Quaderno della ricerca #65

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I Quaderni della Ricerca / 66

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I Quaderni della Ricerca

Giocare a scuola Qualche riflessione e un’esperienza Luca Mari, Maria Rita Manzoni, Andrea Maiello

MARI, MANZONI, MAIELLO / Giocare a scuola



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I Quaderni della Ricerca

Giocare a scuola

Qualche riflessione e un’esperienza Luca Mari, Maria Rita Manzoni, Andrea Maiello


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ISBN 9788820138929 In alcune immagini di questo volume potrebbero essere visibili i nomi di prodotti commerciali e dei relativi marchi delle case produttrici. La presenza di tali illustrazioni risponde a un’esigenza didattica e non è, in nessun caso, da interpretarsi come una scelta di merito della Casa editrice né, tantomeno, come un invito al consumo di determinati prodotti. I marchi registrati in copertina sono segni distintivi registrati, anche quando non sono seguiti dal simbolo ®.

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Indice Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 PARTE 1: IL GIOCO A SCUOLA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 1. Uno schema concettuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.1 Giocare a scuola? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 1.2 Cos’è un gioco? Il problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 1.3 Cos’è un gioco: qualche idea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 2. Una prospettiva pedagogica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 2.1 Gioco e apprendimento a scuola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 2.2 Apprendere attraverso il gioco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 2.3 Perché si impara meglio col gioco? . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26 2.4 Quali condizioni favoriscono l’apprendimento attraverso il gioco? . . 30 3. Alcune note metodologiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 3.1 G ioco e apprendimento: dal game-supported learning al game-enhanced learning . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 3.2 Ricadute sulla didattica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 3.3 Alcuni spunti di progettazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 39 3.4 Una rassegna di alcuni strumenti utili . . . . . . . . . . . . . . . . 46 PARTE 2: UN GIOCO A SCUOLA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55 4. Digitalscape tra gamification e serious game . . . . . . . . . . . . . . . . 57 4.1 Gamification e serious game . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 4.2 Digitalscape e Digitalscape Reloaded: dalla gamification al serious game . 59 4.3 Il modello di Digitalscape: escape room . . . . . . . . . . . . . . . . 61 4.4 Digitalscape Reloaded: possibili usi didattici . . . . . . . . . . . . . . 64 5. La progettazione di Digitalscape . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 67 5.1 La costruzione e la caratterizzazione della narrazione . . . . . . . . 67 5.2 Le competenze di cittadinanza digitale . . . . . . . . . . . . . . . 72 5.3 Una panoramica degli argomenti degli episodi . . . . . . . . . . . . 74 6. Qualche considerazione a posteriori . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79 6.1 L’implementazione del gioco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79 6.2 La comunicazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81 6.3 Alcuni dati e interpretazioni statistiche . . . . . . . . . . . . . . . 83 6.4 L’opinione di qualche docente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 Qualche conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103

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Introduzione1

Questo testo si rivolge a persone – docenti di scuola ma non solo – interessate a comprendere se e come anche a scuola il gioco può essere un contesto e uno strumento a supporto dell’apprendimento. Nasce non da un’analisi teorica, ma dall’esperienza concreta di progettazione e realizzazione di un serious game che è stato reso disponibile su tutto il territorio nazionale e che, in edizioni successive, ha coinvolto varie migliaia di studenti di scuola secondaria. Benché si tratti di un gioco online, accessibile via web, Digitalscape – questo è il nome del progetto didattico e del gioco che è stato prodotto – è stato realizzato da un gruppo di professionisti della formazione – docenti di scuola ed esperti di formazione aziendale – e non da game designer o sviluppatori software. Certamente, non si tratta di un videogame di altissima qualità grafica e che offre una ricca esperienza immersiva. Ma il fatto che sia stato possibile svilupparlo pur con risorse assai limitate ci ha dimostrato, una volta ancora, che ciò che crea valore nella formazione sono non tanto gli strumenti tecnologici, che per altro non mancano, quanto le persone, con la loro sensibilità educativa e le loro competenze disciplinari, le loro buone idee e la loro buona volontà di cooperare. Il progetto Digitalscape è stato ideato e poi sviluppato nel 2020, durante il periodo del primo lockdown per COVID-19, con lo scopo di far vivere in modo positivo agli studenti la situazione di costrizione e chiusura imposta dalla pandemia, coinvolgendoli nella realizzazione di un obiettivo attraente: vincere una sfida attraverso la soluzione di problemi legati a tematiche di cittadinanza digitale, in uno scenario in cui le ore trascorse online sollecitavano lo sviluppo della consapevolezza e responsabilità del senso, delle potenzialità ma anche dei rischi, dello stare in rete. Nella sua dimensione di gioco a squadre, Digitalscape aveva l’ambizione di contribuire a sopperire alla for-

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A proposito del nostro argomento la letteratura disponibile è prevalentemente in lingua inglese. Per rendere più accessibile quanto segue, le citazioni sono tutte in lingua italiana, con traduzioni curate da noi quando necessario.

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Giocare a scuola

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zata riduzione di socialità che si stava vivendo, impegnando gli studenti in una collaborazione ludica finalizzata alla riflessione sull’uso degli strumenti della società dell’informazione e del loro uso appropriato. Il buon risultato quantitativo del gioco (si sono iscritti circa 3000 studenti di tutta Italia, e circa 1500 di loro sono riusciti a portare a termine i 15 episodi del percorso) e il contesto favorevole creato dall’introduzione in tutti gli ordini e gradi di scuola dell’obbligatorietà dell’insegnamento transdisciplinare dell’educazione civica – di cui un’area di articolazione riguarda proprio i temi della cittadinanza digitale – ci hanno spinto a ripensare Digitalscape e a metterlo così liberamente a disposizione dei docenti interessati a organizzare con le loro classi, sia in presenza sia a distanza, percorsi personalizzati interdisciplinari di educazione civica. In questo nuovo formato, il gioco è stato liberamente usato da circa 300 docenti in oltre 600 classi di scuole di scuola secondaria di primo o secondo grado di tutta Italia. Proprio perché così semplice e, tutto sommato, lineare, il racconto di questa esperienza può essere prezioso soprattutto laddove ci sia interesse ad approfondire se e come il gioco, nelle sue molteplici dimensioni, possa diventare un’opportunità strategica nella scuola: è quello che ci siamo proposti di presentare e discutere nelle pagine che seguono. Con ciò vogliamo chiarire che noi stessi non siamo pedagogisti, ma docenti, innanzitutto interessati a sperimentare come rendere efficaci oggi il nostro ruolo e le nostre relazioni con gli studenti. E che questo testo non ha scopi “scientifici”, né intende proporre nuovi contenuti o nuove metodologie didattiche. Propone invece, nella sua prima parte, intitolata Il gioco a scuola, qualche riflessione sul gioco, nel senso che gli riconosciamo qui: non un fine, ma un mezzo, e non necessariamente un mezzo per il trasferimento di contenuti o per la valutazione di contenuti trasferiti altrimenti. L’apprendimento è infatti un processo complesso, in alcuni aspetti del quale il gioco può essere impiegato, per esempio per creare motivazione e interesse, o per attivare dinamiche interpersonali come la collaborazione, l’emulazione, la competizione. È in questa prospettiva che nella seconda parte, Un gioco a scuola, raccontiamo l’esperienza del progetto Digitalscape e la discutiamo criticamente a più voci, dando la parola anche ad alcuni docenti che hanno scelto di proporre il gioco a una loro classe. Un’ultima nota per questa Introduzione. Accade che ci si affezioni a uno strumento e, dopo aver imparato a usare il martello, si vedano chiodi anche dove ci sono viti. Lo stesso può succedere anche per il gioco, che, in quanto strumento a supporto dell’apprendimento, non è incondizionatamente e sempre valido. Riconosciamo anzi che il gioco ha più di un “lato oscuro”, per esempio perché ci sono giochi che danno dipendenza (sono addictive, come si dice in inglese) e ci sono giochi che esasperano la competitività dei par-


Introduzione

tecipanti. Insomma, riconosciamo che il gioco è uno strumento efficace per l’apprendimento con certe finalità e a certe condizioni. Un impiego consapevole ed efficace del gioco, come strumento a disposizione dei docenti che vogliono aiutare i loro studenti a imparare meglio, dovrebbe svilupparsi dalla progettazione di tali finalità e di tali condizioni, che non sono certo predeterminate univocamente. Non è la stessa cosa, per esempio, scegliere di far giocare per generare interesse e motivazione (in inglese diremmo engagement), per mettere alla prova e valutare la qualità di un apprendimento acquisito altrimenti, o per contribuire direttamente all’apprendimento stesso. L’idea di questo progressivo impegno potrebbe essere resa anche linguisticamente, riferendosi alternativamente, come appropriato, alle espressioni inglesi gamification (introduzione di elementi ludici in un contesto che rimane non ludico), oppure game-supported learning (apprendimento coadiuvato dal gioco), oppure game-enhanced learning (apprendimento migliorato attraverso il gioco), oppure ancora game-based learning (apprendimento basato sul gioco). Certo, il gioco ha una dimensione inerentemente soggettiva, e se lo si impone non è più gioco. Per far sì che nella scuola si possa davvero far giocare occorre in qualche modo riuscire almeno a sospendere temporaneamente la dimensione dell’obbligo scolastico: i docenti lo propongono, ma sono gli studenti a sceglierlo, e quindi, appunto, a mettersi in gioco. Se questo testo contribuirà a suggerire e discutere alcune delle finalità e delle condizioni per far giocare a scuola, e con ciò solleciterà qualche docente a considerare criticamente la possibilità di introdurre aspetti ludici in ciò che propone ai suoi studenti, avrà raggiunto lo scopo per cui l’abbiamo scritto.

Il contesto in cui questo testo è stato scritto e qualche ringraziamento Il gioco Digitalscape2 è il risultato del lavoro collaborativo di un gruppo di persone con competenze e ruoli professionali diversi, coordinato da idea.lab3, un Laboratorio Territoriale per l’Occupabilità promosso da una rete di scuole della provincia di Varese e attivato nel 2018 su un progetto del Ministero dell’Istruzione. Insieme con gli autori, hanno contribuito alla realizzazione del progetto, con ruoli diversi, Alberto Negrini, Alessandro Gatti, Cristina Bralia, Cristina Campigli, Claudia Canesi, Danilo Chiavari, Debora Lonardi, Grazia Pellegrino, Laura De Biaggi, Luca Borsa, Luca Dell’Oca, Matteo Mainardi,

2. 3.

Il sito è https://www.digitalscape.it. Il sito è https://idealab.va.it.

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Paolo Macchi, Simone Iavarone, Stefania Paci, Michele Perna. La prima edizione del progetto è stata realizzata con la collaborazione dell’azienda FlipFly4 e il supporto di #lascuolanonsiferma-MIUR, Fondazione Merlini, Associazione “Noi del Tosi”, Equipe Formativa Territoriale della Lombardia, Skuola. net e Team Docenti Web. In tutto ciò, idea.lab si è confermato un contesto fecondo per la libera e creativa progettazione e sperimentazione didattica, e di questo va dato merito a coloro che lo hanno pensato e accompagnato in questi anni, e in particolare Benedetto Di Rienzo, Nadia Cattaneo, Amanda Ferrario, Giovanna Vezzaro, e i Dirigenti Scolastici delle scuole della rete idea.lab. Hanno contribuito a questo testo anche Barbara Barichello, Elisa La Valle, Sara Massaro, Francesca Nannelli, Laura Tarabotti, docenti di scuole secondarie di primo o secondo grado che, fra i vari colleghi che hanno scelto di usare Digitalscape come strumento didattico per i loro studenti, hanno anche accettato di scrivere una loro testimonianza sull’esperienza, riportata nella sezione 6.4. Il contenuto del capitolo 3 è stato sviluppato nel contesto di un progetto Interreg, intitolato “Game supported / enhanced learning (GaLe) – Laboratori di innovazione, nuovi modelli didattici, nuove competenze”, a cui idea.lab ha contribuito rispondendo a un bando della Camera di Commercio di Varese: Eloana Cardella è stata il punto di riferimento per la realizzazione del progetto, che ha coinvolto anche Francesco Bertolotti, Laura De Biaggi, Debora Lonardi, Paolo Macchi, Alberto Negrini, anche in quanto socio di FlipFly. Parti del capitolo 5 sono state riprese dal materiale pubblicato del progetto Digitalscape, e parti di esso sono state scritte da Laura De Biaggi e Debora Lonardi. A tutte e a tutti va il nostro ringraziamento. Luca, Rita, Andrea

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Il sito è https://www.flipfly.it.


Parte 1: Il gioco a scuola



1. Uno schema concettuale

1.1 Giocare a scuola? Imparare è certamente una cosa importante, e seria. Giocare, invece, fa spesso venire in mente situazioni leggere, e poco o per nulla serie. La conclusione dovrebbe essere che imparare e giocare occupino spazi diversi e senza sovrapposizione della nostra esperienza. Ma che il gioco non sia una cosa seria non è così ovvio, e anzi l’osservazione di bambini che giocano, liberamente e divertendosi ma con grande impegno, mostra che lo si può vivere in modo molto serio: si può dunque imparare giocando, e giocare per imparare. La questione è però un’altra: quanto si osserva del gioco spontaneo come strategia informale per l’apprendimento individuale può essere adottato, e adattato, per progettare e realizzare percorsi formali di insegnamento, per esempio e in particolare a scuola? Il gioco può essere impiegato come uno strumento per aiutare, seriamente, ad apprendere? Ancora: sarebbe sensato un progetto didattico almeno parzialmente realizzato attraverso il gioco? Non appena si comincia a esplorare il senso stesso di queste domande generali, un’altra, più specifica ma non meno importante, emerge: per cercare di migliorare l’efficacia del proprio insegnamento, è sufficiente introdurre qualche componente ludica – classifiche, badge, avatar – in un percorso tradizionale (ciò che a volte si chiama gamification), o sarebbe meglio riprogettare i percorsi di apprendimento per far sì che giocare sia il modo stesso di partecipazione (dunque verso quello che si potrebbe chiamare game-based learning, che tra l’altro, nonostante il termine inglese potrebbe forse richiamare altrimenti, non ha necessariamente a che fare con videogiochi e con esperienze abilitate da strumenti digitali)? Per evitare risposte generiche, domande di questo genere vanno contestualizzate, e quello che si ottiene è un continuum di scenari: dai momenti di gioco libero nella scuola dell’infanzia a – azzardiamo una situazione di cui non abbiamo esperienza né conoscenza – interi insegnamenti universitari realizzati come grandi giochi di simulazione. Per ragioni che si potrebbero

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investigare e discutere, nel passaggio da un ordine di scuola al successivo si gioca sempre meno: con qualche eccezione, nella scuola dell’infanzia si gioca, e all’università no. Per questo, se risposte affermative alle domande precedenti sono addirittura banali quando poste in riferimento ai più piccoli, al contrario è plausibile che qualche docente di scuola secondaria o di università le consideri perfino lesive della sua professionalità, secondo la convinzione per cui “almeno in università non riduciamoci a dover far giocare gli studenti perché imparino qualcosa”. Insomma, le abitudini che spesso informano le pratiche scolastiche e universitarie sono che, a scuola, più le persone crescono e meno dovrebbero imparare giocando. D’altra parte, gli esseri umani non smettono di giocare solo perché diventano adulti, come dimostra il fatto che il mercato internazionale dei videogiochi è oggi dell’ordine delle centinaia di miliardi di euro, e i suoi clienti non sono certo solo bambini e adolescenti. Il fatto che a scuola si smetta progressivamente di (far) giocare crea dunque una tensione: i “piccoli” giocano fuori e dentro la scuola, i “grandi” solo fuori. Certo, gli adulti generalmente non giocano al lavoro (anche se poi, sempre più spesso, nei contesti lavorativi vengono applicate meccaniche di gioco, dall’“impiegato del mese” a momenti di formazione e di team building)5, e questo lo si potrebbe portare a prova dell’ipotesi che in una società ben regolata il gioco degli adulti è solo una forma di svago, e che quindi il progressivo distacco dal gioco che la scuola realizza sia razionale. Ma lo si potrebbe anche interpretare altrimenti, per esempio come uno dei tanti residui di un passato in cui in molti contesti e per molte persone l’obiettivo da raggiungere era la sopravvivenza, e non il benessere: e infatti non impariamo e lavoriamo meglio, e non otteniamo risultati migliori, in contesti – come quelli in cui giochiamo – in cui viviamo una tensione positiva, con un senso di sfida con noi stessi e forse anche di competizione con altri, ma sempre con la serenità di fondo che deriva dal fatto che “l’abbiamo scelto noi”? Queste domande – c’è un senso nel far giocare, anche a scuola, per aiutare a imparare? – andrebbero dunque specificate in riferimento all’età dei discenti, e il nostro interesse qui è soprattutto verso quanto potrebbe essere realizzato nelle scuole secondarie: nel contesto della scuola, sono fondate le ipotesi alla base del game-based learning6? Non abbiamo qui l’obiettivo di produrre alcun contributo originale a proposito di questa domanda, ma solo di

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Tutto ciò pare una riproposizione della vexata quaestio della dicotomia tra dovere e piacere: se lo faccio per dovere, non mi piace; se mi piace, è perché non l’ho fatto per dovere. Ma in una prospettiva più ampia possiamo riconoscere che le cose non stanno così: se lo faccio per piacere, lo farò meglio e con risultati migliori; e viceversa. Benché il game-based learning sia diventato oggetto di studio sistematico solo di recente, la letteratu-


1. Uno schema concettuale

proporre un’introduzione al tema, anche a partire da un’esperienza concreta di gioco-a-scuola che abbiamo progettato e realizzato.

1.2 Cos’è un gioco? Il problema Tutti abbiamo generalmente la capacità di riconoscere se una cosa che sta accadendo di fronte a noi è un gioco o qualcos’altro, e nonostante ciò – come fece notare Ludwig Wittgenstein7 – siamo in difficoltà a definire cosa sia un gioco, cioè a elencare le proprietà che tutti i giochi e solo i giochi hanno. Cos’hanno in comune le cose che identifichiamo come giochi? L’attività fisica? Non nei giochi da tavolo. La spensieratezza? Non negli scacchi. La presenza di concorrenti o avversari? Non nei solitari. La competizione? Non nel caso del salto con la corda di un bimbo. Il dover applicare delle abilità? Non nella tombola. La presenza di qualche aspetto di casualità? Non nelle parole crociate (Pinker 2021). Katie Salen ed Eric Zimmerman (2003) elencano e commentano una decina di definizioni di “gioco”, di autori vari, e l’informazione più chiara che se ne ricava è l’eterogeneità delle accezioni. In assenza di un criterio chiaro e semplice che resista al vaglio dei controesempi – in assenza cioè di quello che in matematica e logica si chiamerebbe un insieme di condizioni necessarie e sufficienti – si potrebbe cercare di cominciare a comprendere il gioco classificandone degli esempi, come fa Roger Caillois (1958) suggerendo categorie come i giochi basati sul caso (come la roulette), i giochi competitivi (come il calcio), i giochi di simulazione (come il “facciamo che io sono il dottore e tu sei l’ammalato”). Per quanto interessante, una classificazione delle tipologie di gioco non pare però sufficiente, né forse così utile, a chi sia interessata/o a investigare se e come dei giochi possano essere impiegati come strumento efficace a supporto dell’apprendimento. D’altra parte, proprio questa molteplicità di tipologie suggerisce che il gioco sia un’attività così fondamentale nella nostra esperienza da non poter essere compresa attraverso una singola categoria concettuale: insomma, potrebbe davvero essere che pur volendo scrivere di gioco in modo ben struttu-

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ra scientifica al proposito è già ricca. Un buon punto di partenza, anche per i numerosi riferimenti bibliografici che contiene, è un articolo di Jan L. Plass e altri (2015). «‘Gioco’ è un concetto dai contorni sfumati. [… Per] spiegare che cosa sia un gioco […] si danno esempi e si vuole che vengano compresi in un certo senso. Ma con questo non intendo: in questi esempi si deve vedere la comunanza che io – per una qualche ragione – non ho potuto esprimere, ma: si devono impiegare questi esempi in modo determinato. Qui l’esemplificare non è un metodo indiretto di spiegazione, – in mancanza di un metodo migliore. Infatti, anche ogni definizione generale può essere fraintesa» (Wittgenstein 1953, paragrafo 71). Dunque Wittgenstein sta sostenendo qui che ‘gioco’ sia un concetto sufficientemente complesso da non ammettere una definizione univoca capace di identificare tutte e sole le occorrenze di situazioni che riconosceremmo come giochi.

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rato lo si debba fare senza riuscire a chiarire in modo non equivoco di cosa si sta scrivendo. In accordo alla considerazione di Wittgenstein, potremmo dunque decidere che domande come “cos’è un gioco?” e “come riconosciamo se una certa attività è un gioco?” non ammettano una risposta sufficientemente condivisibile e utile, e con ciò rinunciare a dare un contesto a quanto segue, da subito cominciando a raccontare la nostra esperienza con il gioco nella scuola: “non l’abbiamo spiegato, tanto meno definito, ma ci capiamo lo stesso”. In effetti, è plausibile che chi si prefigge di creare un gioco abbia un’idea almeno generica di cosa intende produrre, ma è anche un fatto che i piccoli, della nostra specie e non solo, sanno giocare ancor prima che qualcuno glielo insegni loro. È il segno di un’ambiguità profonda: da una parte, inventiamo giochi; dall’altra, nasciamo sapendo giocare. Questo sembra suggerire l’ipotesi che giocare sia evolutivamente vantaggioso: ma perché l’evoluzione dovrebbe favorire gli individui che sanno giocare? E come la comprensione di questa almeno parziale innatezza del gioco (per altro comunque solo parziale: non si nasce sapendo giocare a scacchi, e si continua a imparare a giocare…) potrebbe aiutarci a progettare percorsi di apprendimento efficaci e in cui il gioco ha un ruolo significativo? Con queste domande in sottofondo, e senza alcuna pretesa di originalità e consapevoli della complessità dell’argomento, proponiamo qualche ipotesi sulla natura del gioco e sul suo ruolo come strumento educativo: saranno la base per le considerazioni più operative che seguiranno.

1.3 Cos’è un gioco: qualche idea

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Nella nostra vita facciamo cose, e le cose che facciamo hanno un contesto, che non controlliamo o controlliamo solo in parte. E il contesto condiziona noi e le cose che facciamo, e le cose che facciamo hanno conseguenze nel contesto. E così, se abbiamo fame dobbiamo mangiare, e se non mangiamo la fame ci rimane, e questa è una situazione che non possiamo evitare: non c’è un modo per creare uno spazio protetto e isolato dal contesto circostante, per cui entrando in questo spazio non sentiremmo la fame. È per questo che avere fame non è un gioco. Quando giochiamo a un gioco che è e riconosciamo come tale, assumiamo invece che le cose che facciamo giocando si svolgano in uno spazio che è delimitato rispetto al contesto. Potrebbe essere che nel gioco il personaggio che abbiamo impersonato sia affamato, e forse alla fine sia perfino morto di fame, ma a gioco concluso la situazione oggettiva è tornata a essere quella precedente: siamo ancora noi stessi, magari con un senso di sfida a cercare di fare meglio la prossima volta.


1. Uno schema concettuale

Quando giochiamo, tracciamo dunque un’ideale linea di demarcazione tra le cose che facciamo giocando e tutto il resto, tra lo spazio del gioco e il contesto esterno al gioco8, e intorno a questa linea si sviluppa il senso del gioco come esperienza, e dunque come possibile esperienza educativa. Infatti, con questa la linea di demarcazione stabiliamo un confine tra ciò che è gioco e ciò che non lo è (se il gioco prevede di poter aver fame, aver fame nel gioco non ha conseguenze sull’avere o non avere fame fuori dal gioco), e nonostante ciò non isoliamo completamente il gioco dal resto della nostra esperienza: rimaniamo noi stessi al di qua e al di là della linea. Se poi il gioco non è individuale, all’interno della linea si trovano tutti i partecipanti, e questo, alla ben nota condizione “che tutti rispettino le regole del gioco”, crea uno spazio di gioco condiviso socialmente.

contesto esterno al gioco

spazio del gioco

linea di demarcazione

Grazie a questa linea di demarcazione, sospendiamo dunque temporaneamente le connessioni oggettive tra quello che facciamo giocando e tutto il resto9, sostituendole con la costruzione che il gioco stesso prevede. Svincolato dalle condizioni del contesto esterno, il gioco ci si presenta così come un’entità sufficientemente ben definita, sovente attraverso delle regole che stabiliscono le cose che, nel contesto spazio-temporale demarcato, si possono o si devono fare e quelle che non si possono o non si devono fare. Il gioco è perciò innanzitutto un’esperienza che nasce da una condizione di soggettività: chi gioca traccia nel suo qui-e-ora una linea con cui decide gli

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Poiché non abbiamo la possibilità di dimostrare che la nostra vita non sia parte di una simulazione – si veda al proposito l’ampia e spesso affascinante analisi di David Chalmers (2022) – potrebbe essere che l’intera nostra esperienza sia parte di un gioco che qualcuno o qualcosa sta giocando con noi, a nostra insaputa. Ma il fatto che nella nostra vita non percepiamo alcuna linea di delimitazione, se non quelle che introduciamo noi appunto per creare spazi di gioco, fa sì che, per quanto ne siamo consapevoli, “la vita non è un gioco”. Stiamo facendo riferimento qui al concetto di “cerchio magico” accennato da Johannes Huizinga (1944), e sviluppato da Katie Salen e Eric Zimmerman (2003). Se ne veda un commento critico, da parte dello stesso Zimmerman, in un articolo consultabile all’indirizzo www.gamedeveloper.com/ design/jerked-around-by-the-magic-circle---clearing-the-air-ten-years-later.

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Giocare a scuola

aspetti di sé che può e vuole, appunto, mettere in gioco. È per questo che il gioco non può che essere un’attività volontaria: se ci viene imposto, la linea di demarcazione si apre, e con l’imposizione il contesto esterno irrompe nello spazio del gioco e lo distrugge, o almeno riduce l’essere gioco di quello che rimane all’interno dello spazio. Se si impone di giocare, quello che si ottiene non è più gioco. Ed è per ragioni analoghe che non rispettare le regole, il barare, il cheating, “non vale”: perché spezza dall’interno la linea di demarcazione e fa assomigliare quello che resta del gioco a quello che era rimasto al di fuori della linea.

spazio del gioco

spazio del gioco

Ma, fintanto che la linea di demarcazione è integra, colui che gioca si mantiene in uno spazio di cui ha scelto (o ha negoziato la scelta del)la struttura, che gli si manifesta attraverso le regole del gioco. Prima di essere giocato, un gioco coincide con le sue regole, la cui conoscenza è quindi precondizione per poter giocare; quando è giocato, un gioco è un’esperienza: è plausibile che sia intorno a queste due dimensioni complementari – le regole e ciò che genera l’esperienza – che si può sviluppare il progetto di un percorso di apprendimento basato sul gioco, dunque un percorso di game-based learning.

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Abbiamo considerato che se non è scelto non è un gioco. Grazie a come le regole del gioco sono formulate, questa scelta può essere modulata, consentendoci di configurare il gioco, e ultimamente di decidere “a che gioco vogliamo giocare”. In funzione del grado di difficoltà che scegliamo per il gioco, per esempio attraverso i “livelli” di certi videogiochi, ci mettiamo alla prova oppure ci rilassiamo; in funzione del grado di interattività facciamo un’espe-



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Giocare a scuola

Luca Mari è professore ordinario presso la Scuola di Ingegneria Industriale dell’Università Cattaneo – LIUC, dove è docente titolare dei corsi di Analisi dei Dati Sperimentali e Statistica, Teoria dei Sistemi / Systems Theory, e Digital Thinking. Maria Rita Manzoni è docente di scuola media superiore e componente dell’Equipe Territoriale Formativa del Ministero dell’Istruzione per la promozione e diffusione della didattica digitale. Andrea Maiello insegna nella scuola secondaria di primo grado e tiene corsi di formazione e laboratori sulla costruzione di ambienti di apprendimento on line, sulla flipped classroom, sul game-based learning e, in generale, sulla didattica assistita dalle tecnologie.

€ 7,30 3892 GIOCARE A SCUOLA

MARI, MANZONI, MAIELLO / Giocare a scuola

Questo libro si rivolge a persone – docenti di scuola ma non solo – interessate a comprendere se e come a scuola il gioco possa essere un contesto e uno strumento a supporto dell’apprendimento. Nasce non da un’analisi teorica, ma da un’esperienza concreta di progettazione e realizzazione di un serious game sui temi della cittadinanza digitale. L’esperienza ha indotto gli autori a domandarsi con quali finalità e a quali condizioni il gioco possa essere inserito in una progettazione didattica che faciliti l’apprendimento. Non è la stessa cosa, infatti, scegliere di far giocare per generare interesse e motivazione, per attivare dinamiche interpersonali come la collaborazione, l’emulazione, la competizione, per mettere alla prova e valutare la qualità di un apprendimento acquisito altrimenti, o per contribuire direttamente all’apprendimento stesso. Il gioco ha poi una dimensione inerentemente soggettiva, e se lo si impone non è più gioco. Per far sì che nella scuola si possa davvero far giocare, occorre in qualche modo riuscire a sospendere, almeno temporaneamente, la dimensione dell’obbligo scolastico: i docenti lo propongono, ma sono gli studenti a sceglierlo, e quindi, appunto, a mettersi in gioco. La riflessione su questi aspetti costituisce la prima parte – “Il gioco a scuola” – del presente volume. Nella seconda parte – “Un gioco a scuola” – si racconta e analizza l’esperienza del serious game Digitalscape, anche dando la parola ad alcuni docenti che hanno scelto di proporlo a una loro classe. Il gioco online, realizzato non da game designer professionisti ma da docenti e specialisti della formazione, nelle diverse e successive edizioni ha coinvolto varie migliaia di studenti di scuola secondaria su tutto il territorio nazionale.

I Quaderni della Ricerca / 66

RI CE R6 6 G IO CA RE

QUESTO VOLUME, SPROVVISTO DI TALLONCINO A FRONTE (O OPPORTUNAMENTE PUNZONATO O ALTRIMENTI CONTRASSEGNATO), È DA CONSIDERARSI COPIA DI SAGGIO - CAMPIONE GRATUITO, FUORI COMMERCIO (VENDITA E ALTRI ATTI DI DISPOSIZIONE VIETATI: ART. 21, L.D.A.). ESCLUSO DA I.V.A. (DPR 26-10-1972, N.633, ART. 2, 3° COMMA, LETT. D.). ESENTE DA DOCUMENTO DI TRASPORTO.


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