Marta Bertazzoni - Ugo La Pietra e l’architettura degli interni

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Il senso e il valore dell’architettura degli interni in rapporto al design e all’arredo urbano

Prefazione di Ugo La Pietra

Verso una storia dell’architettura degli interni

Premessa

Lo spazio interno come pratica culturale

Saggio storico

anni ’60

Galleria Spaggiari

Galleria Cenobio

Casa Pizzi

Libreria Uno sull’Altro

Boutique Altre Cose

ANNI ’70

Galleria Visualità

Boutique Mila Schön

Negozio Jabik & Colophon

La cellula abitativa

Occultamento Case Gescal

Letto di Penelope

Interno / Esterno

Spazio Reale. Spazio Virtuale

Paletti e Catene

ANNI ’80

L’interno verso l’esterno

La Casa Telematica

La casa del desiderio

Casa Aperta

Giardino all’italiana

Casa Palcoscenico

Ville Mediterranee

ANNI ’90

Hotel Spadari

Casa Naturale. Casa Virtuale

La casa neoeclettica

Camere con vista

Il Bagno Anheim

Cucina Tuttinsieme

Dai giornali ai portali

L’eredità viva di Ugo La Pietra Conclusioni

Ugo La Pietra e l’architettura di interni

Postfazione di Pierluigi Salvadeo

Apparati

Bibliografia

Il senso e il valore dell’architettura degli interni in rapporto al design e all’arredo urbano

Prefazione di Ugo La Pietra

Per capire il valore di un volume dedicata alla rilettura di una disciplina come l’Architettura degli Interni, occorre ricordare il senso e l’importanza che questa disciplina ha avuto accompagnando, e a volte celebrando, la nostra società. Di fatto, attraverso questa disciplina che un tempo si chiamava “ammobiliamento”, riusciamo a riconoscere il senso e il valore della nostra comunità in rapporto alla storia, alla cultura, alla politica, all’economia. Ma oggi il senso di questa esplorazione ci appare ancora più importante, non solo per un’analisi dell’evoluzione (o meglio involuzione) della disciplina stessa ma anche perché, confrontandola con il design di questi ultimi decenni, ne sottolinea il valore rispetto ai limiti del progetto legato all’oggetto d’uso.

Architettura degli Interni era, e può essere ancora, una disciplina che ci aiuta a mettere in relazione l’individuo con l’ambiente, l’ambiente con gli oggetti, gli oggetti con gli oggetti. La perdita di questo modello di comprensione ci fa capire i limiti di una disciplina che abbiamo coltivato negli ultimi decenni: il disegno industriale. Una disciplina che progetta e realizza oggetti a cui mancano le relazioni sopra citate: l’ambiente, lo spazio, i rituali, il rapporto tra l’oggetto e gli altri oggetti. Inoltre è ancora più utile lo studio e la comprensione di questo ambito disciplinare se ci muoviamo alla scala urbana.

Oggi è sempre più evidente la necessità della nostra società urbanizzata di vivere all’interno dello spazio collettivo.

La disciplina “arredo urbano”, sviluppata dall’inizio degli anni ottanta – che aveva fatto nascere i dipartimenti di arredo urbano nelle Facoltà di Architettura e la figura istituzionale dell’Assessore all’Arredo Urbano – non ha contribuito minimamente alla definizione di uno spazio “abitabile”. Negli anni ’60 e ’70 ho usato spesso lo slogan “Abitare è essere ovunque a casa propria”; ebbene, dovremmo studiare meglio la disciplina che ci consente di “abitare” lo spazio domestico – l’Architettura degli Interni – per lavorare e rendere abitabile lo spazio collettivo “quasi per imitazione”. Intendendo con “abitabile” uno spazio – privato nel caso dell’architettura degli interni, pubblico nel caso dell’arredo urbano – dove è possibile espandere la propria personalità, connotandolo e completandolo per una abitabilità fatta di: riposo, gioco, studio, comunicazione, ristoro, isolamento, tutte categorie che dovrebbero essere presenti nell’attività collettiva urbana. Purtroppo, oggi le nostre città sono solo un “ristorante”... e tutte le altre funzioni? Il disagio degli abitanti delle nostre città – che si manifesta, ad esempio, con la così detta “movida urbana” – dovrebbe farci capire quanto lavoro deve essere fatto per renderle “abitabili”: introducendo quindi tutte le categorie utili a questa pratica collettiva, e magari rileggendo i caratteri di una disciplina quale l’Architettura degli Interni.

Ugo La Pietra con Globo Tissurato, Milano, 1968.

Per analizzare in maniera approfondita le esperienze e le ricerche condotte da Ugo La Pietra nel corso degli anni Sessanta, è fondamentale tenere in considerazione una serie di elementi che hanno influenzato il suo percorso sin dalla fine degli anni Cinquanta. In particolare, rivestono un ruolo centrale la sua profonda passione per la musica jazz e l’interesse nei confronti della corrente brutalista in arte e architettura, da lui osservata tanto nelle opere dello scultore Milani quanto nelle realizzazioni architettoniche di Vittoriano Viganò.

È inoltre opportuno ricordare che La Pietra si iscrisse alla Facoltà di Architettura nel biennio 1957-58, un contesto temporale in cui si diffuse, tra i giovani artisti, una forte attrazione per l’informale. È infatti proprio verso la fine degli anni Cinquanta che emergono in modo evidente le sue prime scelte e ricerche. Da un lato, lo troviamo impegnato insieme ad Alberto Seassaro e Marcello Pietrantoni nel formulare metodi per condurre la ricerca presso la Facoltà di Architettura, sviluppando le teorie dei “modelli di comprensione”1 e indican-

1. Strumenti di conoscenza progettati da Ugo La Pietra, volti a trasformare il tradizionale rapporto opera–spettatore; l’esempio più significativo è Il Commutatore (1970).

Libreria Uno sull’Altro

> Pavia, 1968

La Libreria Uno sull’Altro, ideata da La Pietra nel 1968 e frutto della collaborazione con la ditta di mobili Poggi di Pavia, non è semplicemente un complemento d’arredo, ma una vera e propria opera d’arte funzionale. Ciò che rende unica la libreria è la sua concezione modulare e polifunzionale: con elementi componibili e scorrevoli, permette al fruitore di dare libero sfogo alla propria creatività e personalità, configurando l’oggetto secondo i propri desideri e le proprie esigenze. Questa flessibilità la rende adatta a qualsiasi spazio e a qualsiasi contesto, garantendo la massima versatilità. La sua struttura tridimensionale si sviluppa lungo due direzioni e si apre su due lati, creando una dinamicità visiva che cattura l’attenzione e incanta lo sguardo, offrendo un’esperienza unica e personalizzata. La sua presenza nelle collezioni permanenti del Museum of Modern Art di

New York, della Triennale di Milano e del Musée d’Art Moderne et Contemporain di Saint-Étienne Métropole testimonia il suo valore artistico e storico nel panorama del design internazionale. Nonostante la sua nascita risalga a oltre mezzo secolo fa, la Libreria Uno sull’Altro ha continuato ad evolvere fino ai giorni d’oggi. Una interessante evoluzione di questo capolavoro è rappresentata dalla sua riedizione come versione a parete, utilizzata anche come testata per il letto, che rappresenta una reinterpretazione dello stesso autore, realizzata nel 2005 dalla Morelato Srl. La Libreria Uno sull’Altro si distingue come un’opera unica nel panorama del design contemporaneo, testimoniando la sua rilevanza per versatilità, modularità e capacità di adattarsi alle mutevoli esigenze degli ambienti moderni.

← Riedizione della Libreria Uno sull’Altro, versione a parete come testata per il letto, Milano, 2005.

→ Libreria Uno sull’Altro, Casa La Pietra, Milano, 1970.

La Pietra

Boutique

Altre Cose

La Boutique Altre Cose collegata al sottostante night-club Bang-Bang, è stata inaugurata quest’estate a Milano. Uno straordinario ambiente programmato, un ambientestrumento, in cui gli effetti ottici, e sonori, e i movimenti elettronici delle parti, trasformano il funzionamento in gioco, un gioco in cui il visitatore stesso partecipa e contribuisce. Una piattaforma mobile, con motore elettrico, racchiusa da un involucro trasparente in materiale acrilico, corre su un piano inclinato: trasporta le persone, due per volta, dalla sottostante “cave” del BangBang alla boutique. Nel locale interno alla boutique, dove arriva la piattaforma mobile, le pareti sono delle lastre in materiale acrilico, trasparenti, scorrevoli su tre piani e alte dal pavimento al soffitto: schermano i passaggi e fanno da supporto agli abiti esposti; incise secondo un disegno ricorrente, queste superfici trasparenti

creano, nella sovrapposizione e con le diverse rifrazioni della luce, mobili effetti su tre dimensioni. La riflessione in una parete a specchio raddoppia il volume del locale di ingresso; le altre tre pareti, il pavimento ed il banco, con il quadro dei comandi, sono rivestiti in lastre di lamiera forata. Sospesi al soffitto nel locale di ingresso, trenta contenitori cilindrici (alti due metri e con diametro di settanta centimetri) in materiale acrilico trasparente, contengono gli oggetti in vendita. Premendo uno dei pulsanti raccolti nel quadro di comando il cilindro corrispondente si mette in movimento, calando dal soffitto all’altezza voluta, e contemporaneamente viene illuminato da un fascio di luce a cono stretto: durata della corsa (discesa e salita) trenta secondi; velocità, otto metri al minuto.

Trini T. (1968). “Un architetto per vestire la moda”. Domus, 460.

↓ Interni della Boutique Altre Cose, contenitori cilindrici e quadro comandi.

Ugo La Pietra e l’architettura

Ugo La Pietra con Commutatore: modello di comprensione, Milano, 1970.

Negli anni Settanta, l’attività di Ugo La Pietra si distingue per un’intensa fase di ricerca e sperimentazione che, secondo autorevoli studiosi quali Enrico Crispolti e Vittorio Fagone, può essere definita come un momento “extra media”, in cui l’artista amplia significativamente il proprio repertorio espressivo, superando i confini del disegno, della fotografia e delle opere bidimensionali, per includere in modo sostanziale anche l’immagine fonografica. La Pietra si impegna in performance, creazione di ambienti, interventi urbani, produzione di film e video, evidenziando un percorso artistico audace e progressivamente distaccato dai canoni istituzionali del sistema dell’arte, rappresentato da gallerie e musei. Tale orientamento si riflette non solo nella natura delle opere, caratterizzate da interventi urbani collocati al di fuori degli spazi espositivi tradizionali, ma anche nella scelta dei mezzi espressivi e nella modalità organizzativa delle sue attività. In questo contesto, assumono rilievo le esperienze di autogestione tramite collettivi quali La Fabbrica di Comunicazione, La Cooperativa Maroncelli e Global Tools, così come la cura e la direzione di pubblicazioni quali In, Progettare, Brera Flash e Fascicolo.

Boutique Mila Schön

→ Disegno tecnico della Boutique Mila Schön, Ugo La Pietra.

→ → Ugo La Pietra all’ingresso della Boutique Mila Schön. > Roma, 1971

La Boutique Mila Schön, situata in Via Condotti a Roma e progettata nel 1971, si distingue per la volontà di superare i codici compositivi tradizionali attraverso un uso radicale e consapevole dei piani inclinati, i quali sovvertono intenzionalmente la geometria euclidea dello spazio architettonico canonico. Questi elementi, anziché rispondere a una mera funzione strutturale o decorativa, assumono un ruolo attivo e pregnante nel definire l’esperienza percettiva e fenomenologica dell’ambiente, generando una dimensione immersiva e provocatoria che stimola una riflessione critica sulla spazialità costruita.

L’inclinazione delle superfici, che coinvolge pareti, pavimenti e soffitti, si traduce in una composizione dissonante e dinamica, nella quale la percezione visiva e l’orientamento corporeo del visitatore sono costantemente sollecitati. Questo approccio induce una rottura delle abitudini percettive e favorisce una lettura dello spazio fondata sull’instabilità, sullo straniamento e sulla partecipazione sensoriale attiva: le superfici non solo destrutturano il linguaggio spaziale convenzionale, ma instaurano anche un ritmo compositivo frammentato e policentrico, che rifiuta la simmetria e la linearità in favore di una narrazione architettonica aperta e sperimentale.

Di particolare rilevanza è il rapporto instaurato tra l’interno e l’esterno dell’edificio, enfatizzato dalla presenza di una grande vetrina con un taglio fortemente

scenografico, che mette in comunicazione diretta i due livelli principali della boutique. Il passante è così indotto, quasi inevitabilmente, a volgere lo sguardo verso l’interno, instaurando una relazione di permeabilità e di interazione reciproca tra l’ambiente costruito e il flusso della città.

In questo senso, la boutique non si configura unicamente come luogo destinato alla vendita o alla fruizione merceologica, bensì come uno spazio architettonico a tutti gli effetti, in cui la dimensione commerciale viene trascesa a favore di una sperimentazione linguistica e formale. L’architettura degli interni diviene così un campo di ricerca progettuale autonomo, orientato alla definizione di nuove modalità di abitare e di percepire lo spazio. In tal modo, la Boutique Mila Schön si afferma come espressione emblematica di una stagione progettuale in cui l’architettura si fa strumento critico, linguaggio espressivo e mezzo di indagine sulla complessità dello spazio contemporaneo.

Ugo La Pietra e l’architettura degli interni

Letto di Penelope

Il Letto di Penelope, progettato da Ugo La Pietra nel 1976 in collaborazione con Roberto Beretta e Antonio Macchi Cassia, e realizzato su tessitura di Paola Besana, costituisce una reinterpretazione innovativa del letto a baldacchino. La struttura si distingue per un impianto geometrico a forma cubica e per un sistema meccanico basato su bastoni mobili, disposti lungo un doppio telaio, che consente lo spostamento su assi orizzontali e verticali. L’elemento di maggiore originalità risiede nell’impiego di corde tese, intrecciate in doppio ordine, che permettono la creazione di piani inclinati e la riconfigurazione dello spazio del baldacchino. Questo espediente introduce una certa variabilità formale, anche se la complessità del meccanismo può sollevare interrogativi sulla reale efficacia e funzionalità dell’oggetto nella quotidianità domestica. La realizzazione da parte di Tosi Mobili

> Rovigo, 1976

(Rovigo) riflette una tipica collaborazione tra progettisti e artigiani, comune nella produzione di arredi sperimentali del secondo Novecento. Frutto di questa collaborazione è un oggetto che si configura non solo come elemento d’arredo, ma anche come oggetto di design contemporaneo, in cui si compenetrano valori estetici e funzionali. Nel contesto della produzione di La Pietra, il Letto di Penelope si inserisce come esempio di un approccio concettuale al design, che privilegia l’idea e il gesto progettuale rispetto alla standardizzazione e all’usabilità. Sebbene l’opera venga talvolta citata come rappresentativa di una certa visione del design italiano degli anni Settanta, essa solleva anche interrogativi sul confine tra oggetto d’uso e installazione artistica, e sulla reale incidenza di tali sperimentazioni sull’evoluzione del design abitativo contemporaneo.

← Disegno del Letto di Penelope, Ugo La Pietra.

degli interni

Ugo La Pietra e l’architettura
↑ Letto di Penelope, realizzato da Paola Besana.
Ugo La Pietra con Polaroid, 1983.

All’inizio degli anni Ottanta Ugo La Pietra si distingue per una marcata propensione teorica e progettuale incentrata sul concetto di memoria, maturata anche grazie al confronto intellettuale con figure quali F. Fico, G. Dorfles e G. Betterini. Nella sua prospettiva, lo sviluppo dei sistemi telematici e informatici conduce progressivamente all’erosione della memoria tradizionale, concepita come esperienza tridimensionale, e alla conseguente affermazione di una nuova forma di memoria di natura bidimensionale. Tale impostazione trova espressione emblematica in una serie di interventi significativi: dalla mostra “Cronografie” presentata nel 1980 alla Biennale di Venezia al volume Pro-memoria, dal progetto La Casa Telematica del 1982 al video Memoria tridimensionale-Memoria bidimensionale del 1981. Attraverso queste iniziative, La Pietra non solo articola la propria riflessione teorica, ma la traduce in forme comunicative di forte impatto spettacolare, capaci di coinvolgere un ampio pubblico e di alimentare vivaci dibattiti all’interno del panorama critico e artistico contemporaneo. In diverse occasioni, Ugo La Pietra ha descritto gli anni Ottanta come un periodo cruciale di confronto con una delle sfide più complesse della sua pratica creativa: la sintesi tra concettualità e spettacolarità. La

La Casa Telematica

Il progetto La Casa Telematica, co-curata con Gianfranco Bettetini e Aldo Grasso, fu un progetto che apriva interrogativi più che offrire soluzioni, con l’intento di stimolare il pubblico alla consapevolezza del cambiamento in corso: negli anni Ottanta si iniziava a intuire come i nuovi strumenti informatici e telematici fossero destinati a modificare i comportamenti e i rituali, a partire dalle abitudini domestiche, che non sempre volgevano al miglioramento. Il progetto quindi si espresse attraverso la ricomposizione delle tipologie ambientali tradizionali, proprio per consentire allo spettatore un immediato aggancio con la realtà abitativa in cui si muoveva quotidianamente, ma all’interno di questi codici spostava l’attenzione verso alcuni strumenti, su alcuni oggetti rivisitati, su alcuni segni che alludevano a più o meno profonde modificazioni. Pochi colori esaltavano la messa in scena dei vari terminali, l’arredamento era contaminato dall’alta tecnologia, il decoro alle pareti rifaceva il verso ai piccoli segni dei videogames: immagini un po’ esasperate, un po’ inquietanti, un po’ divertenti, immagini con cui avremmo dovuto prima o poi fare i conti, situazioni che avrebbero potuto modificare le gerarchie, l’uso della memoria, le ritualità,

che abbiamo conservato finora. Questo tema del rapporto spettatore-strumento è stato ulteriormente esplorato nella mostra “Guardando la TV”, alla manifestazione “Abitare il Tempo” di Verona del 1998. La mostra sottolineava come, nonostante il passare degli anni, la progettazione del salotto domestico continuasse a non tenere conto del ruolo centrale della televisione e degli altri strumenti tecnologici.

La Casa Telematica ha rappresentato quindi un primo e isolato esperimento di verifica e contaminazione tra la crescente memoria elettronica e lo spazio domestico, che poi si è evoluto in ulteriori reinterpretazioni. Al tempo, il progetto non fu subito compreso e apprezzato, forse perché la visione innovativa di La Pietra ha anticipato di molto i ragionamenti intorno al rapporto tra vivere la casa e vivere i media, che solo attualmente si stanno iniziando a sviluppare. La sua capacità di immaginare e rappresentare i cambiamenti dettati dall’integrazione della tecnologia nello spazio domestico rimane una testimonianza fondamentale e incredibilmente attuale di come l’arte e il design possano offrire prospettive critiche e lungimiranti sulle trasformazioni sociali e culturali.

Un milione di persone ha visitato il padiglione che conteneva l’installazione della Casa Telematica, un milione di persone che anche questa volta è andato alla fiera per vedere il proprio futuro!

Ancora oggi la gente va, anche alla “Fiera di Milano”, per vedere le cose, gli strumenti, le invenzioni destinate a modificare la propria vita futura, ci va con entusiasmo, con disponibilità e spregiudicatezza anche perché pensa sempre che chi progetta per il futuro lo fa sempre per migliorare la società. Così ben pochi erano disposti, visitando la Casa Telematica a recepire un progetto che fosse problematico e non propositivo, proprio seguendo

l’antica tradizione delle Fiere, gli spettatori volevano vedere nella Casa Telematica una proposta nella quale immergersi provando per un istante ad immaginare come si sarebbero trovati all’interno di quel particolare ambiente. In questo senso la proposta deludeva il tradizionale rapporto visitatorefiera, introducendo un nuovo parametro: quello di far scattare meccanismi legati al pensiero ed al comportamento. La Casa Telematica è stata presentata infatti come un allestimento problematico con la precisa volontà di provocare delle reazioni nel visitatore.

La Pietra U. (ed.) (1983). La Casa Telematica. Milano: Società editrice Katà.
↑ La Casa Telematica, soggiorno terminale.

Casa Aperta

Riferendomi al concetto per cui abitare non è solo usare lo spazio privato ma anche lo spazio pubblico, mi pare che si possa pensare che, come l’individuo da solo o nel gruppo familiare è riuscito ad organizzare il proprio spazio privato, arredandolo e attrezzandolo, garantendosi spesso la possibilità di intervento e di edificazione dello spazio stesso, così dovrebbe essere possibile trasferire molte di queste esperienze progettuali e d’uso, sviluppate nel privato, nel cosiddetto spazio pubblico. Come nello spazio privato, in cui ambiente e oggetti sono definiti per sviluppare attività legate alla comunicazione dei sistemi di informazione audiovisiva e le pratiche per la sopravvivenza e l’igiene ad attività ludiche e culturali, anche lo spazio pubblico

deve assolvere a tutte queste funzioni. E proprio come alla definizione del nostro spazio privato partecipano: una serie di fattori legati a normative ed infrastrutture di base – impianti igienici, idraulici, elettrici, del gas, dei sistemi di informazione – e ad oggetti prodotti in grandissima serie, in piccola serie, unici, o fatti addirittura da noi stessi, nuovi o vecchi, colti o di gusto corrente, preziosi o economici; così, nella città, dovrebbero essere presenti infrastrutture di base, in piccola serie o interventi di elementi unici per la definizione di spazi da arredare secondo una concezione di arredo urbano che di volta in volta presenta problemi formali e d’uso diversificati.

La Pietra U. (1995). Ad Arte: 1985-1995. Dieci anni di ambienti e oggetti per abitare con arte. Edizioni Morelato Alinea, p. 302.

Ugo La Pietra e l’architettura degli interni
↓ Ugo La Pietra all’inaugurazione
della Casa Aperta

Giardino all’italiana

↑ Disegno del Giardino all’italiana, Ugo La Pietra.

→ Festa di inaugurazione del Giardino all’italiana.

Giardino all’italiana fu, anch’essa come la precedente, un’installazione promossa da Assopiastrelle e realizzata in collaborazione con Cersaie, per la manifestazione aziendale del 1989. L’opera consisteva nella reinterpretazione del concetto tradizionale di giardino all’italiana, usando per la realizzazione solo ed esclusivamente ceramica, materiale artigianale ed emblematico per questa tipologia architettonica. L’intera opera infatti era rivestita interamente in piastrelle ceramiche industriali, che si distinguevano per varietà di disegni, colori, forme e prestazioni tecniche, richiamando il profondo legame che la cultura mediterranea ha sempre avuto con l’ambiente artificiale.

Offriva l’opportunità di osservare l’impiego di questi materiali in una vasta gamma di espressioni e applicazioni: come il mosaico a tessitura irregolare utilizzato per le bordure sfrangiate delle aiuole, elementi in monocottura, sia lucida che opaca, rivestivano i diversi pavimenti e pareti e il cotto tradizionale era applicato nella passatoia d’ingresso e sulla scala che conduceva alla Gradinata dei fiori. La Pietra, anche in questo progetto, riproponeva il tema del giardino con la sua struttura centrale, come il giardino del Settecento, per alludere a un modo di pensare e progettare tenendo ben presente la doppia natura di luogo per il piacere e luogo per la contemplazione.

Ugo La Pietra e l’architettura

Ugo La Pietra con il prototipo della Sedia Patù, 1990.

Il concetto di “neoeclettismo”, teorizzato e inaugurato alla fine degli anni Ottanta, si afferma come una corrente di pensiero e prassi progettuale profondamente innovativa, trovando in Ugo La Pietra uno dei suoi più autorevoli interpreti nel decennio successivo. Gli anni Novanta, infatti, segnano per l’artista un periodo di intensa riflessione e produzione, incentrato sulla diversità culturale e sulla riscoperta dei valori intrinseci dei territori. In un’epoca segnata dall’incalzante omologazione globale, La Pietra si erge a baluardo della identità locale, proponendo un’indagine critica e profonda sulla capacità dei luoghi di conservare la propria specificità, nonostante le dinamiche traslative del tempo. Le opere pittoriche e grafiche di questo periodo, in particolare quelle dedicate a La Casa Neoeclettica e alla Nuova territorialità, costituiscono la sintesi più compiuta di tale approccio. Attraverso queste rappresentazioni, La Pietra sviluppa una meditazione sul rapporto dialettico tra l’individuo, lo spazio vissuto e le radici culturali che permeano il contesto geografico. Non si tratta di una mera celebrazione del passato, ma di un’operazione di decodifica e reinterpretazione di archetipi e simboli che definiscono l’appartenenza a un luogo. Parallelamente, l’impegno di La Pietra si manifesta nella

Cucina Tuttinsieme

Da troppi anni la nostra industria riferita alla produzione della cucina ha sviluppato la struttura fatta di elementi di serie aggregabili. [...] Potranno invece nascere così oggetti e mobili capaci di raccontare ciò che contengono, espongono e in che modo sono disposti per la lavorazione e presentazione dei cibi. Alla sequenza dei pensili anonimi e ripetitivi si sostituiscono quindi mobili con una loro autonomia e identità.

La Pietra U. (1996). Contributo in Abitare il Tempo Catalogo della manifestazione. Verona: Veronafiere.

Il progetto Cucina Tuttinsieme rappresenta una significativa evoluzione nella concezione degli spazi domestici, in particolare della cucina, integrando il passato con una visione innovativa e tipologicamente avanzata. La Pietra, riconosciuto per il suo approccio “neoeclettico”, ha saputo cogliere l’essenza del cambiamento nei rituali domestici e tradurlo in un linguaggio architettonico che valorizza l’estetica degli oggetti di uso quotidiano. Negli anni Cinquanta, l’industria della cucina era dominata dal modello della “cucina all’americana”, caratterizzata da elementi modulari standardizzati e anonimi. Tuttavia, a partire dagli anni Settanta e Ottanta, si è verificato un cambiamento significativo nei comportamenti e nelle esigenze delle famiglie.

Il piacere di conservare e mostrare i cibi, di celebrare la loro forma e colore, ha spinto i designer a concepire oggetti e mobili che non fossero solo funzionali ma anche estetici.

In questo contesto, il progetto abbandona l’anonimato della modularità a favore di una nuova identità e autonomia dei mobili: la scelta del legno come materiale principale, insieme alla decisione di utilizzare strutture aperte o con ante in cristallo, conferisce a questa cucina un aspetto di leggerezza e trasparenza. Non più semplici contenitori di oggetti, i mobili diventano vetrine che raccontano ciò che custodiscono, integrando funzionalità, bellezza e permettono di valorizzare gli oggetti contenuti, rendendo la cucina non solo un luogo di lavoro, ma anche uno spazio espositivo dove ogni utensile e alimento trova la propria dimensione estetica. La Cucina Tuttinsieme diventa così un simbolo di come gli interni possano evolversi, mantenendo un dialogo costante con il passato e al contempo aprendo nuove strade per il futuro, elevando la cucina a spazio di espressione tradizionale, personale e di valorizzazione estetica.

← ↑ Cucina Tuttinsieme, coordinata da Gianni Cutolo, edizione La Galerie, 1996.

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