza dei volti” delle vittime, come diceva don Tonino Bello, per evitare la cancellazione della loro storia e la discesa nella fossa comune dell’oblio – dove le persone sono conteggiate nel numero dei “danni collaterali”, ma non raccontate nell’unicità della loro esistenza e dignità umana – questo libro ci aiuta a pregare, a riflettere, ad apprendere e a scucire la nostra bocca per dire la verità, pietra angolare di ogni pace.
È quello che in questi vent’anni ha cercato di fare la Campagna “Ponti e non muri” di Pax Christi Italia, che gli autori promuovono insieme ad uno staff nazionale. Accompagnando in viaggi di conoscenza in Palestina gruppi di persone che divengono “pellegrini di giustizia” e “bocche scucite”, Betta e Nandino hanno abbracciato quel popolo oppresso, ne hanno condiviso il dolore, conosciuto i volti, i nomi e soprattutto le storie.
“Parlate di noi, dite ai vostri governi di non essere complici della spoliazione di ogni diritto umano che stiamo subendo” è l’appello che raccogliamo ogni volta che ci rechiamo laggiù.
Ci hanno definiti “raccoglitori di storie”: significa andare qua e là ad incontrare, guardare, abbracciare.
Soprattutto significa provare a mettersi in ascolto di qualcuno che è altro da noi, che vive in mondi altri dai nostri, o forse no.
Dice del desiderio di immaginare storie altre.
Vuol dire gioire e indignarsi, com-patire e ragionare.
E poi narrarlo: cercare le parole, rispettare i silenzi, illuminarsi per gli sguardi scambiati.
Tante volte abbiamo voluto farlo in terra di Palestina, il luogo dell’urgenza, della pace tradita e calpestata.
Ora è più necessario che mai.
Avevamo bisogno di mappe che accompagnassero i nostri passi, di chiavi di lettura, dei segnali indicatori di chi, da tanto tempo, ha tracciato le vie che denunciano soprusi impuniti, ostacoli – umani, solo umani – ad una pace giusta. Per orientarci ci serviva ancora una volta una bussola precisa, che suggerisse che sì, era quella la strada, l’unica strada possibile da percorrere insieme.
Abbiamo portato con noi le mappe di OCHA e il Diritto Internazionale ad indicare: “la stella polare è lassù, non perdetela di vista, di testa, di cuore”.
Betta e Nandino con Andrea
106x161mm
2.228.000
1.777
Popolazione ottobre 2023
strutture demolite (di cui 1 292 ad uso abitativo)
721
4.574
sfollati in seguito alle demolizioni
EGITTO GIORDANIA SIRIA
LIBANO
SIRIA
GAZA STRISCIA OVEST BANCA
241
ISRAELE
EGITTO
POPOLAZIONE PER GOVERNATORATO
2.228.000
Popolazione ottobre 2023
Nord Gaza
Gaza
La storia-accaduta
palestinesi uccisi in Cisgiordania (di cui 165 minori)
Deir El Balah
12
Quando ti tolgono la casa Demolizioni degli edifici in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est
2.114.000
Popolazione ottobre 2024
670
GIORDANIA
strutture demolite a Gerusalemme Est (di cui 161 ad uso abitativo)
444 000 Superficie
1.900.000 sfollati, 90% della popolazione
sfollati a Gerusalemme Est 86
strutture demolite, finanziate con donazioni internazionali
79% (288 km2) del territorio sotto ordini di sfollamento forzato
Arco temporale di rilevamento dei dati: dal 07.10.2023 al 07.10.2024
POPOLAZIONE PER GOVERNATORATO (INCLUSO SFOLLATI)
2.114.000
Popolazione ottobre 2024
Nord Gaza
1.900.000 sfollati, 90% della popolazione
23
Gaza
palestinesi uccisi da coloni
750.000
POPOLAZIONE PER GOVERNATORATO
320.000
79% (288 km2) del territorio sotto ordini di sfollamento forzato
Deir El Balah
israeliani uccisi in Cisgiordania (di cui 2 minori), 16 israeliani uccisi in Israele da palestinesi della Cisgiordania
340.000
65.000
Un tempo, tra le palafitte come tra le grotte, nei borghi rurali, nei villaggi alpestri come nelle città-fortezza, nei paesini come nelle periferie delle metropoli, le persone fantasticavano sulla loro casa.
Khan Younis
6.470 palestinesi feriti (di cui 1.040 minori)
Nord Gaza
Rafah
Gaza
439 000
POPOLAZIONE PER GOVERNATORATO (INCLUSO SFOLLATI)
135 israeliani feriti (di cui 1 minore)
Khan Younis
Rafah
444 000
Nord Gaza
749 000
1.454 attacchi di coloni registrati dalle NU
Gaza
916.000
Casa-capanna, casa-palazzo, casa-castello, casa-di-roccia, casa-di-ghiaccio, casa-a-colori, casa-appartamento e casa-casa: tutte e tutti sognavano il rifugio, la culla, l’abbraccio dei muri, delle frasche o delle assi dipinte.
44.000
Ottobre 23- Ottobre 24
65.000
Un tempo, la gente nel mondo desiderava vivere in un posto e chiamarlo casa, per poterci ridere e piangere, arrabbiarsi e gioire; per poterci mangiare, dormire, fare l’amore, sussurrare e cantare; qualcuno voleva starci per pensare o pregare. Vivere la propria casa significava condividere le proprie emozioni, costruire relazioni e memorie familiari. Talvolta la gente aspirava a tramandare la propria casa di generazione in generazione, dai genitori ai figli, dai figli ai nipoti.
Deir El Balah
275.000
713 km
Khan Younis
Rafah
320.000
di muro pianificato (doppio della lunghezza della linea verde) di cui 65% completato
439.000
223
275 000
750.000
793
ostacoli totali
Deir El Balah
Khan Younis
Rafah
570
340.000
749 000
Ottobre 2023-Ottobre 2024
ostacoli con impatto permanente (89 posti di blocco; 158 cumuli di terra; 122 cancelli; 104 blocchi stradali; 97 chiusure di strade)
916.000
Tutte e tutti dicevano che la casa era indispensabile, che era un diritto universale e che essere privati di quel diritto sarebbe stato qualcosa di abominevole. Il sogno, allora, doveva essere garantito.
44.000
86
ostacoli con impatto temporaneo (149 posti di blocco; 74 cancelli)
13
Per molti il sogno divenne principio sancito e realizzato.
ostacoli al movimento aggiunti dopo il 7 ottobre
Per molti altri il sogno rimase sogno.
posti di blocco per entrare a Gerusalemme Est dalla Cisgiordania (di cui 3 accessibili ai palestinesi)
Ottobre 2023-Ottobre 2024
Ottobre 2023-Ottobre 2024
Per altri ancora, in terra di Palestina, il sogno realizzato è tornato ad essere solo un sogno. Ma è un diritto anche per loro: lo hanno infranto brutalmente gli occupanti, anno dopo anno.
Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione
Dichiarazione universale dei diritti umani, art. 25
Il diritto all’abitare, conosciuto anche come diritto “alla casa” è sancito, nel diritto internazionale, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 (art. 11), ma non è così per tutti.
In tutta la Palestina storica Israele ha emanato, dal 1948 in poi, vari atti normativi, come la cosiddetta “Legge sulla proprietà degli assenti” del 1950, poi modificata negli anni Settanta, che ha profondamente influito sul diritto alla casa. Stabiliva e stabilisce che in Israele, se una persona è proprietaria di una casa o di un terreno e lo lascia incustodito per un certo tempo, lo stato di Israele lo fa proprio e ne stabilisce il futuro utilizzo. Durante la nakba3 circa 750.000 palestinesi furono forzatamente allontanati dalle loro abitazioni e proprietà, che in parte furono demolite, in parte riassegnate ai novelli cittadini ebrei israeliani e in parte lasciate inabitate.
Israele è ancora lo stato occupante del Territorio palestinese occupato (Cigsiordania compresa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza), e in quanto tale ha il dovere di attenersi alle norme internazionali che regolano l’uso delle proprietà appartenenti alle popolazioni occupate. In particolare, uno stato occupante ha l’obbligo di mantenere inalterata la geografia e la demografia del territorio che occupa, non può espellere persone dai loro luoghi di vita, né distruggere le loro case o assegnarle ad altri, salvo casi straordinari di assoluta necessità militare. Il diritto internazionale umanitario, infatti, è chiaro: l’art. 53 della IV Convenzione di Ginevra del 1949, relativo alla protezione delle persone civili in tempo di guerra, afferma che “la distruzione di proprietà da parte dello stato occupante è vietata, tranne nei casi in cui tale distruzione sia resa assolutamente necessaria da operazioni militari”.
Nel Territorio palestinese occupato costruire una casa, o semplicemente espanderne una esistente, non è solo una questione tecnica o di risorse: è una questione politica, che va di pari passo con le pratiche e le politiche demografiche di restrizio-
3 Letteralmente “catastrofe”: espulsione di 750.000 palestinesi dalla loro terra (pari a metà della popolazione palestinese di allora) e distruzione ed evacuazione di oltre 500 di villaggi. La cacciata si ottenne con azioni terroristiche in alcuni villaggi come Deyr Yassin, avvenuta prima della proclamazione dello stato d’Israele, e con l’esodo forzato (si ricordi ad es. “Operazione scopa”).
ni ed espulsioni. Il governo israeliano sembra ridurne la portata ad una sorta di disputa sulla proprietà, ma non è così: è evidente che l’apparato normativo israeliano discrimina la popolazione palestinese.
La realizzazione di una casa ha una relazione diretta con la dinamica demografica di un luogo, e dunque sul Territorio palestinese occupato diventa una questione spinosa che immancabilmente si è sempre scontrata con la determinazione del governo israeliano (di tutti gli schieramenti) di limitare, contenere e controllare la presenza della popolazione palestinese, in particolare a Gerusalemme Est e nell’area C della Cisgiordania. Israele afferma appunto che è una questione di rispetto delle norme sulla proprietà, ma quando si guardano i dati, per ammissione dello stesso COGAT4, in area C oltre il 90% delle domande palestinesi concernenti costruzioni o ampliamenti di edifici vengono rigettate, contro il 60-70% di domande israeliane accettate. Interrogato al parlamento israeliano dai gruppi che sostengono i coloni su “cosa stava facendo per fermare l’espansione palestinese” (a casa loro), COGAT ha dichiarato di star facendo tutto il possibile per limitarla, ammettendo di fatto di violare il diritto internazionale umanitario.
Oltre a negare alla popolazione palestinese il diritto a espandere o costruire una casa il governo israeliano, sempre più spesso dopo il 7 ottobre 2023, demolisce abitazioni private a danno di interi nuclei familiari, per punire individui coinvolti in azioni violente o attacchi armati, presunti o accertati. Questa pratica, oltre ad aver dimostrato limitata efficacia nel suo intento di contenere atti violenti contro la popolazione israeliana per stessa ammissione dell’esercito israeliano, va contro il diritto internazionale umanitario, per cui nessuno può essere punito per un atto che non ha commesso.
Recentemente, in particolare a Gerusalemme Est, molti proprietari di abitazioni sono costretti a demolire con le proprie mani le loro case, a seguito dell’introduzione dell’emendamento 116 alla legge per la costruzione e la pianificazione, noto come “Emendamento Kaminitz”. Per evitare oltre alla beffa, il danno, le persone demoliscono le loro case, che a volte sono una semplice espansione in verticale di quelle esistenti per non dover pagare, oltre alle multe imposte per la violazione della legge, anche i costi dei mezzi che dovrebbero distruggere la loro casa e l’imponente e costoso servizio di mantenimento dell’ordine pubblico, che viene sistematicamente dispiegato per sedare eventuali tensioni.
Le sanzioni amministrative e pecuniarie e l’accorciamento dei tempi di esecuzione degli ordini di demolizione sono concepite per ostacolare l’“intifada legale”: il governo israeliano, negli ultimi anni, si è reso conto che gli strumenti legali a dispo-
4 Unità dell’esercito israeliano per il coordinamento degli affari civili nel Territorio palestinese occupato.
sizione della popolazione palestinese davano loro la magra consolazione di ritardare, talvolta per moltissimo tempo (sino a 25 anni), la demolizione delle sue abitazioni. Inizialmente l’emendamento era stato introdotto per gestire situazioni legali in Negev, nel sud di Israele, dove le comunità beduine, composte da cittadini israeliani non ebrei, usavano disposizioni di questa legge per ritardare le demolizioni di strutture costruite illegalmente. Successivamente si è capito che lo stesso emendamento poteva essere molto utile nel contesto delle demolizioni di abitazioni a Gerusalemme Est. Aumentando esponenzialmente gli importi delle multe e aggiungendo i costi legati alle demolizioni, si mirava a introdurre elementi di deterrenza alla costruzione di nuove strutture. Tutto ciò, va ribadito, per facilitare la demolizione di strutture palestinesi che, dal punto di vista del diritto internazionale, è pratica illegale.
Attualmente in Cisgiordania inclusa Gerusalemme Est sono circa 22.000 le strutture di proprietà di palestinesi con ordine di demolizione pendente. Con l’ordine militare 1797, l’autorità militare ha fissato a 96 ore il tempo tra la notifica di una demolizione e la sua esecuzione. Questo meccanismo è stato introdotto per ridurre il tempo a disposizione dei proprietari per attivare ricorsi legali e contestare l’ordine di demolizione, visti come strumenti legali della resistenza palestinese.
Le strutture demolite in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, dal 7 ottobre 2023 al 7 ottobre 2024, ammontano a 1.777, di cui 1.292 ad uso abitativo: nel 66% dei casi ciò è avvenuto per mancanza di permessi, che sono praticamente impossibili da ottenere per i palestinesi. Il numero complessivo delle strutture demolite comprende anche quello di Gerusalemme Est, in cui il fenomeno ha avuto una rilevanza notevole, che annovera nello stesso arco temporale 241 strutture, di cui 161 ad uso abitativo.
Gerusalemme Est: parte integrante della Cisgiordania occupata per la comunità internazionale, dal 1980 totalmente integrata da Israele nel proprio territorio nazionale, in violazione del diritto internazionale, e dove la presenza legalizzata dei quartieri palestinesi è stata ridotta al 13% del territorio dell’intera municipalità, e dunque l’unica parte della città dove i palestinesi hanno potuto mantenere ed espandere legalmente le loro abitazioni. Oggi quel 13% del territorio della municipalità è interamente costruito.
Contestualmente a tutto ciò, il governo israeliano porta avanti, come è noto e come è stato dal ’67 in poi per tutti i governi succedutisi nel tempo, una politica di espansione delle colonie in Cisgiordania inclusa Gerusalemme Est, che si avvale anche di norme e provvedimenti ad hoc. Attualmente le colonie presenti in Cisgiordania inclusa Gerusalemme Est, illegali secondo il diritto internazionale, sono circa 300: tutte su terra sottratta ai palestinesi. È superfluo sottolineare che le demolizioni di strutture abusive costruite dai coloni sono una rarità.
Molte organizzazioni umanitarie internazionali palestinesi e israeliane supporta-
no la popolazione palestinese nella denuncia dei soprusi subiti e nella rivendicazione di quel diritto fondamentale che è avere o poter rimanere in una casa.
La Corte internazionale di giustizia sostiene che le demolizioni violino i diritti umani e che le pratiche attuate da Israele siano manifestazioni di trattamento discriminatorio nei confronti del popolo palestinese.
La storia-hanno-detto
“Se ne sono andati volontariamente”. La prima bugia. Le loro case, le loro proprietà furono consegnate a persone estranee: ebrei giunti da altrove, ebrei che erano già lì, in quella terra, ma che vivevano in altre case, ebrei sopravvissuti alla tragedia della Shoah, ma che non avrebbero dovuto essere “risarciti” dell’orrore subito da chi non aveva alcuna responsabilità e non aveva commesso quel crimine. I palestinesi, che abitavano legittimamente nelle loro case e vivevano sulla terra dei loro avi, erano vittime: scapparono, contro la loro volontà. Dopo la nakba, dopo il ’48, a Gerusalemme ebrei e palestinesi che vivevano nella città, vennero spostati da est a ovest e viceversa, arbitrariamente. Gli ebrei ebbero compensazioni e poterono stabilirsi in proprietà in precedenza appartenute a palestinesi. Lo stesso accadde a volte ai palestinesi, ma per alcuni oggi quel diritto è contestato e revocato.
“Se qualcuno costruisse una casa illegalmente in Central Park a New York, in Piazza San Marco a Venezia o in Place de la République a Parigi, non la buttereste giù?” Così dicono certi israeliani di fronte all’abbattimento delle case palestinesi. Certo che sì.
Ma è bugia, bugia.
È sviare l’attenzione da ciò che rappresenta la dinamica delle demolizioni nel Territorio palestinese occupato. Demolizioni e sfratti sono illegali quando li perpetra lo stato occupante nei confronti degli occupati.
“Noi distruggiamo per lottare contro il terrorismo.” Bugia, bugia: dopo il 7 ottobre 2023 le strutture demolite in Cisgiordania, soprattutto a Gerusalemme Est e nei campi profughi, hanno lasciato senza un tetto 4.574 persone, attraverso operazioni militari di guerra e non di polizia e antiterrorismo. Sono atti i cui effetti sproporzionati sui civili non sono compatibili con il diritto internazionale umanitario.
Dicevano un tempo quelli del COGAT, di essere in Cisgiordania per proteggere le comunità ebraiche vicine a quelle arabe ed evitare che potessero scoppiare tensioni e conflitti. Dunque l’intento era garantire sicurezza ai coloni. Oggi, il governo israeliano investe denaro per equipaggiare gli stessi coloni che si fanno carico di denunciare “l’abusivismo edilizio palestinese”. L’esercito israeliano, di fatto, viene ora
sistematicamente schierato per proteggere i coloni “dall’espansione della popolazione palestinese in Cisgiordania”. I fatti suggeriscono quindi che l’esercito israeliano sia in Cisgiordania non solo per proteggere i coloni e le loro azioni, anche quelle violente, ma anche per creare le condizioni affinché i palestinesi abbandonino la terra dove vivono: un fenomeno noto come espulsioni forzate. Espellere palestinesi per ricollocare coloni.
Non serve nemmeno più mentire.
La narrazione di un tempo era quella di dover proteggere i coloni installatisi in terra palestinese, garantire loro sicurezza. Oggi invece si concentra sulla necessità di difendere i coloni perché sono a casa loro, la terra è loro, e hanno il diritto di contenere l’“espansione palestinese”, ed estendere la propria.
Qui si va oltre le bugie: si crea una nuova realtà.
La storia-OCHA
OCHA: la sua area d’azione è il mondo. La sua bussola: la Carta delle Nazioni Unite, il diritto internazionale, i diritti umani e il diritto internazionale umanitario. I principi di riferimento sono i principi umanitari: umanità, neutralità, indipendenza e imparzialità.
OCHA è presente in Palestina dal 2001 per coordinare l’assistenza umanitaria destinata alla popolazione palestinese, supportare la protezione dei civili e mantenere informati la comunità internazionale e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulla situazione umanitaria nel Territorio palestinese occupato.
L’intervento di OCHA si estende solo agli Stati e ai territori che ne fanno richiesta. Non si estende dunque a Israele, le cui autorità hanno accettato l’intervento dell’ufficio solo nel Territorio palestinese occupato.
Si immagina spesso che le Nazioni Unite possano da sole risolvere situazioni di conflitto. In realtà OCHA (l’ONU), con l’aiuto essenziale dei partner umanitari con cui collabora, è come un’infermiera; i “medici” sono gli Stati membri delle Nazioni Unite. Sono gli Stati membri che possono prendere decisioni d’impatto nelle realtà dove operano le Nazioni Unite.
OCHA agisce, guidata dai principi umanitari, anche quando la volontà politica non è in grado di promuovere un vero cambiamento; anche quando uno Stato occupante cerca l’acquisizione e il controllo del territorio che occupa, in violazione del diritto internazionale. OCHA, in linea con il proprio mandato, risponde ai bisogni umanitari generati da queste azioni illegali, verifica i fatti, informa gli Stati membri e ricorda alla comunità internazionale le regole che dovrebbero essere rispettate da tutti. Le Nazioni Unite, però, dispongono solo degli strumenti che gli stati membri
mettono a loro disposizione e nulla possono fare per imporre determinati comportamenti o arrestare le azioni di uno Stato.
La frustrazione del personale delle Nazioni Unite è visibile e chiara, come rimane forte anche la sua determinazione nel promuovere la legalità internazionale.
In Palestina le organizzazioni delle Nazioni Unite, inclusa OCHA, assistono impotenti alla sistematica non applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
OCHA e altre organizzazioni delle Nazioni Unite ribadiscono infaticabilmente che l’occupazione è illegale e si adoperano per alleviare le sofferenze del popolo occupato.
Dal 2009, su richiesta di alcuni stati membri delle Nazioni Unite, OCHA documenta la demolizione delle case nel Territorio palestinese occupato, registrando accuratamente gli eventi. Il personale di OCHA si reca sui luoghi dove sono avvenute le demolizioni, quantifica i danni e verifica quante persone, soprattutto le più vulnerabili, sono state colpite dalla distruzione. In base a questa valutazione, attiva la risposta umanitaria in collaborazione con altre organizzazioni: si cercano case alternative, si pagano per un certo periodo affitti e si mobilitano varie reti di assistenza.
Il ruolo di verifica che OCHA compie è fondamentale per attivare la risposta umanitaria: mobilitare le organizzazioni che possono concretamente offrire servizi alle persone coinvolte.
Quando può, preventivamente, OCHA cerca di fare azioni di advocacy.
OCHA siamo noi, perché noi siamo l’ONU.
La storia-supplica
Se gli uomini dicono di costruire la pace, Padre, mettila nei loro cuori, perché imparino a diventare artigiani di pace, a costruirla mentre si ostinano a demolire e demolire.
Sembra assurdo, ma vogliono demolire ancora, Signore. Anche noi, come le nostre città, siamo ridotti in macerie.
Non c’è più niente da demolire, abbiamo sofferto troppo.
Hanno piani di sterminio e di un ennesimo trasferimento della popolazione. La situazione è diventata insopportabile, nessun posto è sicuro. Ci sentiamo abbandonati da tutti, ma in te abbiamo fiducia, Signore.
Donaci la forza di perseverare nel tuo amore.
Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme
La storia-dei-volti
Era il 19 gennaio 2022 quando Mahmoud Salhiyeh salì sul tetto della sua casa a Sheikh Jarrah, Gerusalemme Est: insieme a dieci ragazzi, poco più che adolescenti, portò con sé qualche bombola di gas e tanta disperazione condivisa.
Due mesi prima la sua famiglia aveva ricevuto dalle autorità israeliane un avviso di sfratto: “Il Comune sta portando avanti dei piani per una scuola di istruzione speciale e sei asili nido per il pubblico arabo. Serviranno anche a voi palestinesi, che volete di più?”. Così aveva detto loro un responsabile del dipartimento dell’istruzione del Comune di Gerusalemme Est. Stavano perciò riuscendo a far entrare anche l’obbligo di fornire istruzione alla popolazione palestinese nel meccanismo di espropriazione ed ebraicizzazione di Gerusalemme Est.
Le fantomatiche scuole non sarebbero sorte sopra le case distrutte, solo un po’ più in là. Perché allora distruggere la casa di Mahmoud? E poi, lì vicino c’era uno spazio vuoto, dove avrebbero potuto essere costruite le scuole, come indicato nel piano urbanistico per gli edifici pubblici. Ma il Comune aveva deciso di rinunciare a quella terra e, senza compenso, donarla all’organizzazione ultra-ortodossa Ohr Somayach, che poi provvide prontamente a creare una yeshiva e dormitori per studenti.
In quel giorno di gennaio, di buon mattino, a casa di Mahmoud si presentarono anche la polizia israeliana e alcuni dipendenti del Comune di Gerusalemme Est.
“Piuttosto muoio, ma sulla terra mia e dei miei avi!”
Ci aveva provato Mahmoud, a bloccare lo sgombero forzato e illegale. Era riuscito solo a sospenderlo, forse perché erano arrivati subito giornalisti, attivisti e diplomatici europei; erano arrivate anche forze speciali di polizia insieme a vigili del fuoco e paramedici.
“Possono costruire sei scuole qui, ma la mia casa rimarrà”, aveva detto Mahmoud Salhiyeh. “Avevamo delle case a Ein Karem, non possono espellerci di nuovo”, aveva aggiunto, riferendosi al villaggio palestinese da cui i suoi nonni furono costretti a fuggire nel ’48 incalzati dalle forze sioniste e che in seguito divenne parte di Gerusalemme Ovest, con il nome di Ein Kerem. Due volte profughi a casa loro, no. E invece.
Prima la Legge sulla proprietà degli assenti, ora questo sfratto illegale che creava di fatto una sorta di coercizione, di allontanamento forzato.
“Mio nonno aveva un palazzo lì. La casa è ancora lì, con gli ebrei che vivono al suo interno”, aveva detto Mahmoud Salhiyeh, “fateci tornare a casa nostra lì, e non voglio più restare a Sheikh Jarrah, anche se la terra dove poggia questa mia casa l’ho comprata e ne ho le prove”.
Ma il comune di Gerusalemme era stato più furbo, o era stato infido: la terra sì, ma non più edificabile per uso privato, anche se edificata da 70 anni. Il masterplan
di quartiere, approvato nel 1984, designava il terreno di Mahmoud come terreno destinato a edifici pubblici.
Ecco lo sfratto, ecco l’inghippo. E nemmeno indennizzi, niente.
Lital, moglie di Mahmoud e madre dei loro quattro figli, aveva preparato le valigie, anche per cognata e suocera, nonostante queste ultime lo “sfratto” non l’avessero ricevuto. “Non si sa mai.”
Nel tardo pomeriggio un escavatore del Comune aveva iniziato a demolire un vivaio, sorto dieci anni prima, un negozio di parrucchiere e una rivendita d’auto, tutte attività cresciute sul terreno della famiglia Salhiyeh.
Ora la casa di Mahmoud il palestinese e Lital l’ebrea israeliana non c’è più: al suo posto, un parco giochi per bambini.
Volevano costruire scuole, dicevano. Avevano demolito illegalmente una casa, mentre fingevano di ritirarsi, e molte vite.
Chi oggi si recherà in quel parco non capirà, perché non ha conosciuto la storia di quei vinti: alcuni hanno abbellito tristemente e impunemente un luogo di altri. Un parco giochi, costruito su un terreno sottratto ai legittimi proprietari, ha contribuito a baeutificare un crimine: caspita, un parco verde dedicato ai bimbi: cosa mai ci sarà di sbagliato!
Un prato verde e un’altalena a soffocare la memoria di una famiglia e di un popolo.
Nella tragedia smisurata che sta sconvolgendo il Territorio palestinese occupato, gli autori, rivestendo i panni di “raccoglitori di storie”, si sono messi in ascolto dell’OCHA, voce delle Nazioni Unite, attraverso le conversazioni con un suo funzionario, fonte pura, non inquinata da pregiudizi o da ideologie e testimone di un lungo anno di ingiustizie e sofferenze, ma anche di un’occupazione che attraversa generazioni di palestinesi.
Le conversazioni si sono trasformate poi in storie, memorie e puntualizzazioni giuridiche accompagnate dalle preghiere di Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme.
Sotto il cielo di Gaza e della Palestina intera sopravvivono persone annientate da uno scempio che ha urgenza di essere narrato, pena la disgregazione del comune senso di umanità.
Ignorare il massacro in corso sia perché si volge lo sguardo altrove sia perché si vive l’ignoranza della questione palestinese, facendola iniziare dal 7 ottobre del 2023, è colpa inescusabile e avrà conseguenze distruttive anche per il nostro presente e futuro.
Per contrastare la “dissolvenza dei volti” delle vittime, come diceva don Tonino Bello, per evitare la cancellazione della loro storia e la discesa nella fossa comune dell’oblio, dove le persone sono conteggiate nel numero dei “danni collaterali”, ma non raccontate nell’unicità della loro esistenza e dignità umana, questo libro ci aiuta a pregare, a riflettere, ad apprendere e a scucire la nostra bocca per dire la verità, pietra angolare di ogni pace.
ISBN 979-12-5626-047-8
Euro 15,50 (I.i.)