La ricerca n. 22

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RI23 - Il maestro Alberto Manzi durante la trasmissione Non è mai troppo tardi, RAI, 1964. © Marka/Touring Club Italiano. Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale-D.L. 353/2003 (conv. In L 27/20/2004 n. 46) art. 1, comma 1, NO/Torino – n. 22 anno 2022

La ricerca

Maggio 2022 Anno 10 Nuova Serie – 6 Euro www.laricerca.loescher.it

SAPERI

Percezione, formazione, storia del mestiere di insegnare

DOSSIER

Modelli di carriera

SCUOLA

N°22

Professione prof

L’insegnante in classe: ruolo, relazioni, strumenti, stili


I QUADERNI Quaderni della Ricerca: proposte metodologiche e aggiornamento didattico.

I libri pubblicati nella collana sono reperibili in libreria o presso le agenzie di zona. Indice e prime pagine sono disponibili sul sito de «La ricerca».

I Quaderni della Ricerca sono anche online www.laricerca.loescher.it/quaderni


EDITORIALE

Tre buoni motivi per insegnare

H

o conosciuto qualche anno fa un docente torinese, Marco G., preparatissimo, aggiornato, rinnovatore e motivato, che amava girare con una t-shirt su cui campeggiava in grande una scritta ad arco, sopra e sotto il disegno di una mano con tre dita alzate. Sopra: “Tre buoni motivi per insegnare”. Sotto: “giugno, luglio e agosto”. Irrisione autoironica e intelligente, stranamente indossata da chi tutto era fuorché un insegnante sfiancato. Conoscendolo meglio, ho poi capito che si trattava di una orgogliosa rivendicazione di appartenenza, che aderiva provocatoriamente alla rappresentazione macchiettistica che della categoria proponeva (e propone) la vulgata più vieta. Già, perché a chiedere un giudizio spassionato sugli insegnanti a chi non sia del mestiere si ottiene un mosaico di risposte, spesso contraddittorie, quasi sempre basate sulla personale esperienza della scuola che ognuno rivendica o rigetta. Unico comune denominatore: la mezza giornata di lavoro,i tre mesi di ferie, l’assenza di controllo… In vent’anni è cambiata poco e Ora, chiariamoci: io quel mestiere l’ho fatto per dieci anni, e ne niente la percezione che si ha dal conservo un ricordo bello e faticoso. Dopo tanti anni di lavoro aziendi fuori della scuola e dei docenti, dale, posso serenamente dire che non mi sento un lavoratore più eppure la professione è cambiata impegnato e controllato di allora. tantissimo. „ Di certo, più appagato economicamente. Quasi sempre, più “apprezzato” socialmente. Il che certo non guasta, anche se la cosa mi suona come un’ingiustizia verso quell’io che sono stato e della cui esperienza si avvantaggia il mio io presente. La cosa che però più mi sorprende ancora oggi, a distanza di quasi vent’anni dall’ultima volta che sono entrato in una classe per tenervi una lezione, è quanto poco sia cambiata la percezione della scuola e dei suoi professionisti che se ne ha al di fuori. Mi sorprende, dicevo, perché nel frattempo è davvero cambiato il mondo, e sono cambiate le richieste che da questo arrivano a bussare alle porte della scuola italiana. Dal mio osservatorio particolare, io mi rendo conto della cosa dal semplice confronto tra i libri di testo di allora e di oggi, con tutto il corredo di materiale ancillare (guide, risorse, eserciziari, soluzioni, multimediale), da sfogliare, guardare, ascoltare. Considerando le richieste che i libri di testo fanno oggi ai docenti (in ossequio alle indicazioni nazionali, ai bisogni educativi, agli stili di apprendimento, alle sensibilità sociali e ambientali, alle evoluzioni didattiche, alle emergenze sanitarie…), e confrontandole con quelle di tanti anni fa, si fatica a riconoscere un comune destinatario.Anzi, a dirla tutta, si fatica perfino a capire che tipo di professionista si immagina possa essere chiamato ad assolvere con competenza e pertinenza a tutti i compiti che oggi vengono proposti. Viene allora più facile figurarselo sdraiato sotto l’ombrellone per tre mesi d’estate… e mugugnare.

Sandro Invidia, direttore editoriale di Lœscher.


La ricerca Periodico semestrale Anno 10, Numero 22 Nuova Serie, maggio 2022 autorizzazione n. 23 del Tribunale di Torino, 05/04/2012 iscrizione al ROC n. 1480 Editore Lœscher Editore Direttore responsabile Mauro Reali Direttore editoriale Ubaldo Nicola Coordinamento editoriale Alessandra Nesti - PhP Impaginazione Ubaldo Nicola Copertina Emanuela Mazzucchetti, Davide Cucini Pubblicità interna e di copertina VisualGrafika - Torino Stampa Vincenzo Bona S.p.A. Strada Settimo, 370/30 – 10156 Torino (TO)

La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

Distribuzione Per informazioni scrivere a: laricerca@loescher.it Hanno scritto su questo numero Gianluca Argentin, Davide Boero, Ilaria Buonomo, David Childress, Chloé Chimier, Cristiano Corsini, Daniele Dell’Agnola, Helen Doyle, Monica Ferrari, Simone Giusti, Andrea Mariuzzo, Matteo Morandi, Ubaldo Nicola, Cortez Ochoa, Ieva Raudonyte, Mauro Reali, Vanessa Roghi, Sally Thomas, Leon Tikly, Barbara Tournier. Hanno collaborato alla redazione di questo numero Beatrice Bosso, Francesca Nicola. © Lœscher Editore via Vittorio Amedeo II, 18 – 10121 Torino https://laricerca.loescher.it/ ISSN: 2282-2836 (cartaceo) ISSN: 2282-2852 (online)


Sommario Percezione, formazione, storia del mestiere di insegnare

saperi 6 13

Contenti perché?

56

Una questione di stile?

La formazione degli insegnanti: l’importanza (e il gusto) di conoscerne la storia

61

Il mestiere difficile

66

Costruire ambienti supportivi a scuola

70

Liberare la valutazione dalla tirannia del voto

Gianluca Argentin

Matteo Morandi

19

Lodi e il mestiere di insegnare Vanessa Roghi

22

La formazione iniziale dei docenti della secondaria: un problema politico Monica Ferrari

26

Pregiudizi sulla professione docente: una lunga storia Andrea Mariuzzo

29

Lo specchio imperfetto: la scuola al cinema e in televisione Davide Boero

35

scuola

Vita da prof nella Roma antica Mauro Reali

dossier Modelli di carriera 40

È tempo di cambiare

44

I modelli di carriera degli insegnanti

50

Gli strumenti di valutazione dei docenti

Ubaldo Nicola

Barbara Tournier, Chloé Chimier, David Childress, Ieva Raudonyte

Cortez Ochoa, Sally Thomas, Leon Tikly, Helen Doyle

Simone Giusti

Daniele Dell’Agnola Ilaria Buonomo

Cristiano Corsini


SAPERI

Contenti perché? SAPERI / Contenti perché?

6

Gli insegnanti italiani sono piuttosto soddisfatti del loro lavoro, “nonostante tutto”: è quanto emerge dall’analisi dei dati della Rilevazione ISTAT sulle Forze di Lavoro del 2019. Un risultato che può sorprendere e che certamente stride con la rappresentazione più diffusa e stereotipata di questa professione, ma che trova spiegazione nella sua natura articolata e mutevole.

La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

di Gianluca Argentin

N

el 2019, l’anno precedente la pandemia (periodo che si decide qui di non affrontare),gli insegnanti italiani attribuivano un voto di circa 8 al loro lavoro, su una scala di soddisfazione da 0 a 10. Non solo: erano anche in media più soddisfatti di chi rivestiva posizioni intellettuali ad elevata conoscenza e specializzazione nel mercato del lavoro, come mostra la tabella nella pagina successiva. Osserviamo che la soddisfazione degli insegnanti è nettamente maggiore a quella degli altri occupati, in professioni intellettuali e non, e non solo per il lavoro attuale in generale. Gli insegnanti sono infatti più soddisfatti degli altri lavoratori anche per molti singoli aspetti specifici: tipo di attività svolta, clima e relazioni di lavoro, stabilità e ore lavorate. Sono presenti due sole eccezioni a


7 SAPERI / Contenti perché?

Una classe scolastica negli anni Trenta (foto Wikicommons).


Soddisfazione media per il lavoro e per diversi suoi aspetti tra insegnanti, occupati in posizioni intellettuali, scientifiche e a elevate conoscenze e altri lavoratori (scala 0-10).

La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

SAPERI / Contenti perché?

8

Insegnanti

Occupazioni intellettuali

Altri occupati

lavoro attuale

8.0

7.6

7.4

tipo di attività svolta

8,5

8.1

7.7

clima e relazioni di lavoro

7.8

7.6

7.5

stabilità del lavoro

7.9

7.2

7.2

numero di ore lavorate

7.6

7.1

7.1

guadagno

6.5

6.6

6.5

carriera o giro d’affari

6.1

6.7

6.0

Fonte: nostre elaborazioni sui dati ISTAT – Rilevazione Nazionale sulle Forze di Lavoro, 2019. questo quadro positivo, guadagno e opportunità di carriera, ambiti sui quali si tornerà nel seguito. Oltre a ciò,si consideri anche che,negli anni precedenti la crisi pandemica, non solo il quadro era già a favore degli insegnanti, ma che questi avevano anche vissuto una tendenziale crescita della loro soddisfazione. Inoltre l’ampia maggioranza degli insegnanti rifarebbe la stessa scelta professionale, se potesse tornare indietro. Questo insieme di risultati di ricerca1 genera di solito sorpresa, anche tra gli insegnanti stessi, quando non addirittura reazioni infastidite, che portano a mettere in discussione la validità delle modalità con cui i dati sono stati raccolti e analizzati. Del resto, lo sappiamo tutti, l’insegnante tipo è spesso rappresentato (e tende a rappresentarsi) come un factotum alle prese con generazioni di bambini e giovani sempre più difficili e impreparati, con bisogni educativi sempre più individualizzati, con genitori esigenti e critici, con carichi burocratici pressanti in contesti normativi perennemente in cambiamento. A questa rappresentazione si aggiungono poi solitamente altri tre ingredienti: la retribuzione bassa,soprattutto se comparata con quella dei colleghi stranieri; la diffusa convinzione che vi sia scarsa considerazione sociale verso chi fa un lavoro tanto utile, delicato e importante per la collettività; casi, più o meno aneddotici e spesso ampiamente raccontati sulla stampa, di situazioni di malessere estremo di singoli insegnanti. Frequentemente, chiude il cerchio di queste rappresentazioni l’idea che, un tempo, gli insegnanti erano davvero presi sul serio dai loro studenti, rispettati dai genitori e riconosciuti socialmente per il loro ruolo nella comunità. Alla luce di tutto ciò,come possono quindi essere veri i dati che raccontano di una popolazione di

insegnanti generalmente soddisfatta del proprio lavoro? Evidentemente, i conti non tornano. In effetti, i tratti della descrizione stereotipa degli insegnanti che abbiamo ripercorso poco sopra sono in parte veri e in parte no, come mostrano già da tempo diverse ricerche. Un esempio di quanto sia distorcente pensare a un’età dell’oro per gli insegnanti viene dalla lettura dei primi testi che nella sociologia italiana si sono occupati di questa professione, alla fine degli anni Sessanta del Novecento: già allora, mezzo secolo fa, si analizzavano in dettaglio i molti elementi sottostanti la crisi dell’insegnamento2. Il fatto è che quella dell’insegnante è, per sua posizione strutturale, un’occupazione in perenne stato di crisi. Gli insegnanti si collocano infatti a cavallo tra generazioni nei processi di selezione e trasmissione, dagli adulti di oggi agli adulti di domani, di valori e saperi che, collettivamente, reputiamo degni di nota. Al contempo, gli insegnanti sono professionisti con ampi margini di autonomia e discrezionalità nello svolgimento dei loro complessi compiti lavorativi, pur operando all’interno di organizzazioni burocratiche piuttosto codificate nella gestione di spazi e tempi e nella rendicontazione formale di quanto accade. Infine, gli insegnanti sono quotidianamente alle prese con dilemmi nell’esercizio della loro professione3; ne citiamo alcuni a titolo di esempio: quanto dedicare spazio alla trasmissione di conoscenze e allo sviluppo di competenze e quanto all’educazione e socializzazione a valori comuni? Preservare la tradizione di saperi e valori sedimentati collettivamente o lasciare spazio all’innovazione? Nella stessa didattica, quanto preservare forme consuetudinarie di riflessione lenta basata su lettura e scrittura e quanto invece assecondare appren-


9 SAPERI / Contenti perché?

dimenti esperienziali veloci? Essere inclusivi e integranti promuovendo eguaglianza o invece selezionare in base a standard e promuovere la valorizzazione delle differenze? Insomma, al ruolo di insegnante ben si attagliano metafore come quella del ponte o della cerniera, che rimandano a questo essere costantemente “tramite” tra diverse parti e istanze contrapposte, quindi in una posizione di frequente gestione di elementi di crisi. Se questi esempi possono aver fugato l’idea dei bei tempi d’oro dell’insegnamento (a meno che non si voglia tornare al Giulio Perboni di Cuore…) e averci resi cauti rispetto alle rappresentazioni stereotipe dei docenti, non ci hanno però spiegato la soddisfazione che riscontriamo tra questi. In tal senso, ci aiuta soprattutto osservare che, nella rappresentazione che viene fatta degli insegnanti, si dimenticano diversi aspetti cruciali di questo impiego. Ne discutiamo qui quattro, tra gli altri, illustrando perché, a nostro avviso, possono gettare luce sull’inattesa soddisfazione degli insegnanti. Un primo aspetto è la dimensione vocazionale alla base di questo impiego. Non si intende affermare che tutti gli insegnanti abbiano scelto questo impie-

go: i dati disponibili mostrano che sono piuttosto frequenti anche le situazioni in cui si finisce a insegnare per caso4. Restano comunque maggioritari quelli che hanno davvero scelto di insegnare, sin da principio, e questo ovviamente si accompagna a progetti di vita che trovano soddisfazione nell’aver fatto il lavoro che si voleva. Al di là di questi insegnanti per scelta,la dimensione vocazionale va però intesa anche in altro modo, cioè constatando che in questa occupazione sono molte le leve motivazionali che si possono attivare: il piacere per la costruzione di una didattica efficace e per la sua espressione in classe; il gusto per la trasmissione articolata della disciplina studiata; l’orientamento alla cura dei giovani e della loro educazione; l’impegno nello svolgere,ogni giorno,in prima linea,un compito che è salvifico per quei ragazzi e quelle ragazze che trovano nella scuola una via di emancipazione da contesti svantaggiati ecc. In altri termini, non serve essere insegnanti per scelta per trovare la propria vocazione nell’insegnamento e coltivarla, imparando e affinando quotidianamente qualcosa, traendo così soddisfazione dal proprio lavoro. Si connette a ciò un secondo aspetto, che spiega perché gli insegnanti italiani sono contenti del loro lavoro: è un impiego estremamente adattabile, non

↑ Una classe scolastica negli anni Cinquanta (foto Wikicommons).


SAPERI / Contenti perché?

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La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

↑ Una classe scolastica negli anni Sessanta (foto Wikicommons).

solo perché ciascuno può trovare il proprio modo identitario di essere insegnante,ma anche perché le organizzazioni scolastiche sono fatte di spazi laschi e discrezionali e ogni insegnante può trovare la nicchia scolastica relazionale che più gli/le si attaglia, come mostra in tabella l’elevata soddisfazione per il clima di lavoro. Del resto, nelle scuole, si può scegliere di essere presenti con ruoli di responsabilità oppure di limitare il proprio lavoro,letteralmente,al minimo sindacale, e, qualora una scuola sia troppo pressante o presenti un’utenza che chiede di essere insegnanti in forme nelle quali non ci si ritrova, si può sempre trasferirsi altrove. Non occorre arrivare ai casi di opportunismo, che pur ci sono5, di insegnanti che hanno carriere professionali avviate coniugabili con impieghi in regime part-time o che finiscono per essere presenti in classe per brevissimi periodi nell’anno scolastico. Più banalmente, flessibilità oraria negli impegni fuori dall’aula ed elevata discrezionalità nel tempo e nell’impegno dedicato a compiti extra rendono l’insegnamento un’occupazione altamente adattabile alle esigenze dei singoli, come al mutare delle condizioni di contorno nei loro corsi di vita, accrescendo la soddisfazione per questo impiego (si veda, ad esempio, in tabella, la soddisfazione per le ore lavorate). Un terzo elemento che manca nella descrizione stereotipa dell’insegnamento, ma che viene da pensare sia parte rilevante nei meccanismi sotto-

stanti la soddisfazione degli insegnanti, è la natura del tempo in classe.Con l’eccezione delle scuole/ classi/giornate/ore faticose perché l’insegnante si trova a gestire emergenze di varia natura, per gran parte degli insegnanti il tempo in aula è fatto di qualcosa di raro da esperire nella quotidianità della società contemporanea. Nelle aule si respira per buona parte delle lezioni un tempo sospeso e dedicato interamente dall’insegnante al qui e ora, con un sottofondo fatto di routine, silenzio e concentrazione. Si tratta di qualcosa che si ritrova in pochi altri luoghi oggigiorno, un “regno di quiete”, per usare parole di Battiato. Attenzione, è noto che le classi scolastiche sono spesso tutt’altro, dei campi di battaglia relazionale, soprattutto nei contesti più difficili; resta però il fatto che pochi altri luoghi al di fuori della scuola vedono spazi – seppur limitati – fatti di ascolto, di cellulari spenti, di lettura assorta e di scansioni temporali così chiare e così poco interrompibili quali sono le ore scolastiche. Un quarto e ultimo aspetto, poco quantificabile e forse per questo poco presente nelle descrizioni del lavoro di insegnante, ha a che fare con la sua natura, con il suo senso più profondo, ed è in parte intercettato in tabella dalla riga sul tipo di attività svolta. Come si è scritto sopra, un insegnante che trova la sua vocazione nell’insegnamento ha il privilegio di trovare un senso intrinseco nel proprio


una necessità che avvertono gli insegnanti stessi, insoddisfatti nel loro lavoro proprio per questi due aspetti (rispettivamente, esprimendo voti medi di soddisfazione pari a sei e mezzo e a poco più di sei), ed è indispensabile se si vuole ragionare di crescita significativa delle retribuzioni. Aumenti indiscriminati e consistenti degli stipendi degli insegnanti, anche qualora fossero davvero auspicabili per migliorare il funzionamento della scuola, sono destinati a restare nel libro dei sogni, vista la dimensione complessiva della platea dei beneficiari.

Approfondire —

• G. Abbiati, Bilancio di 50 anni di ricerca sugli insegnanti nella scuola italiana. Principali risultati e nuove tendenze, in «Scuola democratica» n. 3, 2014, pp. 503-524. • G. Argentin, “Scegliere” di insegnare: vocazione, vantaggi e caso, in A. Cavalli e G. Argentin (a cura di), Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, il Mulino, Bologna 2010, pp. 51-74. • G. Argentin, Gli insegnanti nella scuola italiana. Ricerche e prospettive di intervento, il Mulino, Bologna 2018. • G. Argentin, Nostra scuola quotidiana. Il cambiamento necessario, il Mulino, Bologna 2021. • G. Argentin, Under pressure? L’elevata e crescente soddisfazione lavorativa degli insegnanti italiani, 2014-2019, in «Sociologia del Lavoro» n. 160, 2021, pp. 43-66. • E. Besozzi, Società, cultura, educazione, Carocci, Roma 2006. • A. Cavalli, G. Argentin (a cura di), Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, il Mulino, Bologna 2010. • V. Cesareo, Insegnanti, scuola e società, Vita e Pensiero, Milano 1969. • F. Farinelli, G. Barbieri, La soddisfazione per il lavoro di insegnante, in A. Cavalli e G. Argentin (a cura di) Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, il Mulino, Bologna 2010, pp. 365-385.

11 SAPERI / Contenti perché?

lavoro, in una società nella quale domina tra i lavoratori qualificati il fare gli interessi dell’azienda per cui si è impiegati oppure l’adempiere in modo formalmente non eccepibile al proprio mansionario. L’insegnamento, per le sue dimensioni di cura e di trasmissione del sapere, unitamente alla sua natura gratuita verso le generazioni future, è uno spazio nel quale chi lavora, a fine giornata, può molto più spesso rispondere con soddisfazione alla domanda “a cosa è servito quel che ho fatto oggi?”. Il senso di quel che si fa, motore importante per essere soddisfatti del proprio impiego, trova eco per molti insegnanti nell’aver lasciato qualcosa nei percorsi futuri dei giovani, vuoi che sia un po’ di apprendimento di matematica, l’interesse per le lingue, il ricordo di un bel romanzo, una riflessione su come si convive pacificamente con gli altri oppure l’aver contrastato un po’ della diseguaglianza sociale che ci circonda, “salvando” il Pierino di turno. Per un impiego come l’insegnamento, che mette quotidianamente in moto molti meccanismi riflessivi, la soddisfazione passa quindi anche dal riconoscere il senso profondo di quel che si fa. Sembra una visione poetica dell’insegnamento, questa, ma basta parlare con gli insegnanti felici di aver finalmente visto uno studente “raggiungere il sei” oppure affranti perché non capiscono proprio come porsi con una classe difficile, per capire che la dimensione di presa in carico dell’altro permea l’insegnamento, diventandone croce e delizia per chi fa questo lavoro. Dopo queste brevi considerazioni su alcuni dei meccanismi che generano soddisfazione tra gli insegnanti, “nonostante tutto”, è forse utile ricordare che la soddisfazione elevata dei docenti non significa che vada tutto bene nella scuola, e che ci sono diverse questioni aperte. Ad avviso di chi scrive,la più importante è legata alla necessità di preservare modi diversi di essere insegnanti,valorizzandone la ricchezza e smettendo di fingere che tutti gli insegnanti siano uguali. Come argomentato più diffusamente altrove, la scuola è un incredibile serbatoio di professionalità, che oggi sono lasciate al volontarismo e che non sono adeguatamente supportate con formazione dedicata e valorizzazione di carriera. È un errore continuare a trattare allo stesso modo insegnanti opportunisti che fanno solo quanto espressamente previsto dal loro contratto e insegnanti che, di fatto donando proprio tempo di vita, investono nella scuola in cui sono, creando opportunità di crescita e apprendimento per i propri studenti, di scambio e collaborazione con i colleghi e di sviluppo per l’intera comunità educativa. È un errore anche ricompensare come gli altri gli insegnanti che scelgono di fare scuola nei contesti più difficili e deprivati, dove finiscono per essere spesso circondati da supplenti di passaggio. Riconoscere spazi di carriera e di retribuzione differenziata è


SAPERI / Contenti perché?

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La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

↑ Un’aula negli anni Settanta (foto Wikicommons).

Un secondo aspetto da tenere presente è che, come in ogni impiego e soprattutto come spesso accade nelle professioni di cura, esistono i casi di burnout. La popolazione degli insegnanti è molto vasta numericamente: è necessario pensare anche a misure che prevengano tali esiti e che, quando si verificano, siano di supporto per gestioni non improntate, come spesso accade oggi, ad aggiustamenti informali dagli esiti penosi per i diretti interessati, per i colleghi, per gli studenti e per i genitori. Un terzo e ultimo aspetto che si vuol sottolineare è che la soddisfazione diffusa non è una risorsa accessoria e nemmeno garantita qualunque cosa accada. Una scuola che funziona bene è necessariamente una scuola attenta al benessere dei suoi insegnanti e, di conseguenza, dei suoi studenti. Mettere al centro del dibattito interventi che promuovano il benessere di chi fa scuola è cruciale per fare funzionare meglio l’istruzione italiana, ed è indispensabile per dare gambe a qualsiasi processo di cambiamento istituzionale.

modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, il Mulino, Bologna 2010, pp. 365-385. 2. Si vedano V. Cesareo, Insegnanti, scuola e società, Vita e Pensiero, Milano 1969; G. Abbiati, Bilancio di 50 anni di ricerca sugli insegnanti nella scuola italiana. Principali risultati e nuove tendenze, in «Scuola democratica» n. 3, 2014, pp. 503-524. 3. Cfr. E. Besozzi, Società, cultura, educazione, Carocci, Roma 2006. 4. Cfr. G.Argentin, “Scegliere” di insegnare: vocazione, vantaggi e caso,in A.Cavalli e G.Argentin (a cura di),Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, il Mulino, Bologna 2010, pp. 51-74. 5. Cfr. A. Cavalli, G. Argentin (a cura di), Gli insegnanti italiani: come cambia il modo di fare scuola. Terza indagine dell’Istituto IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana, il Mulino, Bologna 2010.

NOTE 1. Consultabili tra gli altri in G. Argentin, Nostra scuola quotidiana. Il cambiamento necessario, il Mulino, Bologna 2021; G. Argentin, Under pressure? L’elevata e crescente soddisfazione lavorativa degli insegnanti italiani, 2014-2019, in «Sociologia del Lavoro» n. 160, 2021, pp. 43-66; G.Argentin, Gli insegnanti nella scuola italiana. Ricerche e prospettive di intervento,il Mulino,Bologna 2018; F.Farinelli,G.Barbieri, La soddisfazione per il lavoro di insegnante, in A. Cavalli e G. Argentin (a cura di) Gli insegnanti italiani: come cambia il

Gianluca Argentin è professore associato presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano Bicocca; si occupa prevalentemente di ricerca sulle diseguaglianze educative e sul mondo scolastico e di valutazione sperimentale di interventi innovativi in questo campo. Ha pubblicato, con il Mulino, i saggi Nostra scuola quotidiana. Il cambiamento necessario (2021) e Gli insegnanti nella scuola italiana. Ricerche e prospettive di intervento (2018).


La formazione degli insegnanti: l’importanza (e il gusto) di conoscerne la storia

di Matteo Morandi

E

terni ritorni. Sembra quasi richiamare questa espressione lo storico che intenda passare in rassegna e confrontare atti e dichiarazioni del passato con quanto sta avvenendo (o non avvenendo) oggi in Italia in materia di formazione docente, specie per il grado secondario.L’enfasi posta sulla necessità di un percorso obbligato appositamente concepito in vista di una professionalizzazione altrimenti lasciata all’esperienza sul campo, le discordanze sui contenuti e sui tempi di tale training professionalizzante,l’imprescindibilità del tirocinio,la centralità dei saperi disciplinari rispetto, piuttosto, a una cultura trasversale comprendente tutte le scienze dell’educazione, e non soltanto le didattiche specifiche, sono questioni che, con andamento carsico, si ripropongono ogniqualvolta il legislatore metta mano al problema. Intendiamoci, non che non lo abbia fatto anche di recente, anzi. Fatte salve le decisioni di questi giorni, cinque riforme in vent’anni, come ha ricordato poco tempo fa, tra il serio e il faceto, il musicologo Daniele Sabaino1, danno piuttosto l’idea di

un arrancare sfiancante e a tratti disperato. Certo, il tramonto di una concezione “monumentale” di riforma, sull’esempio della legge Casati del 1859 o dei decreti Gentile del 1923, volta ad assicurare solidità al sistema mediante un insieme di regole uniformi, progettate ben prima che il “romanzo di formazione” di una generazione avesse inizio, ha lasciato spazio sul finire del secolo, anche a seguito dell’entrata in vigore dell’autonomia scolastica, a una progettualità in grado di adattarsi meglio al mutare delle condizioni2. In questo senso, i continui cambi di maggioranza al governo non han giovato,col risultato che il modello avviato nel 1998 con le SSIS, presto disconfermato e via via modificato, è divenuto di fatto incoerente con qualsiasi intenzione oggi lo ispiri. Così, non di rado, ci capita di assistere alle recriminazioni dei laudatores temporis acti, per cui basta sapere per saper insegnare, come se un possibile bagaglio di competenze “tecniche” possa distrarre,anziché arricchire,l’aspirante professore dalla sua sacrosanta vocazione disciplinare3. Quale distanza intercorre fra le non lontane affermazioni dell’archeologo Salvatore Settis, già direttore

SAPERI / La formazione degli insegnanti: l’importanza (e il gusto) di conoscerne la storia

A fronte di un ritorno ciclico di posizioni intorno alle diverse variabili che comporta, da due secoli almeno, la preparazione degli insegnanti secondari, il contributo mostra il ruolo della storia a favore dell’acquisizione di una consapevolezza critica derivante dalla conoscenza delle linee evolutive del problema, che investe il corpo docente e, con esso, l’intero sistema scolastico.

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La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

SAPERI / La formazione degli insegnanti: l’importanza (e il gusto) di conoscerne la storia

14 ↑ Una classe scolastica negli anni Quaranta (foto Wikipedia).

della Scuola normale di Pisa («La sapienza specifica dell’insegnante diventa un bagaglio ingombrante, se ‘sapere la matematica’ – o la storia – conta poco o niente, se vale solo una tecnica dell’insegnare che è parente stretta della […] pubblicità»4) e le geremiadi del patriota risorgimentale Luigi Settembrini («Ci lamentiamo di non avere grandi uomini, ma noi facciamo di tutto per […] renderli proprio nani; noi non abbiamo innanzi alla mente altro tipo che quello del maestro elementare, e non ammiriamo altra scienza che il sistema metrico decimale»5)? Quanto spazio c’è fra la considerazione che della pedagogia avevano Alfredo Galletti e Gaetano Salvemini più di cent’anni fa («Il pedagogista è, almeno cinque volte su dieci, un disgraziato che non sa nulla di nulla, e pretende insegnare a tutti come si insegna ogni cosa»6) e quella che emerge oggi dalle parole d’intellettuali come Luciano Canfora, quando paragona l’«indottrinamento pedagogico» alla «teoria astratta del nuoto»7?

La sfida democratica

— La verità è che la scuola,dagli anni Sessanta almeno, è molto cambiata. Non solo perché, con l’avvento dell’istruzione di massa e l’innalzamento dell’obbligo scolastico, anche le frange per tradizione escluse dalla Cultura (rigorosamente con la C maiuscola) hanno avuto accesso alle aule, e non più soltanto ai campi e alle officine come i Gianni della Lettera a una professoressa, ma anche perché il dover essere valoriale della scuola è mutato, verrebbe da dire per fortuna! Uno sguardo più accogliente e inclusivo ha comportato la spinta verso la personalizzazione degli apprendimenti, pratica forse meno efficace di quel metodo razionale e precettistico al quale l’“Ottocento dell’alfabeto” ci aveva abituato8, ma di sicuro più vicina agli alunni reali, spesso così diversi dall’idea che il docente ha di loro. Tra questi ci sono poveri, stranieri, disabili…, soggetti che in un passato poi non tanto remoto la scuola teneva alla porta, come ricorda Massimiliano Fiorucci nella replica a Settis9.

D’altronde, crediamo noi oggi, come nell’ipotesi formulata per assurdo da Galletti e Salvemini nel 1908, «che, con la più larga dottrina e la migliore preparazione filosofica e la più serafica bontà di questo mondo, possa riuscire buon insegnante chi entri nella scuola senza essersi mai domandato a quale classe sociale appartengano gli alunni che egli dovrà educare; che cosa gli alunni di quella data classe sociale abbiano il diritto di chiedere alla scuola di Stato e che cosa lo Stato abbia il dovere di chiedere ad essi»10? Bisognerà pure insegnare ai futuri insegnanti questo nuovo modo d’intendere le cose, e dunque offrire loro almeno un minimo di competenze pedagogiche, storico-educative, didattiche, valutative, psicologiche,sociologiche, antropologiche… Renderli, insomma, uomini e donne vocati alla ricerca, non tanto quella che li ha fatti all’università brillanti scopritori di un antico documento o di una formula matematica, e dediti a nient’altro, ma quella che porta «allo sviluppo di adeguati atteggiamenti sperimentali e metodologici di tipo scientifico», tali da accompagnare una più attenta considerazione dell’allievo «in tutte le dimensioni della sua esperienza», stimolando altresì una capacità matura d’intervenire,senza mai tradirli,«nella continua evoluzione dei curricoli»11. Il rischio sarà, altrimenti, quello di fallire davvero la missione di democratizzare l’istruzione, navigando fra condiscendenza e frustrazione e ridimensionando «le ambizioni e le esigenze nel tentativo di mascherare il proprio fallimento»12. Perché se è vero ciò che sosteneva già Gasparo Pecchioli, ordinario di pedagogia nella Normale granducale,che «altro è sapere per sé, altro sapere per i discepoli»13, problemi più complessi attendono oggi i docenti. Quale sfida, ad esempio, ci lancia l’attuale processo di europeizzazione dell’istruzione, col suo sistema di “parole d’ordine”: competenze, innovazione,qualità,valutazione,apprendimento permanente? Si badi, non si tratta soltanto di uno spostamento d’asse dall’obiettivo principe di emancipare gl’individui a quello di supportare le economie di


mercato, migliorando il capitale umano e rendendolo internazionalmente più competitivo. Come ha di recente osservato Rita Casale, il fenomeno sta determinando, se non ha già determinato, anche nella formazione insegnante l’abbandono dei canoni tipici dei singoli modelli nazionali a favore della realizzazione di programmi sovranazionali centrati appunto sull’idea di competenza, col conseguente trasferimento del problema da un piano disciplinare a uno di fatto operazionale14.

Piste storiografiche, consigli bibliografici

15 SAPERI / La formazione degli insegnanti: l’importanza (e il gusto) di conoscerne la storia

— Su molti di questi argomenti è intervenuta, negli ultimi anni, una storiografia attenta a ricostruire gli aspetti profondi della questione. Nel maggio 2017, negli stessi giorni in cui usciva sulla «Gazzetta ufficiale» il decreto 59 del 13 aprile previsto dalla legge sulla “Buona scuola” e dedicato alla preparazione iniziale e all’accesso ai ruoli del personale docente della secondaria, a Pavia, presso il Collegio Ghislieri, veniva organizzato un convegno internazionale, grazie alla collaborazione fra l’Ateneo cittadino e l’Università di Wuppertal, in Germania.Al centro della discussione, in gran parte confluita in un volume edito da poco in doppia edizione italiana e tedesca15, stava la convinzione degli organizzatori – Monica Ferrari, Rita Casale ed io – che il problema andasse affrontato in termini culturali, nella comparazione fra modelli nazionali che hanno a lungo segnato il nostro sistema d’istruzione. Realtà quali il “seminario scientifico” o la “scuola normale”, per limitarci ad alcuni esem-

pi, sono entrati nella tradizione italiana nel corso del XIX secolo dopo un processo di transfer, che li ha tradotti, “trasformandoli”, sulla base del nuovo contesto politico-istituzionale16. A una prospettiva comparata ha guardato nel 2018 anche Francesco Magni, autore de La sfida del “caso” Inghilterra. Formazione iniziale e reclutamento dei docenti. L’anno successivo lo stesso tornava sull’Italia, conciliando «percorso storico e prospettive pedagogiche» in un libro, come il precedente, edito da Studium17. Del resto, la parabola del professore, come quella del maestro,avrebbe potuto rappresentare un’utile traccia per seguire l’evolversi, in termini sociali e culturali in primis, del rispettivo segmento scolastico in età contemporanea, come testimonia, già nel 1959, la fortunatissima monografia di Antonio Santoni Rugiu su Il professore nella scuola italiana,più volte aggiornata fino al 2011, da ultimo con l’aiuto di Saverio Santamaita. In realtà, quel che seguì fu un vero e proprio «deserto storiografico», come lo definì nel 2004 Pietro Causarano, ricostruendo in sintesi il dibattito sulla formazione iniziale e continua degl’insegnanti secondari nell’Italia repubblicana: un silenzio, osservava, «tanto più stridente e inaspettato se pensiamo all’attenzione che comunque la storia della scuola secondaria e della sua sempre rinviata riforma ha suscitato in sede di analisi storica»18. Se infatti i contributi sulla preparazione iniziale, dall’Unità alle SSIS, furono rari (ricordo soltanto gli scritti di Genovesi, Raicich, De Fort e Betti, a cui sono da aggiungere un saggio specifico di Giulia Di Bello sulla professoressa e, da un certo momento in avanti, le prime ricognizioni

← Strumentario didattico negli anni Trenta (foto Wikipedia).


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SAPERI / La formazione degli insegnanti: l’importanza (e il gusto) di conoscerne la storia

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↑ Una classe scolastica negli anni Quaranta (foto Wikipedia).

sulla scuola di specializzazione all’insegnamento, a firma di Curti, Crivellari e Chiappano19), quasi del tutto assenti risultavano approfondimenti specifici o affreschi più generali sull’aggiornamento in itinere, con l’unica eccezione, mi pare, di Laporta e colleghi, nonché di Jetto sugli IRRSAE20. Eppure, la formazione dei formatori, a qualsiasi livello, rappresenta da due secoli almeno uno dei principali ambiti d’intervento della pedagogia: basti pensare al target a cui è rivolta la letteratura di settore per rendersi conto della centralità del problema. Appunto a questi temi, che sono politici e culturali insieme,ho dedicato le pagine de La fucina dei professori. Storia della formazione docente in Italia dal Risorgimento a oggi21.Non a caso il libro ripercorre le principali tappe della vicenda anche sulla scorta di un recente schema offerto da Giuliano Franceschini circa il succedersi dei modelli d’insegnante: colto, competente, consapevole22. Che senso ha,oggi,interrogarsi sul ruolo del professore come intellettuale23, nel momento in cui, in Italia e altrove, come nella Germania studiata da Casale, si è passati da una concezione della formazione centrata sulla Bildung a una basata, da un lato, sul concetto di “apprendimento” e, dall’altro, su quello di “professionalità” abbinato all’idea di competenza? Fino a che punto l’indagine storica si

è soffermata sul cambiamento della “postura” professionale degl’insegnanti, sul costruirsi delle loro credenze, sulle attitudini richieste e manifestate nel corso del tempo, sul concetto di vocazione (termine che, ricordo, in tedesco coincide con quello professione: Beruf)...? Forse basterebbe conoscere la consistenza storica di un dibattito24 che, con poche varianti, attraversa tutta la scuola degli ultimi duecento anni per acquisire quanto meno una mente più lucida, consci che il passato non potrà, se non in forme del tutto nuove, ritornare. NOTE 1. D. Sabaino, La formazione degli insegnanti di scuola secondaria: anno ventesimo, riforma quinta, consultabile all’indirizzo https://www.saggiatoremusicale. it/2020/02/08/intervento-la-formazione-degli-insegnanti-di-scuola-secondaria-anno-ventesimo-riforma-quinta-2/. 2. Cfr. B. Vertecchi, Dalle riforme monumento alla riforma progetto,in Id.(con la collaborazione di P.Lucisano, E. Nardi, I. Volpicelli), La scuola italiana da Casati a Berlinguer, FrancoAngeli, Milano 2001, pp. 9-66. 3.Penso,per intenderci,alla nota tesi di P.Mastrocola: «Il mio mestiere […] non era insegnare: era insegnare letteratura italiana». P. Mastrocola, La scuola raccontata al mio cane, Guanda, Parma 2004, p. 69.


La formazione degli insegnanti di scuola secondaria in Italia: una storia in 12 tappe

1846 A Pisa, sotto il governo granducale, rinasce la Scuola normale per l’insegnamento secondario, erede dell’istituto fondato da Napoleone nel 1810 e aperto nel 1813 come succursale della Normale di Parigi. 1862 A pochi mesi dalla proclamazione dello Stato unitario, i ministri Francesco De Sanctis e Carlo Matteucci presentano alle Camere due progetti di legge riguardanti la creazione di scuole normali, su modello della realtà pisana. 1875 Il ministro Ruggiero Bonghi istituisce scuole di magistero nel seno delle facoltà di Scienze e Lettere. 1920 Il ministro Benedetto Croce sopprime tali scuole, più volte riformate, sostituendole con corsi di esercitazioni scientifiche o pratiche presso le università e gl’istituti d’istruzione superiore del Regno. 1998 Dopo decenni di stallo, nascono le Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario (SSIS), stabilite con legge del 1990. 2003 La riforma Moratti prevede di sostituire le SSIS con lauree specialistiche abilitanti all’insegnamento, a cui si aggiunge un anno di tirocinio. Il provvedimento non è attuato a causa del cambio di maggioranza politica. 2008 Le procedure per l’accesso alle SSIS sono sospese.

2011 Nelle more di un più generale processo di revisione della formazione iniziale e del reclutamento dei docenti, è istituito il Tirocinio formativo attivo (TFA), incoerentemente sganciato dalle lauree magistrali. 2013 Sono varati i Percorsi abilitanti speciali (Pas), riservati a professori già in servizio, sprovvisti di abilitazione e in possesso dei requisiti richiesti. 2017 La legge Renzi sulla “Buona scuola” fissa che l’accesso ai ruoli del personale insegnante della scuola secondaria avvenga tramite concorso, previo possesso di una laurea magistrale e dopo l’acquisizione di 24 cfu nelle discipline antropo-psico-pedagogiche e nelle metodologie e tecnologie didattiche. Segue, per i vincitori del concorso, un percorso triennale di formazione iniziale, tirocinio e inserimento nella funzione docente (FIT). 2018 Il governo Conte abolisce definitivamente il FIT, mai attuato, mantenendo in vita il Percorso formativo 24 cfu.

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1844 A Torino il cremonese Ferrante Aporti apre la prima scuola di metodo a carattere universitario per la preparazione dei maestri elementari. Il corso, istituzionalizzato l’anno successivo, è frequentato anche da professori del grado medio.


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4. S. Settis, Scuola, la catena del sapere spezzata, in «Il Fatto quotidiano», 15 marzo 2018. 5. L. Settembrini, Scritti vari di letteratura, politica, ed arte, riveduti da F. Fiorentino, Morano, Napoli 1879, I, p. 78. 6. A. Galletti, G. Salvemini, La riforma della scuola media. Notizie, osservazioni, proposte, Sandron, Milano [etc.] 1908, p. 406. 7. L. Canfora, Salviamo la laurea magistrale, in «Corriere della sera», 19 dicembre 2021. 8. Cfr. V. Schirripa, L’Ottocento dell’alfabeto italiano. Maestri, scuole e saperi, ELS La Scuola, Brescia 2017. 9. «Il Fatto quotidiano», 17 marzo 2018. È noto che contro “le utopiche buone intenzioni della ‘scuola democratica’” si è scagliata negli ultimi anni l’intelligencija conservatrice, alla Galli della Loggia (L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, Venezia 2019, p. 40 per la citazione) o alla Mastrocola-Ricolfi (Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La Nave di Teseo, Milano 2021). 10. Galletti, Salvemini, La riforma della scuola media cit., p. 406. 11. C. Pontecorvo, Insegnanti e riforme, in «Scuola e città», 25 (1974), 11-12, p. 509. 12.A.Bentolila,La scuola contro la barbarie, prefazione di B. Vertecchi, trad. it. Anicia, Roma 2021, p. 32. 13. G. Pecchioli, Orazione letta nella solenne apertura della Regia Scuola Normale a dì 15 Novembre 1847, Tip. Pieraccini, Pisa 1847, p. 12. 14. R. Casale, La “spedagogizzazione” della formazione degli insegnanti in Germania e la scienza dell’apprendimento come disciplina di riferimento dalla fine degli anni Novanta a oggi, in M. Ferrari et al. (a cura di), La formazione degli insegnanti della secondaria in Italia e in Germania. Una questione culturale, FrancoAngeli, Milano 2021, pp. 264-279. 15. Ferrari et al. (a cura di), La formazione degli insegnanti cit., in Germania col titolo Kulturen der Lehrerbildung in der Sekundarstufe in Italien und Deutschland. Nationale Formate und “cross culture”, Julius Klinkhardt, Bad Heilbrunn 2021. 16. Cfr. R. Cowen, Transfer, Traslation and Transformation: Re-Thinking a Classic Problem of Comparative Education, in A.R. Paolone (a cura di), Education Between Boundaries. Comparazione, etnografia, educazione. Atti del Convegno internazionale di studi (Udine, 30-31 maggio 2008), Imprimitur, Padova 2010, pp. 43-53. 17. F. Magni, Formazione iniziale e reclutamento degli insegnanti in Italia. Percorso storico e prospettive pedagogiche, Studium, Roma 2019. 18. P. Causarano, La formazione e l’aggiornamento degli insegnanti secondari nell’Italia repubblicana: una prima ricognizione, in G. Bosco, C. Mantovani (a cura di), La storia contemporanea tra scuola e università. Manuali, programmi, docenti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, p. 182. 19.G.Genovesi,I professori,in T.Tomasi et al.,La scuo-

la secondaria in Italia (1859-1977), Vallecchi, Firenze 1978, pp. 33-87; M. Raicich, Scuola, cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Nistri-Lischi, Pisa 1981; E. De Fort, I professori, in C.G. Lacaita, M. Fugazza (a cura di), L’istruzione secondaria nell’Italia unita. 1861-1901, FrancoAngeli, Milano 2013, pp. 88-102; C. Betti, La formazione professionale degli insegnanti in Italia fra attese, arresti e svolte, in «Mizar. Costellazione di pensieri», 1 (2015), pp. 33-40. Inoltre, G. Di Bello, La professionalizzazione delle insegnanti della secondaria, in E. Becchi, M. Ferrari (a cura di), Formare alle professioni. Sacerdoti, principi, educatori, FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 492-499. Sulle SSIS, L. Curti, Le Scuole di specializzazione nell’insegnamento secondario (SSIS). Storia, problemi, prospettive, in «Il Mestiere di storico», 2000, 1, pp. 114-134; C. Crivellari, Le scuole di specializzazione all’insegnamento universitario. Un lungo e faticoso cammino, ivi, pp. 91-106; Id., SSIS: il quadro istituzionale, in G. Bonetta et al. (a cura di), Università e formazione degli insegnanti: non si parte da zero, Forum, Udine 2002; pp. 25-35; A. Chiappano, La genesi delle scuole di specializzazione all’insegnamento secondario nella storia della scuola italiana, in «Il Protagora», s. V, 31 (2003), 1-2, pp. 331-368. 20. R. Laporta et al., Aggiornamento e formazione degli insegnanti, La Nuova Italia-RCS Libri, Milano 2000; A. Jetto, L’evoluzione storico-istituzionale degli IRRSAE, in «Rivista dell’istruzione», 1986, 3, pp. 293-305. 21. Scholé, Brescia 2021. 22. G. Franceschini, Colto, competente o consapevole? Modelli di insegnante a confronto, in «Studi sulla formazione», 22 (2019), 2, pp. 253-270. 23. Cfr. R. Luperini, Il professore come intellettuale. La riforma della scuola e l’insegnamento della letteratura, Lupetti, Milano – Manni, Lecce 1998. 24. Sulla storia della scuola e della professionalità docente a servizio della preparazione iniziale degl’insegnanti del grado secondario, cfr. da ultimo A. Gaudio, Le discipline storico educative nella formazione degli insegnanti secondari, in «Nuova secondaria Ricerca», 6 (2022), pp. 285-291.

Matteo Morandi dottore di ricerca in Storia (Pisa 2006) e in Istituzioni, idee, movimenti politici nell’Europa contemporanea (Pavia 2013), è ricercatore di Storia della pedagogia all’Università di Pavia, dove insegna anche Pedagogia generale. Studioso di storia della scuola e dei processi formativi tra Otto e Novecento, è autore, tra l’altro, de La fucina dei professori. Storia della formazione docente in Italia dal Risorgimento a oggi (Scholé 2021). Con M. Ferrari, R. Casale e J. Windheuser ha curato, sempre nel 2021 presso FrancoAngeli, La formazione degli insegnanti della secondaria in Italia e in Germania. Una questione culturale.


Lodi e il mestiere di insegnare Guida al mestiere di maestro esce per la collana Libri di base degli Editori Riuniti nel 1982. È un’idea di Tullio De Mauro quella di inserire un testo come questo, che tiene insieme una visione storica dell’insegnamento da un lato, dall’altro una forte componente pratica – una guida, appunto – scritta dal maestro Mario Lodi. Utilissimo, oggi, per riflettere sulla storia della formazione.

19 SAPERI / Lodi e il mestiere di insegnare

di Vanessa Roghi

M

ario Lodi e Tullio De Mauro si sono conosciuti nella seconda metà degli anni Sessanta, quando il linguista è stato coinvolto dal gruppo di insegnanti dell’MCE (Movimento di cooperazione educativa) nei corsi di formazione sulla didattica dell’italiano 1. Come scrive De Mauro, è solo nel 1970, però, che lui e Lodi diventano amici, grazie alla mediazione di Giorgio Pecorini, giornalista e intellettuale, che ha avuto già l’immenso merito di aver fatto conoscere nel 1963 don Lorenzo Milani e lo stesso Mario Lodi, incontro dal quale scaturirà il processo di scrittura collettiva che porta alla Lettera a una professoressa2. La collana Libri di base è un’idea che De Mauro ha mutuato da Lodi e dagli insegnanti dell’MCE che, sul modello di Célestin Freinet, dagli anni Cinquanta, hanno cercato di mettere insieme una biblioteca ideale ad uso degli insegnanti di ogni ordine e grado per tradurre in pratica il “metodo della ricerca” 3. Insegnare attraverso la ricerca è uno dei punti chiave delle nuove tecniche didattiche dell’MCE: per farlo occorrono testi che

consentano di approfondire i diversi argomenti richiesti dai programmi scolastici, mettendo da parte i manuali, al centro di una critica radicale, soprattutto a partire dai tardi anni Sessanta. I “libri di base” sono, dunque, monografie ad uso di insegnanti e genitori che vogliano farsi carico di un progetto educativo democratico a vasto raggio. Non vogliono rivolgersi solo alla scuola, ma all’intera società, pensata come comunità auto-educante. Mettere in questa collana un libro come la Guida al mestiere di maestro, tuttavia, è una scelta non del tutto scontata. Quello del maestro, dell’insegnante più in generale, è ancora visto come un mestiere che si impara facendolo, un’idea che hanno anche molti insegnanti che usano gli stessi libri di base. De Mauro e Lodi, invece, vogliono sottolineare che l’insegnamento va conosciuto bene per essere svolto con serietà e competenza, non solo a partire da un tirocinio costante, ma anche attraverso le sue componenti storiche, pedagogiche, teoriche, soprattutto per quanto riguarda la didattica. Per farlo, tuttavia, occorrerebbe investire molto di più di quello che si fa nella formazione: ma, scrive Lodi nel 1982,


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su questo si fa ancora veramente troppo poco, e anche per questo la scuola è in profonda crisi. In effetti, la formazione dei docenti è, alla fine degli anni Settanta, un tema sul quale c’è assai poca condivisione, anche se riguarda tutti gli ordini scolastici: non a caso lo stesso Movimento di cooperazione educativa si è spaccato, alla fine del decennio precedente, proprio su questo punto, su come e in cosa deve essere formato un insegnante, sulle tecniche didattiche, che per la maggioranza degli insegnanti devono essere una preoccupazione secondaria per chi insegna, subordinata a una chiara scelta ideologica, di campo. Questa scelta rende ancora più evidente la crisi del mestiere di insegnante che si produce negli anni Settanta. Partiamo dalla scuola primaria. Nel 1974 il sociologo Marino Livolsi, insieme ad altri ricercatori, in uno studio sulle scuole elementari definisce la scuola dell’obbligo, nei suoi primi cinque anni, la «macchina del vuoto»4, una scuola sorda «verso ogni proposta innovativa sul piano didattico» che «ha costantemente sdegnato di far riferimento alle teorie e alle proposte educative che le scienze sociali e in particolare la pedagogia, sono venute via via avanzando» 5. Questo malgrado l’introduzione del tempo pieno, che avrebbe dovuto modificare radicalmente il sistema dell’istruzione primaria, e l’immissione in ruolo di molti giovani maestri e maestre in teoria più “aggiornati” degli anziani colleghi. Ma non è così. I giovani maestri, secondo la ricerca, non sono più formati dei colleghi anziani. Inoltre il gran numero di riforme non ha agito in senso progressivo, stimolando l’innovazione e la voglia di formarsi, ma semmai, al contrario, in senso regressivo. Secondo gli studi di sociologia dell’educazione, ai quali è essenziale rifarsi perché sono fra le poche fonti disponibili per ragionare sulle trasformazioni vissute dai docenti italiani della scuola dell’obbligo, ma anche della secondaria superiore, si ripete, a metà degli anni Settanta, quello che era già accaduto dopo la riforma delle scuole medie del 1962. Le riforme sono viste, infatti, come calate dall’alto anche da chi le aveva auspicate, mentre si spostano le rivendicazioni su questioni di tipo salariale o identitario 6. Lo scrivono Antonio Cobalti e Marcello Dei (quest’ultimo già autore del più importante studio sulla reazione dei professori alla riforma delle scuole medie, Le vestali della classe media, 1969) che ora pubblicano Insegnanti: innovazione e adattamento (1979), domandandosi «dove vanno gli insegnanti della scuola secondaria superiore». Una domanda che possiamo estendere, come vedremo, anche alla scuola dell’obbligo. Dieci anni fa, nel chiederci la stessa cosa per gli insegnanti della scuola media unica, partivamo da una costatazione: la violenta opposizione alle

innovazioni introdotte dalla riforma del 1962. Ora il punto di partenza è un altro: il diffuso malessere, la disaffezione del corpo docente nei confronti del proprio lavoro. […] Disincantati nei confronti degli Organi collegiali (fin dal 1976), apatici rispetto alla riforma rimasta per tanti, troppi anni in gestazione nei progetti legislativi, distaccati dalla stessa attività quotidiana nelle classi fino al punto di dubitare della loro identità professionale7. Il rinnovamento della didattica non è visto però come una risposta possibile a questa crisi, perché non c’è stato. Secondo il Rapporto Iref Maestri in Italia «attivismo, metodo globale, insiemistica, sociometria, esperienze di drammatizzazione ecc. sono forse ricordi di affrettate letture scolastiche o concetti che passano sopra la testa degli insegnanti elementari e che vengono talora captati solo grazie all’iniziativa personale o agli infrequenti quanto astratti corsi di aggiornamento»8. La scuola tutta non è all’avanguardia, dicono gli studiosi, le tecniche innovative sono ignorate o usate in modo occasionale o distorto (il tema libero, per esempio, o il lavoro di gruppo9). Il voto continua a essere l’asse intorno a cui ruota tutta l’attività scolastica10. Ancora nel Rapporto Iref leggiamo: «Interrogo tutti i giorni i ragazzi alla lavagna. Serve per dare importanza e autorità a noi. Faccio interrogazioni una volta alla settimana per far conoscere a ciascuno i propri limiti. Interrogo tutti i giorni alla cattedra; l’alunno deve rispondere con un discorso»11. La proposta di Lodi e degli insegnanti che come lui hanno lavorato sull’auto-formazione va, ormai da decenni, in tutt’altra direzione, ma non ha fatto breccia, nemmeno fra gli stessi insegnanti di sinistra che fin dalla metà degli anni Settanta rivendicano in parte la necessità di tornare a una scuola “seria”. Antiche diffidenze idealistiche verso la didattica e la pedagogia si saldano, adesso, con una vulgata marxista, che guarda più a cosa si insegna che a come lo si insegna. La Guida al mestiere di maestro è una risposta a questo disinteresse, intende riportare al centro dell’insegnamento il problema del come si insegna. Saper insegnare dalla parte dei bambini, conoscerli, aiutarli a crescere come individui e come cittadini attraverso un progetto didattico che attivi la loro capacità di conoscere è l’obiettivo ultimo che si prefiggono Lodi e De Mauro. Come era stato nei primi anni Cinquanta, le tecniche educative tornano a essere lo strumento più importante della cassetta degli attrezzi del buon insegnante. Fa abbastanza impressione vederlo scritto ancora una volta nel 1982, a trent’anni dai primi convegni dell’MCE, quando già questi temi sembravano posti, da un punto di vista, almeno teorico, una volta per tutte12. Scriveva Giuseppe Tamagnini nel 1952: «educazione, si dice, non è


Ogni anno, anche molto prima dell’inizio dell’anno scolastico, ricevo telefonate lettere di genitori conosciuti e no, di ogni parte d’Italia che vivono con preoccupazione, con angoscia il momento dell’iscrizione del figlio alla scuola pubblica. Mi chiedono se conosco qualche scuola della loro città o zona o paese dove ci sia qualche insegnante cui affidare il bambino con la garanzia che venga rispettato nella sua personalità. L’abbiamo tirato su cercando di farlo ragionare su tutto, gli abbiamo dato la possibilità di esprimersi, crediamo nella felicità. Non vorremmo che capitasse con un insegnante che lo imbottisse di vecchie idee14. Fra i compiti del maestro, secondo Lodi, c’è anche la risposta a questa domanda. Una domanda che suona tanto attuale quanto problematica, in anni nei quali la distinzione fra sezioni buone e sezioni “cattive” è tornata a sembrare naturale a tanti, troppi osservatori. La Guida al mestiere di maestro è ancora oggi uno strumento utile per ragionare su quanto la storia della scuola sia caratterizzata da elementi di lunga durata difficili da modificare, primo fra tutti l’idea che per certe cose, come l’insegnamento, la formazione, in fondo, non serva. NOTE 1.Mi permetto di rinviare al mio Il passero coraggioso. Cipì, Mario Lodi e la scuola democratica, Laterza, Roma- Bari, 2022, pp. 98-101. 2. Mario Lodi era stato in visita a Barbiana accompagnato dall’amico giornalista Giorgio Pecorini. F. Lorenzoni-C. Lodi (a cura di), L’arte dello scrivere. Incontro fra Mario Lodi e don Lorenzo Milani, Casa delle Arti e del

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Gioco, Drizzona 2021. 3. M.R. Di Santo, Mario Lodi e la “Biblioteca di lavoro”. Una proposta didattica alternativa ancora attuale, Edizioni Junior-Bambini Srl, Reggio Emilia 2022, pp. 79 sgg.V. anche M. Lodi, Muore la Biblioteca di lavoro, in «LG Argomenti», 4, 1980, pp. 11-14. 4. M. Livolsi (a cura di), La macchina del vuoto: il processo di socializzazione nella scuola elementare, cit. 5. Ibid., p. 15. 6.A. Cobalti- M. Dei, Insegnanti e organi collegiali, «Scuola e città»,3,1977,p.102.V.anche A.Colbalti-M.Dei,Insegnanti: innovazione e adattamento. Una ricerca sociologica sugli insegnanti della secondaria superiore, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 106-107. Rapporto Iref, Maestri in Italia. Chi sono, cosa pensano, come operano, Coines Edizioni, Roma 1976. 7. Ibid., p. 1. 8. Rapporto Iref, Maestri in Italia, cit., p. 105, ma tutto il capitolo è interessante, pp. 102-109. 9. Ibidem, pp. 111 sgg. 10. Ibidem, pp. 116-117.1 11. Ibidem., p. 117. 12. Cfr. R. Rizzi R. Rizzi, La cooperazione educativa per una pedagogia popolare. Una storia del MCE, Edizioni Junior, Parma 2022 e bibliografia ivi contenuta. 13. Cfr. V. Roghi, Il passero coraggioso, cit., p. 29. 14. M. Lodi, Guida al mestiere di maestro, Editori Riuniti, Roma 1982, p. 7.

Vanessa Roghi storica, si occupa di storia della cultura e di storia della scuola e dell’educazione. Ricercatrice indipendente, Fellow dell’Italian Academy (Columbia University) nel 2021, ha insegnato a “La Sapienza” e a Roma 3. È autrice di saggi pubblicati dall’editore Laterza: La lettera sovversiva (2017); Piccola città (2018); Lezioni di fantastica. (2020); Il passero coraggioso (2022). Per Einaudi ragazzi ha scritto Voi siete il fuoco (2021).

↑ Scuola di Vho di Piadena (CR), insegnante Mario Lodi, ciclo scolastico 19581962, per gentile concessione degli Eredi.

SAPERI / Lodi e il mestiere di insegnare

tecnica: d’accordo, come non è tecnica la musica o l’architettura o la pittura; ma, mentre, pur sottolineando che l’arte in sé non è tecnica, nessuna persona di buon senso direbbe che non esiste una tecnica del costruire, la tecnica del dipingere, del suonare eccetera, nel campo invece dell’educazione non tutti sono disposti ad ammettere che vi sia una tecnica dell’educare»13. Come ogni lavoro creativo, scrive Lodi nel 1982, anche quello dell’educatore ha i suoi strumenti, le sue tecniche: la discussione collettiva, il giornalino, per esempio. Il piano di lavoro deve essere condiviso con i bambini e con i loro genitori perché sia davvero efficace. L’educazione dei genitori fa parte dei compiti del maestro quasi quanto quella dei bambini: questo è un tema centrale per Mario Lodi, che ritorna con forza a pochi anni dall’approvazione dei Decreti delegati (1974). Non solo i genitori inconsapevoli, ma anche quelli perfettamente consapevoli dell’importanza della scuola, e per questo motivo in preda alla ricerca spasmodica e disperata dell’insegnante perfetto per i loro figli, devono essere educati. Scrive Lodi:


La formazione iniziale dei docenti della secondaria: un problema politico

La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

SAPERI / La formazione iniziale dei docenti della secondaria: un problema politico

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Discutendo della formazione degli insegnanti, grazie a un vasto dibattito scientifico internazionale - qui solo accennato circa il tema, e puntando l’attenzione sugli aspetti latenti, le interruzioni, le valutazioni mancate dei percorsi di pre-service training dei docenti della secondaria italiana, nel saggio si vogliono mettere in luce le problematiche politiche, connesse cioè all’idea di polis, che sono sottese a tale questione. di Monica Ferrari

L

a formazione dei docenti della secondaria italiana è, come tutte le questioni pedagogiche, un complesso problema politico,in quanto si tratta, al fondo, delle scelte relative ai processi di individuazione umana e professionale di persone e gruppi, scelte che hanno a che fare con i modi del partecipare alla vita associata, con le regole (ideologicamente orientate) del vivere in una comunità. Tutto ciò è complicato ancor più dal fatto che la scuola è di fatto, come Dewey più volte sottolinea1, un ambiente “speciale”, cioè un ambiente “specialmente” istituito in vista della formazione dei cittadini, tra presente, passato e futuro. E tale ambiente è venuto configurandosi in un sistema formativo strutturato in maniera a noi familiare

(data la nostra esperienza di studenti prima che di insegnanti) in tempi relativamente recenti della nostra storia2.Ancora più recente è la svolta inclusiva di tale insieme di istituzioni educative aggregate in un sistema nazionale dell’istruzione3 in un quadro di lungo periodo che vede prevalere per moltissimo tempo le pedagogie dell’esclusione4 in coerenza con situazioni politiche altrettanto verticistiche, autocratiche ed esclusive. Resta da chiedersi cosa resta di tutto questo in una scuola che si dichiara democratica e che esprime una situazione politica che si vorrebbe definire come tale. In ogni caso, parlando di scuola non possiamo non riflettere sul rapporto che tale realtà educativa instaura con il passato, il presente e il futuro di una società.


Una questione complicata

Sentieri incrociati e battute d’arresto

— Da più parti e da molto tempo ci si chiede ormai fino a che punto gli insegnanti e gli educatori abbiano piena consapevolezza della complessità delle problematiche connesse al fare scuola e al fare ricerca sulla scuola e soprattutto se e quando abbiano avuto occasione per sviluppare tale attitudine riflessiva nel corso della loro formazione iniziale5. Ci si domanda inoltre fino a che punto e quando essi sono divenuti consapevoli che, come dice Dewey in Scuola e società (1899), i sistemi formativi

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— Quanto al rapporto tra quell’ambiente “speciale” che chiamiamo oggi in Occidente “scuola” e il passato, potremmo dire che si tratta del problema della “trasmissione” o meglio della consegna alle generazioni future dei saperi acquisiti all’interno di una data forma di civilisation, compresa la promozione di ciò che consente di riflettere a un secondo livello su tale insieme di saperi e di valori oltre che sulle loro modalità di costruzione. Quanto al presente, si tratta anche della cura e dell’educazione alla vita sociale dei più giovani, non solo dell’apprendere conoscenze, abilità e competenze istruzionali mirate; si tratta forse anche, auspicabilmente, di offrire nuove opportunità di crescita e di reperimento del proprio personale itinerario di individuazione. Quanto al futuro, si tratta di un percorso formativo e trasformativo che incide sulle forme che assumerà in un domani imprevedibile la compagine sociale, grazie all’interiorizzazione di regole, riti, norme, saperi, tra aspetti espliciti e latenti, veicolati dalla vita comunitaria a scuola, forse anche grazie a nuove idee e inedite occasioni di cambio di paradigma. Ma certo è comunque in gioco molto altro, ad esempio l’intreccio dei rapporti tra saperi acquisiti in modo formale, informale e non formale, l’interazione culturale in contesti costitutivamente eterogenei, l’apprendere ad apprendere nella reciprocità e nell’ascolto. Ciò invita a riflettere sulle questioni della conformazione sociale e dell’omologazione, sottese alla storia di tante istituzioni dell’Occidente, come mostrano, tra gli altri, gli studi di Michel Foucault o di Ivan Illich oltre che, più in generale, studi di storia della scuola e dell’educazione attenti alle questioni dell’esclusione e dell’inclusione, nel dialogo con generi letterari controversi quali quello utopico/distopico ove risalta il tema dell’incidenza dell’educazione sociale dei giovani sulla polis, tra aspetti di decostruzione degli assetti del presente e nuove proposte formative auspicate per il futuro.

dell’Occidente sono andati costruendosi dall’alto in basso, dalle Università medievali, alle agenzie educative extradomestiche per la prima infanzia emerse a fatica nel corso del XIX secolo dalle pastoie delle sale di custodia. Non ultimo, ci si domanda anche fino a che punto i docenti dei diversi ordini e gradi del sistema di istruzione conoscono la storia di quel particolare segmento del sistema scolastico nel quale lavorano in quel dato Paese nel più vasto ambito di modelli e patterns che circolano nelle diverse Nazioni e nel tempo, come mostrano gli studi di educazione comparata anche in relazione al training degli educatori e dei formatori6. E ci si chiede se specie i docenti della secondaria italiana, formati da disciplinaristi nelle università fino al 1999/2000, anno dell’attivazione in molti atenei delle SSIS (Scuole di Specializzazione all’Insegnamento Secondario7), per essere essenzialmente dei disciplinaristi, cioè soprattutto degli esperti di cosa si insegna, sono consapevoli della storia della formazione docente che li concerne in prima persona, dato che in Italia solo per i docenti della scuola primaria è attivo, senza aver subito battute d’arresto, un corso di laurea ad hoc, come previsto dal decreto del 26 maggio 1998. E poi quanto si è fatto sulla formazione alla ricerca educativa per queste figure di docente chiamate a lavorare nella scuola secondaria? Anche solamente la controversa storia della formazione dei docenti della secondaria in Italia, nel primo ventennio del Duemila, se abbinata alla complessa questione del reclutamento8, mostra invece un progredire di svolte, battute d’arresto e cambi di direzione che merita di essere studiato da quei professionisti dell’educazione che sono chiamati a ricoprire quel dato ruolo sociale. E proprio su quel ruolo sociale si sono da anni incentrate le discussioni della comunità scientifica, in primis nel dibattito su processi di professionalizzazione che di fatto disabilitano competenze in quanto funzionali soprattutto all’acquisizione di certificazioni, come sottolinea Illich nel 1971 parlando della necessità di descolarizzare la società 9, mentre Paulo Freire, negli stessi anni 10, discute di processi di coscientizzazione, per delineare, nel progredire delle sue analisi, “le virtù” di un educatore alieno da processi “depositari”11, volti a inzeppare di nozioni i soggetti in apprendimento anzitutto per disabituare alla riflessione critica e dunque di fatto mirati a omologare. Negli ultimi anni in Italia viene pubblicato uno dei recenti lavori di Gert J.-J. Biesta che rilancia il valore dell’insegnamento in costante dialettica con le teorie della facilitazione dell’apprendimento12 e intanto la discussione sulla ricerca-formazione degli insegnanti della secondaria si salda, nella comunità scientifica del nostro Paese, a una riflessione sul divenire di processi formativi


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che, nei fatti, hanno lasciato da parte il tirocinio e complessivamente il pre-service training così come si era venuto delineando nelle SSIS. Mentre da molti anni si analizza la questione dell’apprendimento e della sua facilitazione e si discute del ruolo dell’insegnante in tale processo mettendone in rilievo di volta in volta, non senza importanti confronti sul tema, l’aspetto di ascolto (Rogers)13 o di irrinunciabile attore (Biesta), comunque in vista di una riflessione sull’agentività docente nella prassi, mentre a livello nazionale e internazionale si sottopongono a valutazione sistematica, secondo disposizioni e dispositivi di diverso orientamento,le istituzioni e i sistemi formativi, anche a partire dagli apprendimenti degli alunni14, mentre si precisano le linee di specifiche esperienze di ricerca-formazione per i docenti15, di fatto si assiste in Italia a un progressivo indebolirsi delle coordinate teoriche sottese nella prassi alla formazione dei docenti della secondaria. Si tratta di una vicenda culturale e politica che merita di essere studiata e che ha condotto (non senza modificazioni d’assetto) in circa vent’anni dalle SSIS biennali (a.a.1999/2000), articolate in un itinerario complesso ove il tirocinio giocava un ruolo centrale, al Pf24 (a.a. 2017/2018), cioè a un percorso preliminare a un concorso abilitante, percorso in cui si acquisiscono (secondo varie modalità, cioè in corsi ad hoc o curricolari) 24 CFU nei settori antropo-psico-pedagogici e nelle metodologie e tecnologie didattiche, ma senza tirocinio.

Aspetti latenti

— Nel suo volume sull’epistemologia della pratica professionale che, non solo in Italia, ha segnato il dibattito sui processi formativi degli insegnanti e degli educatori tra gli anni Novanta e il primo decennio del Duemila, Donald A. Schön pone il problema di insegnanti che nel seguire un processo di analisi relativamente al proprio fare a scuola, attivando consapevolezze metacognitive circa l’apprendimento e lo svolgimento nel quotidiano della propria agentività, inevitabilmente si troverebbero a trasgredire, a uscire dai binari di una istituzione che nei fatti omologa le prassi e le persone16. L’insegnante riflessivo, chiamato a riflettere e a decidere nel corso dell’azione, non è dunque per forza, secondo Schön, obbediente a un insieme di norme e regole imposte; al contrario tale figura sceglie e decide sulla base di una assunzione di responsabilità grazie a processi di riflessione sul proprio fare, anche nel mentre dell’azione. E tale ambito di pensiero si acquisisce, secondo Schön, all’interno di percorsi di tirocinio mirati in cui l’esperto attiva soprattutto nel novizio l’attitudine a farsi domande nel dialogo costruttivo con gli altri. Schön si colloca nella scia di una educazione al

pensiero critico che insegna a riflettere assumendosi scientemente l’onere delle proprie scelte, in un’ottica di compartecipazione al benessere delle comunità.Il dibattito internazionale sul tema,come mostra anche Maura Striano, è vastissimo17. Si potrebbero citare al riguardo autori molto diversi tra loro, quali, ad esempio, Dewey18, Freire, Illich, Bruner 19 o, più di recente, bell hooks20, e molti altri ancora anche sulla scia di pedagogie della liberazione che pongono il problema della scelta e della consapevolezza 21 proprio in vista della promozione di un’educazione al pensiero critico di docenti e di allievi, in vista della costituzione di comunità di apprendimento animate da scopi e obiettivi comuni, compartecipati, co-costruiti. Le parole di Schön sono un invito ad analizzare gli aspetti latenti22 di quanto accade in classe e nei sistemi formativi dei docenti, sulla scia di una analisi pedagogica attenta agli elementi del fare educazione non dichiarati e inscritti nelle storie di vita delle persone23, negli spazi, nei tempi, nei ritmi, nei rituali di vita delle comunità scolastiche24, nelle forme della comunicazione verbale e non verbale tra insegnanti e allievi25, nelle situazioni sociali che strutturano la giornata educativa26 e che di fatto danno significato al contesto e alle relazioni umane. Ma certo aspetti latenti di importanti questioni politiche non dichiarate sono inscritti anche nella strutturazione dei sistemi nazionali dell’istruzione, come sottolinea Dietmar Larcher discutendo dell’assetto della formazione dei docenti in Austria27. Li si ritrova nelle scelte, sovente non esplicitate, circa l’assetto e il divenire degli ordinamenti scolastici nel corso del tempo, nelle inerzie dei processi di cambiamento delle organizzazioni educative, nelle difficoltà dell’avvio e dello svolgimento delle procedure di reclutamento degli insegnanti, nelle interruzioni, nei cambi di passo non motivati da sistematiche e ragionate valutazioni circa l’attivazione di date occasioni formative per studenti e docenti, nella mancanza di metavalutazione delle esperienze di valutazione promosse su larga scala. Tutti questi aspetti e molti altri ancora incidono sui processi di identificazione professionale, sui modi e sulle forme delle pratiche educative nella quotidianità, sulla motivazione o al contrario sul burn-out di generazioni di insegnanti/educatori dei diversi ordini e gradi del sistema dell’istruzione di un dato Paese. Di tutto questo ci dovremmo preoccupare come professionisti dell’educazione capaci di riflettere e di fare ricerca sui processi formativi, ma anche come cittadini e come persone, nell’ambizioso e pure imprescindibile compito di “coltivare l’umanità”28 che ci attende in un futuro incerto e tuttavia largamente dipendente dalle nostre scelte, più o meno dichiarate.


esperienze e prospettive, FrancoAngeli, Milano 2018. 16. D. A. Schön (1983), Il professionista riflessivo. Per una nuova epistemologia della pratica professionale, trad. it. Dedalo, Bari 1993. 17. M. Striano, La “razionalità riflessiva” nell’agire educativo, Liguori, Napoli 2001. 18. J. Dewey (1933), Come pensiamo, trad. it. La Nuova Italia, RCS libri, Milano 2000. 19. J. Bruner (1996), La cultura dell’educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, trad. it. Feltrinelli, Milano 2001. 20. bell hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, trad. it. Meltemi, Milano 2020. 21. Solo ad esempio: M. Baldacci, La Scuola al bivio. Mercato o democrazia?, FrancoAngeli, Milano 2019. Rimando anche, sempre ad esempio per una problematizzazione, a un mio saggio sulle pedagogie del Sessantotto pubblicato nel volume a cura di T. Pironi, Autorità in crisi. Scuola, famiglia, società prima e dopo il ’68, Aracne, Canterano (Roma) 2020. 22. E. Becchi, Pedagogie latenti: una nota, «Quaderni di didattica della scrittura», 3, 2005, pp. 105-113. 23. F. L. Strodtbeck, Il curricolo latente della famiglia delle classi medie, in A. H. Passow, M. Goldberg, A. J. Tannenbaum (a cura di), L’educazione degli svantaggiati, trad. it. FrancoAngeli, Milano 1971, pp.118-140. 24. P. W. Jackson, Life in classrooms, New York and London, Teachers College Press 1990. La prima edizione è del 1968. 25. G. Ballanti, Analisi e modificazione del comportamento insegnante,Lisciani e Zampetti,Teramo 1979; G.De Landsheere (1974), Come si insegna. Analisi delle interazioni verbali in classe, trad. it. Lisciani e Zampetti, Teramo 1979; G. De Landsheere, A. Delchambre (1979), I comportamenti non verbali dell’insegnante, trad. it. Giunti e Lisciani, Teramo 1981. 26. M. Ferrari (a cura di), Insegnare riflettendo. Proposte pedagogiche per i docenti della secondaria, FrancoAngeli, Milano 2003. 27. Il saggio è inserito nel volume a cura di M. Baldacci sulla formazione dei docenti in Europa. 28.Titolo di un noto volume di Martha Nussbaum.

Monica Ferrari è professoressa ordinaria di Pedagogia Generale e Sociale presso l’Università degli Studi di Pavia, ove insegna anche Filosofia dell’educazione e Storia della pedagogia.

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NOTE 1. Rimando in particolare a: J. Dewey (1916), Democrazia e educazione, trad. it. Sansoni, Milano 2008. 2. Quanto all’Italia rinvio ad esempio a: M. Morandi, La scuola secondaria in Italia. Ordinamento e programmi dal 1859 a oggi, FrancoAngeli, Milano 2014; G. Ricuperati, Storia della scuola in Italia. Dall’Unità a oggi, La Scuola, Brescia 2015; F. De Giorgi,A. Gaudio, F. Pruneri (eds.), Manuale di Storia della scuola italiana. Dal Risorgimento al XXI secolo, Scholé, Brescia 2019. 3. Al riguardo cfr. M. Ferrari, G. Matucci, M. Morandi, La scuola inclusiva dalla Costituzione a oggi. Riflessioni tra pedagogia e diritto, FrancoAngeli, Milano 2019. 4. Cfr. M. Ferrari, L’educazione esclusiva. Pedagogie della distinzione sociale tra XV e XXI secolo, Scholé, Brescia 2020. 5. Solo ad esempio, cito un testo ormai classico: E. Becchi, B. Vertecchi (a cura di), Manuale critico della sperimentazione e della ricerca educativa, FrancoAngeli, Milano 1984. 6. M. Baldacci (a cura di), La formazione dei docenti in Europa, B. Mondadori- Pearson Italia, Milano-Torino 2013; N. Barbieri, A. Gaudio, G. Zago (eds.), Manuale di educazione comparata. Insegnare in Europa e nel mondo, ELS La Scuola, Brescia 2016; M. Ferrari, M. Morandi, R. Casale, J.Windheuser (a cura di), La formazione degli insegnanti della secondaria in Italia e in Germania. Una questione culturale, FrancoAngeli, Milano 2021. 7. Sulle tappe più recenti della formazione dei docenti della secondaria cfr. Ferrari, Morandi, Casale, Windheuser (a cura di), La formazione degli insegnanti della secondaria in Italia e in Germania, cit.; M. Morandi, La fucina dei professori. Storia della formazione docente in Italia dal Risorgimento a oggi, Scholé, Brescia 2021 e M. Morandi infra. 8. F. Magni, Formazione iniziale e reclutamento degli insegnanti in Italia, Studium, Roma 2019. 9. I. Illich (1971), Descolarizzare la società, trad it. Mimesis, Milano-Udine 2010. 10 Penso a P. Freire, L’educazione come pratica della libertà, trad. it. A. Mondadori, Milano 1973 e Id., Pedagogia degli oppressi, trad. it. EGA, Torino 2018. Le due opere sono databili al periodo compreso tra il 1967 e il 1968. 11.Cfr.P.Freire (1996),Pedagogia dell’autonomia,trad. it. EGA, Torino 2014; Id., Le virtù dell’educatore, trad. it. Centro editoriale dehoniano, Bologna 2017. 12. G. J-.J. Biesta (2017), Riscoprire l’insegnamento, trad. it. Raffaello Cortina, Milano 2022. 13. C. Rogers (1969), Libertà nell’apprendimento, trad. it. Giunti- Barbèra, Firenze 1973. 14.Per una riflessione e una bibliografia M.Ferrari, M. Morandi, M. Falanga, Valutazione scolastica. Il concetto, la storia, la norma, ELS La Scuola, Brescia 2018. 15. G.Asquini (a cura di), La ricerca-formazione. Temi,


Pregiudizi sulla professione docente: una lunga storia

SAPERI / Pregiudizi sulla professione docente: una lunga storia

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Stereotipi e luoghi comuni svalutativi sul ruolo professionale dei docenti di scuola vengono da lontano, non sono comuni solo in Italia, e la loro diffusione è spesso tutt’altro che innocente. di Andrea Mariuzzo

I

ntervenendo il 24 settembre del 1902 a Firenze al primo congresso della Federazione nazionale degli Insegnanti di scuola media, della cui fondazione era l’ispiratore forse principale, Gaetano Salvemini tracciò il quadro della seguente narrazione:

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Ma voi, si sentono dire gl’insegnanti, voi lavorate poco, e quindi non potete chiedere stipendi eguali a quelli degli altri funzionari che hanno tutta la giornata legata all’ufficio. Compiute le vostre ore di lezione, al massimo tre al giorno […] siete liberi cittadini. Poi avete le vacanze di natale, di carnevale, di pasqua, poi le vacanze estive. Quale impiegato dello Stato ha tante comodità?

↑ Fotogramma dal film Maddalena zero in condotta, regia di Vittorio De Sica, 1940.

Decostruendo pezzo per pezzo questa visione che evidentemente percepiva già allora così diffusa nel sentire comune, lo storico pugliese dovette passare una buona parte del proprio intervento a fornire al proprio uditorio controargomenti, per esempio che «anche nei giorni di carnevale, di pasqua, di natale e nelle vacanze estive si mangia e si paga la pigione di casa», che «il Governo tiene gli insegnanti i suoi ordini per tutta la vita, li sbalza di qual e di là per le esigenze del servizio, impedisce che si procurino un’occupazione stabile fuori dalla scuola»,e soprattutto che «il lavoro del maestro non si può […] misurare ad ore»:

Non avete mai pensato all’esaurimento, che produce un’ora di scuola davanti ad una scolaresca, da cui il maestro non può farsi amare e rispettare se non schiacciando sotto il peso della propria costante superiorità intellettuale e morale le birichinate non sempre innocenti, che la età farebbe sorgere ad ogni minuto? Per il professore non esiste solo il lavoro della scuola: egli ha i compiti da rivedere a casa, ha le lezioni da preparare giorno per giorno; oltre alla preparazione immediata, deve curare la preparazione lontana, deve seguire i progressi della scienza, comprar libri e riviste, allargare il suo sapere per distribuirlo poi in moneta spicciola agli scolari1. In gioco, del resto, non c’era solo la dignità del corpo docente di fronte a critiche dotate di scarso fondamento. L’attività rivendicativa della Federazione che intendeva rappresentarli sul piano delle rivendicazioni professionali, infatti, era immaginabile per Salvemini soltanto trasformando una battaglia per interessi particolari nell’articolazione specifica di un generale ripensamento del ruolo socio-culturale dei servizi educativi, per dare inizio al quale occorreva sensibilizzare sulle condizioni dell’istruzione pubblica tutta la società: Quando mai ci siamo rivolti a[ll’opinione pubblica] per spiegarle il problema della scuola media? Quando mai ci siamo sforzati di rendere solidali con noi i pa-


dri di famiglia, facendo comprendere ad essi quanta differenza corra, per l’avvenire intellettuale, morale e sociale de loro figliuoli, fra un maestro attivo, geniale, coscienzioso, che sappia comunicare ai giovani l’amore alla verità e al lavoro, e un maestro indebitato, affamato, sfibrato, inetto, uccisore nell’anima degli alunni di ogni slancio e di ogni idealità? […] Non appena la opinione pubblica da noi illuminata ci sarà divenuta favorevole, allora i deputati e i ministri troveranno bene il tempo per occuparsi di noi […]2.

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E proprio quella narrativa che faceva degli insegnanti degli svogliati parassiti, concludeva il relatore, era l’ostacolo principale a rendere nell’immaginario diffuso la scuola un luogo di esperienze più importanti della mera conquista del “pezzo di carta”, e a fare dei problemi professionali dei docenti uno degli elementi salienti di una riforma scolastica effettivamente compresa e accolta dalla società nel suo complesso. Queste parole,come detto,hanno centoventi anni, eppure per molti versi sembrano simili a quelle che si è soliti ascoltare a più riprese anche oggi quando si parla di insegnanti,al bar – il che sarebbe forse il problema minore – come nel dibattito pubblicistico sui giornali e su ascoltati profili social. Negli ultimi due anni, poi, i riferimenti si sono arricchiti e rinnovati, soprattutto con l’accusa agli insegnanti di sfruttare l’emergenza pandemica in cui ancora viviamo allo scopo di accomodarsi con agio sulla didattica a distanza, al punto da far passare l’enorme sforzo di gran parte dei docenti italiani per dare nei limiti del possibile continuità all’esperienza didattica delle loro classi per un capriccio dettato da inveterata pigrizia. Ma nel corso dei decenni molto si è ricamato su spunti così radicati nell’immaginario da essere già in voga,come si è visto,a inizio Novecento e forse anche prima, per esempio tematizzando l’accusa di scarso impegno professionale con l’allarme per una presunta “meridionalizzazione” del corpo docente nelle regioni centro-settentrionali, con quella che negli anni Ottanta-Novanta divenne un’arma retorica ampiamente sfruttata dal nascente leghismo. La svalutazione del lavoro docente, insomma, è uno stigma per la categoria professionale assai più duraturo anche se (o forse proprio perché) assai meno fondato su dati ed esperienze reali delle valutazioni critiche espresse negli anni immediatamente successivi alla riforma della scuola media del 1962 alle «vestali della classe media» ancora intrise del culto gentiliano per la selezione e per la tutela del valore “borghese” del rendimento rispetto a quello dell’inclusione3.Nella loro torsione recente che vede tra le protagoniste principali anche una loro collega come Paola Mastrocola4, anzi, le critiche agli insegnanti hanno finito per far combaciare sempre più apertamente lo sforzo di evitare impegno e difficoltà con la promozione dell’ideale della «scuola progressista» facile e priva di ostacoli la cui diffusione cul-

turale si imputa in primo luogo a don Milani, quasi dimenticando che la lettera con cui la scolaresca di Barbiana ne enunciò alcuni principi fondamentali era indirizzata, con intenti decisamente critici, proprio a una professoressa5. Né si può dire che un atteggiamento del genere sia proprio esclusivamente della cultura diffusa italiana. Una delle ultime declinazioni del discorso di svalutazione professionale degli insegnanti, ovvero l’idea per cui – a dispetto di pratiche selettive e di verifica ben note a chi davvero conosca il mestiere – essi siano refrattari a qualsiasi forma di valutazione che renderebbe il loro lavoro più impegnativo, trova corrispondenza anche negli Stati Uniti del No Child Left Behind Act del 2001 e dell’imposizione a tutti i livelli dello standardized testing per la “misurazione” del rendimento e della qualità. Da questo punto di vista, peraltro, non è senza significato che l’agenzia di lobbying per la politica scolastica per anni tra le più influenti del Nordamerica, quella fondata nel 2010 dalla famosa e discussa professionista dell’amministrazione educativa Michelle Rhee, si chiamasse StudentsFirst. L’idea di fondo era in effetti il tentativo di rimarcare una profonda e irrisolvibile divaricazione di interessi tra docenti da una parte e studenti e famiglie dall’altro, in cui la volontà dei primi doveva essere soffocata attraverso l’imposizione di procedure di controllo sempre più occhiute, e finanche attraverso lo smantellamento di fatto delle proprie articolazioni di rappresentanza professionale,per evitare che essi potessero imporre una scuola di facile gestione e di scarso impegno a loro uso e consumo6. Chi prova a seguire da vicino il dibattito pedagogico e politico-scolastico statunitense sa che,pur tra molte difficoltà, questo atteggiamento dominante fino a sei-sette anni fa è ora messo autorevolmente in discussione, dapprima attraverso le riprese teoriche della “pedagogia critica” da parte di Henry Giroux e di Diane Ravitch7, poi con una risposta politica che dall’ondata di scioperi degli insegnanti del 2018-19 ha portato il presidente Biden ad affidare la segreteria di Stato all’Istruzione a un esponente di spicco della rappresentanza politica dell’universo docente come Miguel Angel Cardona8. L’Italia, tradizionalmente, vive lo sviluppo del dibattito a scoppio ritardato, e allora risultano ancora di piena attualità proposte di gestione della scuola pubblica in cui all’uniformità amministrativa si sostituisca la somministrazione di dispositivi omologati di verifica come i test INVALSI, usati con finalità e obiettivi ce vanno ben al di là dei limiti di uso e di validità indicati dai gruppi di lavoro che li promuovono, e la promozione di un simile modello di scuola «diversamente pubblica» trova esplicita giustificazione nella promozione degli interessi di studenti e famiglie esplicitamente contrapposti a quelli di professioniste e professionisti dell’educazione scolastica9.


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↑ Fotogramma dalla serie televisiva americana Whack-O (foto Gettyimages).

In conclusione, se messa in prospettiva, la diffusione e la persistenza di un discorso stereotipato sull’agevolezza della professione docente rivela di accompagnarsi spesso a tentativi di isolamento del personale insegnante nell’ambito del dibattito sulla scuola, e alla creazione di contrapposizioni di interessi e obiettivi più che altro artificiali, a volte per indebolire la sostanza delle rivendicazioni professionali delle professioniste e dei professionisti della scuola, in qualche caso per ridurre il più possibile il loro ruolo di interlocutore collettivo per il rinnovamento normativo e gestionale scaricando sulle loro spalle il peso di riforme di dubbia efficacia. Quando si sente dipanare questo tipo di narrazione, quindi, è bene imparare a decostruirla per riconoscerne gli scopi effettivi, i quali di solito rendono un simile atteggiamento tutt’altro che innocente. NOTE 1. G. Salvemini, Le condizioni economiche degl’insegnanti, ora in Id., Opere, V, Scritti sulla scuola, a cura di L. Borghi e B. Finocchiaro, Feltrinelli, Milano 1966, p. 13. 2. Ibid., p. 15. 3. Cfr. M. Barbagli, M. Dei, Le vestali della classe media. Ricerca sociologica sugli insegnanti, il Mulino, Bologna 1969. 4. Mi limito qui a ricordare il suo più recente intervento in proposito, scritto con L. Ricolfi, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La Nave di Teseo, Milano 2021. 5.Lettera a una professoressa,Firenze,Libreria Editrice Fiorentina, 1967. Per un suo studio, cfr. almeno V. Roghi, La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole, Laterza, Roma-Bari 2017.

6.Per un approfondimento sul caso nordamericano, mi permetto di rinviare alla mia recente e sintetica guida di presentazione in proposito, Scuola e politica negli Stati Uniti (1980-2020), Morcelliana Scholé, Brescia 2022. 7. Faccio riferimento, in particolare, a H. Giroux, Educazione e crisi dei valori pubblici. Le sfide per insegnanti, studenti ed educazione pubblica, ed. it. a cura di F. De Giorgi, La Scuola, Brescia 2014, e a D. Ravitch, Slaying Goliath. The Passionate Resistance to Privatization and the Fight to Save America’s Public School, New York, Knopf, 2020. 8.Per ulteriori riferimenti su questi passaggi,rinvio in particolare ai miei recenti interventi L’amministrazione Trump e le politiche scolastiche negli Stati Uniti, «Scholé», 2(2019), 1, 194-198, e L’istruzione, secondo Biden, «il Mulino», 21 gennaio 2021 (disponibile online all’indirizzo https://www.rivistailmulino.it/news/ newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:5510). 9. Un atteggiamento del genere, appena più controllato nel linguaggio ma in realtà caratterizzato da una selezione di riferimenti teorici e di policy che non lascia dubbi sugli orientamenti, trova espressione ad esempio nel recente M.Campione,E. Contu (a cura di), Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome, il Mulino, Bologna 2020.

Andrea Mariuzzo è professore associato di Storia della pedagogia all’Università di Modena e Reggio Emilia. Si occupa principalmente di storia dell’istruzione superiore, storia delle politiche e delle riforme scolastiche, e di storia dell’identità docente tra Otto e Novecento. Il suo ultimo libro è Scuola e politica negli Stati Uniti (19802020), Morcelliana Scholé, Brescia 2022.


Lo specchio imperfetto: la scuola al cinema e in televisione

di Davide Boero

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affinato copione teatrale dell’inglese Nigel Williams, Nemico di classe (Class Enemy, 1978),è una sorta di Aspettando Godot ambientato in una scuola della periferia londinese, dove un gruppetto di studenti emarginati e violenti attende l’arrivo di un docente capace fornire loro strumenti di riscatto sociale.Al di là della trama,ciò che colpisce nella realizzazione scenografica del testo è la forza iconica degli arredi di scena: pochi banchi, qualche neon traballante, pareti imbrattate di scritte, dunque uno spazio contemporaneamente reale e metaforico, allusivo a una tipologia di spazio scolastico ben radicata nell’immaginario collettivo, al punto che lo stesso discorso può valere per la messa in scena del romanzo Sottobanco (1992) di Domenico Starnone – con la differenza che nel lavoro di Williams gli studenti sono presenti e il docente è figura quasi mitologica, nascosta dietro le quinte e solo immaginata, mentre nella rappresentazione italiana a mancare sono gli studenti e gli insegnanti prendono tutta la scena nel corso di un estenuante scrutinio di fine anno. A giocare con questo immaginario “consolidato”, però, non sono solo il teatro e la narrativa: anche il cinema e la televisione hanno spesso contribuito a caricare di attributi negativi gli insegnanti, gli ambienti e, in generale, i protagonisti della vita scolastica: pregiudizi e realtà, cronaca quotidiana e fantasia si sono così intrecciate nell’esigenza di fare spettacolo. Non è un caso che questa duplicità emerga già nei primi film muti, con pellicole che

da un lato guardano alle vicissitudini dei poveri educatori con patetismo deamicisiano (Il calvario di un maestro, Ambrosio, 1908)1, dall’altro giocano sull’ironia e sulla deformazione grottesca, come accade nel film francese Le professeur d’école (Pathé Frères, 1909) dove il maestro è “bullizzato” da una classe di scalmanati. Gli anni del fascismo sono caratterizzati dalla progressiva irreggimentazione della scuola alle direttive del regime (dall’adozione del testo unico di Stato alle elementari alle organizzazioni paramilitari della gioventù) e all’attenzione per le problematiche di docenti e studenti si sostituisce la dimensione leggera e stereotipata delle commedie dei “telefoni bianchi: la professoressa di corrispondenza commerciale al centro di Maddalena zero in condotta (Vittorio De Sica, 1940), già osteggiata dai colleghi per la prodigalità nei voti, è pronta a rinunciare al proprio lavoro pur di coronare un sogno d’amore; il professore di Ore 9: lezione di chimica (Mario Mattoli, 1941) sposa un’allieva ponendo termine alla carriera scolastica di entrambi… «l’amore trionfa e le apparenze sono salve»2. Sono esempi3 significativi di come la vita privata dei docenti sia d’intralcio a una professione sentita come nobile missione da praticare con severa autorità. A scoperchiare le storture di questo periodo penserà il grande Federico Fellini in Amarcord (1973), ricostruendo attraverso il filtro dei propri ricordi il ridicolo di certi insegnanti, ma aprendo involontariamente la strada a una deriva grottesco-satirica che diffonderà per oltre un ventennio un’idea falsata della scuola, più ancorata

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Cinema e televisione costituiscono un filtro privilegiato non solo per guardare realisticamente il mondo della scuola, ma anche per “reinventarlo” alla luce di quei luoghi comuni che hanno larga eco sociale.


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alla memoria di ex studenti che alla quotidiana realtà: «alcuni indossano occhiali dalle lenti molto spesse, altri fumano in classe e parlano con forte accento del Sud,altri ancora portano i capelli impomatati e si ridicolizzano da soli mostrando come si deve tenere la lingua per pronunciare emàrpsamen. Tutti hanno una certa età, quasi a sottolineare l’incapacità di avere slanci vitali e il grigiore del loro lavoro,quello di semplice ripetitore dei programmi ministeriali e ingranaggio in una compagine propagandistica»4. Gli anni Cinquanta segnano un cambiamento, e il filone scolastico si caratterizza attraverso la rilevanza che assume il rapporto fra una classe di docenti legata a vecchi schemi e una generazione di giovani allievi aperti alle nuove istanze della società: Terza liceo (Luciano Emmer, 1953) è il film che, attraverso il conflitto fra un supplente disponibile alle richieste degli studenti e un preside ancorato al passato, rappresenta perfettamente a livello cinematografico l’inizio della crisi della professione5. Il cinema e la televisione degli anni Sessanta e Settanta, nonostante i cambiamenti radicali nella scuola (la scuola media unica dal 1962, il Sessantotto, i Decreti Delegati del 1973-’74), sembrano dimenticare lo spazio critico e documentaristico, in nome di prodotti superficiali dove i toni grevi della commedia popolare rendono i docenti insulse macchiette: Professore venga accompagnato dai suoi genitori (Mino Guerrini, 1975) mette in gioco un professore dalle dichiarate idee fasciste, che, «approfittando del caos che regna in un liceo […],riesce a far cacciare il preside grazie all’involontario aiuto che gli alunni, pur odiandolo, gli danno»6; in Tutti a squola (Pier Francesco Pingitore, 1979) Filippo Bottini (Pippo Franco), «professore alla vecchia maniera […] deve confrontarsi con i fermenti postsessantotteschi degli anni Settanta: i muri sono pieni di scritte rivoluzionarie e violente, il Preside (Gianfranco D’Angelo) va in giro in mimetica e si trincera in un ufficio pieno di filo spinato»7. In questo periodo nasce addirittura un sottogenere,un filone del sexy-scolastico,che partendo dai motivi della contestazione e della liberazione sessuale,metterà al centro la demolizione sistematica della funzione docente e cercherà il facile consenso di un pubblico qualunquista, antistituzionale e goliardico: a partire da L’insegnante (Nando Cicero, 1975) e da La liceale (Michele Massimo Tarantini, 1975) le pellicole si riempiono di un campionario di professori macchietta, iettatori, balbuzienti, fascistoidi, sessualmente eccitabili da procaci supplenti o alunne disinibite: tutti, senza eccezione, inadeguati al ruolo di educatore e quindi vittime predilette di scherzi adolescenziali. Questa visione acritica è continuata almeno per un altro decennio (con la serie dei Pierino inaugurata da Alvaro Vitali) e, giocando in maniera esasperata su elementi verosimili (ricordi condivisi di tic e manie degli in-

segnanti), ha contribuito per pure esigenze di spettacolo8 a demolire nell’opinione pubblica il mondo della scuola. In quegli anni cinematograficamente sfortunati fanno eccezione pellicole come Il maestro di Vigevano (Elio Petri, 1963), che denuncia le frustrazioni di chi svolge un mestiere che sembra escluderlo dal benessere del boom economico, o la raffinata docu-fiction Diario di un maestro (Vittorio De Seta, 1972, in quattro puntate ma ridotta per il grande schermo), che parte dalla vera esperienza pedagogica del maestro Albino Bernardini con bambini delle periferie romane9. La situazione cambia negli anni Novanta, con il successo dei libri di Domenico Starnone e con le riduzioni cinematografiche degli stessi, che pure non lesinano nella spettacolarizzazione e non propongono soluzioni costruttive sulle condizioni dell’istruzione. Lo scrittore, sceneggiatore e insegnante napoletano rinvigorisce il genere scolastico approfondendo le psicologie dei docenti, ma mostra un mondo di professionisti che hanno perso la passione per il lavoro in classe; in un contesto incapace di adeguarsi ai tempi, deprivato di risorse, e di fronte a una platea di studenti sempre più distanti dalla cattedra, i professori de La scuola (Daniele Luchetti, 1995, tratto da Ex cattedra e da Sottobanco) sembrano sempre più scissi tra vita personale e lavoro quasi impiegatizio da cui fuggire il prima possibile; nel film i professori hanno mille problemi che scaricano, ad esempio, sulla professoressa Majello,l’incaricata di stendere l’orario delle lezioni: l’esistenza vera, insomma, è fuori dalle aule scolastiche... In questo contesto l’unico spiraglio di ottimismo arriva con Auguri professore (Riccardo Milani, 1997, tratto da Solo se interrogato), che ai docenti demotivati offre come soluzione quella di abbandonare l’inadeguato insegnamento cattedratico per creare un nuovo rapporto con gli alunni attraverso una comunicazione diretta (anche extra scolastica): è una tipologia di docente-amico che ha conquistato il posto d’onore in successive pellicole come La scuola è finita (Valerio Jalongo, 2011) che vede una coppia di insegnanti piena di buone intenzioni riversare i problemi personali su un giovane scapestrato sostituendosi (con conseguenze negative per tutti) ai genitori assenti. La tipologia del docente-amico ha trovato collocazione anche in coeve serie televisive, che meritano però un discorso a parte, vista la quantità di titoli che da più di un trentennio hanno posto al centro l’ambiente scolastico e hanno di fatto monopolizzato l’intrattenimento televisivo.Esemplare come modello che rimaneggia materiali diversi è I ragazzi della III C10, che mette in mostra una galleria di docenti non troppo caratterizzati fisicamente ma dall’atteggiamento ingessato e dall’aspetto quasi impiegatizio. Per quanto riguarda la RAI, la costruzione dei protagonisti docenti


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si riversano dialogicamente, quasi come terapia di gruppo, tutte le frustrazioni personali ed extra scolastiche dei docenti. Nel corso delle puntate, poi, la trama orizzontale si svilupperà su storie d’amore, rancori fraterni, tragica interruzione di gravidanza, tentativo di suicidio nei bagni della scuola da parte dell’insegnante di musica17 … un coacervo di situazioni tale da far scomparire tanta letteratura otto-novecentesca di stampo deamicisiano.Nella serie anche i caratteri poco stereotipati tendono all’immutabilità: la sportiva professoressa di ginnastica Virginia non ha mai un moto di cambiamento, il vicepreside Felice Salina è un modello di insegnante autoritario,il docente di matematica Giorgio Baldanza, degno erede dei tanti insegnanti cinematografici che sognano di migliorare la propria condizione economica18, ripete come un mantra che lo stipendio è basso («per quei quattro soldi che ci danno») e viene spesso mostrato mentre gioca la schedina19. Il terzo episodio Quando è troppo è troppo tocca l’argomento già segnalato delle molestie da parte di un docente; protagonista è Oldani, docente di inglese totalmente negativo fin dall’inizio sia nei confronti delle colleghe sia in quello delle studentesse20: una sorta di misoginia destinata a sfociare in tentativo di violenza ai danni di una studentessa che non vuole cedere alle

↑ Fotogramma dal film Il maestro di Vigevano, regia di Elio Petri, 1962.

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appare migliore e meno caricaturale, anche se nel corso degli anni si è percepito (neanche troppo sottotraccia) un deterioramento nella prospettiva con cui si guarda alla scuola. Punto di partenza è I ragazzi del muretto11, una sorta di Beverly Hills 90210 all’italiana, che racconta la quotidianità di un gruppo di liceali romani e, fra le problematiche, evidenzia il rapporto dei giovani con scuola e docenti, qui rappresentati principalmente da due figure antitetiche, quella dell’amichevole professor Testa e quella del collega Licitra. Il primo, di sinistra (è lettore de «Il manifesto»), nonostante le battute pungenti cerca di capire i ragazzi e li difende dalle miopi rigidità della presidenza; il secondo rappresenta un’istruzione di stampo meritocratico, e vede il permissivismo come una delle cause del vuoto di “valori e principi” della società12 Merito della serie è quello di evitare bozzettismo e scandalismo anche davanti a un tema “sensibile” come quello delle molestie, purtroppo d’attualità13. Servizio peggiore alla scuola e agli insegnanti viene fatto dalla serie Compagni di scuola14 adattamento della spagnola Compañeros15; nonostante la solida sceneggiatura di ogni episodio, l’immagine della scuola che emerge presenta diverse criticità, dal numero esiguo di protagonisti adulti16 all’aula professori trasformata in piazza di mercato dove


sapevolezza che nella realtà le cose sono ben diverse […] La domanda è sempre la stessa: quand’è che l’insegnante deve farsi da parte e attenersi al già difficile compito di trasmettere l’amore per la materia senza superare il confine della discrezione? Cicerino arriva a fine anno senza aver parlato dell’Orlando Furioso, rincorre i problemi dei suoi studenti a casa, per strada e all’ospedale, la sua esuberanza didattica non rimane chiusa dentro le mura della scuola. E sembra volerci dire che è solo questo il modo per conquistarsi l’affetto dei ragazzi e tentare di capirli. Ma sarà poi così vero? Il dubbio rimane perché nella vita reale la sufficienza in greco va sudata23.

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↑ Fotogramma dal film Il maestro di Vigevano, regia di Elio Petri, 1962.

sue lusinghe. Saranno i ragazzi, dopo l’inutile denuncia alla cautissima preside da parte di un altro docente, a risolvere il problema, filmando di nascosto le avances del professore. Al di là purtroppo del recente caso di Cosenza e della verosimiglianza di alcune situazioni, l’aver caricato di tanta nequizia il personaggio contribuisce ad avvolgere il mondo della scuola in una nube di diffidenza e di ostilità; giocare sulla semplificazione per fare audience non è mai un buon servizio alla formazione di un giudizio obiettivo. Da questo punto di vista è significativa la lettera scritta nel maggio 2008 al «Corriere della Sera» dai docenti e dagli studenti del liceo Mamiani di Roma, che non si riconoscevano nella serie televisiva I liceali21 girata nel loro liceo perché questa diffondeva una «visione dei comportamenti della scuola non in linea con le finalità civili ed educative» dell’Istituto.In effetti la serie,nonostante sia calata nella contemporaneità, è una successione di luoghi comuni22 concentrati soprattutto intorno al protagonista Antonio Cicerino, professore di italiano che ha abbandonato ogni legame con la scuola del passato, vive la professione in modo assolutamente anticonformista e mette il privato dei ragazzi prima della dimensione didattico-disciplinare: E siccome è fiction, è piacevole accettare che tutto funzioni e tutto si risolva facilmente, pur con la con-

Tutte le serie televisive sembrano avere un denominatore comune nel trasferimento dentro la scuola di tutte le crisi sociali,quasi le aule servissero da cassa di risonanza per quel malessere che da docenti socialmente poco riconosciuti e al limite della nevrosi si trasferisce nella collettività24. Emblema di questa crisi è l’incubo con cui prende il via la serie Fuoriclasse25, tratta dall’inesauribile repertorio scolastico del solito Starnone: la protagonista Isa Passamaglia (Luciana Littizzetto) sogna di essere interrogata e di dover ripercorrere, dopo diciotto anni come professoressa di lettere,le proprie tappe da studentessa (maturità, tesi, abilitazione, concorso) perdendo così il proprio stipendio. In maniera più significativa dei precedenti, anche qui l’aula docenti diventa punto di aggregazione, luogo in cui si condividono storie personali e piccole ripicche. Gli insegnanti appaiono come adolescenti in corpi adulti, sembra passino il tempo in competizione tra loro (per ottenere il posto da vicepreside), a inseguire i pochi spiccioli di qualche progetto extracurricolare,a darsi del “mentecatto”; il loro atteggiamento presta il fianco a quel processo di delegittimazione della professione avviato da decenni: se i sondaggi 26 ritengono i docenti italiani poco rispettati, il resoconto giornalistico infierisce serializzando l’escalation di violenza nei loro confronti. Abbandonandosi alla cronaca, per un professore che, aggredito verbalmente da uno studente, lo schiaffeggia27, ne esistono decine che vengono bullizzati senza pietà: nel 2018 a Parma un ragazzo reagisce a un rimprovero prendendo l’insegnante a testate, nel 2019 tocca a una docente salernitana28 essere ripresa da un cellulare mentre una classe di liceali la deride, ma l’elenco potrebbe continuare di degenerazione in degenerazione. A questa situazione, fenomeno reale o presunto, la fiction Fuoriclasse risponde con una resa, mostrando in diverse occasioni insegnanti pronti al compromesso pur di “sopravvivere” alla classe; come succede nel terzo episodio, quando una supplente, dopo aver cercato di affascinare i turbolenti discenti con il sexappeal, ascolta i consigli di una “veterana” che le suggerisce di farli divertire utilizzando per la lezione ciò che divertirebbe lei


il mito della caverna si è realizzato, l’immagine cinematografica porta davanti ai nostri occhi non la realtà vera, che per noi non è mai esistita, ma una realtà culturale, artificiale, costruita sulle nostre proiezioni mentali e quindi… vera. […] Attraverso quel verosimile si comprende la storia, il suo fascino, la sua terribile potenza evocativa. Guai ai popoli senza memoria storica e senza capacità di produrre mitologia34. NOTE 1. Nelle pellicole italiane di questi anni è particolarmente rappresentata la condizione dei maestri elementari, ancora reclutati dai Comuni che disponevano di scarse risorse economiche; la statalizzazione avverrà nel 1911 con la legge Daneo-Credaro. 2. Giampiero Frasca, Il cinema va a scuola, Le Mani, Recco (GE) 2010, p. 42. 3. La leggerezza degli amori cinematografici tra studentesse e professori di queste pellicole, appare fasulla se confrontata con la drammaticità delle reali costrizioni sociali; nella prima parte di Antonia (Ferdinando Cito Filomarino, 2015) si ricostruisce per brevi sequenze il rapporto che la poetessa Antonia Pozzi (1912-1938) ebbe con il suo docente di latino e greco. La storia fu troncata per volontà del ricco padre di lei; nel film questi esprime disprezzo verso gli insegnanti, che con il loro misero stipendio possono permettersi libri preziosi solo a patto di “impalmare la prima studentessa ricca” trovata. 4. Davide Boero, Storia cinematografica della scuola italiana, Lindau, Torino 2022, p. 67. 5.Ancora nel 1946,in Mio figlio professore (Renato Castellani), il portiere di un liceo dedica la propria esistenza alla carriera del figlio, assicurandogli un mestiere stimato e gratificante.

6. Recensione disponibile sul sito Mymovies all’indirizzo https://www.mymovies.it/dizionario/recensione. asp?id=19303, ultima consultazione 30 agosto 2021. 7. Boero, Storia cinematografica della scuola italiana, cit., p. 104. 8. Nel film Bianca (Nanni Moretti, 1984) si immagina un corpo docente che,per risolvere i problemi della scuola di massa, si adegua ai gusti degli studenti e propone lezioni “informative” (per esempio sulla canzonetta italiana), rinunciando così agli aspetti culturali del proprio ruolo. 9.Albino Bernardini, Un anno a Pietralata, La Nuova Italia, Firenze 1968. 10. 1987–1989, Italia 1 (33 episodi). Tra gli sceneggiatori compare il nome di Federico Moccia, padre del giovanilismo letterario-cinematografico. 11. 1991–1996, Rai 2 (52 episodi). 12. L’amore quello vero, episodio 7, seconda stagione. 13. In Il coraggio di dirlo, episodio 9, prima stagione, una ragazza incolperà il povero Testa di aver approfittato di lei; si scoprirà poi che l’accusa era falsa e che la giovane, invaghita del docente, si era inventata tutto. 14. 2001, Rai 2 (26 episodi). 15. Nel corso degli anni sono state distribuite diverse serie o pellicole scolastiche che adattano contesti nazionali diversi a un medesimo discorso sull’istruzione, quasi a stabilire, almeno a livello europeo, l’esistenza di un immaginario condiviso; il fortunato Notte prima degli esami (Fausto Brizzi, 2006) ha avuto una versione d’oltralpe (Nos 18 ans,Frédéric Berthe,2008),il recente Arrivano i Prof (Ivan Silvestrini, 2018) è un film fotocopia del francese Les profs (Pierre-François Martin-Laval, 2013). 16. La storia è ambientata a Roma in un liceo scientifico sperimentale, ma in scena appare solo un insegnante per materia, cosa impossibile anche in presenza di un’unica sezione. 17. Voglio morire, episodio 4. 18. Ricordiamo il protagonista di Scuola elementare di Alberto Lattuada (1954) ma anche il maestro Mombelli del già citato Il maestro di Vigevano. 19. Anche nel film Liquirizia di Salvatore Samperi (1979), ambientato negli anni Cinquanta, un docente sogna la ricchezza attraverso le scommesse; credendo di aver fatto tredici sfoga tutta la propria frustrazione di vent’anni di insegnamento dichiarando agli studenti tutto l’odio che prova nei loro confronti. 20. «I miei voti seguono l’andamento delle tue gonne, si restringono ogni giorno un po’ di più». 21. Tre stagioni trasmesse dalle reti Mediaset dal 2008 al 2011. 22. Per trovare qualcosa di diverso si deve guardare a Provaci ancora Prof! (2005–2017, ispirata ai racconti gialli di Margherita Oggero) e alla miniserie in due puntate ‘O Professore (Maurizio Zaccaro, 2008), liberamente ispirato al volume di Paola Tavella Gli ultimi della classe (Mondadori, 2000); si raccontano gli sforzi del professor Pietro Filodomini (Sergio Castellitto) nel combattere la dispersione in una scuola media del Rione Sanità di Napoli e allontanare gli studenti dalla microcriminalità. 23. Nicoletta Dose, https://www.mymovies.it/fil-

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stessa… finirà quindi per accompagnare le parole della lezione con una chitarra, non discostandosi troppo, peraltro, dal cabaret messo in piedi dalla Littizzetto che spiega la storia di Paolo e Francesca come una soap opera29. Impossibilitati o incapaci di ripensare le modalità educative, che andrebbero dirette al fine di formare individui autonomi e responsabili, in un presente in cui la «cultura edonistica […] vorrebbe, invece, un luogo formativo sempre accondiscendente e rassicurante nei confronti delle piccole sconfitte quotidiane»30, i docenti del grande e del piccolo schermo si abbandonano all’improvvisazione, adattando le proprie capacità al contesto, senza apparente pianificazione. Lo fa anche Alessandro Gassmann nella recente serie Un professore31 tratta da una serie catalana32 in cui il professore di filosofia dalla vita personale irrisolta conquista l’uditorio adolescenziale facendo lezioni all’aperto e adattando meccanicamente la disciplina che insegna alle contingenze dei ragazzi33. Questo legame meccanico tra scuola e vita è un bel gioco narrativo ma non fotografa la realtà:


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↑ Sergio Castellitto nella miniserie televisiva O’ professore, 2008.

m/2008/i-liceali/, ultima consultazione 2 marzo 2021. 24. Non è casuale che un episodio de I liceali presenti un seminario sulla “sindrome da burn-out” descritta come un “lento logoramento fisico e mentale” in cui “non si distingue la vita relazionale da quella professionale”. 25. Quattro stagioni su Rai 1 dal 2011 al 2015. 26. Nel sondaggio (https://www.tuttoscuola.com/insegnanti-italiani-i-meno-rispettati-dagli-studenti-il-nostro-paese-al-33esimo-posto/, ultima consultazione 23 febbraio 2022) sullo status degli insegnanti nel mondo del Global Teacher Status Index (2019) il nostro Paese appare al terzultimo posto della classifica (solo il sedici per cento degli italiani considererebbe gli insegnanti nelle scuole ancora rispettati). 27. Margherita Paolini, Prof perde la pazienza e schiaffeggia studente, 27 marzo 2013 (https://www.skuola.net/scuola/ lite-prof-schiaffo.html, ultima consultazione 23 febbraio 2022). 28. https://www.salernotoday.it/cronaca/docente-presa-in-giro-video-appello-genitore-difende-figlio-alunno-16-settembre-2019.html, ultima consultazione 23 febbraio 2022. 29. Francesca abbandona «la casa, le amiche, la parrucchiera» e a Rimini si innamora del fratello del promesso sposo, «fotocopia sputata di Johnny Depp». 30. Giorgio Cavadi, La scuola presa a sberle, 2 maggio 2018 (https://www.scuola7.it/2018/087/la-scuola-presa-asberle/, ultima consultazione 23 febbraio 2022).

31. 12 episodi trasmessi da Rai 1 nel 2021. 32. Il fatto che così tanti titoli (cinematografici o televisivi) nascano da format internazionali fa quasi apparire la scuola come un “non luogo” adattabile a ogni contesto culturale e in cui hanno maggior peso le vicende sentimentali di quelle educativo/didattiche. 33.A titolo di esempio, nel quarto episodio (Platone) entra in casa di un adolescente hikikomori, che si è isolato dagli altri confinandosi nella propria stanza: Gassman lo convince a uscire sciorinando una lezioncina sul mito della caverna,paragonando le ombre proiettate dal fuoco con i graffiti sulle pareti della cameretta. 34. Nicolò Scialfa, La scuola negata. La radiografia di un disastro e le ragioni di una speranza, Genova, De Ferrari, 2009, p. 66.

Davide Boero docente di scuola superiore, ha dedicato al cinema articoli su riviste e volumi, fra cui All’ombra del proiettore. Il cinema per ragazzi nell’Italia del dopoguerra (EUM, 2013), La poesia, il gesto, il suono. Invito alla riscoperta di Jacques Tati (StreetLib, 2021), Storia cinematografica della scuola italiana (Lindau, 2022). Sempre al cinema è dedicato il sito https://davideboero. wordpress.com.


Vita da prof nella Roma antica

di Mauro Reali

A

nzitutto, un conto è parlare del ludi magister – che istruiva i bambini dai 7 agli 11 anni circa – malpagato, spesso di origine servile e privo di una solida formazione culturale, un altro è parlare dei professori che insegnavano nei cicli superiori. Infatti gli studenti dagli 11 anni ai 16 erano affidati alle cure di un grammaticus, assai più colto e meglio retribuito, anche se talora di condizione libertina (cioè ex schiavo), mentre i ragazzi più grandi – predestinati alla vita politica o forense – seguivano le lezioni dei rhetores, alcuni dei quali erano delle vere e proprie “star” dell’educazione: va da sé che stipendio e reputazione fossero adeguati alla loro considerazione sociale. In un’anacronistica comparazione avvicinerei questi ultimi più ai moderni docenti universitari che ai professori di Liceo1. Ci sono poi altre variabili che intervengono in tale questione, e tra queste la dimensione per lo più privata del rapporto tra le famiglie e gli insegnanti (in molti casi titolari delle loro scuole) che poteva dar luogo a significative differenze a livello locale, giacché non mancavano situazioni di evergesia, come quella di Plinio il Giovane, che – come vedremo – mise a disposizione il proprio denaro per pagare i docenti delle scuole di Como, oppure di intervento pubblico (specialmente nelle pro-

vince) per concorrere alle spese dell’istruzione: è chiaro come in queste circostanze gli insegnanti potessero risultare meglio pagati. La prima vera cattedra “statale” fu comunque quella di un rhetor, affidata in età Flavia a Quintiliano – una “star”, appunto – cui spettava un considerevole salario annuo.

Quanto guadagnavano davvero?

— Entrare nel merito delle differenze stipendiali ci obbliga però alla massima prudenza e pertanto è bene partire dalle autorevoli parole di Henri-Irénée Marrou, il più grande studioso dell’educazione nel mondo antico: Nella gerarchia dei valori professionali e sociali, esso [il retore, N.d.A.] occupa un posto nettamente più elevato di quello dei suoi colleghi dei primi due gradi. È meglio pagato; Giovenale all’inizio del II secolo parla di 2000 sesterzi all’anno per alunno, ossia uno stipendio quattro volte superiore a quello previsto per un semplice grammatico. È vero che si tratta dell’illustre Quintiliano; per i professori comuni non si arrivava forse a tale cifra. Al tempo di Diocleziano, l’orator è meno favorito rispetto al grammatico; infatti guadagnano rispettivamente 250 e 200 denari (al mese per ogni alunno) di fronte ai 50 del semplice maestro2.

35 SAPERI / Vita da prof nella Roma antica

Un discorso sulla considerazione sociale e il livello economico degli insegnanti nell’antica Roma è difficile per diverse ragioni: cercherò brevemente di spiegarle nella prima parte di questo intervento, che si concluderà invece delineando il profilo di due antichi docenti molto particolari.


Storie di professori… degni di una statua!

— Non voglio però, in questa sede, né fare una pietistica caricatura dei miei colleghi d’antan sottopagati, e neppure parlare di personaggi troppo famosi come Quintiliano, autore di quel corposo manuale di didattica (Istututio oratoria) il cui ritrovamento «salvo e incolume, ancorché tutto pieno di muffa e polvere» nel 1416 nell’abbazia di San Gallo fece dire all’umanista Poggio Bracciolini – in una lettera all’amico Guarino Veronese – di averlo liberato da «un tristissimo ed oscuro carcere, nel fondo di una torre, in cui non si caccerebbero neppure dei condannati a morte» (trad. E. Garin). Mi piace invece, lo ribadisco, delineare le figure di Orbilio e Septiciano,due professori che,pur nella diversità delle loro storie, arrivate a noi da fonti molto diverse, possono vantare una bellissima cosa in comune: hanno avuto entrambi l’onore di una pubblica statua. Parlo dunque di loro con un po’ di invidia, accennando contestualmente pure alla liberalità di Plinio il Giovane, lo sponsor che la scuola di ogni tempo vorrebbe avere.

SAPERI / Vita da prof nella Roma antica

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Orbilio, grammatico severo

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↑ Foglio di un manoscritto dell’Institutio oratoria di Quintiliano (Plut. 46.12, fol. 1r), conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze.

Interessante è soprattutto la menzione fatta da Marrou dell’Edictum de pretiis di Diocleziano (301 a.C.) – un “calmiere” dei prezzi di merci e mestieri – che ci consente di comparare la retta mensile per studente di retore (250 denari), grammatico (200) e maestro (50), con i 25 denari al giorno di un bracciante, i 50 di un artigiano, i 150 di un abile pittore, ma nondimeno con la parcella di un avvocato, che percepiva tra i 250 e i 1000 denari a causa. Sempre difficile interpretare realisticamente numeri cronologicamente così lontani, ma il sospetto è che il “maestro elementare” – che Marrou non esita a definire un «povero diavolo» – non pasteggiasse con il pregiato vino Falerno, mezzo litro del quale costava 30 denari, ma con il vinello da tavola che costava tre volte di meno! D’altronde Marziale, poeta di età Flavia, disturbato dalla grida che un magister «volto odiato dai ragazzi e dalle ragazze» emette per mantenere la disciplina, si rivolge a lui dicendo con sarcasmo: «i soldi che prendi per gridare, li prenderesti per tacere?» (Marziale, Epigrammi, IX, 68, trad. S. Beta). Insomma: non sarebbe costato molto liberarsi di quel fastidioso rumore…

— Il primo dei due onorati è il grammaticus Lucio Orbilio Pupillo (113 a.C. –13 a.C.), originario di Benevento, che il più celebre dei suoi allievi – il poeta augusteo Quinto Orazio Flacco – definì plagosus (cioè «manesco, che arreca piaghe») in Epistulae 2, 1, vv. 70-713. Non è dunque strano che Orbilio sia divenuto perenne modello del docente conservatore e severo, tanto che in età illuministica si bollò come “Orbilianismo” l’eccesso di punizioni corporali proprio delle scuole gesuitiche. Tale immagine austera è confermata dal biografo Svetonio (De gramaticis, 9) che ci ricorda come il Nostro – cittadino romano a pieno diritto – abbia svolto con merito il servizio militare e si sia poi trasferito cinquantenne, sotto il consolato di Cicerone (nel 63 a.C.), a Roma, dove lavorò a lungo come grammatico «con una fama maggiore rispetto alla sua retribuzione» (maiore fama quam emolumento). Questa modesta condizione lo obbligò a vivere fino a età avanzatissima in un angusto sottotetto. Era povero, dunque, ma famoso, se – dice Svetonio, nel II secolo d.C. – «a Benevento, sul lato sinistro del Campidoglio, si vede un statua marmorea di lui seduto e vestito di un pallio, accanto a due scrigni», espressione che fa ipotizzare che il monumento fosse ancora visibile a un secolo dalla morte. Chissà se quell’onore gli era stato eretto in vita o post mortem? Nel primo caso, avrebbe un po’ lenito la sua amarezza per le continue lamentele


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L’evergesia di Plinio il Giovane

— In effetti – come già ho anticipato – le pressioni dei genitori paganti sui professori dovevano essere notevoli, con il consenso della pubblica opinione.A tale riguardo,il ricchissimo Plinio il Giovane, il quale – purché la sua Como avesse buoni docenti (presumibilmente grammatici o retori) reclutati in altre città – era disposto a pagare personalmente parte del loro stipendio, manifestò all’amico Tacito queste considerazioni: Prometterei anche di sostenere l’intera spesa, se non temessi che questo mio dono finirebbe, una volta o l’altra, per essere guastato dai favoritismi come vedo accadere in molte località, ove i professori sono nominati dalla pubblica amministrazione. A questo malanno v’è un rimedio: se viene lasciata ai soli genitori la facoltà di assumere i professori e costringerli a una scrupolosa scelta anche con l’obbligo di sopportarne la spesa. Giacché coloro che fossero poco scrupolosi del denaro altrui, lo saranno certamente del proprio; e si interesseranno perché solo chi è degno benefici del mio denaro, se ne riceverà anche da loro stessi» (Epistulae 4, 13, 6-8, trad. L. Rusca)4. In poche parole: se i genitori non ci mettono anch’essi un po’ di soldi non eserciteranno alcun controllo sugli insegnanti, proprio come avviene quando questi sono nominati dallo Stato. Ho – per varie ragioni – antica simpatia per Plinio, e perciò pur insegnando da sempre nella scuola statale evito anacronistici (quanto polemici) commenti a questo proposito!

L’eredità di Septiciano

— Si è appena accennato a Como (l’antica Comum), e proprio qui è stata trovata una massiccia base di statua (cm. 96 x 65 x 52, in marmo locale) fatta erigere da un ente pubblico (forse l’ordo dei decurioni, cioè il consiglio dei notabili locali) a vantaggio di un tal Publio Atilio Septiciano, definito grammaticus latinus: è lui il secondo professore di cui voglio parlare. Ecco il testo latino inciso sul monumento (edito in CIL V, 5278 = ILS 6729 = EDR161676, A. Ferraro), accompagnato dalla traduzione italiana dell’epigrafista Antonio Sartori5: P(ubli) Atili / P(ubli) f(ili) Ouf(entina tribu) / Septiciani / grammat(ici) Latini / 5 cui ord(o) Comens(ium) / ornamenta / decur(ionalia) decrevit / qui universam / substantiam / suam ad rem publ(icam) / 10 pertinere voluit. (Statua) di Publio Atilo Septiciano, figlio di Pu blio, della tribù Oufentina, grammatico latino, a cui il «senato» dei Comensi le insegne dei decurioni concesse; perché egli tutti quanti gli averi suoi alla comunità volle che toccassero. Publio Atilio Septiciano è un personaggio che sembra fatto apposta per creare dubbi negli studiosi. Egli ottenne infatti le insegne decurionali (divenne cioè “decurione onorario”) e l’erezione della statua, in quanto lasciò alla comunità tutti i suoi beni (universam substantiam suam); e se per la statua – onore comunque raro – abbiamo visto il precedente di Orbilio, la donazione dei beni al municipium è un gesto solitamente fatto da soggetti socialmente ben più alti di un semplice professore “di scuola media”. Una soluzione ai nostri dubbi potrebbe essere quella di ritenere che il termine grammaticus identifichi non un docente attivo nella schola grammatici, ma nella successiva schola rhetoris,

↑ Rilievo con una scena di vita scolastica romana, Rheinisches Landesmuseum, Treviri.

SAPERI / Vita da prof nella Roma antica

dei genitori dei suoi allievi (forse – a buon diritto – preoccupati dalle piaghe dei loro figli…) per difendersi dalle quali pubblicò addirittura un polemico pamphlet che si intitolava «Il tribolato».


in piccola parte supportata dalla schematicità del testo epigrafico. Eppure l’incrocio delle due fonti (letteraria ed epigrafica) e l’indubbio, insolito, prestigio del personaggio rendono questa suggestione non del tutto impossibile. E se fosse veritiera, poco importa se i beni lasciati in eredità da Septiciano ad rem publicam (cioè alle istituzioni, al «bene comune»…) fossero tanti o pochi, perché l’eredità maggiore da lui affidata alla collettività sarebbe stata quella culturale, fatta dalla sua devozione al mestiere e dalla sua lunga attività didattica; e sarebbe bello pensare che a spingere per l’erezione della statua oggi perduta siano stati numerosi ex alunni, che delle doti umane e professionali di Septiciano avevano fatto direttamente prova.

SAPERI / Vita da prof nella Roma antica

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La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

↑ Base di statua con iscrizione onoraria per il grammaticus Publio Atilio Septiciano (CIL V, 5278), Como, Civico Museo Giovio.

poiché talora, nella pratica, la differenza terminologica si attenuava. Pensare al nostro come a un retore, figura – come si è visto – di superiore rango sociale ne giustificherebbe meglio l’ingenuitas (è però vero che anche Orbilio era cittadino) e la floridezza economica. Purtroppo, però, non ci sono notizie sicure di una scuola di tale livello a Como, e dobbiamo dunque continuare a ritenerlo un grammaticus, detto latinus probabilmente perché nella sua scuola esisteva anche un professore di lingua greca. Ma la grafia epigrafica ci porta al II secolo d.C. avanzato, e allora perché non pensare a un insegnante giunto a Comum dopo che Plinio il Giovane aveva chiesto – nell’epistola già menzionata – all’amico Tacito di segnalargli qualche docente di buon livello? In tal caso sarebbe possibile immaginare che Septiciano fosse un forestiero, magari conosciuto da Tacito e poi in familiarità con Plinio, che alla docenza a Comum aveva dedicato l’intera esistenza, tanto da restare privo di legami familiari e da lasciare tutti i suoi beni alla città d’adozione. Si tratta – in tutta onestà – di un esercizio forse eccessivo di fantasia, perché questa ipotesi è solo

NOTE 1. Una recente sintesi sul sistema scolastico romano, con adeguata bibliografia, è in R. Lanfranchi, J. M. Prellezo, Educazione, scuola e pedagogia nei solchi della storia, vol. 1, LAS, Roma 2009, pp. 150-164.Ancora imprescindibili, però, il “classico” H.-I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Edizioni Studium, Roma 1971 (spec. pp. 353-383) e il ben documentato S. F. Bonner, L’educazione nell’antica Roma. Da Catone il Censore a Plinio il Giovane, Armando editore, Roma 1986. Un’antologia di testi commentati sulla scuola romana è M. Mortarino, M. Reali, G. Turazza, Loci scriptorum. Quintiliano e l’educazione a Roma, Loescher, Torino 2012. 2. Marrou, Storia, cit. p. 375. 3. Sulla figura di Orbilio utile la consultazione di G. Garuti, s.v. Orbilio, in Enciclopedia Oraziana, 1, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1996, pp. 832-834. Il passo di Svetonio che lo descrive – citato infra - è commentato in Mortarino, Reali, Turazza, Loci, cit., pp.23-25. 4. Sul profilo di Plinio il Giovane, da ultimo, si veda C. Moreschini, Plinio il Giovane, in AAVV, Storia di Como. Dalla romanizzazione alla caduta dell’impero (196 a.C. - 476 d.C.) 1, 2, Como 2013, pp. 259-268. La sua generosità verso i potenziali insegnanti di Como è indagata da A. Grilli, Cultura e scuola a Como in età romana, in AAVV, Atti del Convegno “Novum Comum 2050”, Como, 1993, pp. 259-266. 5.A. Sartori, Le iscrizioni romane. Guida all’esposizione, New Press, Como 1994, p. 48. Di Septiciano si parla diffusamente anche in Mortarino, Reali, Turazza, Loci, cit., pp. 34-35, dove già si ipotizza un suo legame con il “reclutamento” di Plinio, la cui lettera a Tacito ivi si commenta.

Mauro Reali docente di liceo, dottore di ricerca in Storia Antica, è autore di testi Lœscher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e direttore responsabile de «La ricerca».


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DOSSIER

È tempo di cambiare DOSSIER / È tempo di cambiare

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Forse l’Europa riuscirà a modificare la condizione professionale degli insegnanti italiani. Riflessioni su una riforma imminente. di Ubaldo Nicola

La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

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ei giorni in cui va in stampa questo numero de «La ricerca», il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha presentato le linee guida di un’imminente riforma della scuola. Sul tavolo vi è, in particolare, la condizione professionale degli insegnanti, con misure che riguardano il reclutamento, l’accesso alla docenza, la struttura della carriera e la formazione, sia quella precedente all’assunzione sia quella da svolgere in servizio. I provvedimenti specifici ancora non sono definiti, ma i princìpi ispiratori sembrano ben chiari, se non altro perché ribadiscono quelli già enunciati dai più recenti tentativi (la riforma Berlinguer nell’anno 2000 e la “Buona scuola” di Renzi) di modificare lo status professionale dei docenti, tutti clamorosamente falliti. Si prevede che i docenti, oltre a essere ovviamente laureati nelle materie di insegnamento, acquisiscano anche nozioni antropologiche e psicopedagogiche; che mettano alla prova le loro capacità didattiche in un periodo di tirocinio, e che le competenze così acquisite siano alla fine valutate, con la possibilità che l’assunzione a tempo indeterminato sia rifiutata, nel caso di un giudizio negativo.


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L’allora Presidente degli Stati Uniti e sua moglie ricevono alla Casa Bianca i candidati e le candiate al National Teacher of the Year, 2017, di cui diamo conto nel box a pagina 43. (foto Wikicommons).


La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

DOSSIER / È tempo di cambiare

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→ Pagina a fianco, in alto. Barack Obama assieme a Rebecca Mieliwocki, national teacher nel 2012 (foto Wikicommons). In basso. Juliana Urtubey, maestra elementare, vincitrice nel 2001 (Getty Images).

Si prevede che tutti i docenti continuino a studiare, anche dopo l’assunzione, in corsi formativi obbligatori, e che quelli più volonterosi, che in tale formazione si impegnano in privato, godano di speciali riconoscimenti, anche di tipo economico. Si prevedono infine accelerazioni di carriera legate non solo all’anzianità ma anche all’assunzione di nuovi ruoli nell’ambito scolastico (forse con il riconoscimento di nuove figure professionali), al fine di potenziare, si dice, il middle management dell’istituzione. Cioè, in altre parole, di riconoscere anche sul piano formale ed economico il ruolo essenziale svolto da quel 10% di professori, volonterosi ed entusiasti, che mantengono viva l’istituzione (la stima è spanno-metrica ma ben accreditata da molti addetti ai lavori). Per l’annosa questione dei precari, infine, si prevedono norme che da una parte facilitino il loro accesso ai concorsi, dall’altra ribadiscano la necessità di superare con successo questi ultimi per accedere alla professione. A me sembrano tutti princìpi giusti e riforme ben adatte al contesto italiano, anche se bisogna aspettare di vedere come saranno poi articolati in concreto. Non è questo però l’atteggiamento dei sindacati, che già da ora chiamano alla lotta, sia perché giudicano erronei e impraticabili tali princìpi, sia per non essere stati coinvolti come protagonisti essenziali nella progettazione della riforma. La Federazione dei Lavoratori della Conoscenza (FLC CGL) parla di «proposte irrealistiche e irricevibili», di un «decreto solo da respingere». Riuscirà l’Europa a modificare lo status dei docenti italiani? A rendere concreti i principi di selezione, meritocrazia e differenziazione fra insegnanti, sul cui rifiuto sono a suo tempo

naufragati i tentativi di Berlinguer e di Renzi? Forse sì, perché questa volta la riforma è non solo razionale e possibile, ma anche assolutamente necessaria, per lo meno se si vogliono incassare i fondi europei del Piano di Ripresa e Resilienza. Sarà quest’argomento, probabilmente, a travolgere le resistenze e a dettare tempi ristrettissimi nella formulazione dei provvedimenti (entro il 30 giugno), impedendo così di fatto ogni coinvolgimento dei docenti (oltre che dei loro sindacati) nella loro progettazione. Forse è la volta che si cambia davvero. Ma non mancano perplessità. L’esperienza passata dimostra che ogni riforma della scuola calata dall’alto e giudicata con favore solo da quel 10% di insegnanti entusiasti di cui si parlava finirà con l’essere snaturata e svuotata se non coinvolgerà una quota consistente del restante 90%, in cui si sommano pochi lavativi e molti scettici, delusi da un sistema che non offre occasioni per crescere, ma che abbraccerebbero volentieri la possibilità di mettersi alla prova. Che fare, quindi? Per quanto ci riguarda pubblichiamo in questo Dossier non opinioni ma dati e notizie su come di fatto gli insegnanti sono reclutati e poi valutati nel corso del servizio in altri Paesi, europei e non. Un’opera di aggiornamento che dovrebbe da sola, per lo meno nelle intenzioni, togliere dal campo molti argomenti basati non su giudizi di merito ma sul presupposto che certe proposte siano irrealistiche e irricevibili perché impossibili a realizzarsi o contrarie a qualche principio costituzionale. Valutare il lavoro degli insegnanti, ad esempio, è una prassi comune a molti Paesi, anche democratici, e le istituzioni educative internazionali propongono diversi modelli per realizzare tale obiettivo, anche

tenendo conto delle particolarità nazionali. Ma ci sono altre perplessità. Anche se la riforma si dimostrasse buona e fosse accompagnata da un dibattito corretto e coinvolgente (dico dei professori, non solo dei loro sindacati), l’effettivo status dei docenti italiani cambierà solo quando si riuscirà a modificare l’immagine sociale della loro professione. Le particolarità dell’Italia in questo ambito sono numerose, e tentiamo di darne conto nei box informativi che corredano il Dossier. Il nostro è fra i pochissimi Paesi che non prevedono alcun riconoscimento simbolico ai maestri e professori,compresa la Giornata Mondiale a loro dedicata dall’UNESCO, celebrata invece in ben 102 Stati (per averne la lista bisogna cercare in Wikipedia, ma nella versione inglese, non italiana). E la nostra avversione verso ogni forma di riconoscimento premiale dell’eccellenza professionale ci impedisce di adottare molte buone pratiche già ben sperimentate all’estero. Si consideri ad esempio il National Teacher Day, celebrato negli Stati Uniti dal 1952 (spiegato in dettaglio nel box a fianco). Tra le altre cose, è anche un modo per dar voce agli insegnanti, per selezionare un gruppo di rappresentanti della categoria da consultare quando si vuol mettere mano a riforme scolastiche o insorgono emergenze, come l’epidemia da Covid-19. Una pratica, quindi, che concerne anche il problema della rappresentanza, affrontato in Italia solo attraverso un confronto sindacale, la cui insufficienza è, a mio avviso, plateale.

Ubaldo Nicola redattore de La ricerca.


43 DOSSIER / È tempo di cambiare

Il National Teacher of the Year È il più importante premio professionale riversato agli insegnanti degli Stati Uniti. Esiste dal 1952 ed è promosso dalla Casa Bianca (dal Council of Chief State School Officer) al fine sia di segnalare a livello simbolico l’importanza e la dignità della professione docente, sia di diffondere in tutto il Paese le buone pratiche dell’insegnamento. Ogni anno, la selezione dei candidati avviene partendo dai livelli più bassi: dapprima sono gli studenti, i professori, i presidi o i genitori a segnalare localmente i casi di eccellenza e in base a questi report si eleggono 50 vincitori, Stato per Stato. Su questa rosa avviene poi la selezione di quattro candidati finali, operata da un comitato formato dai rappresentanti delle più importanti istituzioni, organizzazioni e associazioni pedagogiche. Pur non essendo mai stati ufficialmente formalizzati, i parametri riguardano i seguenti punti: 1) la capacità di coinvolgere gli alunni di ogni estrazione sociale e di valorizzare appieno le loro abilità; 2) l’atteggiamento di rispetto esercitato verso i colleghi, gli studenti e i genitori; 3) l’impegno nelle attività sociali e a favore della comunità; 4) lo sforzo nell’adempiere sino in fondo ai doveri connessi alla professione docente. Fra questi quattro candidati avviene poi la selezione finale, basata sia su interviste biografiche sia sull’analisi di progetti da loro presentati, in cui devono illustrare in che modo migliorerebbero l’istituzione scolastica se avessero il potere di farlo. È tradizione che i candidati siano solennemente ricevuti dal Presidente durante la premiazione, nel Giardino delle rose della Casa Bianca. Il vincitore gode di un anno di aspettativa straordinaria, in cui, pur ricevendo un regolare stipendio, è esentato dal lavoro in classe e impegnato a divulgare la sua esperienza e il suo progetto in un ciclo di conferenze nelle scuole di tutti gli Stati. Le spese e la gestione del tour sono sostenute dal Council of Chief State School Officers, un’organizzazione apartitica e senza scopo di lucro di funzionari pubblici e dirigenti dei dipartimenti dell’istruzione elementare e secondaria. I vincitori assumono anche un ruolo politico, perché vengono tradizionalmente consultati, se pure in via informale, nell’elaborazione di progetti istituzionali concernenti il mondo della scuola. A cura della redazione.


I modelli di carriera degli insegnanti

La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

DOSSIER / I modelli di carriera degli insegnanti

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Una rassegna di tutti i sistemi adottati in vari Paesi del mondo per strutturare la carriera dei docenti non solo in base agli anni di servizio già prestati. di Barbara Tournier, Chloé Chimier, David Childress, Ieva Raudonyte

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egli ultimi decenni si sono verificati alcuni cambiamenti importanti nel modo di concepire la carriera degli insegnanti. Per comprendere questi cambiamenti può essere utile ricorrere a una distinzione molto diffusa nella letteratura latinoamericana fra due tipi di carriera degli insegnanti: le carriere di prima generazione e quelle di seconda generazione (OREALC 2015). Le carriere di prima generazione includono quelle sviluppatesi tra i primi anni Cinquanta e la fine degli anni Novanta, parallelamente allo sviluppo del welfare state, e sono caratterizzate dal riconoscimento degli insegnanti come titolari di diritti del lavoro tutelati dallo Stato (Terigi 2010); gli insegnanti svolgono un servizio a lungo termine e basato sulla progressione verticale: possono essere promossi a posizioni amministrative o dirigenziali all’interno della scuola (come direttori scolastici, vicedirettori) o fuori dalla scuola (come ispettori, amministratori) e i entrambi i casi l’insegnamento non è più la loro attività principale.

Morduchowicz (2011) ha identificato alcuni elementi che caratterizzano le carriere di prima generazione. Tra i più importanti vi sono la sicurezza del lavoro, strutture salariali di base, aumenti automatici di stipendio e promozioni basate sull’anzianità e sulla certificazione di competenze piuttosto che sulle prestazioni. Le carriere di seconda generazione invece risalgono ai primi anni 2000 e riflettono la crescente influenza del modello neoliberista, in particolare dei sistemi di gestione basati sulle prestazioni e il trasferimento delle tecniche manageriali tipiche del settore privato al settore pubblico,che hanno comportato uno spostamento dell’interesse verso l’accountability, la valutazione e la retribuzione in base al merito. Nel settore dell’istruzione si è fatta strada l’idea che la valutazione delle prestazioni degli insegnanti sia una questione fondamentale per migliorare la qualità dell’istruzione. In questo tipo di carriera, il lavoro degli insegnanti è organizzato intorno ai principi di efficienza e accountability. Due sono le conseguenze fon-

damentali: retribuzioni diverse per diversi livelli di prestazione, e la perdita della sicurezza del lavoro. Nella maggior parte dei casi, gli insegnanti con prestazioni valutate come scarse non possono rimanere nella professione senza che siano intraprese azioni correttive. Il Perù offre un buon esempio di passaggio dalle carriere di prima a quelle di seconda generazione: una serie di leggi introdotte a partire dal 1984 hanno allontanato il paese da un sistema legato all’anzianità per avvicinarlo a un sistema basato sulla prestazione. La scala salariale – accompagnata da valutazioni obbligatorie – che prima prevedeva cinque livelli ora ne prevede ben otto.

Modelli di carriera

— All’interno delle due macro distinzioni fra carriere di prima e di seconda generazione possiamo ulteriormente distinguere quattro modelli di carriera. Questa modellizzazione è stata sviluppata da Crehan (2016) e sebbene semplifichi necessariamente sistemi e strutture complesse, ci permette di evidenziare gli elementi tipici nell’organizzazione


Accesso e carriera professionale dal Rapporto Eurydice Teachers’ and School Heads’ Salaries and Allowances in Europe 2019/20

45 derata un dovere professionale e, spesso, gli insegnanti hanno l’obbligo di frequentare un minimo di ore all’anno di attività formative. I Paesi hanno sviluppato numerosi incentivi e misure di sostegno per incoraggiare la partecipazione, come corsi gratuiti, la possibilità di prendere parte alle attività di formazione durante l’orario di lavoro, aumenti di stipendio e promozioni. Le scuole sono normalmente coinvolte a vari livelli nella definizione dei bisogni e delle priorità della formazione continua, il che può aiutare i soggetti erogatori della formazione a rispondere più adeguatamente alle specifiche esigenze formative degli insegnanti. Ulteriori misure di sostegno per lo sviluppo e il miglioramento delle pratiche professionali sono disponibili per gli insegnanti nella maggior parte dei Paesi europei. Tale sostegno può essere offerto nelle

scuole da professionisti specializzati, insegnanti qualificati o capi di istituto. È anche diffuso in tutta Europa un sostegno specifico per far fronte ad altre situazioni problematiche della professione docente come, ad esempio, problemi personali, conflitti interpersonali o l’insegnamento ad alunni con difficoltà di apprendimento. La metà dei sistemi d’istruzione europei ha un sistema di progressione di carriera basato su una struttura di carriera multilivello, mentre l’altra metà ha una struttura di carriera piatta in cui gli insegnanti non possono passare a livelli di carriera superiori. La Germania è l’unico paese in cui esistono entrambi i tipi di struttura di carriera, ma quella multi livello è limitata agli insegnanti di scuola secondaria superiore. Traduzione a cura della redazione.

DOSSIER / I modelli di carriera degli insegnanti

→ Manifestazione sindacale degli insegnanti (foto Wikicommons).

Il principale percorso per divenire insegnante inizia comunemente con il completamento della formazione iniziale. In quasi la metà dei sistemi educativi, gli insegnanti sono pienamente qualificati al termine della formazione iniziale. Nei rimanenti 23 sistemi sono richiesti step aggiuntivi. In 6 Paesi, agli insegnanti viene richiesto di superare un concorso e in 17 sistemi i laureati della formazione iniziale devono dimostrare la loro capacità di insegnare tramite un processo di accreditamento, certificazione, registrazione o esame nazionale. Un terzo dei sistemi educativi offre percorsi alternativi per abilitarsi come insegnanti. Questi sono normalmente organizzati o come programmi professionali brevi oppure come programmi basati sul lavoro. Quasi i tre quarti dei sistemi educativi prevedono un sistema di reclutamento aperto, decentralizzando così questo processo e riconoscendo alle scuole e alle autorità locali l’autonomia di nominare i propri insegnanti. Nei rimanenti, le autorità educative svolgono un ruolo nel processo di reclutamento. Possono assegnare gli insegnanti a una scuola in base ai risultati di un concorso nazionale, e/o possono formare una graduatoria di insegnanti sulla base di criteri definiti. Lo sviluppo professionale continuo è fortemente incoraggiato in tutti i Paesi europei. Nella stragrande maggioranza dei sistemi educativi, la formazione continua è consi-


La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

DOSSIER / I modelli di carriera degli insegnanti

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delle carriere degli insegnanti. Il modello tipico delle carriere di prima generazione è quello dello stipendio unico, in cui la differenziazione e la promozione degli insegnanti avviene in base all’anzianità e all’esperienza, non alle prestazioni. Gli altri tre modelli, invece, sono di seconda generazione, e stabiliscono una differenziazione tra gli insegnanti in base a una valutazione delle loro prestazioni, prevedendo rispettivamente un sistema di bonus, una progressione salariale basata sulla valutazione e una scala di carriera.

Il modello del salario unico

— Il modello del salario unico è ancora il più comune nel mondo. In questo sistema le promozioni si basano sugli anni di esperienza e i titoli accademici maturati dagli insegnanti, che non sono correlati necessariamente alla qualità della loro attività didattica (Bruns, Filmer e Patrinos 2011): lo stipendio aumenta di anno in anno, indipendentemente dal fatto che i docenti migliorino o meno la loro didattica. Questo modello ha diversi vantaggi, ma anche molte carenze.Il primo grande vantaggio è che non pone una differenza tra insegnanti, i quali progrediscono tutti allo stesso ritmo. Dal punto di vista della gestione questo rende il sistema facile da amministrare e non richiede un sistema di valutazione complesso e costoso, per il quale spesso non vi sono abbastanza risorse economiche e umane. Inoltre le buste paga e l proiezioni di salario sono relativamente semplici, rendendo anche la pianificazione economica più facile. Per gli insegnanti questo modello è spesso associato a una sicurezza del lavoro a vita. Inoltre non instaura rapporti di reciproca competizione, garantendo quindi un ambiente favorevole alla collaborazione.

Tuttavia, mentre alcuni docenti sono contrari alla modifica del piano salariale unico proprio per questi motivi, altri lamentano una mancanza di sviluppo professionale dal ricevere aumenti salariali in base agli anni di servizio. Gli insegnanti ad alto rendimento spesso si demotivano nel vedere colleghi meno impegnati e con un rendimento più basso ricevere lo stesso aumento automatico di stipendio (Bennell e Akyeampong 2007). La mancanza di una progressione di carriera che permetta allo stesso tempo agli insegnanti di rimanere in classe è un altro fattore demotivante. Nel modello del salario unico la promozione è verticale,e comporta l’interruzione dell’insegnamento per assumere incarichi amministrativi (Las Vegas 2005). Questa mancanza di riconoscimento e di sviluppo della carriera, oltre a influenzare la motivazione di coloro che già lavorano, può dissuadere potenziali insegnanti dal prendere in considerazione questa professione.

Il modello del bonus

— Alcuni modelli di carriera premiano gli insegnanti con ricompense economiche una tantum per aver ottenuto un determinato risultato. I meritevoli sono identificati utilizzando una delle varie forme di misurazione delle prestazioni (come i risultati degli studenti, le osservazioni in classe o i colloqui con colleghi e con i presidi) e ricevono un bonus o un supplemento di stipendio per un periodo limitato.Questo strumento introduce quindi un collegamento diretto, rapido e temporaneo tra performance e ricompensa economica. Il sistema dei bonus è stato ampiamente discusso e la letteratura a proposito si è divisa (Fryer 2013). Alcuni esperti sottolineano che ha migliorato i risultati di apprendimento degli studenti a breve termine, lodando gli aspetti pratici che lo

rendono facili da implementare. Altri affermano che è inefficace e che mina la motivazione intrinseca dei docenti. Dal punto di vista della gestione amministrativa, il modello del bonus ha il vantaggio di essere una soluzione rapida. Non richiede l’approvazione di una nuova normativa (a differenza della promozione basata sulle competenze) e non modifica la gestione amministrativa dei salari. Di conseguenza è facile da applicare, regolare e, se necessario, interrompere. I Paesi che cercano una strategia rapida per introdurre incentivi alla performance nella progressione salariale degli insegnanti spesso si orientano in prima battuta verso questa soluzione. Nei Paesi che dispongono di sistemi di valutazione degli studenti, il bonus offre un modo per collegare lo stipendio dell’insegnante direttamente alla performance generalmente più considerata: i progressi nell’apprendimento degli studenti. Ma questo sistema è afflitto da problemi di misurazione (come si fa a confrontare i voti degli studenti tra materie e classi di età diverse?) e da conseguenze non intenzionali, come casi di insegnanti che insegnano ai ragazzi soprattutto a superare i test, il cosiddetto teaching to the test, o che barano per migliorare qualunque misura venga poi premiata con un bonus (Crehan 2018). Oltre a sottoporre gli insegnanti a stress, la retribuzione basata sui risultati degli studenti è stata aspramente criticata anche perché disincentiva la collaborazione ed è considerata da molti ingiusta verso coloro che lavorano in scuole “difficili” e in contesti con uno svantaggio di partenza. Anche se alcuni esperti indicano migliori risultati degli studenti e aspetti pratici che rendono il bonus più facile da implementare, questo modello è dunque considerato meno promettente di altri.


La retribuzione dei professori in Europa dal Rapporto Eurydice Teachers’ and School Heads’ Salaries and Allowances in Europe 2019/20

ziali differenze tra i Paesi europei. A seconda del Paese, infatti, gli stipendi iniziali possono aumentare durante la carriera di un insegnante dal 12% (in Turchia) al 116% (in Portogallo). Il numero medio di anni necessari per raggiungere il massimo della fascia salariale va, inoltre, dai 12 anni in Danimarca ai 42 anni in Ungheria. In Irlanda, Paesi Bassi e Polonia, gli stipendi iniziali degli insegnanti possono aumentare di oltre il 60% nei primi 15 anni di servizio e anche di più negli anni successivi. Per esempio, nei Paesi Bassi gli stipendi iniziali aumentano di più del 76% già nei primi 15 anni di servizio e fino al 105% negli anni successivi. Anche in altri Paesi l’aumento percentuale totale è elevato, ma è tuttavia necessaria una lunga anzianità di servizio per raggiungere il massimo della scala retributiva. In Portogallo, ad esempio, lo stipendio finale è più del doppio di quello iniziale ma gli insegnanti arrivano a percepirlo solo dopo 34 anni di servizio. In Francia, per fare ancora un altro esempio, gli stipendi iniziali aumentano del 70% con 29 anni di servizio. Ci sono poi Paesi, e questo è anche il caso dell’Italia, in cui gli in-

segnanti hanno bisogno di una significativa anzianità di servizio per raggiungere aumenti di stipendio piuttosto modesti. Nel nostro Paese, infatti, gli stipendi iniziali degli insegnanti possono aumentare di circa il 50% solo dopo 35 anni di servizio. Infine, per quanto riguarda i cambiamenti negli stipendi tabellari durante gli ultimi anni, dal rapporto risulta che nel 2018/19 e 2019/20 gli insegnanti hanno visto aumentare i propri stipendi nella maggior parte dei sistemi educativi, anche se gli aumenti sono stati generalmente modesti o indicizzati all’inflazione. Tra il 2014/15 e il 2019/20, in un quarto dei sistemi educativi analizzati, gli stipendi iniziali degli insegnanti adeguati all’inflazione sono risultati invariati o addirittura inferiori. Gli aumenti più consistenti negli ultimi cinque anni si riscontrano, invece, in diversi Paesi dell’Europa centrale e orientale (Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia e Romania), nonché in Islanda e in Serbia. In Italia, esattamente come in Francia, sono rimasti sostanzialmente uguali. Traduzione a cura della redazione.

47 DOSSIER / I modelli di carriera degli insegnanti

→ Manifestazione sindacale degli insegnanti (foto Wikicommons).

Emergono significative differenze tra i Paesi europei negli stipendi di base degli insegnanti all’inizio della loro carriera, che possono infatti variare, a seconda del paese, da 5.000 a 80.000 € lordi all’anno. Il livello salariale effettivo è fortemente correlato allo standard di vita misurato in termini di prodotto interno lordo (PIL) pro capite di un paese, ovvero più alto è il PIL pro capite, maggiore è lo stipendio medio annuo. In quattro Paesi UE (Bulgaria, Ungheria, Polonia e Romania) lo stipendio di base degli insegnanti neoassunti è al di sotto di 9.000 euro annui. Stipendi molto bassi si registrano anche in Albania, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord, Serbia e Turchia. Tutti questi sono, infatti, Paesi con PIL pro capite molto bassi. In altri otto Paesi UE (Grecia, Repubblica Ceca, Estonia, Croazia, Lettonia, Lituania, Slovenia e Slovacchia) gli stipendi iniziali di base sono al di sotto dei 20.000 euro annui. Gli stipendi iniziali degli insegnanti italiani si collocano, insieme a quelli dei colleghi francesi, portoghesi e maltesi, nel range tra 22.000 e 29.000 € lordi annui. Ancora più alti, ossia tra 30.000 e 49.000 euro, sono quelli degli insegnanti in Belgio, Irlanda, Spagna, Paesi Bassi, Austria, Finlandia, Svezia, Islanda e Norvegia. Infine, stipendi superiori a 50.000 euro si registrano in Danimarca, Germania, Lussemburgo, Svizzera e Liechtenstein, tutti Paesi con un PIL pro capite alto. Anche per quanto riguarda l’importo e il tempo necessario per gli aumenti di stipendio correlati alla progressione di carriera, si registrano sostan-


Progressione salariale e valutazione

— Un terzo modello di carriera prevede un sistema in cui la progressione salariale è subordinata alla valutazione. In questo caso gli stipendi hanno scatti salariali che dipendono dal superamento di una valutazione. La scala degli stipendi può consistere in un numero di livelli o gradi diversi e il periodo di tempo tra le valutazioni può variare da sei mesi a più di quattro anni. Dopo aver ottenuto una valutazione positiva gli insegnanti accedono a livelli salariali più elevati ma l’aumento non è associato a responsabilità aggiuntive o a un nuovo status. Questo sistema garantisce che gli insegnanti poco efficienti non progrediscano nella scala salariale allo stesso ritmo dei colleghi con performance migliori. In questo modo si supera il problema della motivazione posto dal modello dello stipendio unico: segnalando una traiettoria di carriera a lungo termine aumenta l’attrattività della professione (Bruns e Luca 2014). Tuttavia, come già accennato, il principale svantaggio è che la progressione salariale legata alla valutazione richiede un solido sistema di valutazione e la disponibilità di risorse economiche e umane altamente qualificate. L’introduzione di modifiche a questo modello una volta implementate può essere politicamente e amministrativamente molto complicato. Infine, perché funzioni, gli insegnanti stessi dovrebbero riconoscere la validità del processo di valutazione e considerare il sistema come giusto, trasparente ed equo.

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DOSSIER / I modelli di carriera degli insegnanti

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→ Pagina a fianco. Due momenti della cerimonia del giuramento degli insegnanti, Singapore, 2018 (foto Wikicommons).

Il modello della scala di carriera

— Il quarto e ultimo modello è quello della scala di carriera, in cui la paga dell’insegnante avanza fino a un certo punto, ol-

tre il quale bisogna superare una valutazione (se si vuole ottenere una promozione) e assumere un ruolo che comporta responsabilità aggiuntive. La promozione a nuovi ruoli e titoli può basarsi esclusivamente sulla valutazione o può essere stabilita dalla combinazione di valutazione e requisiti di qualificazione o formazione aggiuntivi legati al nuovo ruolo. Nel modello della scala di carriera la mobilità può essere sia orizzontale (gli insegnanti sono promossi a livelli di insegnamento più avanzati e la didattica in aula rimane fondamentale) sia verticale (sono promossi a posizioni amministrative o dirigenziali e spesso smettono di insegnare). Nei sistemi più innovativi la progressione di carriera prevede sia la mobilità orizzontale sia quella verticale, ed è generalmente definita come percorso di carriera. Il sistema più comunemente citato è quello di Singapore, in cui gli insegnanti possono scegliere fra tre percorsi: 1) il percorso didattico; 2) il percorso dirigenziale, con funzioni collegate alla gestione e alla leadership delle scuole; 3) il percorso specialistico senior, per chi fa ricerca in campi specialistici dell’istruzione, dove sono essenziali conoscenze e competenze particolarmente approfondite. Il percorso didattico offre al suo interno opportunità di sviluppo professionale e di avanzamento. Gli insegnanti possono specializzarsi e diventare docenti senior, che fanno da mentore agli insegnanti al primo o secondo anno di insegnamento, supervisionano i tirocinanti ecc. Il passaggio successivo è quello di docenti guida, che aiutano gli insegnanti e gli insegnanti senior nei contenuti e nella valutazione. Infine, i docenti master lavorano in più scuole e guidano lo sviluppo professionale e le innovazioni scolastiche. La posizione più alta è quella di capo

dei docenti master (principal master teacher) che assume funzioni di guida in specifiche discipline in tutto il Paese. Gli insegnanti sono guidati, sostenuti e valutati in questo loro viaggio attraverso i vari percorsi, che possono anche intersecarsi con passaggi da uno all’altro. Il Ministero dell’istruzione fornisce pacchetti formativi per lo sviluppo professionale e gli insegnanti hanno la possibilità di andare in formazione per un anno o un anno e mezzo. Il modello della scala di carriera è percepito come particolarmente vantaggioso perché consente agli insegnanti di assumere il controllo del loro sviluppo professionale e di candidarsi a nuove posizioni senza dover necessariamente abbandonare l’aula. La promozione a posizioni superiori consente il riconoscimento della loro competenza, premia l’eccellenza e aumenta la loro autonomia. Tratto da: Barbara Tournie,Chloé Chimier, David Childress, Ieva Raudonyte, Teacher career reforms: Learning from experience, International Institute for Educational Planning, 2019, www.iiep.unesco.org. Traduzione di Francesca Nicola. La versione corredata di bibliografia sarà pubblicata online su La ricerca all’indirizzo www.laricerca.loescher.it.

Barbara Tournie è Programme Specialist per UNESCO.

Chloé Chimier è Associate Programme Specialist per UNESCO.

Ieva Raudonytė è Education Researcher per UNICEF.


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Alla fine del ciclo di studi e prima di intraprendere la professione, in alcuni Paesi gli insegnanti devono pronunciare un giuramento deontologico, così come accade per i medici. Il modello di tale giuramento socratico, messo a punto nel 1993 dall’educatore tedesco Hartmut von Hentig, ribadisce una lunga serie di principi educativi fondamentali, come l’impegno a rispettare l’unicità di ogni bambino, a difendere la sua integrità fisica e mentale, ad ascoltarlo, a prenderlo sul serio, a cercare il suo consenso come si fa con gli adulti, sostenendone lo sviluppo e promuovendo le sue potenzialità. In realtà, molti Paesi in cui tale pratica è in vigore adottano diverse versioni del giuramento: quello in vigore in Finlandia, ad esempio, è noto come Giuramento di Comenio, mentre in India si segue una formulazione suggerita da Abdul Kalam, l’undicesimo Presidente della nazione, dal 2002 al 2007, universalmente noto come il “presidente del popolo” per il suo impegno nelle questioni sociali. La cerimonia del giuramento assume un tono solenne nei Paesi del Sud Est asiatico, a Singapore e nelle Filippine, come ben illustrano le due fotografie in questa scheda. Sono però gli Stati Uniti il Paese in cui tale pratica ha una storia più lunga e ha sviluppato le maggiori riflessioni, anche di tipo critico. Messa in atto per la prima volta nel lontano 1863, oggi è in vigore in quasi due terzi degli Stati dell’Unione. Nella prima metà del secolo scorso, alcune formule del giuramento impegnavano i docenti a non aderire a sette sovversive e a non insegnare dottrine antiamericane, e quest’impostazione politica fu poi esacerbata nei primi anni della Guerra fredda, nel clima di esasperato patriottismo noto come maccartismo. Nel 1961 un pronunciamento della Corte Suprema ha stabilito che le formule dei Teacher Oath non possono essere in contrasto con i diritti sanciti dal Primo Emendamento, relativo alla libertà di pensiero e di espressione, ma ha anche ribadito la costituzionalità dei giuramenti che impegnano gli insegnanti a sostenere lo Stato e i principi sanciti dalle Costituzioni federali. A cura della redazione.

DOSSIER / I modelli di carriera degli insegnanti

Il giuramento professionale degli insegnanti


Gli strumenti di valutazione dei docenti

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DOSSIER / Gli strumenti di valutazione dei docenti

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Si può giudicare il lavoro degli insegnanti? Una sintesi di tutti i sistemi escogitati per risolvere questo problema in vari Paesi, tenendo presente le differenze del contesto sociale. di Artemio Cortez Ochoa, Sally Thomas, Leon Tikly, Helen Doyle

I

menti.

sistemi di valutazione degli insegnanti diffusi nel mondo utilizzano un’ampia gamma di stru-

Osservazioni in classe

— Le osservazioni in classe sono le fonti di dati sulla qualità dell’insegnamento più diffuse nei Paesi dell’OCSE, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (CDE 2015, Isoré 2009). Sono generalmente supportate dagli insegnanti e considerate estremamente utili per accertarne le esigenze di sviluppo professionale continuo,sebbene non sembrino essere correlate in modo particolarmente stretto con un aumento dei punteggi dei test dei loro studenti (Murphy 2013). In ogni caso offrono un feedback costruttivo, che altre fonti di dati non prevedono, e questo ha dimostrato di migliorare l’efficacia dell’insegnamento a lungo termine (Murphy 2013). Teddlie e Reynolds (2000) sostengono che la qualità dell’istruzione può essere valutata solo attraverso l’osservazione

diretta in aula, sia di persona sia videoregistrata. Due esempi di osservazioni registrate sono la parte video del portfolio nella certificazione degli insegnanti NBPTS (National Board for Professional Teaching Standards) e le lezioni preparate e videoregistrate per la valutazione degli insegnanti in Cile. Le osservazioni videoregistrate sono state utilizzate anche per l’indagine TIMSS (Trends in International Mathematics and Science Study) e per il progetto Measures of Effective Teaching (MET) (Martínez Rizo 2016). Sono strumenti particolarmente utili nei Paesi a basso reddito e difficilmente accessibili, soprattutto per quanto riguarda le aree rurali. Una revisione della letteratura (Martinez,Taut e Schaaf 2016) ha analizzato 16 casi in sei Paesi (Singapore, Giappone, Cile, Stati Uniti, Australia e Germania) in cui le osservazioni in classe sono utilizzate come parte della valutazione degli insegnanti. Nel loro campione la conoscenza dei contenuti, la capacità di pianificare le lezioni, di tenere conto delle caratteristiche degli studenti e di valutare l’apprendimento sono gli elementi più

spesso valutati. […] L’affidabilità è una delle principali problematiche delle osservazioni in classe (Papay 2012), tanto che per alcuni ricercatori queste non dovrebbero avere troppa importanza in un processo di valutazione formale (Murphy 2013). Al fine di aumentarne l’affidabilità, si raccomanda che siano effettuate da più di un valutatore (Kane e Douglas 2012) ben addestrato, interno ed esterno (per ridurre la possibilità di risultati distorti) e che incorporino osservazioni multiple effettuate lungo un certo arco di tempo (Darling-Hammond 2012). Marzano e Toth (2013) suggeriscono che quattro osservazioni in un anno scolastico sono poche per trarre conclusioni sulla performance di un insegnante. Il grado di correlazione tra i valutatori, (la differenza tra due o più valutatori), l’errore di campionamento (la differenza tra diverse osservazioni) e l’errore di misurazione (l’imprecisione di ciò che viene valutato e del livello di complessità utilizzato in un compito didattico) sono latenti in qualsiasi protocollo di osservazione. Confrontando le valutazio-


La valutazione degli insegnanti negli Stati Uniti

alla sua pratica professionale, dalla quale si dimostra il raggiungimento di standard sia nel lavoro in classe (attraverso videoregistrazioni, foto, campioni dei lavori fatti ecc.), sia nelle relazioni con le famiglie, i colleghi e la comunità locale (con specifici riscontri e testimonianze). Una seconda parte consiste in quattro prove scritte, predisposte dai centri di valutazione, attraverso le quali i docenti dimostrano conoscenze, competenze, abilità e predisposizione nel proprio campo di certificazione. La valutazione è fatta da insegnanti che hanno frequentato corsi intensivi di formazione e che sono stati accreditati per svolgere questa attività. La certificazione può aumentare lo stipendio o rendere un candidato più idoneo a essere assunto. Questo perché gli stipendi degli insegnanti variano non soltanto in base allo Stato, ma anche in base al profilo del docente. La paga aumenta ogni anno e se si frequentano corsi di aggiornamento con crediti universitari: più anni di esperienza e più titoli di studio comportano uno stipendio più alto. Lo stato dove lo stipendio è maggiore è quello di New York (80 mila dollari annui circa), e in particolare di Long Island e di Westchester, zone molto ricche dove gli abitanti pagano molte tasse per le scuole, che di conseguenza hanno a disposizione abbondanti fondi. Trovare un posto in queste scuole non è facile, perché la concorrenza è alta. Gli stipendi sono basati su 10 mesi di lavoro, 35 ore al giorno per 5 giorni. Gli insegnanti sono pagati

ogni due settimane da giugno a settembre e non ricevono paga a luglio e ad agosto. In media hanno 15 giorni di malattia l’anno e 3 giorni di permesso. Non sono pagati per malattie a lungo decorso e se si ammalano per molto tempo o hanno un bambino rimangono a casa senza paga. I supplenti sono pagati a giornata senza benefici (per esempio non hanno l’assicurazione sanitaria). Gli incarichi nelle scuole statali sono triennali, annuali in quelle private e sono sempre rinnovabili. Oltre alle valutazioni volontarie, negli ultimi anni si sono imposte forme di valutazione annuale degli insegnanti, soprattutto in seguito al programma Race to the Top (RTTT), la riforma della scuola voluta da Barack Obama, che fra le altre cose chiedeva agli Stati candidati di sviluppare nuovi rigorosi sistemi di valutazione degli insegnanti. I sistemi di valutazione variano da Stato a Stato, ma la maggior parte utilizza la misurazione del rendimento degli studenti in test standardizzati somministrati annualmente agli studenti e osservazioni dell’insegnante all’opera (due all’anno, una per ogni semestre) da parte dei presidi o di osservatori esterni. Queste valutazioni influiscono sulla paga degli insegnanti attraverso aumenti dello stipendio base, blocchi salariali per prestazioni basse e bonus. In molti casi, per gli insegnanti che ricevono valutazioni basse è previsto il blocco dello stipendio, e talvolta il licenziamento. A cura della redazione.

51 DOSSIER / Gli strumenti di valutazione dei docenti

Negli Stati Uniti il titolo minimo per accedere all’insegnamento è il bachelor’s degree (laurea di primo livello, equivalente alla nostra laurea triennale). I percorsi master, o biennali secondo il nostro sistema, sono indispensabili solo per gli scatti di carriera e di stipendio. Per insegnare bisogna essere abilitati dallo stato in cui s’insegna. L’abilitazione è conseguita mediante la frequenza di un Master postlaurea della durata media di diciotto mesi, e la cui validità è limitata allo Stato che la rilascia. Si possono però conseguire anche altre attestazioni di eccellenza nell’insegnamento che non sostituiscono l’abilitazione statale, ma sono molto apprezzati dalle scuole. Il più riconosciuto è il National Board Certification, rilasciato dal National Board for Professional Teaching Standards (NBPTS), un’organizzazione non profit e indipendente (autonoma dai partiti) creata nel 1987 e diretta da un consiglio di amministrazione di 63 membri, la maggioranza dei quali insegnanti, che si prefigge di innalzare gli standard professionali dei docenti e di certificare coloro che li raggiungono. La certificazione è volontaria, e integra, ma non sostituisce, i sistemi statali di licenza obbligatoria; a differenza degli standard legati all’abilitazione, che variano da stato a stato, è uniforme in tutto il paese. La durata va da cinque agli otto anni e il processo per ottenerla si articola in due parti. La prima è rappresentata da un portfolio, ossia da una raccolta documentale costruita dal candidato relativa


ni sull’efficacia didattica degli insegnanti da parte dei presidi con le misure del valore aggiunto degli insegnanti [il modello di valutazione del docente sulla base dei punteggi realizzati dagli studenti, N.d.T], Harris, Ingle e Rutledge (2014) hanno sostenuto che anche la validità dell’osservazione in classe è controversa, poiché i dirigenti scolastici tendono a concentrarsi soprattutto sulle caratteristiche degli insegnanti e in particolare sul contributo che danno alla comunità scolastica. Ad esempio gli insegnanti che si isolano dagli altri tendono a ricevere punteggi più bassi rispetto a quelli che ottengono utilizzando come strumento di misurazione il punteggio nei test dei loro studenti. Martínez e altri (2016) hanno notato inoltre un’importante differenza rispetto a ciò che viene osservato e valutato in Asia e negli Stati Uniti.Mentre in Giappone e a Singapore si tendono a osservare gli atteggiamenti e le competenze degli insegnanti nel «prendersi cura dell’alunno nel suo complesso, nel conquistare il loro cuore,la loro mente e la loro fiducia», negli Stati Uniti ci si concentra sulle capacità didattiche come le «tecniche di interrogazione, di gestione della classe, e di identificazione dei progressi didattici nei vari sottogruppi». Pertanto le osservazioni in classe dovrebbero essere coerenti con il sistema di valutazione e con la cultura in cui vengono implementate.

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DOSSIER / Gli strumenti di valutazione dei docenti

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Colloquio, dialogo e valutazione con i colleghi e le autorità scolastiche

→ Pagina a fianco. Keishia Thorpe, ultima vincitrice del Global Teacher Prize, 2021 (foto in twitter.com).

— Uno degli approcci più antichi alla valutazione degli insegnanti è il dialogo formale e informale con il preside della scuola. Negli Stati Uniti il sistema Praxis III si serve di questo metodo dal 1988 (Rizo 2016). I colloqui occasionali con gli insegnanti sono una caratteri-

stica dei sistemi educativi in cui gli ispettorati sono molto presenti,per esempio in Inghilterra (Santiago e Benavides 2009), e in genere sono associati alle osservazioni in classe (Darling-Hammond 1983). In Cile gli insegnanti vengono co-valutati da un collega dello stesso livello attraverso un’intervista strutturata, uno strumento che rappresenta il 20% della valutazione complessiva (Docentemás 2017).

Test agli insegnanti —

Questo strumento di valutazione è usato molto raramente. Nella maggior parte dei contesti in cui è impiegato ha come scopo accertare le competenze dei neo-qualificati o dei potenziali insegnanti. Ad esempio nel Regno Unito sono somministrati test per verificare che coloro che vogliono formarsi come insegnanti abbiano competenze di base di matematica e di cultura generale, indipendentemente dalla loro specializzazione (CDE 2015). Tuttavia, i test per insegnanti sono utilizzati anche per altri scopi: ad esempio, coloro che vogliono una certificazione NBPTS devono sostenere un test relativo al contenuto della materia che vogliono insegnare. In Cile gli insegnanti che partecipano al programma di incentivi e di bonus AVDI affrontano un esame sul contenuto della loro materia e su fondamenti della pedagogia (MINEDUC 2017). In Messico, dopo l’ultima riforma dell’istruzione, i test sono stati introdotti in varie fasi della carriera dei docenti: sono previsti per accedere all’insegnamento, per ottenere l’incarico al termine del primo e del secondo anno; come perizia periodica obbligatoria ogni quattro anni; per ricoprire incarichi di dirigente scolastico, consulente tecnico e pedagogico o supervisore scolastico e per il programma nazionale di bonus e incentivi (DOF 2013).

Valutazione tra pari

— La valutazione fra pari è un altro strumento particolarmente efficace per individuare i bisogni legati allo sviluppo professionale continuo (CDE 2015; Muijs 2005), sebbene non sia particolarmente utile come strumento per valutare la qualità dei singoli insegnanti. Viene spesso utilizzato come parte di un programma in cui gruppi di insegnanti pianificano lezioni e sequenze di lezioni in modo collaborativo,osservando il reciproco svolgimento di queste lezioni, come avviene nel programma giapponese Lesson Study (Muijs 2005), in cui gli insegnanti sono continuamente impegnati a osservare le lezioni dei colleghi e a discuterne con loro e con altri educatori per determinarne l’efficacia. Il vantaggio di questo strumento è che è essenzialmente formativo, per cui gli insegnanti possono essere più aperti nel mostrare i loro bisogni professionali, ottenendo così un riscontro significativo sulla loro attività didattica. Lo svantaggio è che non può essere implementato in assenza di una cultura dell’osservazione tra pari. Richiede inoltre una leadership consolidata e una certa collegialità. L’assegnazione del tempo per l’osservazione in classe deve essere negoziata per evitare interruzioni nel servizio educativo fornito agli studenti da parte degli insegnanti che assumono il ruolo di osservatori.

Il portfolio dell’insegnante

— Il portfolio dell’insegnante è una raccolta di materiali assemblati dagli insegnanti che attesti le loro pratiche pedagogiche, le loro attività scolastiche e i progressi dei loro studenti (Goe, Bell e Little 2008). Può fornire ritratti completi dei singoli insegnanti e consente una definizione più ampia


dell’insegnamento efficace, poiché non si limita ai dati raccolti in classe o ai risultati degli studenti. Nell’NBPTS attualmente è richiesto un portfolio digitale. In generale, gli insegnanti devono includere video e campioni del lavoro degli studenti (NBPTS 2017). In Cile il portfolio include 1) la descrizione di un piano di lezione di 8 ore e la risposta a un questionario; 2) il video di una lezione di 40 minuti (Docentemás 2017). Fino al 2016 in Messico gli insegnanti dovevano elaborare un portfolio che includeva: 1) quattro campioni del lavoro degli studenti; 2) una riflessione sul lavoro degli studenti, compreso il contesto, le strategie didattiche utilizzate e la valutazione e il feedback dati agli studenti (SEP 2016). Gli insegnanti generalmente apprezzano l’uso di questo strumento come parte della gestione delle loro prestazioni (Villafuerte 2015), perché offre la possibilità di decidere cosa mostrare all’esterno del loro lavoro. Tuttavia la sua compilazione può richiedere molto tempo.

— Si tratta di uno strumento sviluppato da relativamente poco tempo e scarsamente impiegato. Si riferisce all’esame di artefatti come registri, piani di lezione e lavori degli studenti per valutare la qualità dell’insegnante. Ha il vantaggio di essere meno impegnativo in termini di tempo e risorse rispetto alle osservazioni complete delle intere lezioni, pur fornendo prove del lavoro svolto in classe. Gli artefatti infatti sono già stati creati dall’insegnante o dagli studenti, e non devono essere creati dal nulla per essere valutati, come avviene nel caso del portfolio. Nel NBPTS gli insegnanti allegano alcune riflessioni scrit-

DOSSIER / Gli strumenti di valutazione dei docenti

Manufatti realizzati in aula

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Il Global Teacher Prize (da un milione di dollari) Si chiama Keishia Thorpe, insegna inglese all’International High School nella contea di Prince George’s, in Maryland, e lo scorso anno ha vinto il Global Teacher Prize, l’equivalente Nobel nel campo dell’insegnamento. Il premio le è stato consegnato a Parigi nella sede dell’United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization, l’ente che gestisce la selezione dei candidati (nel 2021 ben 8.000 provenienti da 121 Paesi). Nel corso della solenne cerimonia, Keishia Thorpe ha ricevuto la donazione di un milione di dollari, messi a disposizione dalla Varkey Foundation, un ente filantropico con base a Londra che opera in collaborazione con l’UNESCO e con la GEMS (Global Education Management System), una società internazionale pro-profit, fondata nel 2000 e operante nel campo dell’istruzione, che gestisce 80 scuole private, nel ciclo primario e secondario, in ben 12 Paesi, dagli Stati Uniti alla Francia, dall’Egitto agli Emirati Arabi (non in Italia). Sono scuole d’eccellenza che tentano di coniugare le migliori tecnologie e dottrine pedagogiche con uno spirito di apertura verso gli immigrati, i rifugiati e gli svantaggiati sociali. A questi ideali si ispira il Global Teacher Prize. Giamaicana e immigrata negli Stati Uniti, Keishia Thorpe si è distinta per la capacità di coinvolgere gli studenti di origine ispanica, spesso figli di immigrati irregolari. A cura della redazione.


te sugli artefatti. Allo stesso modo, nella valutazione degli insegnanti messicani recentemente implementata questi sono tenuti a scrivere alcune riflessioni su campioni di lavoro degli studenti e caricarli su una piattaforma online creata appositamente. Tuttavia non esistono protocolli strutturati per confrontare gli artefatti di diversi insegnanti, quindi l’affidabilità e la validità di questo strumento non possono essere valutate.

54 DOSSIER / Gli strumenti di valutazione dei docenti

Sondaggi degli studenti

— Gli studenti hanno la maggior esperienza dei singoli insegnanti, e pertanto ci si aspetta che siano in grado di restituire preziose valutazioni della pratica didattica (Goe 2008). In effetti la ricerca ha dimostrato che i sondaggi tra studenti sono affidabili e forniscono spunti utili per gli insegnanti (CDE 2015, Isoré 2009).Gli studenti possono restituire informazioni utili su come i docenti interagiscono con loro e su come organizzano le attività. Tuttavia i ricercatori avvertono che,dato che gli studenti non sono formati a valutare, i risultati di questi sondaggi dovrebbero essere utilizzati solo insieme ad altre prove e non come criterio di valutazione unico o primario (Goe,Bell e Little 2008).

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Autovalutazione degli insegnanti → Pagina a fianco, in alto. Celebrazione del World Teacher Day in un istituto di Mandalay, Myanmar, 2018. In basso. L’Happy Teacher’s Day in una classe indiana (foto pixabay).

— L’autovalutazione degli insegnanti consente ai docenti di riflettere sulle loro prestazioni, identificando i loro punti di forza e di debolezza, ed è quindi prezioso quando si considerano le esigenze dello sviluppo professionale continuo. Può fornire spunti che altri strumenti non riescono a dare, poiché i soggetti sono gli unici ad avere piena conoscenza delle proprie capacità e bisogni (Goe, Bell e Little 2008). Tuttavia non

bisognerebbe ricorrervi in modo isolato, soprattutto nel caso di valutazioni in cui la posta in gioco è alta, una circostanza in cui gli insegnanti potrebbero essere inclini e non esprimere i loro punti deboli.

Il valore aggiunto degli studenti

— Il valore aggiunto degli studenti misura l’efficacia degli insegnanti solitamente su test standardizzati somministrati agli studenti e pensati tenendo conto di una varietà di fattori che possono influire sul loro rendimento, ma includono anche altri fattori rilevanti che esulano dalla scuola, come il reddito e il livello di istruzione dei genitori. Nella loro forma più semplice misurano i progressi (e non semplicemente i voti) degli studenti in una classe o scuola rispetto agli studenti di altre scuole a partire da un livello base prestabilito. Il loro utilizzo presuppone che gli studenti di insegnanti di alta qualità otterranno i maggiori progressi. I sostenitori dei risultati legati al valore aggiunto degli studenti affermano che essi si concentrano direttamente sull’apprendimento degli studenti e che sono relativamente obiettivi (CDE 2015, Isoré 2009). Inoltre, i recenti sviluppi tecnologici hanno assicurato che i modelli statistici utilizzati per misurare i progressi degli studenti e per collegarli a insegnanti specifici sono affidabili (Goe, Bell e Little 2008). La ricerca sull’efficacia didattica mostra che i risultati dei singoli insegnanti raccolti in un certo numero di anni possono rivelare l’impatto di questi insegnanti, mentre altre ricerche indicano che queste misure sono preziose per identificare i migliori insegnanti e coloro che stanno ottenendo risultati costantemente negativi, ma non per fare un distinguo tra

gli insegnanti che ottengono risultati appena al di sopra o al di sotto della media (Murphy 2013). Nonostante in alcuni contesti si faccia un uso considerevole dei test somministrati ai ragazzi, come negli Stati Uniti, in altri Paesi i dati spesso non sono disponibili, i campioni di studenti non sono sufficientemente ampi all’interno delle classi o i dati non sono sufficientemente affidabili per poter essere utilizzati, soprattutto come fonte unica o principale per giudicare la qualità degli insegnanti. Inoltre, i risultati de test non tengono conto di altri modi in cui gli insegnanti contribuiscono allo sviluppo dei loro studenti (CDE 2015). Infine, queste misure non riescono a determinare i bisogni dello sviluppo professionale continuo, poiché non rivelano quali metodi o pratiche didattiche contribuiscono maggiormente a migliorare l’apprendimento dei ragazzi (Goe, Bell e Little 2008). Tratto da: A. Cortez Ochoa, S. Thomas, L. Tikly, H. Doyle, Scan of International Approaches to Teacher Assessment, in «Bristol Working Papers in Education», 2018. Traduzione di Francesca Nicola. La versione corredata di bibliografia sarà pubblicata su La ricerca online all’indirizzo www. laricerca.loescher.it. Artemio Cortez Ochoa è ricercatore di Scienze dell’Educazione presso la Bristol University.

Sally Thomas insegna Scienze dell’Educazione alla Bristol University.

Leon Tikly insegna insegna Scienze dell’Educazione alla Bristol University.

Helen Doyle è esperta di educazione.


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Il World Teacher’s Day è una ricorrenza stabilita nel 1994 dall’UNESCO al fine di focalizzare l’attenzione pubblica sulla condizione degli insegnanti e sul loro ruolo sociale, in ogni Paese del mondo. Passata del tutto inosservata in Italia, tale iniziativa ha attecchito con successo in un gran numero di Stati (102 esattamente, riporta Wikipedia), quasi sempre fondendosi con la tradizione locale di rendere omaggio agli insegnanti in un giorno a loro dedicato. Durante questa ricorrenza, in tutte le classi si sospendono le lezioni e gli studenti organizzano giochi e intrattenimenti in onore dei propri maestri e professori. Regalano loro composizioni scritte, disegni o piccoli oggetti, spesso da loro costruiti, che possano servire da ricordo. Alle festicciole partecipano spesso anche i genitori, creando così un’atmosfera informale molto favorevole all’instaurarsi di buoni rapporti con i docenti. L’iniziativa, infatti, non è finalizzata a promuovere un atteggiamento di deferenza verso gli insegnanti; nasce invece dal riconoscimento che quello da loro svolto è (anche) un lavoro di cura, e che quindi, come tutte le professioni che concernono la cura di altri esseri umani, richiede speciali livelli di empatia e di dedizione. Molti governi, inoltre, hanno trasformato il World Teacher’s Day in un’occasione per celebrare personaggi importanti nella storia educativa del Paese, ribadirne e diffonderne il messaggio pedagogico. Di conseguenza le celebrazioni variano grandemente da Paese a Paese sia per le modalità sia per la data. Sebbene l’UNESCO proponga il 5 ottobre, in India si festeggia il 5 settembre, anniversario della nascita di Sarvepalli Radhakrishnan, secondo Presidente dell’India, dal 1962 al 1967, oltre che filosofo ed educatore impegnato nel diffondere la tolleranza fra le religioni. In undici nazioni del mondo islamico si celebra il 28 febbraio, e in date variabili in tutto il Sud America, in cui il Dia del Maestro è molto popolare. In Argentina cade il 15 febbraio, il giorno della nascita di Domingo F. Sarmiento (1811-1888), venerato giornalista, politico (fu Presidente della Repubblica) ed educatore. Assumendo una sfumatura religiosa, in Messico coincide con la festa di Sant Isidorro, il 15 maggio, e in Colombia con quella di San Giovanni Battista de la Salle, patrono degli insegnanti. Negli Stati Uniti la festa degli insegnanti, esistente da più di mezzo secolo, è celebrata attualmente nel giorno in cui il Presidente assegna il premio al National Teacher of the Year (vedi box a p. 43). A cura della redazione.

DOSSIER / Gli strumenti di valutazione dei docenti

World Teacher’s Day


SCUOLA

SCUOLA / Una questione di stile?

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Una questione di stile? I più recenti sviluppi della didattica della letteratura ci hanno insegnato quanto sia importante che l’insegnante di L1 sia una persona che legge e che scrive nella vita. Non si tratta solo di mantenersi in allenamento dopo la laurea, né di curare la propria formazione nell’ambito degli studi letterari o delle metodologie e strategie didattiche, bensì di praticare quotidianamente o quasi la lettura e la scrittura di opere letterarie, ovvero di vivere una vita che contempli il ricorso alla letteratura come risorsa personale.

La ricerca / N. 22 Nuova Serie. Maggio 2022

di Simone Giusti

È

successo più o meno negli ultimi vent’anni, anche se si erano avute delle avvisaglie già tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, quando nel mondo degli studi letterari si è cominciato a spostare l’attenzione dal testo al lettore, e intanto – ricorrendo alle idee del formalismo e dello strutturalismo sugli effetti di lettura – le scienze cognitive iniziavano a interessarsi al lettore empirico e all’esperienza estetica. Il testo, scriveva nel


La scuola sotto l’albero (foto Wikicommons).

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SCUOLA / Una questione di stile?

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1978 Franco Brioschi in un fondamentale articolo sull’insegnamento e sulla teoria della letteratura, «non è letterario, ma (in un certo senso) lo diventa in rapporto a un comportamento sociale»1. È la lettura – e in particolare quel tipo di lettura che definiamo estetica – a rendere il testo un’opera, secondo una visione funzionalista e relativista della letterarietà che attribuisce un ruolo fondamentale alle persone e alle loro abitudini nella costruzione e manutenzione di quell’istituzione che chiamiamo “letteratura”. La letteratura esiste grazie alle persone che la praticano, e il compito della scuola – è ancora un’idea di Brioschi – consiste nell’allargarne la partecipazione democratica. Una partecipazione, aggiungiamo noi, che richiede necessariamente di fare esperienza diretta dei testi-opere a scuola, grazie alla mediazione e con il coinvolgimento diretto di docenti che non si vede come possano promuovere e valorizzare delle pratiche che non conoscono se non direttamente.

Pratiche sociali ed esperienze significative

— A coronamento di un lungo lavoro di ricerca letteraria e antropologica, nel 2007 Tzvetan Todorov aveva rivolto un appello accorato e autorevole a docenti e studiosi di letteratura affinché ponessero al centro della loro riflessione il lettore comune, colui o colei che legge non per lavoro o per studio ma per dare un senso alla propria vita2. Leggere e insegnare a leggere, dunque, non per consegnare alle nuove generazioni strumenti e competenze di analisi e decodifica del testo, ma per far esperire le potenzialità conoscitive dell’esperienza letteraria, via d’accesso privilegiata alla conoscenza di sé e della condizione umana. Guardare alla lettura e alla scrittura letteraria come esperienze significative, alla letteratura come una pratica sociale, e alle opere come il risultato di un’interazione il cui significato è di natura negoziale e relativa, comporta necessariamente una revisione del ruolo di chi insegna e della sua professionalità. Diventa difficile, per esempio, pensare a docenti di lingua e di letteratura che non contribuiscano attivamente, con i loro comportamenti quotidiani, alla manutenzione della letteratura,praticando in maniera intensiva e routinaria la lettura e la scrittura e condividendo le proprie esperienze estetiche

con altre persone che non siano retribuite per farlo. Docenti che sono in grado, semplicemente attraverso la riflessione sul proprio vissuto, di individuare strategie e tecniche didattiche capaci di creare le condizioni affinché ogni studente abbia a sua volta accesso all’esperienza letteraria, mentre la classe si costituisce in comunità ermeneutica grazie a un intenso dialogo sulle opere e alla condivisione di scritture e riscritture.

Una didattica orientativa e laboratoriale

— In questo clima culturale – che nella scuola italiana, in perenne ritardo anche rispetto agli studi letterari, non ha trovato terreno fertile fino a quest’ultimo decennio – si possono collocare quelle strategie didattiche laboratoriali che, in continuità con la tradizione del Movimento di Cooperazione Educativa e con le proposte dei grandi maestri di didattica del Novecento, come Bruno Ciari, Mario Lodi e Gianni Rodari, hanno preso piede in molte scuole italiane. Il Writing and Reading Workshop, importato in un primo momento in alcune scuole dell’Emilia Romagna da Jenny Poletti Riz3 e poi attuato e divulgato da docenti di tutta Italia, sta contribuendo a diffondere alcune idee e pratiche didattiche radicalmente innovative, che mettono al centro dell’azione educativa la libertà di scelta di ogni studente, che deve essere messo in grado di divenire una persona che ha sperimentato le proprietà della scrittura e della lettura letteraria e che ha capito per esperienza quale senso possano avere queste attività nella sua vita, in modo che continui a leggere e scrivere anche dopo la scuola e al di fuori di essa. La recentissima traduzione italiana di uno dei capisaldi di questo metodo, The Reading Zone di Nancie Atwell, appena uscita nella collana dei Quaderni di didattica e letteratura della rivista «La ricerca»4, fornisce un’idea precisa delle strategie e tecniche didattiche attraverso cui è possibile in effetti cambiare i comportamenti di ogni studente, in modo che diventi una lettrice o un lettore abituale, capace di scegliere i propri libri, di trarne alcune lezioni utili per la vita e per la scrittura, di esprimere una valutazione su ciò che legge e di parlare delle proprie letture con gli altri.


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Imparare per agire

— Ma se ogni studente dovrebbe disporre di una biblioteca di classe ben fornita e adatta alle persone della sua età e della sua condizione culturale, allora è necessario che ogni docente di Italiano e di Lingua e letteratura italiana sia in grado di scegliere i libri adatti al pubblico degli adolescenti o dei giovani adulti. E se il docente, come previsto per altro dalle diverse Indicazioni nazionali e Linee guida,volesse davvero incidere sulle competenze degli studenti, sui loro atteggiamenti oltre che su conoscenze e capacità, è evidente che dovrebbe mettere i suoi studenti in grado di fare delle scelte e di acquisire quei saperi che sono indispensabili all’azione, tralasciando tutto ciò che rimarrebbe inerte al di fuori delle interrogazioni e dei compiti in classe.

Una comunità di pratiche letterarie

— Da una recente rassegna sistematica della ricerca educativa internazionale sul rapporto tra educazione letteraria e sviluppo della capacità di comprendere la natura umana 5 è emerso che alcuni approcci didattici sono più adatti a favorire que-

sto tipo di comprensione negli studenti adolescenti. Se vogliamo aumentare la probabilità che gli studenti adolescenti acquisiscano una comprensione della natura umana durante l’insegnamento letterario, si legge in questo articolo, è preferibile tra l’altro integrare lettura e scrittura,progettando compiti di scrittura che spingano gli studenti a attivare precedenti esperienze personali prima della lettura, a notare e annotare le esperienze durante il processo di lettura, e a riflettere sulle esperienze evocate direttamente dopo la lettura. È inoltre molto utile progettare attività dialogiche esplorative che stimolino gli studenti a condividere verbalmente le loro esperienze di lettura. Leggere, scrivere e condividere sono tre azioni fondamentali affinché la classe di italiano diventi una comunità di pratiche letterarie6: un gruppo di lavoro costruito, gestito e animato da insegnanti che devono conoscere a fondo, per averle sperimentate direttamente, le potenzialità conoscitive di quelle azioni, di quei comportamenti.

Un nuovo ruolo per chi insegna

— Sono cambiamenti che richiedono, innanzitutto,un rinnovato ruolo di chi inse-

↑ Un professore aiuta un alunno a svolgere un compito di scrittura in classe (foto Wikicommons).


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gna, una sua diversa formazione e, soprattutto,un suo particolare atteggiamento nei confronti della letteratura, da intendersi innanzitutto come un insieme di comportamenti, uno stile di vita basato sulla fruizione delle opere: sull’ascolto e sulla lettura, sulla scrittura e sulla condivisione di storie, sul dialogo, sulla comprensione e sull’interpretazione. È possibile, dunque, che l’insegnante sia una persona che non legge e che non scrive quotidianamente, o che non condivide gli effetti di queste pratiche con ogni studente? E nel caso che in effetti sia necessario, per realizzare una didattica della letteratura laboratoriale e orientativa, essere una persona che pratica l’arte letteraria nella sua accezione più ampia, cosa dovremmo fare per formare e selezionare questo tipo di docente? Possiamo pretendere di avere in classe persone che “credono” nella letteratura e nelle sue potenzialità, semplicemente perché le hanno sperimentate oltre che perché ne hanno avuto conferma dalla ricerca educativa, dalle scienze cognitive e dagli stessi studi letterari? In effetti, se pretendiamo che gli studenti sviluppino competenze per la vita, andando a incidere sui loro atteggiamenti affinché diventino persone che usano le risorse date dalla scuola anche al di fuori di essa, comportandosi da persone democratiche, allora dovremmo poter esigere lo stesso da chi insegna. Non abbiamo forse pensato, durante la pandemia da Covid-19, che ogni docente dovesse comportarsi secondo quanto previsto dall’esercizio del pensiero scientifico?

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Una questione di stile

— Infine, di fronte alle nuove pratiche didattiche e a quegli studi che ci aiutano a dare valore all’impatto della letteratura sulla vita delle persone, è possibile rimanere indifferenti e continuare a praticare un insegnamento basato sulla trasmissione di conoscenze storiche e retoriche, su interrogazioni e compiti in classe? Si può rimanere indifferenti al potere trasformativo delle pratiche letterarie, continuando ad assegnare esercizi di parafrasi,di analisi e comprensione le cui soluzioni sono già note al docente e disponibili sui numerosi siti di e per studenti? E qualora accettassimo di cambiare, adeguandoci a vivere in classe esperienze significative grazie alle pratiche letterarie, come fare per risultare davvero efficaci e inclusivi, senza cade-

re nella trappola delle semplificazioni e dell’ingenuità? Non sono domande retoriche, e nonostante la mia personale preferenza per una vita e per un lavoro interamente fondati sull’esercizio della lettura, della scrittura e della condivisione, credo che ci siano ragionevoli motivi per resistere al cambiamento e per eludere il problema, facendo finta che sia possibile insegnare esclusivamente con il cervello e con il linguaggio, senza mettere in gioco il proprio corpo, le proprie abitudini, i propri comportamenti e, in estrema sintesi, il proprio stile di vita. Tuttavia, così come ritengo che sia possibile passare dieci anni di vita a studiare le scienze a scuola senza sviluppare un atteggiamento scientifico nei confronti del mondo, sono convinto che la scuola tradizionale abbia qualche difficoltà a incidere in modo significativo sulla quantità e qualità della lettura e della scrittura letteraria, sulla capacità di distinguere verità e finzione e di resistere alle sirene dello storytelling politico e commerciale. Che sia il momento di cambiare stile? NOTE 1. F. Brioschi, La mappa dell’impero. Problemi di teoria della letteratura, Net, Milano 2006, p. 160. 2. T. Todorov, La letteratura in pericolo, trad. it. di E. Lana, Garzanti, Milano 2008 (ed. or. 2007). 3. J. Poletti Riz, Scrittori si diventa. Metodi e percorsi operativi per un laboratorio di scrittura di classe, Erickson, Trento 2017. 4. N. Atwell, A. Atwell Merkel, La zona di lettura. Come aiutare i ragazzi e le ragazze a diventare lettori abili, appassionati, abituali, critici, trad. di A. Nesti, Loescher, Torino 2022. 5. M. Schrijvers, T. Janssen, O. Fialho, G. Rijlaarsdam, Arrivare a comprendere la natura umana: una rassegna della letteratura sugli studi sperimentali in classe, in Il futuro della lettura ad alta voce, a cura di F.Batini,FrancoAngeli,Milano 2022,pp. 120-168 (da «Review of Educational Research», 89, 1, 2019, pp. 3-45). 6. Per un approfondimento si rinvia a S. Giusti, N. Tonelli, Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento, Loescher, Torino 2021.

Simone Giusti insegna Didattica della letteratura italiana all’Università degli Studi di Siena. In collaborazione con Natascia Tonelli ha scritto per Loescher L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze.


Il mestiere difficile Educazione, controllo e imprevisti: insegnare nella scuola dell’obbligo, insegnare letteratura, insegnare lentezza, complessità e riflessione, insegnare con consapevolezza della propria professione.

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di Daniele Dell’Agnola

«I

bambini sono ancora in parte selvatici, non civilizzati, e ancora spinti a esplorare i margini più selvatici del mondo» scriveva David Almond nel suo discorso di accettazione del premio Andersen, prima di raccontare le sue scorribande infantili negli stagni, nei porcili, tra le alture, a correre, urlare, inscenare battaglie, e poi tornare a casa, al caldo, nel luogo sicuro e civilizzato dove lo attendevano cibo e riposo. Trovo la riflessione di Almond citata nel libro di Giorgia Grilli intitolato Di cosa parlano i libri per bambini. La letteratura per l’infanzia come critica radicale (Donzelli, Roma 2021), volume molto importante nel quale, tra l’altro, si approfondisce il tema di un quasi insanabile contrasto tra il compito educativo così legato al controllo di cui l’adulto spesso si investe, e la letteratura, per sua natura sovversiva, connessa a ciò che non è noto e all’imprevisto. La letteratura, se non presentata con esercizi didattici e senza scopi educativi, è entrata raramente nella scuola. Ne parla proprio Giorgia Grilli nel suo libro, a p. 116: «Non si porta solitamente il romanzo dentro alla scuola, e ci si accontenta dei brani antologizzati nei libri di lettura, per introdurre – assurdamente – i bambini alla letteratura (e insieme magari alla grammatica, all’analisi logica ecc.) perché, appunto, il romanzo, letto per il puro piacere che suscita quando è un bel romanzo, introduce sovversione e questo non può darsi, evidentemente, nelle stesse aule in cui si lavora per l’educazione». Io credo esista, nelle famiglie, nelle biblioteche scolastiche, nella scuola, un controllo dei testi, dei libri e dei giochi a disposizione delle bambine, dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi nella scuola dell’obbligo. C’è pure una sorta di auto controllo, negli insegnanti, nella scelta dei testi da proporre in classe, fondata sull’idea che le storie debbano trasmettere una morale e soprattutto non urtare la sensibilità dei genitori. Quanti adulti leggerebbero a dei bambini lo straordinario albo illustrato di Wolf Erlbruch intitolato L’anatra, la morte e il tulipano, in cui l’anatra si accorge della morte in persona, che la guarda da vicino e dialoga con essa intrattenendo un discorso poetico, filosofico, di senso fino all’ultimo respiro e all’eterno silenzio?

↑ Monumento a Pinocchio, Collodi, Toscana (foto Wikicommons).


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Tenendo conto del contesto nel quale lavoro (la Svizzera di lingua italiana), mi limito a restituire una percezione molto parziale, seppur sostenuta da ventidue anni di insegnamento e da dieci anni lezioni osservate e discusse con colleghe e colleghi, in veste di docente in un istituto magistrale: mi sembra importante riflettere sul ruolo dell’insegnante nella scuola dell’obbligo, focalizzando l’attenzione sul senso della letteratura a scuola. Recentemente un maestro ha annunciato ai suoi allievi della scuola elementare di voler leggere con loro un libro che insegna a non dire le bugie e a diventare bravi bambini: «Il titolo del libro è Pinocchio. Qualcuno lo conosce?», ha chiesto il collega. Un bambino piuttosto sveglio ha risposto: «È stato scritto centoquarant’anni fa. Lo conoscono tutti, anche i grandi, ma continuano a dire le bugie. Quindi non serve a nulla». Dopo la lezione il collega mi ha spiegato che insegnare è diventato sempre più difficile, quando in classe intervengono bambini saccenti e arroganti. E i genitori sono pronti a polemizzare. Mi sono permesso di obiettare: Pinocchio contiene paura, radici, immaginari, desideri, punti di vista e imprevisti dei quali la letteratura e l’uomo si nutrono. La letteratura «mette al congiuntivo, rende strano, fa sì che l’ovvio sia meno ovvio», scrive Bruner nel suo La mente a più dimensioni (Laterza, Roma-Bari 2005, trad. it. R. Rini). I libri di Maurice Sendak non insegnano ai bambini che devono lavarsi bene i denti, leggendo Pippi calzelunghe non si impara a essere una brava ragazza, Piccolo blu e piccolo giallo non indicano che «i bambini maschi devono tenere i capelli corti» (consiglio, quest’ultimo, che mio figlio deve sentirsi ripetere quasi quotidianamente, da un anno a questa parte, sempre da adulti ben inseriti nel loro sistema di valori). Huckleberry Finn, Peter Pan, Il giovane Holden, Jim Hawkins, Alice e tanti altri personaggi letterari non ci danno le ricette su come bisogna comportarsi, ma si offrono in tutta la loro umanità, in un altrove che permette alle lettrici e ai lettori di indossare occhiali diversi per guardare il mondo. Ho discusso proprio di Pinocchio con un gruppo di bambini di seconda elementare impegnati a leggere il libro di Collodi. Ho trascritto le loro osservazioni:

Se penso a Pinocchio mi vengono in mente le bugie. Sono interessanti perché se togli le bugie ha meno senso la storia. A me viene in mente il legno. Il legno è vivo. …la vita perché la vita è una lotta come il papà di Thomas nel Libro di tutte le cose: Thomas dice che vuole diventare felice, ma il papà risponde che la vita è una lotta. Pinocchio non lo sa, deve ancora viverla. Quando comincia a diventare un bambino vero, deve ancora cominciare a viverla. Nella vita si deve far fatica e Pinocchio non vuole far fatica. La fatica, come Pinocchio che lavora in una fattoria e fa fatica. La voglia, perché Pinocchio all’inizio non vuole fare nessun mestiere. È interessante quando finisce nei pasticci a causa del gatto e la volpe. Mi piace quando scappa da casa, appena fatto, con questo vecchietto che lo rincorre. Giorgia Grilli mette giustamente in discussione un certo tipo di educazione,un sistema dentro il quale dobbiamo quasi «scegliere tra due opzioni: o piantare i semi perché i bambini diventino dei lettori (invitandoli a guardare anche al di fuori dei valori condivisi) o predisporre percorsi per farli diventare bravi cittadini» (p.116). Il compito, molto difficile, degli insegnanti, credo che sia quello di muoversi entro la tensione, viva, tra la letteratura, per propria natura sovversiva, e l’educazione: le forme libere del pensiero critico a cui mirare mettono in contatto queste due dimensioni.

I docenti esecutori

— Il richiamo all’opera di Guus Kuijer (Il libro di tutte le cose, Salani, Milano 2008, trad. it. D.S. Fiano) da parte di un allievo in grado di confrontare le storie (dalla tensione umana che vive in Pinocchio alla ricerca della felicità da parte di Thomas, protagonista del romanzo di Kuijer) per ragionarci è sorprendente. Aveva forse ragione un altro collega, che ventidue anni fa, sorseggiando l’ultimo caffè, alla soglia della pensione, mi sussurrò un commento come fosse un regalo del saggio a chi, come il sottoscritto, stava entrando in punta di piedi nelle aule: «Tu lo sai che la letteratura nella scuola dell’obbligo è più interessante dei festival letterari dove gli intellettuali se la


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cantano? È a scuola che ti scontri con la realtà dei ragazzi e di quello che gli gira attorno». Era un intellettuale al quale non piacevano gli intellettuali. Aggiunse: «Vuoi fare l’insegnante? Ricordati che non sarai un impiegato, ma sarai molto impegnato. È l’unico modo per stare a galla e per non addormentare il tuo orizzonte. La scuola non perdona: chiede tempo e non dà tempo, chiede energie e non sempre puoi averle. Porta la letteratura in classe e te ne accorgerai. Auguri ragazzo». E andò in pensione a scrivere il suo quaderno di memorie, mai pubblicato (finora) e di cui ogni tanto mi invia qualche passaggio di rara sensibilità, in cui ritrovo le prospettive che ha tanto amato: quella dell’infanzia (con gli occhi verso l’altrove) e quella dell’adolescenza (corpo e mente nel passaggio). Al di là di questi episodi, potremmo dibattere a lungo sull’identità formativa della scuola, sull’importanza della lentezza di cui necessita la conoscenza e sulla necessaria resistenza che la scuola dovrebbe garantire, a volte anche in una sorta di contrappeso a quanto avviene fuori dalle mura. Idealmente potremmo ad esempio affermare che, alle immagini subìte dai ragazzi attraverso i social, la scuola si oppone sensibilizzando i giovanissimi alla faticosa verifica delle fonti, cercando di sviluppare nei futuri cittadini uno sguardo critico; di fronte all’esigenza di asservire una realtà tangibile e utile, la scuola risponde favorendo l’esperienza dell’immaginario, del poetico, delle possibilità; alla semplificazione e alla banalizzazione la scuola si oppone con la complessità dei testi, delle argomentazioni, della logica, dell’indagine, della scoperta, dei dubbi da seminare per rafforzare le tesi; al culto del corpo perfetto modellato su riferimenti impossibili e sulla competizione malata, la scuola si contrappone con un’educazione al movimento e al rispetto di sé e dell’altro. Sto dipingendo un ideale, eppure senza un’idea costitutiva della scuola, ma anche della “professione docente”, non rimane che un orizzonte dormiente. Senza una consapevolezza rispetto al proprio ruolo, la scuola diventerebbe un facile bersaglio per chi desidera indebolire un’istituzione culturale già oggi purtroppo spesso ridotta a “servizio di

misurazione”. E i docenti, da persone che attraverso la cultura sono in grado di lasciare un segno, si scoprirebbero disimpegnati, alienati esecutori al servizio dei contribuenti (che avrebbero comunque sempre ragione). Sarebbe molto pericoloso, anche per la democrazia.

Non siamo tutti uguali

— La Svizzera è uno Stato federale, quindi il potere statale è suddiviso tra la Confederazione, i Cantoni e i comuni, con ruoli diversi: la responsabilità e la regolamentazione della scuola è dei Cantoni. In Ticino, relativamente alla scuola media, in questo momento è in corso un dibattito che riguarda soprattutto gli ultimi due anni di scuola media. Il Governo propone di integrare delle ore di laboratorio con metà classe per la matematica, il tedesco, in gruppi gruppi composti da undici allievi con competenze diverse. Per quanto riguarda l’italiano, è stato introdotto un laboratorio di questo tipo (due ore settimanali) in prima e nell’ultimo anno di scuola media. C’è chi preferirebbe

↑ Illustrazione da Pinocchio: the tale of a puppet, Londra 1919 (foto Wikicommons).


piccole e in più materie. Da un lato si propone un approccio più astratto e con obiettivi d’approfondimento. Ad esempio, per l’italiano, competenze letterarie basate sulla dimensione estetica, formale, culturale. Dall’altro, ad esempio per l’italiano, una formazione linguistica pragmatica e basata su di un uso funzionale e quotidiano della lingua. Quest’ultima proposta mette in discussione l’idea costitutiva della scuola e mette in discussione il senso di una disciplina, l’italiano, prestato, al servizio di apparenti necessità concrete. Che ce ne facciamo della letteratura?

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Se non mi ami ti spacco la testa

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↑ Illustrazione da Pinocchio: the tale of a puppet, Londra 1919 (foto Wikicommons).

però una scuola strutturata su più livelli, separando gli allievi con competenze avanzate da coloro che dimostrano più difficoltà nell’apprendimento (sperando che la suddivisione, per chi si trova a metà strada, tra i bravi e i meno bravi, non sia affidata alle sfere di cristallo). Con sfumature diverse, anche i gruppi politici presenti nel parlamento stanno cercando di approfondire il tema, riflettendo soprattutto sul tema dell’orientamento professionale: orientare significa aiutare il giovane a scegliere una via dopo la scuola media. In Svizzera possiamo vantare un sistema duale, cioè un contratto che consente ai giovani di frequentare un percorso di formazione professionale e contemporaneamente di essere assunti in un’azienda come apprendisti. Si tratta di una delle possibilità formative, assieme alle scuole professionali a tempo pieno, ai licei, eccetera. Pensando quindi alla scuola media e al ruolo che assume, c’è chi pensa sia necessario che gli allievi sviluppino le loro attitudini e i loro interessi con percorsi opzionali differenziati, in classi più

— Recentemente ho deciso di leggere ad allieve e allievi quattordicenni questa poesia di Lalla Romano1: «Il vento fuggendo rapisce ai comignoli il fumo, / e come una chioma leggera l’arriccia e disperde. // Volubile e tenue s’effonde nel tempo la vita, / così come labile fumo dilegua nel vento.» Osservo i ragazzi. Sono perplessi, inizialmente non osano esprimersi, ma a un certo punto M. dice: «Noi abbiamo ancora tutto il tempo per vivere. Almeno settant’anni. Questa poesia sul tempo che passa come fosse fumo, boh…». «Non vediamo l’ora che passi. Che finisca la quarta media!», aggiunge T. «La poesia è inutile», aggiunge C., prima della bomba finale: «Tutta la poesia è inutile,cioè,non è pratica». Metto in evidenza unicamente i tre interventi scomodi, che mi ricordano il bambino espressosi sul senso di Pinocchio.Cerco di non rinunciare al mio ruolo, di lavorare sulle parole e sulla struttura con tutti, nel laboratorio («tutti gli usi della parola a tutti», penso mentre sviluppo le lezioni). Osservo questi giovani e cerco di capire la distanza tra i loro bisogni e l’idea che la letteratura serve all’utopia, all’impegno politico, all’uomo intero. Voglio che allieve e allievi vivano questa distanza. Sta a me connetterli, non senza difficoltà, al testo. Al di là della poesia, in ogni lingua e in ogni parte del mondo la narrazione è la grammatica fondamentale di ogni forma di pensiero; la nostra epoca avrebbe necessità di immaginazione, punti di vista nuovi, anche pensando a chi si orienta verso una formazione profes-


Mare in burrasca, terra in tempesta Se non mi ami, ti spacco la testa. A cosa potrebbe “servire” il libro di Bruno Tognolini, in questa nostra epoca difficile?

Le parole sono cibo

— Ai significati, alle interpretazioni, ai prolungamenti della letteratura non offrirei “l’uso funzionale della lingua” come alternativa. Credo anche che l’uso funzionale non sia affatto scontato: considerare una “formazione pragmatica” come soluzione adeguata per coloro che desiderano svolgere un apprendistato è credo riduttivo. Un esempio: nella scuola media è utile per tutti approfondire i concetti di causa, effetto, fine, ipotesi? Direi di sì. Secondo esempio: della Shoah scompaiono i testimoni, ma rimangono testi letterari che devono essere letti dai bambini e dai ragazzi. Direi da tutti. Da chi “maneggia” motori, travi, farmaci, provette, mattoni, piani finanziari, cavi elettrici, numeri, leggi, teste, capelli, vite: essere citoyens non è prerogativa degli intellettuali, né degli studenti liceali. Tutti gli usi della parola a tutti. «La funzione creatrice dell’immaginazione appartiene all’uomo comune, allo scienziato, al tecnico; è essenziale alle scoperte scientifiche come alla nascita dell’opera d’arte; è addirittura condizione necessaria della vita quotidiana» scrive Gianni Rodari nel capitolo

“immaginazione, creatività, scuola” che troviamo nella Grammatica della fantasia (Einaudi, Torino 1973). «La fiabe servono alla matematica come la matematica alle fiabe. Servono alla poesia, alla musica, all’utopia, all’impegno politico: insomma, all’uomo intero, e non solo al fantasticatore». Ci sono statistiche spaventose riportate da Maryanne Wolf in Proust e il calamaro, Storia e scienza del cervello che legge (Vita e Pensiero, trad. it. S. Galli, Milano 2008, p. 25), riferite a un’indagine svolta in California: i bambini “linguisticamente poveri” ascoltano mediamente 32 milioni di parole in meno rispetto a coloro che crescono in un ambiente familiare favorevole, dove sia possibile leggere, ascoltare storie, comunicare con l’adulto al di là delle frasi “utilitarie”. C’è una storiella che molti conoscono: è quella di un nipote che ascolta le parole e i racconti di un nonno.L’anziano spiega al giovane che nel petto delle persone vivono due lupi costantemente in lotta. Il primo è un lupo violento, aggressivo, pronto a odiare, mentre il secondo è pieno di amore, luce e armonia. Il ragazzo, che ha ascoltato attentamente la voce del nonno, chiede quale dei due lupi avrà la meglio. «Quello cui diamo da mangiare», risponde l’uomo. NOTE 1. Il vento, in Poesie, Einaudi,Torino 2001, p. 143.

Daniele Dell’Agnola è docente alla Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana di Locarno, dove si occupa di narrazione e didattica della letteratura nella formazione rivolta agli insegnanti della scuola dell’obbligo. Insegna a tempo parziale nella scuola media, è autore di diversi romanzi che raccontano gli adolescenti e la scuola di oggi e compone musiche per il teatro. Gli ultimi titoli sono Anche i bruchi volano (Gabriele Capelli, Mendrisio 2016), e La luna nel baule. Der Mond in der Truhe. La glina en l’arcun (trad. di C. Pult, A-A. Dazzi Gross, Coira, Locarno, Pro Grigioni italiano / Armando Dadò, 2021). Dal 2015 al 2017 ha curato e condotto per la TV “Teleticino” (Gruppo Corriere del Ticino”) la rubrica “Il bidello Ulisse”, dedicata ai libri per bambini e ragazzi. Tra i suoi progetti didattici più recenti, si segnala “La tavolozza dei personaggi / leggere, scrivere, rappresentare”.

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sionale, solo apparentemente legata ad aspetti funzionali della lingua. Tutti i futuri citoyens, che eserciteranno i propri diritti politici in un sistema democratico, hanno bisogno di una tensione verso il pensiero critico, la bellezza, la capacità di analisi. Una scuola che allontana allieve e allievi dalla dimensione estetica e culturale sbaglia, perché allontana i ragazzi anche dall’empatia, dalla capacità di “stare dentro” a problemi complessi con quella pazienza cognitiva che Maryanne Wolf ha ben descritto nel suo recente Lettore, vieni a casa (Vita e pensiero, trad. it. P. Villani, Milano 2019). Gli adolescenti devono orientarsi nella complessità della lingua, del crescere, delle relazioni. Scrive Bruno Tognolini, nelle sue Rime di rabbia (Salani Editore, Milano 2010):


Costruire ambienti supportivi a scuola

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La ricerca psicologica sta mostrando interesse per il ruolo delle relazioni compassionevoli al lavoro. Tale interesse origina dal costrutto della compassion, cioè la capacità di riconoscere e comprendere le emozioni dell’altro, soprattutto se associate a sofferenza, e di sentirsi motivati a intervenire per promuoverne il benessere. Il costrutto, da poco studiato nel contesto educativo, mostra alcune potenzialità per la promozione del benessere di docenti e studenti. di Ilaria Buonomo

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umerosi studi internazionali hanno posto l’accento sulle crescenti sfide affrontate dagli insegnanti nel lavoro quotidiano (dall’uso delle tecnologie alla multiculturalità, dai bisogni educativi speciali ai comportamenti oppositivi in aula). La letteratura scientifica di ambito psicologico e educativo è solita sottolineare il ruolo delle risorse personali degli insegnanti nell’affrontare tali sfide: il senso di efficacia e di preparazione, l’abilità nel gestire la classe, il livello di stress percepito e le strategie che intervengono nella sua gestione. Tali aspetti giocano un ruolo fondamentale non solo nel garantire una buona riuscita del processo di insegnamento-apprendimento, ma anche nel proteggere e promuovere lo stato di benessere individuale del docente e degli studenti. Allo stesso tempo, il ruolo cruciale del contributo individuale dell’insegnante può non bastare. Con l’aumentare della complessità delle sfide e delle richieste rivolte agli insegnanti, si rende necessario il coinvolgimento di risorse collettive, che prevedano pratiche e strategie collaborative. Definire un efficace sistema di collaborazione a livello organizzativo consente, da un lato, di gestire in modo adeguato e completo le sfide da affrontare, dall’altro, di condividere il carico emotivo e cognitivo con altri colleghi e con la dirigenza.

La compassion al lavoro

— Sulla base di queste considerazioni, questo articolo ha l’obiettivo di approfondire un costrutto che sta sempre più interessando la ricerca sul mondo della scuola: il ruolo della compassion1, intesa come la capacità di interessarsi agli altri, mettersi nei loro panni e sentirsi motivati a fare qualcosa per loro (per ridurre un disagio, condividere un problema, trovare insieme un modo per affrontare una difficoltà) (Sinclair et al. 2016). Lo studio della compassion al lavoro ha finora riguardato contesti prevalentemente non scolastici: ad esempio, possiamo rintracciare un’ampia letteratura su questi temi in riferimento alle professioni sanitarie (Trzeciak et al. 2019). Allo stesso tempo, le ricerche in altri tipi di organizzazione hanno evidenziato che mostrarsi compassionevoli aiuta non solo a sentirsi meglio con se stessi e con gli altri, ma anche a lavorare meglio e a essere più coinvolti e impegnati in ciò che accade al lavoro. Dall’altro lato, sentire che


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La compassion tra gli insegnanti

— I rari studi di questo genere nel mondo della scuola hanno confermato questi risultati: insegnanti che danno e ricevono compassion a scuola hanno migliori relazioni con i colleghi e mostrano più coinvolgimento nel lavoro e partecipazione nelle attività collegiali (Eldor e Shoshani 2016). Nel caso della professione docente, come per altri professionisti dell’aiuto, la natura stessa del lavoro fornisce un altro contesto per esercitare la compassion: la relazione quotidiana con l’utenza di cui ci si prende cura – gli studenti.Tipicamente, la letteratura sulla compassion nei confronti degli studenti ha posto l’accento più sulle conseguenze di un tale coinvolgimento emotivo da parte del docente,che sulla natura stessa della relazione. Manca, invece, uno studio del modo in cui la compassion si esprime a scuola: cosa fanno gli insegnanti compassionevoli? Come si comportano con i loro colleghi? E in aula?

La compassion tra gli insegnanti italiani

— Il tema delle relazioni compassionevoli a scuola si sta diffondendo anche nella ricerca sugli insegnanti italiani.Nel corso degli ultimi anni, abbiamo raccolto, insieme ad altre colleghe, alcuni dati significativi riguardo l’effetto della compassion tra gli insegnanti italiani in ogni ordine e grado, in riferimento sia alla relazione con gli studenti sia a quella con i colleghi (Buonomo et al. 2021; Buonomo et al. submitted; De Stasio et al. 2020). Questi studi ci hanno permesso di osservare come e quanto il tema della compassion incontri quello del benessere, della collaborazione e del coinvolgimento nella vita della scuola, in classe con gli studenti, ma anche nell’aula docenti. Complessivamente, i nostri studi confermano il ruolo benefico della compassion a scuola,per almeno due motivi: mostrare compassion per studenti e colleghi aumenta l’engagement, cioè la quota di energia e di coinvolgimento fisico,emotivo e cognitivo che si investe nel lavoro quotidiano; ricevere compassion da parte dei colleghi, invece, aiuta a sentirsi parte di un insieme, di un sistema (un’organizzazione), che si impegna per agire efficacemente nei confronti degli studenti e delle loro

↑ La sinologa Cecilia Lindqvist a lezione allo Skanstulls gymnasium nel 1971 (foto: Arne Jonsson via Wikimedia).

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i colleghi sono attenti ai nostri bisogni e colgono quando siamo sotto pressione, mostrando disponibilità ad aiutare, nutre un senso di sicurezza psicologica al lavoro, oltre che aumentare il senso di appartenenza nei confronti dell’organizzazione (Trzeciak et al. 2019).


famiglie. In modo interessante, l’engagement è comunemente interpretato come un indicatore del benessere lavorativo: non è possibile investire energia psicofisica in un lavoro che non è percepito come motivante, appagante e soddisfacente (Robertson e Cooper 2010). Inoltre, la relazione tra compassion ricevuta e riconoscimento dell’efficacia del lavoro a scuola influenza, a propria volta, la soddisfazio-

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Approfondire —

• I. Buonomo, M. Pansini, S. Cervai, P. Benevene, Compassionate work environments and their role in teachers’ life satisfaction. The contribution of perceived collective school performance and burn-out, articolo sottoposto alla rivista «Frontiers in Psychology». • I. Buonomo, M. L. Farnese, M. L. Vecina, P. Benevene, Other-Focused Approach to Teaching. The Effect of Ethical Leadership and Quiet Ego on Work Engagement and the Mediating Role of Compassion Satisfaction, in «Frontiers in Psychology», 2021, 12, n. 2521. • S. De Stasio, P. Benevene, A. Pepe, I. Buonomo, B. Ragni, e C. Berenguer, The interplay of compassion, subjective happiness and proactive strategies on kindergarten teachers’ work engagement and perceived working environment fit, in «International journal of environmental research and public health», 2020, 17(13), n. 4869. • L. Eldor e A. Shoshani, Caring relationships in school staff: Exploring the link between compassion and teacher work engagement, in «Teaching and Teacher Education», 2016, 59, pp. 126-136. • I.T. Robertson, I. T. e C. L. Cooper, Full engagement: the integration of employee engagement and psychological well-being, in «Leadership & Organization Development Journal», 2010, 31 (4), pp. 324-336. • S. Sinclair, J.M. Norris, S.J. McConnell, H.M. Chochinov, T.F. Hack, N.A. Hagen, S.R. Bouchal, Compassion: a scoping review of the healthcare literature, in «BMC palliative care», 2015, 15(1), pp. 1-16. • S. Trzeciak, e A. Mazzarelli, Compassionomics: The revolutionary scientific evidence that caring makes a difference, Studer Group, Pensacola 2019.

ne di vita dei docenti coinvolti nei nostri studi.Vale a dire che stare in un ambiente di lavoro che mi supporta mi consente di pensare la mia scuola come un luogo efficace, che non solo gestisce bene il flusso quotidiano del lavoro, ma che sa anche impegnarsi per dare una buona immagine di sé all’esterno,che gestisce bene i casi più delicati, che comunica efficacemente con le famiglie. E questa efficacia nutre il senso di benessere generale, la soddisfazione di vita. Il motivo dell’“estensione” degli effetti della compassion al lavoro alla vita in generale è da rintracciarsi in un dato ormai noto in letteratura, cioè il fatto che la professione insegnante è spesso scelta sulla base di una profonda spinta personale a contribuire alla crescita dell’altro, oltre che alla sua formazione. Tale “spinta” (che nel lessico psicologico può essere tradotta come motivazione intrinseca) è comunemente associata a un senso di gratificazione proveniente dal fatto stesso di svolgere la propria attività al lavoro. Nonostante le difficoltà quotidiane e le sfide poste dalla complessità del lavoro a scuola, la professione docente è spesso ancorata a un insieme di significati che consente di mettere in prospettiva ostacoli e fonti di stress, in virtù del riconoscimento dell’importanza del proprio lavoro e dell’impatto che questo ha sulle vite degli studenti.

Alcuni aspetti operativi

— In questo quadro, la compassion tra insegnanti può potenziare gli effetti benefici a favore degli alunni, contribuendo a costruire i significati del proprio lavoro in un clima collettivo e supportivo, che ha effetto anche nella gestione quotidiana delle attività lavorative. Come si traduce operativamente la compassion nel lavoro a scuola? I primi risultati a nostra disposizione sembrano suggerire che docenti compassionevoli tra loro usano più spesso strategie di regolazione dello stress e delle emozioni che coinvolgono anche gli altri: si chiede aiuto più di frequente, ci si rende conto se un collega è in difficoltà, si individuano più facilmente le risorse disponibili per gestire lo stress proprio o altrui. In altre parole, essere compassionevoli non si traduce semplicemente in una maggiore attenzione o preoccupazione per l’altro, ma in atti tangibili, che vanno a ridurre o condividere il carico


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Un invito a collaborare alla ricerca

— Allo stesso tempo, ci sono numerosi aspetti da chiarire: in che modo la figura del dirigente scolastico (le sue caratteristiche, le sue decisioni, il suo stile di leadership) influenza gli effetti riportati in letteratura? Quali peculiarità nel mondo dell’educazione possono informare il lavoro di ricercatori, dirigenti e insegnanti, per capire meglio il ruolo e l’espressione della compassion a scuola? Allo scopo di rispondere a queste domande, stiamo conducendo una ricerca

aperta a tutti i docenti di scuola secondaria di primo e secondo grado sul territorio nazionale. Lo studio coinvolge sia singoli docenti che intere scuole. La partecipazione allo studio è gratuita e anonima: inoltre, laddove le scuole scegliessero di partecipare collettivamente,sarà possibile, a titolo gratuito, ricevere un report dei risultati della rilevazione nella specifica comunità educativa. Eventuali adesioni possono essere comunicate scrivendo a i.buonomo1@lumsa.it. NOTE 1. La scelta di usare il termine inglese compassion invece di compassione è dovuto ai significati che il termine tradotto veicola, riferiti a sentimenti di pena o di pietà (nel vocabolario Treccani, la prima definizione di compassione è “Sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti”). Come si osserva nella definizione fornita nel testo, nella letteratura psicologica il termine indica un atteggiamento più empatico e proattivo nei confronti dell’altro.

Ilaria Buonomo è psicologa, ricercatrice e docente in Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università LUMSA di Roma. I suoi principali temi di ricerca e intervento riguardano il benessere individuale e collettivo in organizzazione e le applicazioni della psicologia positiva al lavoro.

↑ Illustrazione del concetto di compassion (© Edutopia.org).

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emotivo legato al lavoro a scuola. Questo, a sua volta, ha un effetto positivo sull’idea di sé come professionista: fa sentire che le proprie competenze sono riconosciute, ci si sente parte di una comunità di persone che lavorano insieme in modo costruttivo e stimolante. Questi risultati suggeriscono che l’uso di modalità collaborative e di lavoro in team nei percorsi di formazione e specializzazione degli insegnanti può contribuire a rafforzare gli effetti positivi rintracciati nei primi studi. Inoltre, forniscono una chiara indicazione circa il potenziale contributo di ognuno alla costruzione di un ambiente di lavoro e di studio in cui ci si sente al sicuro e in connessione con gli altri, a vantaggio della produttività e del benessere di ciascuno.


Liberare la valutazione dalla tirannia del voto

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La valutazione è un momento fondamentale nel processo educativo e uno dei nodi nello sviluppo della professionalità docente. Quali sono le resistenze al passaggio dal voto al giudizio descrittivo e quali le prospettive? di Cristiano Corsini

There is no need, no desire, and no valuation, just as where there is no doubt, there is no cause of inquiry. John Dewey1

C

ome noto, l’Ordinanza Ministeriale 172 del 4 dicembre 2020 dispone il passaggio dal voto numerico ai giudizi descrittivi nella valutazione periodica e finale nella scuola primaria. Come evidenziato nelle Linee guida ministeriali del dicembre 2020, tale cambiamento non si esaurisce in un mero avvicendamento tra numeri e parole. In primo luogo, l’intento è quello di passare dall’impiego di un unico voto sintetico per ogni disciplina all’impiego di descrittori relativi ai diversi obiettivi per ogni disciplina, scelti da scuole e docenti. In secondo luogo, vengono indicate quattro dimensioni (autonomia, situazione nota/non nota, impiego delle risorse, continuità) da impiegare nel corso della valutazione in itinere ai fini della definizione del livello (in via di prima acquisizione,base,intermedio,avanzato) che consente di formulare un giudizio descrittivo per ogni obiettivo inserito nella scheda (tabella 1).

Avanzato

l’alunno porta a termine compiti in situazioni note e non note, mobilitando una varietà di risorse sia fornite dal docente sia reperite altrove, in modo autonomo e con continuità.

Intermedio

l’alunno porta a termine compiti in situazioni note in modo autonomo e continuo; risolve compiti in situazioni non note utilizzando le risorse fornite dal docente o reperite altrove, anche se in modo discontinuo e non del tutto autonomo.

Base

l’alunno porta a termine compiti solo in situazioni note e utilizzando le risorse fornite dal docente, sia in modo autonomo ma discontinuo, sia in modo non autonomo, ma con continuità.

l’alunno porta a termine compiti solo in situazioni note e In via di prima unicamente con il supporto del docente e di risorse fornite acquisizione appositamente. Tabella 1. Livelli


pedagogico-didattiche del passaggio dal voto ai giudizi sono indissolubilmente legate a quelle politico-culturali. Non è dunque un caso che la campagna che ha preceduto il cambiamento è stata guidata da associazioni come MCE, CIDI, AIMC e PROTEO sulla base di una visione critica nei confronti dell’ideologia meritocratica che usa il mito dell’oggettività valutativa come strumento per ratificare e giustificare disuguaglianze di natura economica e culturale. Probabilmente, il maggiore impedimento alla comprensione di un simile cambiamento è legato alla confusione rispetto al significato da attribuire alla valutazione educativa. La concezione della valutazione come strategia che dà forma a insegnamento e apprendimento, sebbene si sia mostrata negli anni estremamente efficace, è scarsamente diffusa presso un’opinione pubblica abituata a interpretare il giudizio o il voto prevalentemente nei termini di una classifica, poco utile dal punto di vista educativo ma coerente con una visione gerarchica e meritocratica della scuola e della società. In aggiunta a ciò, occorre ricordare che, sebbene sia raccomandato dalla normativa ministeriale, un compiuto ricorso alla valutazione come strategia didattica, vincolato com’è allo sviluppo di competenze metodologiche non banali, non è prassi universalmente diffusa all’interno delle scuole.

Quali resistenze?

— Allo scopo di ottenere informazioni utili a supportare scuole e docenti nella gestione di un cambiamento tanto complesso, presso la cattedra di Pedagogia sperimentale dell’Università Roma Tre stiamo realizzando un’indagine sul punto di vista di chi insegna rispetto al passaggio dal voto ai giudizi. Dopo una somministrazione di un questionario sugli atteggiamenti nei confronti della riforma, sono stati condotti focus group per approfondire quanto emerso nella prima fase di raccolta dati. Dal punto di vista delle resistenze e degli ostacoli nei confronti del cambiamento, emerge che a manifestare una netta contrarietà e un certo disorientamento nei confronti del passaggio ai giudizi è un gruppo di docenti che tende più del resto del campione a ritenere che la nuova valutazione sia meno precisa rispetto alla precedente,

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L’abbandono del voto numerico ha presentato tuttavia sin da subito complicazioni di non poco conto. Infatti, non preceduto da sperimentazioni né accompagnato da monitoraggio, il cambiamento è stato contrassegnato da una tempistica poco felice. Sotto questo aspetto, prescindendo dalle considerazioni sul fatto che il 2020 difficilmente verrà ricordato con eccessiva nostalgia, il problema è rappresentato dalla scelta di rendere effettivo l’abbandono dei voti ad anno scolastico in corso e per giunta nelle settimane a ridosso della scadenza quadrimestrale, chiedendo a scuole e insegnanti di rivedere le valutazioni in una manciata di giorni. A dispetto degli ostacoli sopra menzionati e del peso che, come vedremo, non mancheranno di esercitare sull’accoglimento e la realizzazione del passaggio dal voto ai giudizi, è indubbio che il cambiamento corrisponda pienamente a esigenze pedagogico-didattiche e politico-culturali emerse nel corso degli ultimi decenni e tra loro interconnesse. Se prendiamo gli ultimi novant’anni di esperienze e riflessioni sistematiche sulla valutazione educativa, grosso modo a partire dal contributo di John Dewey, procedendo per il formative assessment2 e arrivando fino all’assessment as learning3 di Earl, possiamo riscontrare una comune definizione di “valutazione educativa”4 incentrata su tre fondamentali elementi. La valutazione educativa può essere concepita nei termini di un processo che consente di formulare (I) giudizi di valore (II) sulla distanza tra obiettivi e realtà (III) allo scopo di ridurre tale distanza. Da questo punto di vista, possiamo dire che ben prima che l’evidence based education o gli studi sull’efficacia scolastica attestassero l’incidenza positiva sullo sviluppo di apprendimenti di feedback adeguatamente formulati e tempestivamente comunicati, la prassi didattica e la riflessione pedagogica più avveduta avevano chiarito da decenni l’imprescindibilità di una valutazione concepita come mezzo educativo di insegnamento e apprendimento piuttosto che come fine o ratifica premiale/punitiva del percorso svolto. A guardare con favore a questa visione della valutazione è, da decenni, un orientamento pedagogico impegnato in senso radicalmente democratico e trasformativo, ed è per questo che le ragioni


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che assegni uno spazio eccessivo alla valutazione rispetto all’insegnamento, che renda macchinosa la didattica e confonda insegnanti, famiglie, alunne e alunni, incidendo negativamente sui loro apprendimenti e sulla loro motivazione ad apprendere e penalizzando le eccellenze. È interessante osservare come questo gruppo di insegnanti sia accomunato da precise scelte e idee valutative. Dal punto di vista delle prassi, si tratta di docenti che, già prima del passaggio dal voto ai giudizi, rispetto al resto del campione raramente tendevano a restituire feedback analitici e descrittivi nel corso della valutazione in itinere. Con la nuova valutazione questo gruppo di docenti conserva una certa ritrosia a fornire riscontri analitici e descrittivi e tende a privilegiare l’impiego di giudizi sintetici (“ottimo”, “buono” ecc.). Dal punto di vista delle idee sulla valutazione, il gruppo che esprime contrarietà alla riforma manifesta in misura nettamente maggiore rispetto agli altri gruppi una visione meritocratica della valutazione e una netta avversione nei confronti del giudizio descrittivo, ritenuto troppo complesso da elaborare e poco utile se paragonato al voto numerico, considerato più preciso ed efficace. Da notare come, tendenzialmente, a usare i livelli in itinere – in aperta contraddizione rispetto a quanto indicato nelle linee guida che raccomandano di formulare i livelli per la valutazione periodica e finale – siano per lo più docenti che mostravano già in passato una scarsa propensione verso l’uso di riscontri di natura descrittiva. Lo stesso gruppo di insegnanti considera estremamente difficile il processo di formulazione di obiettivi di apprendimento e poco chiaro il funzionamento delle dimensioni presenti nelle Linee guida. Non è un caso che, nell’approfondimento seguito nei focus group, sia emerso con chiarezza un bisogno di formazione proprio su questi temi. Infine, segnaliamo due elementi di criticità, riscontrati non solo da docenti che esprimono contrarietà al cambiamento, ma dalla quasi totalità del campione. Essi sono legati all’impiego dei registri elettronici, ritenuti del tutto inadatti a una valutazione descrittiva, e alla permanenza dei voti nella scuola secondaria di primo grado, considerato un fattore che rende incoerente e discontinuo il percorso.

Cosa funziona?

— Nel complesso, il gruppo di insegnanti che esprime pareri favorevoli alla nuova valutazione ne riscontra effetti positivi sullo sviluppo degli apprendimenti e sulla motivazione, sui processi di inclusione,sul miglioramento dei rapporti tra docenti e sulla comunicazione con alunne, alunni e famiglie. Il gruppo è composto da docenti che già prima dell’abbandono del voto numerico usavano con maggiore frequenza del resto del campione feedback descrittivi rispetto alle attività svolte in itinere. Si tratta di insegnanti consapevoli dell’efficacia didattica dei giudizi descrittivi e che condividono una visione non meritocratica né competitiva dell’insegnamento e, conseguentemente, impiegano la valutazione come mezzo di regolazione, non di mero accertamento, dell’apprendimento. Nei focus group emerge con evidenza come questo gruppo di docenti concepisca il cambiamento nei termini di un’occasione per riallineare la valutazione periodica e finale a idee e prassi che già caratterizzavano un fare scuola fortemente connotato in senso attivo, inclusivo, comunitario e trasformativo. Anche questo gruppo di docenti esprime perplessità sulla permanenza del voto nella scuola secondaria e manifesta esigenze formative in relazione alla costruzione di giudizi descrittivi più efficaci.

Quali prospettive?

— Per concludere, proviamo a individuare alcune prospettive di intervento, tenendo in considerazione i nodi problematici segnalati con maggiore frequenza dal campione di docenti rispondenti. Partiamo dalla formulazione di obiettivi di apprendimento. In alcuni istituti è emersa la tendenza a inserire un numero eccessivo di obiettivi all’interno della scheda. Questa scelta comporta problemi di duplice natura. Da un lato, rischia di rendere la scheda scarsamente comprensibile per le famiglie, che sono costrette a districarsi tra diverse decine di livelli. In secondo luogo, per valutare compiutamente il livello di apprendimento rispetto a un obiettivo sono necessarie più attività (altrimenti è impossibile fare ricorso alla dimensione della continuità) e di diversa natura (si pensi alla dimensione che richiama il carattere noto o non noto della


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termini premiali o punitivi rappresentati da numeri e medie. Si tratta indubbiamente di sfide non facili,rispetto alle quali le scuole sono state colpevolmente lasciate sole. Da questo punto di vista,il rafforzamento dei legami tra attività didattica e ricerca pedagogica appare davvero indifferibile. NOTE 1.J.Dewey,Theory of Valuation,University Press, Chicago 1939. 2. M. Scriven, The methodology of evaluation. In R.W. Tyler, R.M. Gagne & M. Scriven (eds), Perspectives of curriculum evaluation, Vol. I, pp. 39-83, Rand McNally 1967. 3. L. M. Earl, Assessment as Learning: Using Classroom Assessment to Maximize Student Learning, Corvin press, Thousand Oaks 2013. 4. C. Corsini, La valutazione che educa, FrancoAngeli, Milano 2022 (in corso di stampa). 5. E. Nigris, G. Agrusti (a cura di), Valutare per apprendere. La nuova valutazione descrittiva nella scuola primaria, Pearson, Milano-Torino 2021.

Cristiano Corsini è professore ordinario di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre. Si occupa di valutazione in campo educativo e di indagini nazionali e internazionali sull’efficacia e sull’equità di scuole e sistemi d’istruzione. Tra i suoi lavori: La valutazione che educa (FrancoAngeli, Milano 2022, in corso di pubblicazione), Evaluating educational quality (FrancoAngeli, Milano 2021, con C. Tienken e M. Tomarchio), Valutare scuole e docenti (Edizioni Nuova Cultura, Roma 2015), Il valore aggiunto in educazione (Edizioni Nuova Cultura, Roma 2009).

↑ Una pagella dell’anno scolastico 1941-42 (foto Wikicommons).

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situazione, e dunque il ricorso a prove di diversa complessità5). L’erronea tendenza a usare i livelli come voti, assegnandoli per le singole attività – tendenza già favorita dal fatto che numerosi registri elettronici forniscono un menu a tendina coi quattro livelli per ogni intervento valutativo – è legata anche alla formulazione di un numero eccessivo di obiettivi. Si tratta di una scelta poco sostenibile dal punto di vista didattico perché può comportare una burocratizzazione del lavoro in classe, generando un’ansia da valutazione che rischia di compromettere la qualità dell’insegnamento e dell’apprendimento. Al contrario, la scelta di un numero limitato di obiettivi, operata da altri istituti, ha consentito di dedicare un tempo adeguato a obiettivi selezionati da scuole e docenti in base alla loro importanza o alla loro significatività. Non va dimenticato che gli obiettivi da inserire nella scheda non rappresentano la totalità di obiettivi sui quali lavorare. Inoltre, non tutto ciò che conta in campo educativo può essere misurato, accertato, osservato e valutato né può esserlo soltanto secondo schemi prestabiliti: per questo,formulare un numero ristretto di obiettivi consente di prendersi del tempo per far emergere altri aspetti rilevanti, più o meno attesi. Un altro aspetto che assume una rilevanza fondamentale è la scelta delle attività valutative. Come accennato, le dimensioni impongono di fare ricorso a diverse tipologie di attività. D’altro canto, se è necessario rendere conto della capacità di alunne e alunni di impiegare attivamente le conoscenze acquisite per affrontare situazioni complesse, sarà indispensabile affiancare a prove a risposta chiusa o univoca attività come i compiti autentici. Altri nodi rilevanti sono rappresentati dalla comunicazione con le famiglie e dall’impiego del registro elettronico. Si tratta di due elementi tra loro interconnessi e che prevedono, da parte di scuole e docenti, una postura assertiva sia nei confronti dei gestori dei registri, che sono chiamati a modificare sostanzialmente i dispositivi sulla base delle esigenze degli istituti, sia nei confronti delle famiglie, che vanno adeguatamente informate sulle ragioni pedagogico-didattiche dell’abbandono dei voti anche se tali ragioni sono in aperto contrasto rispetto alla tendenza, non di rado espressa dalle stesse famiglie,a concepire la valutazione nei


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