

INDICE
Alla ricerca delle parole perdute
Maria Clara Ghia
Alterità
Vittoria Silvaggi
Autorialità
Antonio Azzolini
Fluidità
Marco Addona, Diana Carta
Ibridazione
Carmelo Gagliano
Intempestività
Marco Ugolini
Edoardo Menon
Narrazione
Paola Amato, Ornella Amato
Ordinarietà
Elisa Labellarte
Paura
Mattia Baldini, Laura Mucciolo
Primitivismo
Lorenzo David Filippi
Profondità
Lucia Nicolai
Relazione
Manuela Ciangola, Alessandro Di Egidio
Spiritualità
Nadia Bakhtafrouz
ALLA RICERCA DELLE PAROLE PERDUTE
Maria Clara Ghia
Io temo tanto la parola degli uomini. Dicono tutto sempre così chiaro: questo si chiama cane e quello casa, e qui è l’inizio e là è la fine.
E mi spaura il modo, lo schernire per gioco, che sappian tutto ciò che fu e sarà; non c’è montagna che li meravigli; le loro terre e giardini confinano con Dio.
Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani. A me piace sentire le cose cantare. Voi le toccate: diventano rigide e mute. Voi mi uccidete le cose.
Rainer Maria Rilke1
Il seminario, svolto tra luglio e ottobre 2023 all’interno della scuola di dottorato di “Architettura. Teorie e Progetto”, è nato dall’urgenza di ritagliare un tempo, nel frenetico bombardamento di immagini e slogan al quale siamo quotidianamente sottoposti, per fermarsi a riflettere sulle parole che si usano nel descrivere i fatti architettonici del panorama contemporaneo.
«Che le parole abbiano qualcosa a che fare con l’architettura […], è qualcosa di cui ormai si potrebbe legittimamente dubitare. Al giorno d’oggi, piuttosto, le “parole” dell’architettura sono considerate i fatti; e i “fatti”, in ambito architettonico, sono eminentemente costruttivi»2: questo scriveva Marco Biraghi nell’Introduzione a Le parole dell’architettura del 2009.
Se da una parte la condizione di crisi della cultura architettonica riflette la situazione più generale di crisi della cultura, è utile tuttavia riflettere sulle cause, sulle condizioni specifiche che hanno portato le teorie dell’architettura a non avere più parole. Poiché la prospettiva che l’architettura possa diventare una «disciplina meramente esecutiva, una pratica immediatamente traducibile in un fare»3, e che le nuove schiere di architetti che si formano nelle nostre Facoltà non frappongano più nulla tra il momento dell’avverarsi dell’idea progettuale e il suo trasponimento in forme compiute, è quantomeno allarmante. È proprio in questo intervallo, una temporalità lenta e inviolabile per il progettista, che devono risuonare parole, ponderate e sensate.
Da qui lo spirito innanzitutto didattico con cui il seminario si è offerto a una generazione sempre più disabituata a pensare l’architettura al di là degli slogan di pronto consumo.
Affinché le cose cantino
Quali sono dunque le parole che usiamo per descrivere i fenomeni architettonici contemporanei? Quali sono i loro significati? Le usiamo bene, per così dire? Sono queste parole sufficienti per abbracciare la complessità degli eventi attuali? Ci servono altre parole? Quali?
A partire da questa serie di domande, alle quali se ne sono aggiunte altre ragionando insieme, si è proceduto a una riflessione teorico-critica che ha portato alla formulazione di questo “breve glossario” per l’architettura contemporanea.
Ridefinire un lessico per le teorie dell’architettura, oggi inevitabilmente plurali e transdisciplinari, è essenziale per affrontare gli enormi cambiamenti che stiamo attraversando. A questi troppo spesso si risponde accostando al termine architettura aggettivi accattivanti per il grande pubblico e per il mercato – tra i quali sostenibile, inclusiva, green, parametrica – il cui significato, seppur partendo eventualmente da corrette posizioni, si fa però sempre più confuso e labile a causa della velocità e superficialità con cui i messaggi vengono consumati.
L’interesse teorico-critico sembra oggi concentrarsi quasi esclusivamente su linguaggi legati alla sostenibilità, all’efficienza energetica, alla bioarchitettura e ai formalismi della progettazione parametrica, tendenza
ci servono?
comprensibile nel contesto attuale. Tuttavia, questa attenzione si focalizza sempre più sugli aspetti tecnici, intesi come risposte immediate a esigenze contingenti. La dimensione umanistica del progetto, parte integrante della tradizione architettonica, viene così relegata ai margini della riflessione. È necessario riscoprirla e riconsiderarla con maggiore consapevolezza.
Rispetto alle “parole della tecnica”, quante altre parole abbiamo oggi relegato all’oblio? Quando e in che modo è avvenuto questo slittamento di senso e interesse verso un tecnicismo forse definitivamente imperante?
Resi ottusi da un linguaggio che calcola, razionalizza, detta certezze, oppure semplicemente banalizza, riusciamo ancora a essere percettivi rispetto a quel “canto” degli edifici che il Fedro di Paul Valéry ascoltava in Eupalino4?
Sembra anche all’opera una sorta di “pudore” nel pronunciare alcune parole invece essenziali per descrivere i fenomeni architettonici, come se alcuni temi non fossero appropriati in un mondo in crisi, come se non fosse più il caso nella situazione attuale di accedere alla pienezza dell’espressione artistica, costitutiva dell’architettura tanto quanto il sapere tecnico, come se apparisse poco politically correct, viene da dire, guardare a quegli aspetti e a quelle qualità che attingono anche alla sfera dell’arte.
Eppure questi aspetti sono tutt’altro che frivolezze, perché rispondono ai bisogni esistenziali di chi abita lo spazio costruito. Quella “meraviglia” della quale scrive Rilke nei versi che aprono questa Introduzione, la possibilità che “le cose cantino”, che non diventino “rigide e mute”, che non vengano “uccise”, risiede anche nelle parole che usiamo per descriverle, e nel modo in cui le usiamo.
Poeticamente, su questa terra
Accedere alla dimensione estetica è dunque un bisogno esistenziale, ce lo insegna Martin Heidegger che a partire dal verso di Friedrich Hölderlin scrive il noto saggio Poeticamente abita l’uomo: «Quando Hölderlin parla dell’abitare, guarda al tratto fondamentale dell’esserci dell’uomo. E la “poesia”, per converso, la considera a partire dal rapporto con questo abitare inteso in maniera essenziale»5. Ciò che Heidegger sottolinea a più riprese è che la parola “poeticamente”, appena pronunciata, suscita l’impressione che si trasvoli fantasticamente oltre il reale. Mentre è nel verso successivo
si associa a un oggetto come ne Il catalogo di oggetti introvabili di Jacques Carelman19. Oppure ne modifica il colore come nel caso di Man Ray con il Pain peint. Chiesa di Santa Margherita Maria Alacoque a Roma
Nel 2005, Italo Rota con il progetto per la chiesa di Santa Margherita Maria Alacoque a Roma [1-2] definisce un volume azzurro dal tetto a capanna che si staglia contro l’informalità della periferia di Tor Vergata. Nel caos dell’assenza di pianificazione si può scorgere un oggetto alieno, astratto, quasi metafisico. Una croce, non prevista nel progetto, è stata apposta nel tentativo, fallito20, di rendere riconoscibile la chiesa [3]. Percorrendo un vialetto, tra orti coltivati e canti di galli, ci si ritrova al cospetto non di uno, ma di due edifici. Il primo, dalla consistenza opaca e apparentemente cieco, contiene la chiesa. Il secondo, una gabbia bianca cuspidata, è il campanile: un volume autonomo che diventa altro da sé, dalla tipologia che ha attraversato il tempo, e acquista una dimensione inedita. Il linguaggio si distingue, lo spazio si dilata e configura una grande stanza a cielo aperto, un giardino pensile nelle intenzioni dell’architetto [4]. La chiesa al contrario è compressa, ridotta alla dimensione minima di un’aula.
I due edifici si accostano l’uno all’altro come protagonisti di una natura morta “morandiana”. Viene a mancare la gerarchia che ricorre tra chiesa e campanile e si genera un inconsueto rapporto alla pari. I restanti locali del complesso vengono collocati strategicamente al piano seminterrato, con accesso dal retro, liberando la quota zero e consentendo di apprezzare il rapporto tra i volumi principali. Uno spazio davvero breve li separa, facendo scattare quella “distanza limite” di cui parla Franco Purini in Comporre l’architettura21. La rotazione che interessa il campanile accentua la relazione magnetica tra gli edifici. Così l’attenzione si sposta sul vuoto, quello spessore compresso in cui i due corpi stanno per toccarsi. Difficile stabilire se tra di loro si avverta una forza di attrazione o di repulsione. La superficie esterna della chiesa con un disegno, memore delle esperienze dell’architettura radicale, è misurata da una maglia quadrata che, senza soluzione di continuità, riveste le pareti e la copertura [5]. Il campanile è caratterizzato invece da una trama tessuta da travi in acciaio e rete metallica. Entrambi gli edifici sembrano esser stati sottratti allo scatto fotografico di Bernd e Hilla
servono?


4 -
Becher: un’estetica industriale li accomuna. Il profilo a capanna costituisce un ulteriore elemento comune. Più statico, quasi cubico, quello della chiesa assume la figura rassicurante della casa disegnata da un bambino. Compresso in una forma aguzza, che potremmo definire gotica, il profilo del campanile. Pop è il riferimento ai colori del cielo. Emerge l’intenzione di annullare il volume e produrre una concettuale smaterializzazione. L’allusione a una dimensione altra che si è liberi di immaginare.
La chiesa, indifferente, si infrange sul contesto suburbano, mentre si disfa a contatto con il cielo. Il campanile al contrario accetta l’alterazione. Si sovrappone al contesto, accoglie forme e colori, producendo un’interferenza con ciò che lo circonda. La chiesa invece esclude il contesto: due lucernari costituiscono le uniche aperture dell’edificio, altrimenti introverso. All’interno uno spazio bianco indiviso: l’architetto si ispira alla spazialità essenziale e raccolta delle prime chiese cristiane. Le pareti perimetrali sono marcate da paraste, mentre quattro colonne scure segnano lo spazio liturgico e, sfiorando la copertura, ne mettono in crisi la verità costruttiva. Il complesso parrocchiale assume le sembianze dell’effimero, di un’architettura pensata per la temporaneità e non per la durata. La facciata della chiesa si fa fondale e il campanile meccanismo teatrale [6]. Se lo spazio
3,
Learning from Tor Vergata e La nave sepolta, disegni dell’autrice.

1 - Alexander Graham Bell (a destra) e i suoi assistenti osservano i progressi di uno
suoi aquiloni tetraedrici. Nuova Scozia, Canada, 1908. Fonte: Library of Congress, Prints & Photographs Division, Gilbert H. Grosvenor Collection of Photographs of the Alexander Graham Bell Family.
Queste immagini raccontano gli interrogativi sul concetto di eerie da Mark Fisher, secondo il quale: «The eerie concerns the most fundamental metaphysical questions one could pose, questions to do with existence and non existence: Why is there something here when there should be nothing? Why is there nothing here when there should be something? The unseeing eyes of the dead; the bewildered eyes of an amnesiac – these provoke a sense of the eerie, just as surely as an abandoned village or a stone circle do»2.
Il fenomeno dell’eerie, che viene correlato a quello del weird, è una condizione che si manifesta attraverso un processo di “fallimento” inteso sia come failure of absence che failure of presence; cioè tramite una condizione comunque di “mancanza”. Ciò porta, secondo Fisher, l’osservatore ad indagare le responsabilità di questa mancanza che ricadono nelle questioni dell’agency. Sebbene il significato sia molto esteso all’interno dei campi disciplinari della filosofia e/o della sociologia, una sua definizione più generale intende la manifestazione della capacità di un’entità, – l’agente appunto – di agire, cioè di interagire nel reale producendo conseguenze, in modo intenzionale3.
dei
Si può supporre una similitudine tra agency ed autorialità che ci fa concentrare in primo luogo attorno all’azione. L’ipotesi di una corrispondenza tra “agente” e autore si fa più evidente se si analizza l’etimologia latina di auctor, per cui: «[...] l’auctor, nella tradizione latina, è chi possiede capacità d’iniziativa, promuove un atto, perfeziona e garantisce, integrandola e rafforzandola, la insufficiente volontà o personalità di un altro (come il patronus, il pater, il tutor); così pure, chi è in grado di trasmettere a un’altra persona un diritto di cui si rende garante (è il caso dell’auctoritas venditoris), ovvero chi si fa mallevadore della “autenticità” delle altrui affermazioni (il testis)»4.
Da questa associazione si nota come il tema dell’intenzione – o della capacità – è imprescindibilmente associato alla figura dell’autore. L’allargamento del dominio delle capacità della produzione intellettuale al di là di una logica antropocentrica – negli interrogativi sulla sostituibilità tra uomo e macchina5 – pongono, infatti, l’urgenza di concentrare il dibattito sull’autorialità oggi attraverso le categorie di autenticità e quindi di riconoscibilità dell’autore.
Le proprietà dell’attribuzione
Se consideriamo un esempio celebre come la disputa storiografica nell’attribuzione dell’autorialità tra Adalberto Libera e Curzio Malaparte della villa a Capri (1938-1942), ci si interroga non tanto sullo stabilire chi dei due abbia effettivamente disegnato la villa, ma se il vero valore dell’opera risieda nelle intenzioni che hanno definito quell’attacco al suolo, la posizione di quelle finestre o l’esistenza di quella scala [4]. In altri termini, se un’opera esiste e quindi esiste necessariamente un suo autore, la possibilità che quest’ultimo si nasconda o che non ne sia chiaro immediatamente il ruolo effettivo, fa riflettere sulle intenzioni, aprendo al dubbio se non consista proprio in questo aspetto l’indizio principale dell’identità autoriale.
Un esempio della difficoltà di trovare strumenti semplici per questioni complesse può essere individuato per analogia nel macchinario per eseguire il test Voight-Kampff in Blade Runner: un oggetto in grado di rispondere a un quesito di distinzione tra uomo e macchina. Il test, immaginato da Philip K. Dick6, è uno strumento che definisce l’autenticità ma che, rispondendo a una logica binaria sulla natura di ciò che esamina, lascia aperte tutte le altre questioni riguardo la responsabilità delle azioni dei replicanti
di un carattere tipomorfologico dinamico e accogliente lo spazio esterno. L’orografia irregolare che ospita l’edificio sembra suggerire la disposizione dei volumi per placche sovrapposte, che si spingono e respingono in un gioco tumultuoso che scompone l’idea del classico, pur prendendo sempre le mosse dalla tradizione per proporre forme nuove. Quest’ultime abbracciano lo spazio dentro-fuori, come dimostrato dal diverso orientamento delle finestre ai piani superiori, che catturano la maggiore quantità di inclinazione solare. Moretti opera, quindi, in continuità morfologica con la specificità del luogo, generando geometrie di relazione tra dentro e fuori, restituendo la multisensorialità di uno spazio che risponde al contesto in maniera quasi naturale. [6]

4 - Baldassarre Peruzzi, Palazzo Massimo alle Colonne, 1532, disegni dell’autore.

5 - Giustapposizione tra antico e moderno, con al centro la palazzina del Girasole di Luigi Moretti. Correlazione tra sito/forma/struttura, immagine elaborata dall’autore.

6 - Luigi Moretti, dettagli della palazzina del Girasole, collage di immagini dalla rivista «Spazio» diretta da Luigi Moretti (1950-53).
Ibridazione

1 - Diagramma della sede del Consiglio di Castiglia e Léon a Zamora di Alberto Campo Baeza. I due livelli di spazio marginale interstiziale, disegno dell’autore.
configura come un dispositivo mobile che attrezza la campagna. Qui l’idea alla base è il concetto di fluidità della casa che è composta da due blocchi, uno fisso destinato al soggiorno con servizi e alla camera padronale e uno mobile destinato alle camere per gli ospiti. Lo spazio liminale entro cui scorre il blocco mobile viene talora annullato essendo occupato dalle camere mobili, talora diviene spazio accessorio e parte integrante del soggiorno.
Un caso marginale: Casa Mieli di Umberto Riva
Umberto Riva custodisce un vasto repertorio di opere architettoniche attraverso cui riflettere sul tema del margine. Nella sua vasta produzione, sono forse meno note le opere nel Sud Italia, in particolare quelle pugliesi: la Casa Amoruso Lonoce a Brindisi, la Casa Fedele a Lecce, la Casa Lonoce a Roca, la Casa Mieli a Uggiano la Chiesa – ad eccezione della Casa
Quali parole ci servono?

2 - Pianta della casa ad Alenquer di Francisco e Manuel Aires Mateus. Il nuovo edificio viene collocato all’interno della preesistenza, generando uno spazio marginale tra le vecchie e le nuove mura, disegno dell’autore.

3 - Planimetria di Montagnana, nella valle del Po, riconoscibile grazie al doppio registro di margini costituiti dalla cinta muraria e dal fiume, disegno di Edoardo Menon.

2 - Wilfriedo Prieto, Beso, Milano, 2020.
l’afro-futurismo, che ha tra le sue caratteristiche quella di proiettare l’immaginario afro in dimensioni spazio-temporali e sospese fra antico e moderno. Il film Black Panther può senz’altro essere interpretato come un manifesto visuale dell’estetica afro-futurista. Nei progetti dell’architetto Burkinabé la terra cruda, le risorse e le tradizioni locali fanno da contrappunto a una progettazione high-tech. Così la tendenza al primitivo, individuata nel ricorso ai materiali della tradizione e nell’elaborazione del folklore costruttivo, è ancora una volta una componente messa in risalto da un processo più complesso.
Questi due casi sono lavori riconducibili per varie ragioni al primitivismo, entrambi compiono una ricerca su “ciò che è primo”, ma lo rielaborano applicandovi un’intensa sofisticazione, tale che la tendenza verso l’origine divenga uno strumento per arrivare a proiettare il progetto in uno sviluppo teso al futuro, piuttosto che a rimandi più o meno nostalgici del passato.
A questo punto può essere interessante provare a indagare il terzo approccio, cercando di individuare progetti di architettura che dispieghino lo stesso esercizio messo in atto da Brancusi, ossia la ricerca di una forma-tipo genitrice. Valerio Paolo Mosco in tal senso suggerisce che «il
ci servono?

3 - Anne Holtrop, Green Corner Building, Bahrain, 2020.
ritorno al frugale è dunque il passaggio obbligatorio per ritrovare quella concentrazione spirituale senza la quale gli archetipi, rimanendo muti, ci abbandonano alla desolazione spirituale»6 .
Archetipi moderni
L’archetipo in architettura è un tema di ricerca ricorrente, esso riporta alla nascita della disciplina e della civiltà, oltre che a origini e significati comuni per tutti. Tra questi ricorrono la grotta, la capanna, il menhir. Il bisogno primordiale di un rifugio conduce l’uomo dapprima nelle caverne, delle cavità trasformate dall’acqua e dalla natura che conservano la memoria geologica della terra e rappresentano per le diverse civiltà non solo un rifugio, ma un luogo sacro, di trasformazione e connessione con entità sovrannaturali. A seguire, la capanna è un’idea di casa e l’abate Laugier identifica nella costruzione di questa primitiva struttura l’archetipo per eccellenza del fare architettura, affermando che «ogni bellezza risiede soltanto nelle parti essenziali»7. Oltre alle forme tipologiche, vi sono poi quei comportamenti primordiali, quasi istintivi e ricorrenti che producono architettura, come la posa di una pietra o il solco di un terreno.
Il progetto è articolato sulla base di quattro principi cardine: l’interpretazione, attraverso l’architettura del luogo su cui sarebbe sorto il nuovo complesso; la coerenza con la tradizione storica islamica; la caratterizzazione del complesso come opera moderna, senza indulgere verso linguaggi non contemporanei; la creazione di un rapporto di continuità con il tessuto urbano e con la tradizione storica romana. Un progetto basato su quello che Portoghesi definisce la “teoria dell’ascolto dei luoghi”10. Esternamente, l’edificio si presenta come un volume di matrice quadrata introversa, organizzato attorno a un cortile centrale, che funge da spazio di ritrovo e riflessione per i fedeli. Nonostante alcuni richiami alla tradizione locale, come l’utilizzo del travertino e del cotto rosato, presenta un’immagine “inedita” con le sue cupole e il minareto che si innalza verso il cielo. [5]

2 - La Moschea dello Shah (Masjid-e Shāh in persiano), Isfahan, Iran, foto dell’autrice.





3, 4 - L. Barragan, La Cappella di Tlalpan; T. Ando, La Chiesa della luce.
5 - La grande Moschea di Roma, Paolo Portoghesi. Vista del cortile centrale, foto di Moreno Maggi.
