PROLOGO
Gabriele Mastrigli e Manuel Orazi
«Il disgusto nel dover parlare di sé stessi è ciò che distingue i romanzieri dai poeti», ha scritto
Milan Kundera, noto per essere stato tra i più schivi e riservati scrittori del Novecento. Il romanzo, nella precisione della sua lingua, è per Kundera ciò che ci mette al riparo «da quelle che Malraux chiama le illusioni liriche», racconta in una delle sue rare interviste1.
Pur avendo attraversato buona parte dell’architettura della seconda metà del Novecento accanto ai suoi protagonisti, Giorgio Ciucci si è sempre tenuto a distanza dalla ribalta. Per dirla con Kundera, ha preferito alla postura del poeta lirico, che dei personaggi canta le verità, quella dello scrittore, cioè di colui che cerca di analizzarne, comprenderne e raccontarne le vicende. Non era scontato, se pensiamo alla formazione in quella formidabile scuola di architetti-storici nell’asse Roma-Venezia – da Zevi a Portoghesi, da Benevolo a Tafuri – e al loro protagonismo tra politica, professione e ricerca. Eppure, forse per quel curioso miscuglio di ascendenze svizzere e disincanto romano che emerge a più riprese dall’intervista che ci ha concesso nel 2019, Ciucci è sempre riuscito a mantenere una certa distanza dalle cose, persino un vero e proprio distacco, che gli ha consentito tanto l’analisi lucida quanto lo sguardo omnicomprensivo,
tanto il giudizio sferzante quanto l’ironia. Così, anche il tono colloquiale di una conversazione, densa ma tutto sommato informale, lascia intravvedere i presupposti di una scrittura, o anche di più: di uno stile.
Per molti versi la prosa limpida di Giorgio
Ciucci è più affine all’immagine della sfera, mentre quella torbida di Manfredo Tafuri è più affine all’immagine del labirinto, contrapposta nell’ultimo libro dedicato all’architettura moderna, La sfera e il labirinto, appunto, del 1980. In un articolo del 1977, inglobato poi nell’introduzione al libro, Tafuri aveva definito il suo progetto storico come «un percorso a scatti all’interno di un intrico di sentieri2». Come è accaduto anche tra Carlo Aymonino e Aldo Rossi – anche loro divisi da una differenza d’età di pochi anni, troppo pochi cioè per poter considerare il loro rapporto come quello tra maestro e allievo – un lungo percorso comune, ideale e politico, ha nascosto le differenze individuali, diventate più esplicite col passare del tempo. Ad esempio Ciucci non ha seguito Tafuri nel sentiero della microstoria allora in voga e nell’uso della filologia – divenuto poi abuso. Inoltre la natura apollinea degli scritti di Ciucci si è sempre più differenziata da quella dionisiaca di quelli tafuriani, condizionata da
esperienze traumatizzanti come la psicanalisi e una malattia. La propensione di Ciucci, al contrario di molti suoi colleghi, si è limitata al genere saggistico e mai invece verso quello manualistico, come la maggior parte dei suoi colleghi. La forma stilistica del saggio è stata a lungo sottovalutata, eppure scrivere un saggio richiede non solo competenze specifiche ma anche un talento letterario e una tecnica formale adeguata, non a caso in questo genere letterario hanno brillato soprattutto i poeti, da Vittorio Sereni a Pier Paolo Pasolini, passando per Franco Fortini e Giorgio Bassani3. Con un certo ritardo, sono stati inseriti nella collana dei Meridiani, ovvero i classici, anche gli storici della letteratura come Giacomo Debenedetti e Alberto Asor Rosa, dell’arte come Roberto Longhi (maestro diretto di Pasolini, Bassani, Attilio Bertolucci) e Mario Praz, sarebbe ora il caso di includere anche quelli dell’architettura. Non a caso l’ultimo libro di Ciucci è stato il tentativo di costruire una storia dell’architettura non manualistica ovvero una collazione di ritratti di architetti esemplari del ‘900, che per quanto ricca di rimandi interni e di temi ricorrenti, in ultima analisi si tratta di una raccolta di saggi4. La chiarezza di Ciucci è frutto anche della sua precisione, entrambi termini che la critica ha utilizzato per caratterizzare lo stile
LA FAMIGLIA CIUCCI E VALLE GIULIA
Gabriele Mastrigli: Vorremmo iniziare questa intervista chiedendoti di parlarci della Facoltà di Architettura di Roma, dove hai studiato; soprattutto delle persone e del clima di quel periodo di passaggio, tra la fine degli anni ’50 e la metà dei ’60, prima dell’avvento della cosiddetta università di massa.
Giorgio Ciucci: Bisogna capire che è importante incontrare le persone giuste, nel luogo giusto, e che la facoltà di Architettura di Roma è molto diversa dalle altre. Alla fine occorre riconoscere che i professori che c’erano prima non erano pessimi, anche se devo dire che era vecchia, molto vecchia. Hai presente le pezze? Erano dei fogli in cui tu dovevi disegnare, disegnare, disegnare. Erano dei disegni che facevi dal vero per Enrico Del Debbio, come un’anfora o una cupola: di qua è facile, ma di là la mano non gira. Il disegno perciò era il fondamento di tutto. Poi c’era Gaetano Minnucci, che non riuscivo a seguire perché aveva dei tic nervosi ma era un personaggio di alto spessore, e anche Del Debbio non era certamente da meno, aveva ottimi assistenti, giovani. C’era Roberto Marino, che forse
non conoscete, un ingegnere che ha fatto il Palazzo dell’Aeronautica qui a Roma, era della vecchia
scuola, e i suoi assistenti erano Alfredo Lambertucci, Sergio Lenci, Andrea Nonis, tutti architetti di alto livello. Quindi c’era una scuola, in cui i vecchi erano ancora tutti presenti, per esempio erano appena andati via Marcello Piacentini, Vincenzo
Fasolo, il più vecchio di tutti, che era diventato preside della scuola, ma anche per lui il disegno era un elemento fondamentale. C’erano analisi matematiche pazzesche. C’era un libro intitolato
Analisi matematica e geometria analitica, di Armando Chiellini1. Era pazzesco, vera e propria ingegneria, e poi meccanica razionale. Era una scuola in cui si aveva veramente una complessità, e noi eravamo ideologicamente contro perché pensavamo chissà che cosa, però loro ancora mantenevano certe posizioni… Voglio dire, la qualità era data non tanto da quello che dicevano, ma dalle persone che avevano tirato su.
GM: Quindi qui ci troviamo negli anni 1958/59? Quando ti sei iscritto?
GC: Nel 1958, con un anno di ritardo: sono stato bocciato in seconda media.
Manuel Orazi: Chi l’avrebbe mai detto…
GM: Ecco, a proposito di questo, senza scendere troppo negli aneddoti, ci piacerebbe però capire come sei arrivato ad architettura.
GC: Mi piaceva disegnare. Molto. Ricordo mio fratello (che non combinava nulla nella vita e fu mandato all’età di tredici anni in un collegio in Svizzera) che doveva fare dei disegni, ma era incapace e glieli facevo io, tipo cose egiziane, stranissime e mi piaceva molto. Dopodiché non c’è una ragione precisa. Forse c’è un fatto, molto privato, ma che io non sapevo e ho saputo dopo: mia madre era stata la prima moglie di Alberto Sartoris. Entrambi giovanissimi, lui aveva sei anni meno di lei, si erano sposati civilmente in Svizzera, a Ginevra. Infatti mio padre arrivò a Ginevra come corrispondente prima del Resto del Carlino, poi del Corriere della Sera alla Società delle Nazioni. Mio padre era del 1905, mia madre del 1899, mentre Alberto Sartoris era del 1901.
MO: Quindi tua madre era di madrelingua francese?
GC: La famiglia viene in parte da Domodossola, in parte dall’area svizzera e in parte dall’area
Mario Manieri Elia, L’architettura del dopoguerra in U.S.A., Cappelli, Bologna 1966.
GC: Sì. Tutti lo eravamo. Ma c’era un altro aspetto. Io ho sempre avuto la mania dei libri, come mio padre, era un vizio di famiglia…
MO: Bibliomane!
GC: Bibliofolle più che bibliofilo. E mi ricordo che al secondo anno di architettura, mi comprai tutti i numeri di «Casabella Continuità» che avevo trovato da un libraio. Fra l’altro vedi quei libri dietro rilegati? Sono rilegati perché erano dello Stass, hanno anche l’etichetta. Abbiamo fatto tutto in comune ma poi mi sono ripreso i miei. Quindi con l’apertura su «Casabella», con i dibattiti di «Casabella», Tafuri che cominciava a collaborare con «Casabella» e altre riviste così, come gli altri, Fattinnanzi ecc., si era aperto un altro mondo dal punto di vista generale. Nel 1966 come ho detto si è aperto lo studio Stass, da cui poi Insolera se ne andrà perché non condivideva le posizioni degli altri. Tra l’altro Edoardo Salzano era del Partito comunista ed era diventato un consigliere comunale per il PCI a Roma, quindi giocava anche un ruolo molto importante. Nel frattempo facevamo tutti i nostri lavori di studio, con Massimo D’Alessandro e il sottoscritto. Io mi dedicavo alla mia tesi di laurea dalle 9 alle 12 studiando e disegnando perché di giorno lavoravo.

Giorgio Ciucci, Massimo D’Alessandro, Mario Manieri Elia, Composizione per montaggio. Residenze alla Camilluccia a Roma, in “Casabella”, 373, gennaio 1973.
MO: Che per un paio d’anni ha insegnato a Venezia.
GC: Sì, insegnava ad Ingegneria a Roma con Manieri, che poi aveva lasciato Ingegneria e quindi la lasciò anche lui. In seguito a questa trasformazione della società Monte Amiata, che aveva la sede vicino a piazza Ungheria, viale Regina Margherita, hanno venduto la sede piccola e comprato più avanti sulla sinistra le case dei ferrovieri che erano state messe in vendita. Hanno buttato giù tutto e costruito la nuova sede, un palazzo gigantesco. Il progetto lo fece Cesare Pascoletti, architetto mediocre, professionista romano. Poi arrivò il problema del quartiere Monte Amiata…
GM: Intendi il famoso intervento a Milano in zona Gallaratese.
GC: Si, D’Alessandro padre voleva darlo a Pascoletti, ma il figlio disse: «Ma scusa dallo ad Aymonino, dallo a uno che perlomeno è più noto». Il padre, che era sveglio, capì che Aymonino gli portava tanta di quella pubblicità rispetto a Pascoletti, perché Aymonino andava sulle riviste mentre Pascoletti no. Dunque l’incarico della Monte Amiata arrivò tramite il figlio del presidente. Io ho lavorato a studio Aymonino a disegnare una parte
un momento di vera collaborazione. Sentire Cacciari che era bravissimo nel parlare… Cacciari aveva una particolarità che è diventata una nevrosi: lui ripeteva lo stesso concetto venti volte ma cambiando continuamente punto di vista, parole eccetera. Gli studenti erano affascinati, poi quando scriveva era anche incomprensibile spesso. Quando parlava aveva questa maniera aggressiva che era molto vitale, vivace, vibrante. E quindi questo era un corso fatto di quattro persone e gli incroci venivano fuori automaticamente, e gli studenti “bevevano” questi incroci, un corso fantastico.
MO: C’era anche un lato internazionale dell’Istituto che poi esplose però, non so quando arrivarono esattamente Philippe Duboy, Georges Teyssot, Jean-Louis Cohen è venuto qualche volta…
GC: Eravamo molto amici poi ci siamo allontanati. Philippe Duboy e Georges Teyssot erano legati soprattutto all’ambiente francese ma vennero a stare lì, proprio si trasferirono.
MO: E quindi evidentemente c’era già un’eco che arrivava a Parigi, perché altrimenti…
GC: Assolutamente.
RELAZIONI TRANSATLANTICHE
MO: E poi si stabilì subito un legame con gli Stati Uniti sull’onda forse di questi viaggi, però chiaramente a un certo punto arrivò Peter Eisenman, non so quando con esattezza.
GC: Il legame con gli Stati Uniti lo ha creato Stanford Anderson, il quale scrisse che avrebbe avuto piacere se Tafuri o uno del gruppo fosse andato a insegnare a Boston. Peter non c’entrava niente. E ci riunimmo, si fece una scelta. Manieri disse «no, io non vado», lui non si sarebbe mai mosso da Roma. Dal Co fremeva, e Tafuri disse «Francesco è bene che non vada, ci vai tu». Non ci furono spiegazioni. E io ho detto «va bene, obbedisco». Era così.
MO: In che anno sei andato?
GC: Nel 1976.
MO: E sei andato al MIT?
GC: Sì. Che cosa dovevo fare? Mi hanno dato varie possibilità e io ho sviluppato il tema su Wright
il tema della stratificazione che in qualche modo la avvicinava certamente al progetto di Cannaregio. Poi tutto il processo si è impantanato. Mi sembra abbiano trovato anche dei resti archeologici e il progetto si è fermato…
GC: Non lo so, ha fatto questo progetto poi chiedeva a tutti «cosa ne pensate?». Forse lui stesso non era del tutto convinto, mi è sembrato. Mentre quello per l’area di Cannaregio a Venezia era un progetto brillante, intelligente, la maglia, lo sfalsamento, le rotazioni, tutte le sue fantasie, le sue Eisenman-manie, qua mi sembrava una cosa molto costruita, nel ragionamento, non sciolta come l’altra.
GM: Nel tuo lavoro su Terragni, e mi riferisco al saggio Terragni e l’architettura29, c’è una formidabile ricostruzione del pensiero dei suoi esegeti, che ho apprezzato, il contrario di quello che succede oggi dove ognuno dice la sua pretendendo di fornire la chiave di lettura corretta. Invece tu hai ricostruito l’architettura di Terragni attraverso chi ha scritto di lui. Quando arrivavi a Eisenman ero molto curioso di sapere cosa dicevi.
GC: Non ricordo, che ho detto?
Giorgio Ciucci, (a cura di), Giuseppe Terragni. Opera completa, Electa, Milano 1996.