Quaderno della ricerca #65

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I Quaderni della Ricerca

La questione del corpo. Soma, Res extensa, Leib Romanae Disputationes 2021-22 a cura di Gian Paolo Terravecchia e Marco Ferrari



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I Quaderni della Ricerca

La questione del corpo. Soma, Res extensa, Leib Romanae Disputationes 2021-22 a cura di Gian Paolo Terravecchia e Marco Ferrari


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ISBN 9788820138950

Nonostante la passione e la competenza delle persone coinvolte nella realizzazione di quest’opera, è possibile che in essa siano riscontrabili errori o imprecisioni. Ce ne scusiamo fin d’ora con i lettori e ringraziamo coloro che, contribuendo al miglioramento dell’opera stessa, vorranno segnalarceli al seguente indirizzo: Loescher Editore Sede operativa Via Vittorio Amedeo II, 18 10121 Torino Fax 011 5654200 clienti@loescher.it

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Coordinamento editoriale: Francesco Pastorelli Realizzazione editoriale e tecnica: Fregi e Majuscole – Torino Progetto grafico: Fregi e Majuscole – Torino; Leftloft – Milano/New York Copertina: Leftloft – Milano/New York; Visualgrafika – Torino Stampa: Tipografia Gravinese, via Lombardore 276/F – 10040 Leinì (TO)


Indice Introduzione

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di Gian Paolo Terravecchia, Marco Ferrari Saluti del Ministro dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca

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Parte prima. Sul Concorso Il corpo nella filosofia alla prova delle Romanae Disputationes

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di Marco Ferrari Sul torneo Age contra

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di Gian Paolo Terravecchia Parte seconda. Riflessioni sul linguaggio La questione del corpo

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di Carlo Sini Corpo e digitale

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di Luciano Floridi Corpo e musica. Forme della relazione

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di Pietro Francesco Toffoletto

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LA QUESTIONE DEL CORPO. SOMA, RES EXTENSA, LEIB

Parte terza. I vincitori Vincitori del Concorso 2022

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viii obiezione: la promessa del corpo fra idealismo e materialismo

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di Maddalena Venturi, Leonardo Portolani Sgargi, Simone Bernardi, Flavio Parmeggiani Vivere senza corpo?

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di Francesco Sammarchi, Singh Jastaj, Singh Puneet Kaur Una rivoluzione ontologica. Il corpo materiale nel suo rapporto col corpo digitale: il caso dell’avatar

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di Andrea Fraccaro, Mariacristina Micheletti, Giorgia Mossi Le malattie del soma-sema. Il quadro filosofico del corpo medico

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di Ginevra Perino Bert, Luca Francisetti ´Άνθρωπος: oltre ψυχή e σω̃μα

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di Emma Guazzaroni, Leonardo Macerata, Sofia Martellini Il corpo: un limite strumentale

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di Gaia Sanvito, Angelica Rossi Appendice

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Manifesto per la filosofia

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Autori e curatori

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Introduzione di Gian Paolo Terravecchia, Marco Ferrari

Siamo giunti, con quella del 2022, alla nona edizione del Concorso Nazionale Romanae Disputationes (rd). Esso cerca di promuovere in Italia l’eccellenza nello studio della filosofia a livello di scuola secondaria superiore. In questi anni il Concorso ha offerto a migliaia di studenti del triennio superiore di tutta Italia percorsi di ricerca e confronto aperti a tutti gli orientamenti culturali, svolti in collaborazione con il mondo universitario, ponendo a tema le grandi domande che la filosofia offre. Il Concorso si radica nel lavoro quotidiano dei docenti di filosofia della scuola secondaria superiore che condividono fra loro la propria esperienza di insegnamento per riscoprire, in quella comunità di lavoro che è la Bottega di Filosofia di Diesse, i contenuti e i testi della filosofia, andando al di là del già saputo e sedimentato1. Nelle rd gli studenti, raccolti in team, vengono sfidati a lavorare sui più affascinanti temi di cui si occupa la filosofia, come la ragione umana, la libertà, la giustizia, la tecnologia, il bello, il desiderio, il potere della parola, gli affetti e i legami. Tali questioni costituiscono la trama quotidiana delle lezioni di filosofia a scuola e sono proposte proprio perché possano rioccupare con maggiore centralità e ampiezza il ruolo che spetta loro nella formazione delle giovani generazioni e nella riflessione matura degli adulti. Il presente testo nasce dal Concorso 2022 sul tema: “La questione del corpo. Soma, Res extensa, Leib”, svoltosi l’11 e 12 marzo in diretta streaming, per le esigenze di questi tempi di fine emergenza epidemiologica. Si sono tenuti alcuni interventi di grande spessore e il torneo di disputa filosofica Age contra, oltre naturalmente alle premiazioni finali. Anche quest’anno il Concorso ha ricevuto l’attenzione del Ministero dell’Istruzione, infatti il Mini-

1.

Cfr. Prefazione, in M. Ferrari e G. P. Terravecchia (a cura di), Soggetto e realtà nella filosofia contemporanea. Cinque lezioni, Itaca, Castelbolognese 2014, p. 3, in http://lebotteghedellinsegnare.diesse.org/filosofia. Le lezioni della Bottega sono pubblicate anche sul portale http://webtv.loescher.it. La Bottega di Filosofia è coordinata da Marco Ferrari e fa parte del progetto Le Botteghe dell’insegnare a cura dell’associazione Diesse. Tutti i siti Internet qui citati sono stati consultati l’ultima volta nell’aprile 2022.

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LA QUESTIONE DEL CORPO. SOMA, RES EXTENSA, LEIB

stro Patrizio Bianchi, attraverso la professoressa Carla Guetti, ha inviato il suo saluto di cui, grati, riportiamo più oltre il testo. Il volume cerca soprattutto di offrire del materiale che consenta, a diversi livelli di approfondimento e da molteplici angolature, di rimeditare il tema della corporeità a partire da quanto avvenuto durante le varie fasi del Concorso. La prima parte del testo raccoglie alcune riflessioni del Direttore del Concorso per l’edizione 2022 e racconta le diverse fasi del lavoro svolto durante l’anno e il suo articolarsi. Seguono una notizia e alcune riflessioni critiche sul torneo Age contra, da parte del Presidente del Comitato didattico del Concorso. La seconda parte del volume raccoglie, in primo luogo, il testo di Carlo Sini che costituisce l’intervento di apertura di rd 2022, in secondo luogo il testo della lezione inaugurale tenuta da Luciano Floridi, in terzo luogo il testo della lezione tenuta da Pietro Toffoletto. Un’altra lezione inaugurale tenuta da Massimo Recalcati e l’intervento di Felice Cimatti alla due giorni finale sono invece fruibili online2. La terza parte del testo riporta la lista dei vincitori delle varie categorie e raccoglie i materiali presentati dai vincitori del Concorso. Il volume si chiude riproponendo il Manifesto della filosofia che sentiamo quanto mai attuale. In particolare, in un contesto sociale segnato da numerosi conflitti verbali, fake news e crisi della fiducia nella scienza, l’insegnamento della filosofia, e quindi della disposizione a ragionare insieme in vista del bene comune, ci sembra sempre più decisivo. Quanto alla scelta sulle modalità di pubblicazione delle tesine, è opportuno chiarire le ragioni che, anche quest’anno come in precedenza, ci hanno guidato. Quello che in un autore esperto, magari affermato, è motivo di pudore, in un giovane alle prime armi è traccia di un percorso di crescita e perciò può essere a pieno titolo motivo di orgoglio e vanto. La logica di questa parte è di presentare i testi giudicati come migliori, secondo la valutazione delle giurie didattica e scientifica. Ci siamo limitati a correggere i refusi e le mancanze formali a livello tipografico, emendando in qualche raro caso il testo per riportarlo alle intenzioni espressive originarie, con l’autorizzazione di chi lo firma. Abbiamo inoltre sollecitato gli studenti a inserire i riferimenti bibliografici che non di rado mancavano in qualche misura nel testo consegnato al Concorso. Abbiamo però conservato tutto il resto, comprese le carenze a livello espressivo, concettuale e culturale. Gli studenti che li hanno scritti vi troveranno il loro lavoro proprio così come l’hanno presentato (e non una sua versione finta e abbellita per l’occasione). Gli insegnanti potranno constatare tra le righe il molto lavoro che è stato svolto dai

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2.

Cfr. Massimo Recalcati, Il corpo e la psicoanalisi: https://www.youtube.com/watch?v=5aq640dz4ZI; Felice Cimatti, Cosa rende umano un corpo animale?: https://www.youtube.com/watch?v=Zk3bf5YiYdk.


Introduzione

colleghi e il tantissimo che si sarebbe potuto fare, traendo spunto dall’uno e dall’altro. Gli studenti delle prossime edizioni del Concorso si faranno un’idea di quello che in passato è stato uno standard vincente e potranno cercare di alzare l’asticella. Ci piace pensare che un giorno qualcuno prenderà in mano anche questo testo delle rd e, leggendo le tesine degli studenti, sorriderà di quanto è stato scritto dai team in questa edizione. Ebbene, anche in questo caso, tutti gli autori, con noi, potranno essere orgogliosi di aver compiuto un passo verso quel miglioramento. In un percorso di ricerca è normale che alcune cose non riescano al meglio, soprattutto all’inizio: se si vuole imparare a camminare, non si deve temere di cadere e anzi bisogna essere orgogliosi di quanto intrapreso, pur di non restare fermi. Il lettore dovrà comunque riconoscere che, con tutti i loro limiti, le tesine che raccogliamo presentano, ciascuna, degli elementi di merito e di interesse che noi curatori siamo lieti di pubblicare, anche a motivo della capacità che hanno avuto gli studenti di entrare con tutti se stessi dentro alle questioni, mostrandone molteplici sfaccettature e, soprattutto, il riverbero sincero che la domanda sul corpo ha suscitato in loro. A fronte del tanto lavoro svolto per l’organizzazione delle rd, ci pare doveroso ringraziare, insieme agli studenti partecipanti, anche tutti i docenti e i presidi che hanno sostenuto e favorito il lavoro dei propri team, in virtù del grande impegno che le rd richiedono in termini di tempo, di studio e di organizzazione. Allo stesso modo dobbiamo ringraziare gli illustri relatori, i collaboratori dell’associazione Amore per il Sapere – ApiS e di tutti gli enti, le associazioni e le Università – l’Università Cattolica di Milano, l’Istituto Toniolo, Cimea, gli editori Loescher e Laterza, le residenza universitarie della Fondazione rui, la Cineteca di Bologna, la Fondazione De Gasperi, l’associazione Diesse, l’associazione Filò, l’associazione Jonas, la Cineteca di Bologna, il Museo nazionale del cinema di Torino, il Festival di Filosofia della Magna Grecia, le Università di Padova, Bari, Venezia e Bologna – che, compartecipando alla realizzazione del Concorso, hanno reso possibile la costruzione di un nuovo luminoso tassello del grande mosaico della buona scuola italiana. Desideriamo poi ringraziare alcune persone il cui contributo per la realizzazione del presente volume è stato prezioso: Elisabetta Bulla e Paolo del Pozzo che, in molti modi, hanno contribuito a rendere migliore questo testo. Infine, ma certo non per ultimo, ci teniamo a esprimere uno speciale ringraziamento a Loescher che continua con generosità a sostenere il Concorso e la pubblicazione dei testi che esso ogni anno produce.

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Corpo e musica. Forme della relazione di Pietro Francesco Toffoletto

1. Premessa Nel 2016 viene sviluppato da Google Brain, team di ricerca sull’intelligenza artificiale, un progetto di machine learning chiamato Magenta, per creare software in grado di comporre musica. Una volta inseriti certi parametri (per esempio le regole del sistema tonale, una gamma di possibilità ritmiche) entro cui può agire, il programma scrive in totale autonomia la sua musica. Magenta permette anche un’interazione con risposte creative, come tra musicisti che improvvisino, secondo la logica del call-and-response1 (su cui torneremo più avanti); addirittura, quindi, esso possiede una capacità di “imparare” e di improvvisare nella relazione musicale con un altro esecutore. Ben prima di Magenta, nel 1956, è stato costruito Illiac i, il primo computer “compositore”. Esso è l’autore di una serie di quartetti d’archi, scritti secondo parametri e regole musicali che variano per ciascun quartetto. Sarebbe interessante scoprire quante persone saprebbero riconoscere l’opera creata dalla macchina, distinguendola da un brano musicale creato, poniamo, da Beethoven. Indubbiamente, come affermano gli studiosi nell’ambito delle neuroscienze a partire dai risultati di test di ascolto della musica, concedendo un tempo abbastanza prolungato, anche un orecchio non esperto si accorgerebbe della ripetitività e della mancanza di intenzione nella produzione di una macchina intelligente rispetto a una produzione umana2. A un primo ascolto va detto però che ci si potrebbe davvero confondere. Viviamo in un’epoca in cui la tecnologia ha permesso lo sviluppo di programmi in grado non solo di servire per ogni esigenza legata alla creazione e alla fruizione della

1. 2.

In italiano “botta e risposta”, forma musicale strumentale o vocale composta da una frase di apertura melodico-ritmica cui segue una frase di chiusura. Cfr. Alfredo Raglio alla iv Conferenza programmatica: Neuroscienze e musica, tenutasi in streaming domenica 25 ottobre 2020, https://www.youtube.com/watch?v=CDY1_vJ9CcI.

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musica, ma addirittura di realizzare “in prima persona” – o, più cautamente, imitare – l’attività compositiva. In secondo luogo, ho notato, in me ma anche nei miei studenti, quanto sia non solo intatto, ma addirittura ingigantito, dopo la pandemia, il bisogno, quasi la necessità, di tornare ad ascoltare la musica dal vivo, di andare ai concerti. Viviamo in un’epoca in cui la musica può essere fruita in ogni luogo, con comodità e con la massima qualità, con una possibilità enorme di scelta che prospetta opzioni pressoché gratuite. Tuttavia, il fatto di andare in un posto fisico insieme ad altri per partecipare a un evento unico e irripetibile in cui ascoltare un cantante o un gruppo eseguire per una sera la propria musica – con tutti gli errori, le imperfezioni, le scomodità annesse –, rimane una modalità insostituibile di fruire la musica e/o di farla: è innegabile che proprio il coinvolgimento fisico, personale e collettivo sia veicolo di una dimensione emotiva strettamente collegata a quella dell’accadere vivo dell’esperienza musicale. Questi due estremi costituiscono, per così dire, l’alfa e l’omega di quanto si possa dire del “corpo” in musica: la sostituzione del corpo umano da parte della macchina che, con tutti i limiti del caso, sembra in qualche modo tuttavia capace di un atto musicale creativo da un lato, e l’espressione più naturale, primordiale, della corporeità (quella della performance musicale dal vivo e della sua fruizione collettiva), dall’altro. Credo sia utile avere presente l’intero arco delle possibilità, ma, nel corso dei prossimi paragrafi, mi dedicherò alla questione del rapporto tra corpo umano e musica.

2. Musica in-corporata: predisposizioni e contaminazioni Il primo passo da farsi è proprio accorgerci che c’è un’importante relazione tra il nostro corpo e il nostro senso musicale. Consideriamo, per esempio, il battito del cuore. In questo movimento fondamentale per il corpo umano, primordiale per la persona, non solo c’è il primo ritmo regolare in noi e che noi sentiamo già nel ventre materno – e dunque la prima relazione affettivomusicale – ma anche già l’indizio della prima interpretazione che noi esseri umani diamo alla sequenza ritmica: il “battere” e il “levare”, e cioè l’alternanza di un momento sentito come forte, come dominante (poniamo, ta), e di uno sentito come debole, come subordinato (poniamo, tum). Ciò accade perché viene assecondata la natura del movimento del muscolo cardiaco: i due colpi “classici” del battito del cuore3 tendono a essere uno (il primo) più forte dell’altro perché rispecchiano i movimenti di contrazione e disten54

3.

Lo si può sentire qui: https://www.youtube.com/watch?v=i7OXm6Wn4rg.


Corpo e musica. Forme della relazione

sione del nostro organo. Per quanto detto, il nostro senso corporeo vive l’esperienza di ascolto musicale di quei due suoni, proprio perché li inquadra già in un orizzonte di significato. Infatti, se variano le condizioni, quegli stessi due suoni possono essere percepiti in un pattern, in uno schema improvvisamente diversissimo da quello che il nostro senso musicale aveva registrato in precedenza. Per spiegarlo, provo a fare un esempio. Se aggiungessimo un terzo impulso ritmico (poniamo, pum), riempiendo quel piccolo spazio di silenzio che c’è dopo il battito debole (ta-tum [pausa], ta-tum [pausa]), le pulsazioni diventerebbero tre (ta-tum-pum) e, dove prima c’era una pausa di silenzio, ora ci sarebbe un colpo che, giustamente, sentiamo immediatamente come un terzo colpo che segue i primi due. Se però questo colpo venisse dato – per esempio – con un volume maggiore rispetto agli altri due, potrebbe tendere, in un tempo molto breve, a imporsi sugli altri, prendendosi il ruolo di accento forte, e sarebbe quindi sentito come il “battere”, il colpo principale cui seguirebbero gli altri due, entrambi sentiti come colpi deboli in “levare”: la sequenza diventerebbe quindi púm-ta-tum, púm-ta-tum, pùm-ta-tum. Ma questo è proprio il ritmo ternario del valzer! Si potrebbe dire che, in fondo, non è cambiato molto dal punto di vista della materia sonora (abbiamo aggiunto un suono lasciando intatti gli altri due), eppure, musicalmente, è cambiato tutto: è comparsa una nuova suddivisione e una nuova gerarchia tra i suoni. Che questo, però, sia solo umano e che anche gli animali più intelligenti e simili a noi a livello di specie non riescano a cogliere una ripetizione offerta come un suggerimento ritmico, lo si vede in alcuni interessanti esperimenti4. In uno, per esempio, una scimmia è stata allenata a lungo a rispondere ritmicamente all’ascolto di un battito ripetuto, così da andare “a tempo”. L’animale ci ha messo un anno ad acquisire una regolarità nell’andare a tempo. In realtà, osservando bene il suo comportamento, ci si accorge che l’animale percepisce il suono come un segnale a cui rispondere, non come un ritmo da seguire. Infatti, essa muove l’arto un istante dopo lo stimolo sonoro e, quando questo finisce, si ferma. Nell’uomo, invece, ritroviamo qualcosa di simile a strutture musicali predisposte a una interpretazione intelligente e creativa del suono5. Ma che cosa ci succede a livello cerebrale quando ascoltiamo o pratichiamo musica? Come dice il neurofisiologo Giuliano Avanzini6, il cer-

4. 5. 6.

https://www.youtube.com/watch?v=rnUSNbqtVJI (da 18:17 a 19:37 del documentario Power Of Music On The Brain | Dementia & Parkinson’s). Che queste strutture siano innate o formatesi come frutto di esperienze è un tema infinitamente discusso, che non tratterò in questa sede e a cui solo accennerò più avanti. Si fa riferimento all’intervento di Giuliano Avanzini alla iv Conferenza programmatica: Neuroscienze e musica, tenutasi in streaming domenica 25 ottobre 2020, cfr. https://www.youtube.com/ watch?v=8D0g4_7DVw4.

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vello fa mescolare il versante percettivo-sensitivo e quello motorio, normalmente situati in aree differenti e, dato ancor più sorprendente, le parti del cervello adibite al controllo motorio si attivano già, in misura minore, non solo mentre si batte attivamente il ritmo (quindi quando effettivamente il nostro corpo si muove), ma anche quando si ascolta passivamente. Questo ha a che fare proprio con l’effetto che la musica produce a livello neurologico. Ci torneremo più avanti. D’altra parte, è facile rendersi conto, nella pratica, che c’è una dimensione musicale inscritta nella nostra corporeità. Come è efficacemente mostrato in un video di Paolo Cattaneo, musicista jazz e musicoterapeuta, attivo in ambito universitario e ospedaliero in Italia e in Svizzera, quando si propone una frase musicale semplice, rivolta a bruciapelo, senza nessuna preparazione, a un pubblico comune, quel che si ottiene è, sorprendentemente, la risposta “giusta”7. Essa non è calcolata e nemmeno consapevole da un punto di vista musicale, eppure è precisa e viene emessa con una spontaneità e immediatezza sorprendenti. Non voglio certo affrontare qui il tema intricato e forse irrisolvibile della natura innata o acquisita di questa memoria musicale “sapiente”. È però importante cogliere un’altra prova suggestiva dell’esistenza in noi di meccanismi percettivo-motori legati alla sfera della musicalità che sfidano la nostra tendenza culturale prevalente (almeno, per quel che ho potuto osservare nella mia attività di insegnamento e direzione in contesti scolastici e non), che ci porta ad assumere l’atteggiamento del “ma io sono stonato”, del “sono sempre stato negato in musica”, del “non ho senso del ritmo”, il quale è quasi sempre figlio di una mancanza di stimoli musicali adeguati nella propria formazione. Lo si capisce bene quando ci spostiamo in un altro ambito e riproponiamo il gioco della “domanda” e della “risposta”: chi non saprebbe come completare immediatamente e senza grandi dubbi l’immagine della prima figura così da ottenere la seconda, bambini compresi?

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7.

Si fa riferimento all’intervento di Paolo Cattaneo al Forum Alzheimer 2011, cfr. https://www.youtube.com/watch?v=u2oRMp9wI6o (da 11:15 a 12:47).


Corpo e musica. Forme della relazione

Rudolf Arnheim, grande storico dell’arte tedesco e seguace della psicologia della Gestalt, definisce l’oggetto della percezione umana come «una interazione tra tensioni guidate»8. Si tratta di un’ottima definizione per dar conto anche della capacità di rispondere a una frase musicale “chiudendo” la sua “apertura” con un’altra frase. Essa richiama alla mente ciò che Eraclito aveva intuito essere la legge di tutta la realtà, ossia «armonia di opposti in tensione tra loro»9. Ma c’è una struttura umana forse ancor più profonda che possiamo cominciare a cogliere mettendo a confronto l’affermazione di uno dei più importanti neuroscienziati cognitivi, specializzato nel sistema uditivo, Robert Zatorre, con quella del filosofo che forse ha colto meglio l’essenza della musica, cioè Arthur Schopenhauer: C’è una interazione forte tra l’area della percezione uditiva e quella del sistema della ricompensa. La prima ci permette di analizzare le strutture sonore e fare delle anticipazioni rispetto all’evolversi della musica; la seconda, invece, valuta i risultati di queste anticipazioni/predizioni e genera emozioni positive o negative a seconda che questa aspettativa sia incontrata, non incontrata o superata10.

Semplificando, Zatorre ci invita a considerare la meraviglia di un cervello, il nostro, che non solo è in grado di cogliere che c’è un’“apertura” musicale che dovrà “chiudersi” in un certo modo, ma anche di elaborare, contestualmente, una soddisfazione se questa “chiusura” avviene. Già Schopenhauer – in altri termini, a livelli diversi e a prescindere dal discorso metafisico cui fa riferimento – nel brano che segue aveva colto in pieno il legame tra la forma della musica e il meccanismo di aspettativa-appagamento che costituisce la legge dinamica del desiderio umano. Egli infatti scrive: Ora, come l’essenza dell’uomo sta nel fatto che la sua volontà aspira, viene appagata e torna ad aspirare, e sempre così continua; […] così l’essenza della melodia è un perenne discostarsi, peregrinar lontano dal tono fondamentale per mille vie non solo verso i gradi armonici, la terza e la dominante, ma verso ogni tono, fino alla dissonante settima ed ai gradi eccedenti; eppur sempre succede da ultimo un ritorno al tono fondamentale. Per tutte codeste vie esprime la melodia il multiforme aspirar della volontà; ma col ritrovare infine un grado armonico, o meglio ancora il tono fondamentale, esprime l’appagamento11.

R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano 2002, p. 32. Cfr. I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. i, a cura di G. Giannantoni et al., Laterza, Roma-Bari 1981, p. 194. 10. Si fa riferimento a una citazione di Zatorre contenuta nell’intervento di Alfredo Raglio alla iv Conferenza programmatica: Neuroscienze e musica tenutasi in streaming domenica 25 ottobre 2020, cfr. https://www.youtube.com/watch?v=CDY1_vJ9CcI (da 2.26:37 a 2.28:13). 11. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 1991, par. 52. 8. 9.

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In più, il filosofo accenna anche al continuo “peregrinare” della melodia che, se è vero il fatto che, perlomeno nella musica tonale classica cui egli fa riferimento, ha come destino il suo concludersi nel tono fondamentale (che quindi, appagandola, “spegne” la tensione che l’ha mossa), ne conserva il potenziale di ripresa strutturale della tensione. Il già citato Arnheim si inserisce idealmente nel discorso, sviluppando il suggerimento dinamico che Schopenhauer dà, andando oltre al semplice schema aspettativa-appagamento: «L’equilibrio […] gratifica l’uomo come simbolo delle sue più vaste aspirazioni»12; e, a questa stregua, si può considerare la motivazione come quello «stato di squilibrio dell’organismo che porta all’azione per la riconquista della stabilità»13. Ma questo non basta, non spiega tutto: L’essere umano […] trova il suo soddisfacimento non nell’inattività ma nel fare, nel muoversi, nel cambiare, nel crescere, nell’andare avanti, nel creare, nell’esplorare. […] In realtà la principale caratteristica dell’organismo può essere il fatto che costituisce un’anomalia della natura proprio perché si batte contro la legge generale dell’entropia traendo continuamente energia dall’ambiente che lo circonda. Un tale punto di vista non nega affatto l’importanza dell’equilibrio; questo resta la meta finale di ogni desiderio da soddisfare, di ogni compito da assolvere, di ogni problema da risolvere. Ma non si corre solo per vincere. […] Solo osservando l’interazione tra la forza vitale attiva e la tendenza all’equilibrio si può raggiungere una più piena comprensione della dinamica che fa funzionare la mente umana e che si riflette nei suoi prodotti14 .

L’ultima frase contiene la sintesi: se con “equilibrio” si intende la situazione che segue la risoluzione della tensione, allora quel che in realtà noi cerchiamo è che l’equilibrio, paradossalmente, sia di nuovo rotto; rotto da quella “forza vitale attiva” che testimonia quella tensione che sembra sempre risorgere da ciò che avanza, per così dire, dal precedente appagamento. Nell’esempio che segue, Arnheim mostra in atto questa teoria con un esempio che egli stesso ricollega alla musica. Analizzando un quadro di Paul Cézanne, Madame Cézanne sulla sedia gialla, mostra come il suo significato emerga proprio «dall’interazione di forze attivanti ed equilibratrici»15. Il dipinto è un ritratto (quello della signora Cézanne), la persona occupa gran parte dello spazio pittorico e pare portare lo sguardo a compiere un movimento ascensionale: dal grembo alla testa, secondo un progressivo assottigliarsi della figura. In più,

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12. 13. 14. 15.

Arnheim, Arte e percezione visiva cit., p. 50. Ibidem. Ivi, p. 51. Ibidem.


Corpo e musica. Forme della relazione

lo spazio viene diviso in due rettangoli, uno più grande in basso e uno più piccolo in alto: l’occhio, infatti, tende ad andare in direzione degli intervalli decrescenti. In questo punto dell’analisi, Arnheim suggerisce l’analogia che ci interessa: gli elementi dell’immagine influenzano l’occhio come fa la sequenza di note di una scala con l’orecchio, che tende a percepire un crescendo di tensione in corrispondenza di un movimento dal basso verso l’alto: do-re-mi-fasol-la-si-do…

Il rettangolo superiore, nel dipinto, rappresenta però anche l’approdo a una nuova base: la figura si “ferma” in quello spazio, trova il suo equilibrio nel porre fine al moto all’insù. Questo processo è esattamente quello che fa la scala musicale: si parte dal do, nota fondamentale, e si arriva al do dell’ottava superiore, in questo modo viene ribadita la stabilità. Ci possiamo accorgere delle due spinte: quella attiva, dinamica, desiderante, e quella che porta alla ricerca della “casa”, della quiete, del ritorno all’equilibrio, che trasforma l’ascensione dalla base in una paradossale «caduta all’insù verso una nuova base»16. Eppure, così come accade nella scala musicale, per cui una volta raggiunta la nota fondamentale dell’ottava superiore (cioè il do alto rispetto al do dell’ottava bassa di partenza) può ripartire la sequenza verso una nuova fondamentale (un altro do-re-mi-fa-sol-la-si-do), allo stesso modo ciò che rende viva e dinamica la fruizione del quadro di Cézanne è che l’occhio, che lo “sappia” o no, si trova di continuo a ripercorrere, nella percezione, quella sequenza di movimento-approdo suggerita dagli elementi della figura. In tutti e due i casi, è un continuo raggiungere e abbandonare una stabilità.

16. Ivi, p. 54.

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3. Da corpo a musica: il luogo privilegiato della voce Intendere la musica come relazione tra tensione offerta e distensione cercata e poi superata da un nuovo ri-lancio, ci porta ad addentrarci in una questione importante, che è certamente ambizioso porre, ma che è utile per identificare la fonte corporea per eccellenza del fare musica. Potremmo chiederci, infatti, dove si possa trovare l’origine della musica – intesa come accadimento e pratica consapevoli nell’uomo – e, per farlo, potremmo provare a immaginarci il fenomeno musicale umano dei primordi. Su questo tema si sono formulate numerose ipotesi: per fare qualche esempio, si può sostenere che la musica nasca dall’elemento ritmico della danza; dall’espressione di emozioni e stati d’animo o, ancora, dal linguaggio cantato dei cerimoniali religiosi o dei rituali magici. Lo psicologo ungherese Géza Révész, interrogandosi proprio su questo, fa notare che i tre esempi citati sono attività umane che si danno nell’uomo anche prima e dopo il far musica, e che non hanno un legame costitutivo con l’evento musicale tanto da motivarne la forma specifica. Egli suggerisce allora questa ipotesi: la musica scaturisce dal “grido di chiamata” e dal suo corrispettivo reciproco, il “grido di rimando”. Révész, a riguardo, scrive: «se si vuole comunicare qualcosa a qualcuno da lontano, si cerca anzitutto di richiamare la sua attenzione mediante un grido di chiamata»17, cui poi seguirà una parola esplicita o un gesto significativo. «È proprio della natura del richiamo che esso possegga una certa forza e pienezza»18 in funzione del suo scopo: non basta la voce discorsiva, occorre quella cantata. Solo essa arriva a destinazione. Un grido può valere come «segno di presenza, un altro come avvertimento di pericolo, un terzo come invocazione di aiuto e di soccorso»19. Esempi tratti dall’etnomusicologia mostrano che questi gridi possiedono «una struttura musicale determinata»20: tendono ad avere tre elementi che identificano in modo inconfondibile un evento musicale, ossia degli intervalli melodici definiti, la trasportabilità a diverse altezze di questi stessi intervalli e la loro possibile combinazione. Un esempio semplice può aiutarci a capire cosa intende Révész. Se mi trovo in un bosco e ho bisogno di aiuto per ritrovare la strada, segnalerò la mia presenza e la mia richiesta magari urlando “o-oh”, con quella tipica “cantilena” che mi porta a passare da una nota più alta a una più bassa, creando però un intervallo piuttosto preciso (potrebbe essere, per esempio, una terza minore: fa-re). Se a questo grido non segue ri-

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17. 18. 19. 20.

G. Révész, Psicologia della musica, Editrice Universitaria, Firenze 1954, p. 241. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 242.


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sposta, lo intensificherò nel volume, ma anche nell’altezza (magari circa un tono sopra, sol-mi), fino a che non otterrò risposta, cioè il grido di rimando. Per restare più sul quotidiano, si pensi a un botta e risposta a parole: “C’è qualcuno?” “Sono qui!”. La risposta costituisce una “chiusura” di quella precedente “apertura”; quel “Sono qui!” è facilmente espresso proponendo una inversione nella direzione melodica: dal basso verso l’alto (magari con un intervallo di quarta, do-fa o re-sol). C’è però un altro elemento fondamentale, aggiunge lo psicologo ungherese. Emettere un grido genera un sentimento di piacere, che aumenta, tendenzialmente, con la forza e la durata del tono: «l’impressione [è] che vengano scaricate delle forze interne»21 e che ci si liberi da «certe inibizioni psicofisiche»22, come dimostrano limpidi esempi che egli stesso trae dal quotidiano: chi non ha mai goduto del semplice udire la propria voce quando riecheggia in una vallata alpina o si è trovato spontaneamente a canticchiare nel gioco, da bambino, o nel lavoro, da adulto? C’è un circolo virtuoso tra sentimento vitale di piacere e canto: si alimentano reciprocamente. Il canto può arrivare a perdere la sua dimensione originaria di intensificazione della richiesta di aiuto, ma continua a generare una esperienza di piacere. Si può cogliere un’analogia con ciò che dice lo psicanalista e filosofo Massimo Recalcati quando, riallacciandosi alla tradizione del pensiero freudiano e lacaniano, riprende l’idea che l’uomo viva l’uso del proprio corpo sempre nell’“accavallarsi” della dimensione pulsionale su quella biologico-istintuale: mentre si espleta un bisogno, si prova anche godimento (come il neonato che ha bisogno di nutrirsi dal seno materno, ma gode in sé nel succhiarlo)23. La pratica del canto, secondo i suoi specifici parametri, ha quindi una funzione di accrescimento e di direzione nei confronti del sentimento e del ritmo vitali. L’intreccio con la sfera emotiva porta a «risvegliare sentimenti di […] piacere»24 e a riattivare i moti corporei. In definitiva, Révész conclude che «a causa di questo intimo rapporto psicobiologico il grido trapassa nel canto senza alcuno stadio intermedio»25: l’origine della musica dal grido di chiamata porta alla ribalta allora un protagonista decisivo nella relazione tra musica e corpo, su cui torneremo più avanti, ossia la voce. Quella di Révész rimane certamente un’ipotesi di so-

21. Ivi, p. 243. 22. Ibidem. 23. Cfr. M. Recalcati, Il corpo e la psicanalisi (incontro di approfondimento del tema della ix edizione del Concorso nazionale di filosofia Romanae Disputationes, svolto il 20 ottobre 2021 presso il Liceo Manzoni di Milano), https://www.youtube.com/watch?v=5aq640dz4ZI. 24. Révész, Psicologia della musica cit., p. 243 (in corsivo nel testo). 25. Ibidem. Proprio per questo legame con il grido e con il suo scopo nella relazione comunicativa, Révész arriva ad affermare che la musica abbia come radice la funzione del linguaggio.

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luzione che, per la natura della questione, non può essere esaustiva; certo è che, tra passato e presente e a cavallo tra diversi continenti e culture, vi sono numerosi esempi di questa modalità di canto “a domanda e risposta”: eccone qui una breve rassegna. Il primo esempio è uno dei più classici: è un ring shout eseguito dai Geechee Gullah Ring Shouters, un gruppo di afroamericani che rievocano il contesto della comunità Gullah, da cui provengono e di cui vogliono conservare tradizioni e usanze, innanzitutto quelle musicali. La comunità Gullah è una delle realtà etnico-sociali più grandi del mondo afroamericano e che più ha mantenuto, nei secoli, la sua origine africana (in particolare, Angola e Senegal). Il ring shout è un rituale che trae la sua origine nelle manifestazioni religiose dell’Africa dell’Ovest. Esso è volto a portare i partecipanti a un certo grado di esaltazione e di estasi, attraverso l’intensificarsi della danza, del battito delle mani e – anche se non sempre necessario – dello shouting, il “grido” che si configura come un vero e proprio canto a domanda e risposta (call-and-response)26. In un altro esempio, troviamo invece dei ragazzini del Kenya: in questo caso, la melodia di risposta del gruppo è identica a quella del solista27. Questa forma di canto, però, non è solo popolare, rituale o “archeologica”: è possibile trovarla anche tra cantante e pubblico persino nei concerti rock. È celebre l’episodio in cui Freddie Mercury, leader dei Queen – band tornata in auge recentemente grazie al film biografico Bohemian Rhapsody –, coinvolge la folla in un botta e risposta serrato (che pare quasi una sfida), avvenuto in occasione del Live Aid del 198528. Rimane però più impressionante di tutte una registrazione del 193429, in cui un gruppo di fedeli afroamericani, guidati dalla voce solista di Austin Coleman, si lancia in un ring shout (Good old Jeremiah) sempre più ossessivo in cui cogliamo, oltre alla forma di canto call-and-response, anche un elemento in più, utile per portarci a compiere il prossimo passo del nostro percorso. Questo grido che ottiene risposta, in un crescendo di esaltazione (tipico dei canti spiritual, legati al cristianesimo, che si innestano però sulla sensibilità e sulle forme dell’eredità religiosa africana), sembra davvero diventare rumore, l’espressione di un’energia quasi brutale: cosa c’è dietro questo prendere corpo della voce in una dimensione materica, tanto da risultare un urlo carico di dolore, ma anche di liberazione?

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26. 27. 28. 29.

https://www.youtube.com/watch?v=NQgrIcCtys0. https://www.youtube.com/watch?v=QFWRcXYsYMo. https://www.youtube.com/watch?v=RFADm6jAfSA. La registrazione è tratta dall’archivio di John e Alan Lomax, etnomusicologi statunitensi, fondamentali per il contributo alla scoperta e diffusione della cultura musicale afroamericana. Questo il video: https://www.youtube.com/watch?v=fkxeB0gcLyA.


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Entriamo nel vivo della relazione tra corpo e musica proprio attraverso la “porta” della musica e del canto della tradizione afroamericana30. Seguendo le acute analisi del filosofo Davide Sparti31, che ha una lunga esperienza nel campo dell’analisi estetica e musicologica, vedremo cosa possiamo scoprire prendendo le mosse proprio dal confronto tra quella cultura musicale e quella cosiddetta eurocolta. Sparti, descrivendo la natura dell’evento sonoro, insiste sul fatto che la musica innanzitutto ha una natura temporale: questo la rende afferrabile solo nel suo divenire, non nel suo essere statico. La vista coglie sia movimento che immobilità, ma predilige la seconda se vuole osservare meglio. La musica ha solo movimento: se c’è immobilità, c’è silenzio. Il suono, quindi, come evento che accade nel tempo e quindi soggetto alla transitorietà, è “condannato” a scomparire. Il modo che si è affermato nella nostra tradizione occidentale per fissare il suono e arrestare il tempo è la notazione. Come già diceva Carlo Sini a proposito del logos32, il tentativo che fa la scrittura è sempre quello di fissare l’evento, sapendo che però il prezzo è che, mentre raccogli l’intero vivente, anche lo dividi, lo scorpori, appunto, necessariamente, per conservarlo. Allora la nota musicale diventa il segno temporaneo del transito. Riflettiamo ora sul rapporto tra notazione ed esecuzione del suono. Prendiamo un pentagramma e una nota, per esempio un la: essa è il frutto di una trascrizione secondo alcuni parametri che ora si trovano codificati dalla tradizione musicale.

Possiamo identificare perfettamente l’altezza (e allora dirò che è il la sopra il do centrale), la durata (dirò che dura due quarti) e, anche se con una precisione non assoluta, l’intensità (andrà eseguita forte). C’è però da chiedersi come si fa

30. Quanto però a legame tra voce umana e natura del suono e alla loro interazione non si può non menzionare il canto difonico tuvano diffuso nella regione di Tuva (al confine tra Russia e Mongolia): in quel tipo di canto la voce umana sfrutta i suoni armonici per arrivare a produrre due note contemporaneamente. Di seguito, due esempi (nel secondo, si trovano addirittura bambini già capaci di eseguire questa tecnica): https://www.youtube.com/watch?v=GpfHfZvYZEM; https://www. youtube.com/watch?v=u9Wk6_08d-w. 31. D. Sparti, Il corpo sonoro. Oralità e scrittura nel jazz, il Mulino, Bologna 2007. 32. Cfr. C. Sini, Logos e techne, tecnologia e filosofia (lezione inaugurale della Quarta edizione del Concorso nazionale di filosofia Romanae Disputationes, svolta il 4 novembre 2016 all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), https://www.youtube.com/watch?v=FNmfkyBOELM.

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a indicare il tipo di suono, nel senso di ciò che differenzia un violino da una tromba o da una voce umana – al di là delle tante indicazioni su come posso eseguire quella nota su di uno strumento (staccato, sforzato, marcato ecc.); il parametro musicale utilizzato a questo scopo è il timbro. Quando si descrive il timbro di uno strumento, normalmente si usano espressioni di questo genere: un suono può essere “aspro”, “duro”, oppure “rotondo” o “morbido” o “avvolgente”; si dice spesso anche “secco”, o “caldo”. Metafore, insomma, a volte anche fantasiose e che attingono prevalentemente al mondo tattile o addirittura del gusto (ovviamente c’è anche l’ambito visivo: si può parlare anche di suono “chiaro” o “scuro”). Ecco che emerge l’elemento corporeo, vivo, anche materico del suono. Riflettendo sul primo luogo della nostra produzione vocale, la voce, capiamo meglio questo punto: essa ha nel suo timbro la caratteristica più spiccata. Usiamo infatti il timbro proprio per identificare una persona, così che molte volte ci basta una sfumatura del suono della sua voce per farci riconoscere di chi si tratta (un cantante, ma anche un amico). Sparti, riprendendo gli studi di Giovanni Capuano33, osserva che la tendenza nella cultura occidentale a far prevalere il senso della vista su quello dell’udito ha avuto come conseguenza, nella trascrizione della musica, lo smarrimento della corporeità tipica del suono vocale. Quindi: piuttosto che al “soffio” e alla voce, in Occidente c’è stata la tendenza a ricondurre il suono alla lingua, al paradigma linguistico, e al gramma, cioè il suono che viene articolato in lettere, assumendo quindi quel carattere astrattivo tipico dell’alfabeto. Si àncora così il suono a una logica che precede il suo prendere corpo nella voce (o nello strumento). Così però si riduce la sensorialità della musica dal momento che se ne limita il radicamento corporeo solo durante il momento produttivo; il corpo del musicista, infatti, è impegnato già tutto nell’emissione vocale, perché occorre la voce per produrre il suono della parola, espulsione di fiato e movimento di muscoli che testimoniano proprio l’essere vivo. Sparti allora osserva: «L’atto fonetico è una pratica del corpo che non si può disincarnare né (a differenza dell’atto linguistico) trascrivere»34: il gesto vocale, quindi, viene considerato come «interfaccia tra corporale e musicale»35. Si tratta di un gesto «auto-fonico: la voce risuona, come notava George Herbert Mead [1912], si sente mentre la si esprime»36. Come e più di uno specchio, è fonte di coscienza personale: «chiama alla presenza chi la emette»37. Sparti scrive, sinteticamente, che, «se la parola rivela il desiderio

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33. 34. 35. 36. 37.

Cfr. G. Capuano, I segni della voce infinita. Musica e scrittura, Jaca Book, Milano 2002, pp. 12-95. Sparti, Il corpo sonoro cit., p. 81. Ibidem. Ivi, p. 103. Ibidem.


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di dire, la voce rivela quello di dirsi»38. In un certo senso, siamo la nostra voce. Tanto che spesso ci capita di percepire l’altro con maggior familiarità e minor distacco o disagio quando lo sentiamo al telefono rispetto a quando lo vediamo su uno schermo39. Credo che Voce, il brano scritto ed eseguito a Sanremo nel 2021 dalla giovanissima rapper e cantautrice Madame, esprima in modo poetico ed efficace questa identificazione e questa necessità espressiva: Negli occhi delle serrande si stenderanno e io sparirò L’ultimo soffio di fiato e sarà la voce ad essere l’unica cosa più viva di me Voglio che viva a cent’anni da me, voglio rimanga negli anni com’è Dove sei finita, amore? Come, non ci sei più? E ti dico che mi manchi Ma nel bosco di me ora siamo tornate E per sempre sarà che tu sei la mia voce40 .

Quanto detto sul ruolo della voce risulta evidente nella musica nera. Come questo corpo emozionale, capace di significazione attraverso il suono, esprima l’identità dell’io lo troviamo esemplificato nel lavoro di due jazzisti neri: Max Roach e Abbey Lincoln. Il jazz è, in generale, un tipo di musica in cui il timbro, anche strumentale, tende a essere «il certificato d’identità del musicista»41. La musica afroamericana è insuperabile in questa coincidenza tra forza primordiale del sentimento del bisogno, del dolore o anche dell’esaltazione e comunicazione corporea del suono: le loro radici e la loro storia non possono essere sostituibili e dunque non ci si può appropriare a buon mercato delle loro forme espressive. Il brano Triptych è una composizione tripartita in cui la voce e la batteria mettono in musica urgenze ed emozioni che vanno dalla rabbia al senso di vulnerabilità: in sintesi, l’urgenza di essere sentiti, ma anche di qualcuno che risponda. Si ritorna al gesto originario della presenza e della richiesta. In particolare, esso trova il suo picco di efficacia espressiva nelle prime due parti, Prayer e Protest: la voce emette una serie di gesti vocali al confine tra il gemito e la nota cantata, inizialmente risultando simili a lamenti prolungati e poi, verso la fine, sfociando in vere e proprie urla42. Ma questo grido in musica lo avevamo già sentito in Good Lord (Run Old Jeremiah), quel ring shout di quasi cento anni fa (a testimonianza, tra l’altro, di una musica che probabilmente veniva eseguita così anche nel secolo precedente) e, soprattutto, volgendo lo sguardo alla sua fortuna successiva, è il simbolo di 38. 39. 40. 41. 42.

Ivi, p. 82 (corsivi miei). Si tratta di un’esperienza comune negli ultimi due anni, dallo scoppio della pandemia da Covid-19. Corsivi miei. Ivi, p. 81. Si vada al minuto 5:40: https://www.youtube.com/watch?v=YTeacoeAm9o.

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una eredità estetica che è letteralmente entrata come un ciclone nella cultura musicale occidentale, permettendo al dolore e all’esaltazione primigenia di far cambiare anche i parametri di ciò che è colto come bello proprio perché espressione di qualcosa di autentico43. Possiamo infatti proporre una veloce rassegna di come quell’urlo e quella vibrazione siano rimasti e si siano evoluti partendo dai work song e dal blues, passando per il rock e arrivando ai generi misti di matrice hip-hop dei giorni nostri. In un video di una esecuzione dal vivo del brano Out of Sight, il celebre cantante soul/funk James Brown trasforma il grido nel suo marchio di fabbrica vocale: qui la carica è eversiva, dinamica, sensuale, non più tragica, eppure l’emissione sporca e graffiata del suono è della stessa natura (in particolare nelle urla alla fine del video)44 di quella del suono della voce di Abbey Lincoln nel brano sopra citato. In un altro video invece troviamo, facendo un balzo di trent’anni esatti, il cantante dei Nirvana Kurt Cobain che, nel concerto live Unplugged in New York, diventato ormai un cult e considerato il canto del cigno della sua parabola artistica e umana, esegue come ultimo pezzo un brano blues tradizionale del xviii secolo, Black Girl, nello stile in cui è stato ripreso e cantato da Leadbelly, uno dei primi bluesman di cui si abbiano incisioni. È un brano che parla di un uomo che cerca disperatamente conferme della fedeltà dalla sua donna; non è un caso che Kurt Cobain sospettasse che proprio in quel periodo sua moglie lo tradisse e dicesse di aver cantato in quei mesi – anche per la sofferenza legata a problemi fisici – “con il suo stomaco” (come afferma nel documentario sulla sua vita, Kurt Cobain: Montage of Heck). Cobain fa esplodere proprio l’urlo di dolore contenuto in quelle parole (lo si può sentire dal minuto 3:54 del brano in avanti) con un suono della voce che per sé sarebbe sgradevole, ma che si riempie di significato drammatico per la scena che viene evocata45. Nel mondo musicale dei bianchi, dunque (e non è certo la prima volta), ha fatto irruzione questa estetica del mondo afroamericano, il cui successo è legato all’autenticità dell’espressione. Facciamo ora un balzo a giorni nostri, arrivando a Post Malone, giovane musicista e cantante hip-hop/pop/trap americano. È talmente radicata, in questa traiettoria espressiva, quella voce piena di vibrato – quella voce tra lo sgraziato e l’intenso che fa emergere, a partire dalla vibrazione del corpo,

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43. Anche se la necessità di protestare per la propria condizione senza averne i mezzi materiali ha portato gli afroamericani a inventarsi una forma di musica, il Pattin’ Juba, che sfrutta letteralmente il corpo fisico come un set di percussioni: pare che questo genere sia nato a seguito di una proibizione, da parte dei bianchi, di usare i tamburi per il rischio di rivolte. 44. https://www.youtube.com/watch?v=zieXmNwHGYA (da 3:00 a 3:18). 45. https://www.youtube.com/watch?v=hEMm7gxBYSc.


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tutta la vibrazione sofferente dell’anima –, che viene riprodotta persino trasfigurata con le tecnologie moderne. Infatti, Post Malone è noto per creare l’effetto del vibrato della voce grazie all’auto-tune, come fa in Blame It On Me46. Un altro esempio di questo tipo di vibrato lo si trova nel brano Smile di Juice wrld & The Weeknd)47. Da ultimo, è molto interessante notare l’evolversi di questa estetica in un artista italiano, il giovanissimo cantautore pop/rapcore Blanco, fresco vincitore dell’edizione 2022 del Festival di Sanremo. Nel brano Notti in bianco ritorna innanzitutto quel modo di eseguire il vibrato sentito in precedenza, ma, in generale, possiamo dire che nel suo modo di cantare e di esibirsi, diventa fondamentale tutto l’accompagnamento del corpo e dell’espressione corporea nell’emissione della voce (tanto da risultare, a tratti, persino esageratamente esplicito)48. La sua non è altro che quella stessa vibrazione emozionale di richiesta, di tormento, di esaltazione, che ritrovavamo anche nel brano dei due jazzisti menzionati all’inizio di questa breve sequenza di esempi.

4. Dalla musica al corpo: affetti ed effetti Veniamo ora al potere che la musica ha sulla nostra struttura percettiva, emozionale, alla sua capacità di influenza e incidenza sulla nostra stessa identità soggettiva e sulle dimensioni più profonde della nostra persona. Innanzitutto, quanto alla capacità che ha la musica di muovere gli affetti, traiamo un esempio dalla musica barocca, in particolare dallo Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi, celebre componimento sacro che mette in musica una sequenza medioevale di meditazioni sulla sofferenza di Maria, madre di Cristo, durante la Passione e morte in croce del Figlio. Lungo tutta l’opera, gli artifici retorici del discorso musicale sono utilizzati per suscitare una ampia gamma di emozioni (dolore, sgomento, dolcezza, serenità, affanno ecc.), a volte ricorrendo anche all’imitazione di espressioni psicofisiche degli stati interiori, seguendo la “teoria degli affetti” di Kircher49. Nel primo brano, per esempio, il musicista riesce a comunicare la particolare forza e unicità 46. Si vada dal minuto 3:07 al minuto 3.27 in questa versione live di Blame It On Me: https://www.youtube.com/watch?v=B272zlEstNc. 47. Si vada dal minuto 1:38 al minuto 1:55 di questa versione: https://www.youtube.com/watch?v= jyRH9IEpQmk. 48. https://www.youtube.com/watch?v=yli4rZIX4h4. 49. Si tratta di una teoria estetica relativa al rapporto tra musica e sentimenti. Essa risale, nei suoi fondamenti, agli antichi Greci, fu ripresa dal pensiero musicale rinascimentale e conobbe il pieno sviluppo in epoca barocca, in particolare con Athanasius Kircher, quando furono codificate in campo vocale e strumentale precise corrispondenze tra affetti e figure musicali (https://www.treccani. it/enciclopedia/teoria-degli-affetti).

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dell’esperienza di dolore che la Madonna ha vissuto, innanzitutto sfruttando il valore della dissonanza. Il testo del brano è: Stabat Mater dolorosa / Iuxta crucem lacrimosa / Dum pendebat Filius, che significa “Stava la Madre addolorata ai piedi della croce, in lacrime mentre pendeva il Figlio”50. Il quadro che il testo e la musica dipingono raffigura Maria ferma e piangente davanti al Figlio crocifisso. Già l’indicazione agogica, ossia relativa all’andamento del brano, usata da Pergolesi in apertura del brano è eloquente: grave. Questo aggettivo suggerisce l’idea di un peso, di una staticità. In questa scena non c’è movimento fisico, ma un altro movimento: quello dell’animo di Maria, gravata dal dolore. La partitura musicale rende questo moto nella staticità non con un movimento ritmico, ma armonico: il tema intonato dalle due voci soliste, soprano e contralto, è una scala ascendente di sei note, che si conclude con un salto di settima discendente, che suona come una lacerazione improvvisa. La sofferenza della Madonna è resa attraverso questa sequenza, dolorosamente accentuata dai ritardi. Nel linguaggio musicale si dice ritardo il prolungamento di un suono oltre l’accordo precedente dentro un accordo successivo; normalmente, il nostro orecchio si aspetta che un accordo “risolva” in quello seguente; se una delle sue note, invece, “ritarda” a cambiare, essa genera un effetto che viene da noi immediatamente percepito: questa nota “estranea” crea una dissonanza. La dissonanza è uno dei modi più efficaci per significare la sofferenza. Ci si potrebbe chiedere perché, per rappresentare Maria, Pergolesi non si serva di un’unica voce, ma usi insieme soprano e contralto. C’è un particolare che, se si nota, contiene una suggestiva chiave esplicativa: la scala ascendente della melodia che viene cantata è divisa nota per nota tra le due voci, come se ogni voce rappresentasse un piede che compie un passo di una salita. Ma è una ascesa faticosa, come sottolineato dai ritardi. Forse Pergolesi prova a raffigurare il riverbero, nel cuore di Maria, della salita del Calvario compiuta da Gesù: anche lei lo ha accompagnato sul Golgota, e ora, stando davanti alla croce, nell’immedesimazione col Figlio, rivive lacerata dal dolore ogni momento della Passione. Una supposizione del genere, per quanto non esplicitamente espressa dal compositore, è però innegabilmente suggerita dalla sua musica. Si vede così come essa possa influenzare la nostra emotività e l’immaginazione. La capacità di influenza della musica può andare anche oltre. L’azione sul corpo e sul cervello, infatti, può diventare, a certe condizioni, quella di un vero e proprio effetto curativo. Qualche breve sguardo alla nostra esi-

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50. https://www.youtube.com/watch?v=U_JeEClArgE (la parte musicale analizzata è in riferimento alla sequenza che va dal minuto 2:41 al minuto 3:12).


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stenza quotidiana può farci rendere conto di questa caratteristica che la musica già possiede in senso lato: basti pensare a come certi brani (o anche solo scampoli di essi), soprattutto legati alle prime fasi della nostra esistenza, siano ciò a cui torniamo, ciclicamente, per ritrovarvi vibrazioni, sensazioni e ricordi che, anche senza un scopo di approfondimento o di studio, possono avere l’effetto generale di farci “stare bene”: questo perché funzionano come “arma” di contrasto verso certi stati emotivo-intellettuali, ma anche come amplificazione positiva degli stessi. Come è noto agli appassionati della musica di Johann Sebastian Bach, si narra che le Variazioni Goldberg, celebre composizione per clavicembalo, siano state scritte per alleviare le lunghe notti insonni del conte Hermann Carl von Keyserling, distraendolo con l’arte. Uno dei più importanti capolavori della musica strumentale occidentale, tra le pietre miliari nelle ambizioni esecutive di ogni pianista classico, nascerebbe quindi, stando all’aneddoto, come un rimedio per le sofferenze notturne di un nobile. Si tratta di una suggestione, dato che l’aneddoto non è stato provato, ma la sua stessa esistenza indica un’intuizione diffusa: le creazioni più profonde dello spirito umano possono nascere, come occasione, anche da bisogni e urgenze come quelle dell’esempio sopracitato e possono riuscire anche a dare un contributo in tal senso – senza che questo loro essere strumenti di cura sminuisca o riduca la loro portata di opere d’arte. Ancora di più, per quanto riguarda il rapporto musica-salute, si parla di musicoterapia. Senza avere modo e tempo di ricostruire, in questa sede, la lunga e affascinante storia degli effetti curativi della musica, a partire dal valore che prima i Greci e poi i medioevali attribuivano ai diversi “modi” musicali”51, basti dire che, come disciplina a sé stante e come metodo di cura, nasce solo nel secolo scorso. Essa consiste, propriamente, nell’«uso professionale della musica e dei suoi elementi per agire in ambito medico […] rivolgendosi a individui, gruppi, famiglie o comunità che cerchino di migliorare la loro qualità della vita a livello fisico, sociale, comunicativo, emozionale, intellettuale e di benessere spirituale». Traggo questa definizione dal sito ufficiale della World Federation of Music Therapy52 dove, contestualmente, viene chiarito anche che «la ricerca, la pratica, l’educazione e la formazione clinica nella musicoterapia si fonda su standard di qualità professionale modellati in base ai contesti culturali, sociali e politici»53. Si tratta dunque di un sa-

51. Per “modo” si intende una sequenza di note simile alle moderne scale maggiori e minori. 52. Si tratta di una società internazionale con sede in California ma nata in Italia, a Genova, nel 1985. 53. https://wfmt.info/wfmt-new-home/about-wfmt/.

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pere tutt’altro che privo di fondamenti scientifico-musicologici, e, soprattutto, la cui efficacia su alcune patologie neurodegenerative è testimoniata da una ricca letteratura, accessibile anche a chi non fosse “del mestiere”. È molto interessante studiare su quali basi biologico-psichiche la musica riesca ad agire sul sistema nervoso e – soprattutto – sul cervello. Riprendendo alcuni concetti espressi dal neurofisiologo Giuliano Avanzini e dal musicoterapeuta Alfredo Raglio nel già citato convegno online dedicato al tema54, si può dimostrare come la musica porti il cervello a mescolare il versante percettivo-sensitivo e quello motorio, di solito separati; in più, possiamo osservare anche come vi siano modificazioni strutturali e funzionali di diverse aree del cervello, anche legate ad abilità non musicali. Vi sono aree del cervello che hanno a che fare direttamente con la decodifica della musica, come per esempio: • l’area motoria, coinvolta in movimenti legati alla musica come il danzare e il suonare uno strumento; • il planum temporale, che ha il compito della elaborazione percettiva uditiva e dell’elaborazione del linguaggio ed è coinvolto nella musica per quanto riguarda l’elaborazione del ritorno tattile nel danzare e nel suonare uno strumento; • la corteccia auditiva, adibita all’analisi dei toni e dei suoni. Vi sono poi altre aree del cervello che, più o meno direttamente, sono comunque stimolate dalla musica, come il giro frontale inferiore (area adibita alla produzione linguistica, memoria di lavoro, pianificazione: anche con questa parte la musica interagisce, influenzando i nostri processi cognitivi), il cervelletto (adibito a programmazione, esecuzione e coordinazione del movimento: funzioni che aiutano a elaborare ritmi e tempi), i gangli della base (che regolano il movimento), il corpo calloso (si occupa dell’integrazione interemisferica: pare che nei musicisti sia più largo), l’amigdala (è la sede della gestione delle emozioni: la musica fa aumentare la nostra memoria emotiva e “accende” sempre questa parte) e l’ippocampo (anch’esso parte rilevante del cervello coinvolta nella memoria). In sintesi: i test indicano che, in misure diverse, l’ascolto e la pratica musicale coinvolgono tutte queste aree cerebrali e, di conseguenza, fungono da stimolo per tutte le attività legate a esse; in più, la forza della musica è il suo depositarsi in zone particolarmente profonde della traccia mnestica delle aree adibite alla memoria. È dunque intuibile quanto potente possa essere l’effetto stimolatore della musica nel contrasto a tutte le malattie neurodegenerative.

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54. Cfr. supra, nota 6.


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Il documentario Power Of Music On The Brain | Dementia & Parkinson’s55 mostra alcuni esempi impressionanti di come i pazienti affetti dal morbo di Parkinson e da quello di Alzheimer possano trarre benefici immediati e persistenti dall’ascolto della musica. Vi si vede un malato di Parkinson che fatica a camminare e, privo di accompagnamento, a ogni passo rischia addirittura di cadere. Quando la musicoterapeuta inizia a diffondere nella sala la musica di un tango, con un tempo di reazione quasi immediato, il paziente inizia a ballare seguendo il ritmo, mostrando una scioltezza, una naturalezza e una precisione nei movimenti che lascia sbalorditi – tanto da far quasi sospettare che si tratti di una messinscena. Ma l’interesse per questa pratica e per la sua efficacia cresce ancor di più quando la si offre ai malati di Alzheimer e demenza senile: persone anziane che a stento riconoscono i loro cari, che si dimenticano del loro nome, che perdono la cognizione spazio-temporale della loro persona e, soprattutto – nei casi peggiori –, che passano le loro giornate spenti, chiusi e in una involuzione di personalità e di capacità di interazione col mondo esterno, ascoltando un brano musicale particolarmente significativo nella loro vita e nella loro storia esibiscono un cambiamento la cui radicalità è stupefacente. Tra i vari esempi, ce n’è uno, contenuto nel documentario Alive Inside: A Story Of Music & Memory56, che esemplifica in modo completo il percorso di risveglio, recupero e (almeno temporanea e accennata) rinascita possibile con la musicoterapia. Tra i protagonisti vi è anche Oliver Sacks, famoso medico, neurologo, psicologo e scrittore britannico, autore molto prolifico nella letteratura scientifica, che ha dato alcuni tra i più importanti contributi allo studio del rapporto tra musica e cervello; sue sono le descrizioni e il commento a quel che accade ai pazienti coinvolti nel documentario. Inizialmente, ci viene presentata la figura di Henry, anziano signore afroamericano affetto da una demenza senile in stadio avanzato, in carrozzina, inerte, insensibile e incapace di riconoscere la propria figlia; gli viene proposto di ascoltare musica e viene scelto un brano di musica religiosa, un gospel corale, di cui Henry era molto appassionato nella sua vivace e attiva vita prima della malattia. Immediatamente, come dice Sacks, si accende, il suo volto torna espressivo, spalanca gli occhi e comincia a cantare, a muovere il corpo. Insomma, è stato letteralmente rianimato dalla musica («l’arte vivificante», così la chiama il neurologo inglese attribuendone la definizione a Immanuel Kant) 57, è come ritornato a vivere. Il fatto ancor più

55. https://www.youtube.com/watch?v=rnUSNbqtVJI. 56. https://www.youtube.com/watch?v=8HLEr-zP3fc. 57. Sacks si riferisce al paragrafo 53 della Critica del Giudizio di Kant (siamo nel Libro i della Sezione ii, all’interno della Parte i).

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sorprendente è che, quando a Henry viene tolta la musica, l’effetto di essa non cessa: egli, che normalmente si trova in difficoltà a rispondere alle domande più semplici, quelle a cui rispondere con un “sì” o un “no”, diventa decisamente loquace, e inizia a raccontare della sua passione per la musica, dei suoi cantanti preferiti. Addirittura, si mette a cantare una canzone, ricordando perfettamente le parole e imitando lo stile del cantante. In un certo senso, quindi, Henry si vede restituito a se stesso: si ricorda chi è e riacquista la propria identità, almeno per un po’. Che questo sia vero, lo si coglie da un ulteriore salto di coscienza che si manifesta nelle sue parole di risposta quando gli viene chiesto come agisca la musica in lui: «La musica mi fa sentire l’amore, il fascino, lo colgo proprio adesso: il mondo ha bisogno di entrare nella musica, e cantare. C’è musica bellissima, qui, stupenda! Sento un’orchestra d’amore, di sogni… Il Signore è venuto da me e mi ha reso santo! Ha dato a me questi suoni». Queste sono frasi pronunciate da una persona vera, libera, di cui ancora si può intravvedere perfino la dimensione spirituale. La musica, quindi, sempre riprendendo le parole di Sacks, avrebbe la capacità e, di conseguenza, forse proprio la missione di poter riportare le persone alla loro identità. Nel prossimo e ultimo esempio, clamoroso e commovente, assistiamo al recupero di un’identità in modo così forte da spingerci ad andare oltre le considerazioni precedenti circa il contributo della musica sul cervello in quanto sede più complessa e raffinata del nostro corpo biologico; si potrebbe dire – introducendo una terminologia husserliana e merleaupontiana – che il caso che consideriamo ora ci fa interrogare sul rapporto tra il nostro corpo vivo e il nostro io personale. In una puntata di 60 Minutes, programma statunitense di attualità, si racconta la recente vicenda di Tony Bennett, 96 anni, grandissimo cantante jazz americano, malato di Alzheimer da circa cinque anni. All’epoca del video, Bennett ha 95 anni e ha appena ripreso la sua attività concertistica (dopo gli stop imposti alla musica dal vivo durante la fase acuta della pandemia da Covid-19)58. La malattia ha cominciato ad avere effetti sulla sua vita quotidiana in termini di difficoltà nella memoria (in particolare, è il suo ippocampo, sede principale della memoria nel cervello, a risentirne) e nella parola. Eppure, una cosa sembra rimanere praticamente intatta: la memoria musicale. Tutti i suoi vecchi brani sono ancora lì, con lui: non solo le parole e la musica, ma anche le modalità interpretative, le mosse; anche, insomma, tutto il suo essere un grande performer. Questo convive con il fatto che, terminata l’esecuzione, Bennett può non avere idea di che giorno sia e nemmeno di dove si trovi. Meno di un anno fa, nel 2021, dopo aver portato a termine il 72

58. https://www.youtube.com/watch?v=yNrvXw9juNs.


Corpo e musica. Forme della relazione

secondo disco insieme a Lady Gaga (fatto comunque di registrazioni di brani risalenti in gran parte agli anni precedenti), programmano un concerto da tenere in duo alla Radio City Music Hall di New York. Per tutto il mese di prove precedenti alla serata, la cantante ha la netta sensazione che Bennett non la riconosca neanche una volta; del resto, non lo sente mai pronunciare il suo nome. Ma lei stessa nota come, quasi per magia, quando viene provato un qualsiasi loro brano, Tony torni a essere impeccabile nell’esecuzione e nell’interazione musicale. Arriva il giorno del concerto, nel novantacinquesimo compleanno del cantante. Il copione è lo stesso: nel backstage, Tony sembra inconsapevole, quasi noncurante di quello che sta succedendo, lasciando il suo entourage in dubbio sull’esito della sua imminente performance. Appena inizia lo show ecco però che, come dice sua moglie, «lui è diventato subito se stesso. Si è… “acceso”, proprio come se ci fosse in lui un interruttore»59. Dopo una dozzina di brani e una ventina di standing ovation da parte del pubblico, arriva il momento in cui Lady Gaga entra in scena per qualche duetto finale. A quel punto, accade l’imprevedibile: la cantante saluta Bennett e lui l’accoglie e la chiama per nome. Ella è presa dallo stupore e dalla commozione: è la prima volta da prima della pandemia che lui la nomina. In quel momento, come racconta, «dovevo mantenere la calma, perché dovevo fare il mio lavoro; il nostro concerto era tutto esaurito. Ma ti dirò che, quando sono salita su quel palco e lui ha detto “è Lady Gaga!”, il mio amico mi ha visto. Ed è stato qualcosa di veramente speciale». A pochi giorni da quella serata trionfale, Tony Bennett e sua moglie vengono raggiunti al parco dall’intervistatore del programma, che chiede al cantante del concerto. Si sente rispondere: «Non so a che cosa ti riferisci!». Tutto sembrava nuovamente svanito nel nulla. E, dunque, chi è Tony Bennett, ora? A questa domanda rispondono le significative parole di Lady Gaga: «È dura vedere qualcuno cambiare [per la malattia]. Credo che il buono di questo – e anche l’aspetto che mette alla prova – è vedere come la malattia si ripercuota su di lui in vari modi, ma non si ripercuota sul suo talento. Penso che lui abbia davvero fatto passare qualcosa al mondo donando a tutti questa consapevolezza: le cose per te possono essere diverse da com’erano prima; ma tu puoi ancora essere una persona magnifica»60. Quando l’effetto della musica arriva a toccare quelle dimensioni corporee che si intrecciano con quelle spirituali della persona – ossia la sua memoria come fonte della sua identità più profonda – non si può non essere trascinati a spalancare ulteriormente l’orizzonte dei nostri interrogativi iniziali, o almeno non rimanere insensibili al riproporsi di certe questioni: fin dove ar-

59. Si veda tra 8:51 e 9:52. 60. Si veda tra 12:29 e 12:58.

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riva l’azione della musica in noi? Che cosa riesce a evocare di noi nel corpo e attraverso il corpo? Anche quando questo stesso corpo sembra solo impedimento o addirittura tomba, attraverso lo stimolo dell’arte musicale, c’è qualcosa del nostro io personale che sembra sempre poter tornare, misteriosamente, a dirsi.

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QUESTO VOLUME, SPROVVISTO DI TALLONCINO A FRONTE (O OPPORTUNAMENTE PUNZONATO O ALTRIMENTI CONTRASSEGNATO), È DA CONSIDERARSI COPIA DI SAGGIO - CAMPIONE GRATUITO, FUORI COMMERCIO (VENDITA E ALTRI ATTI DI DISPOSIZIONE VIETATI: ART. 21, L.D.A.). ESCLUSO DA I.V.A. (DPR 26-10-1972, N.633, ART. 2, 3° COMMA, LETT. D.). ESENTE DA DOCUMENTO DI TRASPORTO.

A, RE SE X T EN SA ,

La questione del corpo. Soma, Res extensa, Leib

LE IB

Il testo nasce dal Concorso 2022 sul tema: «La questione del corpo. Soma, Res extensa, Leib», svoltosi l’11 e 12 marzo in diretta streaming, con alcuni interventi di grande spessore, il torneo di disputa filosofica Age contra, oltre naturalmente alle premiazioni finali. Anche quest’anno il Concorso ha ricevuto l’attenzione del Ministero dell’Istruzione, infatti il Ministro Patrizio Bianchi ha inviato il suo saluto attraverso la prof.ssa Carla Guetti. La prima parte del testo raccoglie alcune riflessioni del Direttore del Concorso e racconta le diverse fasi del lavoro svolto durante l’anno e il suo articolarsi. Seguono una notizia e alcune riflessioni critiche sul torneo Age contra, da parte del Presidente del Comitato didattico del Concorso. La seconda parte del volume raccoglie, in primo luogo, il testo di Carlo Sini, che costituisce l’intervento di apertura, in secondo luogo il testo della lezione inaugurale tenuta da Luciano Floridi. Segue poi, come terzo contributo autoriale, il testo della lezione tenuta da Pietro Toffoletto su corpo e musica. La terza parte del testo offre infine le informazioni sui vincitori delle varie categorie e raccoglie le tesine vincitrici. Il volume si chiude riproponendo il Manifesto della filosofia, che sentiamo quanto mai attuale. Il volume offre l’occasione di rimeditare il tema della corporeità a partire da quanto avvenuto durante le varie fasi del Concorso. Che cos’è il corpo? Quali sono le possibilità che l’avere un corpo ci offre? Quali i limiti che esso ci impone? Quanto incide il nostro corpo nella dinamica del conoscere, dello scoprire, dell’attendere, del gioire? Noi abbiamo un corpo o siamo il nostro stesso corpo? Queste sono solo alcune delle domande su cui si sono svolti i lavori della nona edizione del Concorso che ha coinvolto migliaia di studenti di tutta Italia. Marco Ferrari insegna filosofia e storia al Liceo Malpighi di Bologna, di cui è preside. È ideatore e direttore del Concorso nazionale di filosofia per le superiori Romanae Disputationes, di Age Contra Plus e di Opera Prima dell’associazione Amore per il Sapere - ApiS, di cui è socio fondatore e presidente. È direttore della Bottega dell’insegnare filosofia di Diesse. Gian Paolo Terravecchia, coautore di manuali di filosofia, insegna filosofia e storia nei licei. È cultore della materia in Filosofia morale all’Università degli Studi di Padova. È presidente del comitato didattico del Concorso Romanae Disputationes e del comitato scientifico del torneo di disputa Age Contra Plus.

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