Architettura e morte

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ARCHITETTURA E MORTE RITI, SEPOLCRI

E RESTI

DELL’UMANO

CATERINA PADOA SCHIOPPA

Inventario breve di architetture per la morte

Caterina Padoa Schioppa

Paeasaggi in transizione: bunker, ciminiere e spazi inabitabili

Caterina Padoa Schioppa

TRÈNODÌA | Laura Mucciolo

ÀNIMA | Lorenzo Casavecchia

La morte è in cerca della sua forma

Giovanni Corbellini

TÈRRA | Caterina Padoa Schioppa

INDICE SPAZIO PRATICHE

L’impermanenza, tra spazi fisici e spazi digitali

Niccolò Di Virgilio

SÒGLIA | Sarah Becchio, Giovanni Corbellini

SVANÍMENTO | Marco Ugolini

CÉNERI | Felice Cimatti

64 60
90
ESTETICA E METAFISICA DEI SEPOLCRI Stefano Catucci 25 128 132 148 51 81 123 153

MANIFESTO DELLO SPAZIO INFERO

Caterina Padoa Schioppa

Cronografia della morte in cinque atti

Caterina Padoa Schioppa

TEORIE TEMPO

Accampare comunità del dubbio

Caterina Padoa Schioppa

Note sul conferimento di senso alla morte umana

Marcello Massenzio

CATÀRSI | Alessandro Di Egidio

Per un’architettura oltre e senza il recinto

Felice Cimatti

CONTĬNĔO | Giorgia Ioana Simion

CADÚCO | Giulio Feliziani

Addomesticare il lutto

Mariacristina D’Oria

OBLÍO | Mattia Baldini

Spunti di riflessione su un’esperienza rituale

Stefano Colavita

SPÀRGIMENTO | Manuela Ciangola

144 118 104 100 76 7 15 43 69 95 109 137

MANIFESTO DELLO SPAZIO INFERO

CATERINA PADOA SCHIOPPA

In un celebre articolo del 1955, Goffrey Gorer scriveva che la morte, letteralmente il corpo morto, nelle società del perbenismo del XX secolo è divenuta “pornografica”, ha sviluppato forme patologiche di pudore e di censura un tempo consacrate alla sessualità1. La morte odierna, argomentava l’antropologo inglese, collocandosi in uno spazio non-visibile, non-godibile, provoca non già l’angoscia salutare degli antichi, i quali di fronte alla decomposizione del cadavere hanno inventato lo spazio e il tempo celebrativo, ma le inestricabili ossessioni dei moderni che alimentano, fin dall’infanzia, la “crisi” in cui siamo profondamente imbrigliati.

La provocazione di Gorer, accidentalmente ironica, è uno dei modi, forse il più perspicace, per infrangere l’omertà, la diffidenza e il disagio che, quasi senza eccezioni, investe chi si trova a parlare di morte. Un proverbio cinese dice che “ridere allunga la vita”, e un altro che “si può ridere di tutto”, si può dunque ridere anche della morte. Di certo, il riso, prima di essere interpretato come uno dei segni distintivi della condizione umana, manifestazione del corporeo e del materiale, e venire demonizzato nel mondo cristiano a favore di una generale “gravità” della vita, ha avuto un’essenziale funzione rituale, come il pianto. Ridere è catartico, consente di dissipare la paura, oltre che dissimularla, e nella Grecia antica era la facoltà che permetteva di entrare in risonanza con il divino2. Questo piccolo inciso sul riso serve a introdurre questo libro. Da alcuni anni sono immersa nello studio antropologico, politico e soprattutto architettonico della morte. La morte mi è vicina, almeno da quando, nel 2000 appena laureata, con il primo stipendio ho affittato una casa al PèreLachaise, nell’unico edificio situato all’interno del perimetro del cimitero storico di Parigi. Un piccolissimo monolocale, al primo piano, che, con i morti, condivideva la vista sul cielo, sulle chiome dei platani e la quiete. Credo di aver intuito allora che si può coabitare con la morte – in senso fisico e figurato – senza per questo funestarsi l’esistenza, e al contrario avvertendo nella mortalità della vita la possibilità di una mondana lievità. Con questa modesta consapevolezza, nella primavera del 2023, ho proposto un seminario di dottorato3 sull’architettura “per” la morte e i suoi riti, in una prospettiva che prenda atto dei cambiamenti antropologici che si sono verificati negli ultimi due secoli – descrivibili, in estrema sintesi, con la secolarizzazione della civiltà moderna e la de-secolarizzazione del mondo contemporaneo. Quel “per” la morte, è bene chiarire subito, è una preposizione di valore spaziale, più che una direzione o destinazione, un “moto” di espansione, di attraversamento, e parallelamente, nella dimensione temporale, una “durata”, che non riguarda il morire più che il vivere, e non riguarda i morti più che i vivi.

7 Caterina Padoa schioppa

PLEISTOCENE / OLOCENE

SEPOLTURA UMANA EDITTO DI SAINT-CLOUD

STORIA DELLA MORTE IN CINQUE ATTI

300mila anni fa

la prima sepoltura umana, in una caverna nelle regioni interne del Kenya, documenta l’inizio della pratica funeraria e della “cultura” del genere Homo che per centinaia di millenni si fonderà sul culto dei morti

1804

l’Editto di Saint-Cloud istituisce il cimitero moderno che, come altre infrastrutture della società borghese, legittima il “grande confinamento” dei diversi – poveri, orfani, malati, vecchi, e morti – e segna la “rottura dello scambio simbolico”

ACQUAMAZIONE

CREMAZIONE MODERNA TERRAMAZIONE UMANA

UMANA

1876

a Milano la prima cremazione moderna dell’industriale massone e filantropo Alberto Keller fu accompagnato da un vero e proprio “manifesto” che trasformò l’evento in una cruciale tappa per la diffusione della cultura laica

2011

viene sperimentata la prima cremazione per idrolisi alcalina o “acquamazione”, fino a quel momento impiegata solo per smaltire carcasse animali, che trasforma i resti umani in frammenti ossei senza lasciare traccia del DNA

2019

negli Stati Uniti viene praticata la prima “terramazione” ovvero la riduzione del cadavere umano in compost, in nutriente organico da “mescolare” ad altro materiale organico e inorganico

ANTROPOCENE

CRONOGRAFIA DELLA MORTE IN CINQUE ATTI

CATERINA PADOA SCHIOPPA

Cinque atti, cinque date simboliche illustrano come è mutata nel genere Homo la relazione tra mondo infero e mondo supero, dalla bestiale carnalità della prima sepoltura 300mila anni fa1 – tale perché i paleoantropologi parlano di «carattere intenzionale del deposito»2 e di precisa organizzazione spaziale e decorativa delle dimore in cui i defunti venivano radunati – alla scientifica sublimazione delle attuali tecniche di smaltimento dei resti umani. Nella brillante lettura di Edgar Morin, il passaggio dalla visione ontologica antica, assimilata all’idea ancestrale di immortalità, eternità e indistruttibilità della materia, fondata su un’incontrastata “lucidità” nei riguardi della mortalità della vita, alla visione ontologica moderna, pervasa dalla nevrosi della morte, dal suo rovescio, l’estasi, e persino dall’“amortalità cellulare”, è l’esito dell’illimitata individualità della società borghese che ha generato una “crisi” del mondo contemporaneo3. All’alba del nuovo millennio, l’idea della fine, dell’effimera durata delle cose terrene assume un significato affatto diverso, tutto lascia presagire che in futuro all’umano non verrà riservato alcun posto speciale e che ogni atto di divinazione delle sue spoglie sarà vano se non nocivo. Il corpo, abitatore sentimentale dello spazio, protagonista implicito di questa storia, costituisce il nesso tra il singolare e l’universale, ma anche tra il sapere teorico e il sapere empirico, tra il dire e il fare. Perciò l’architettura, punto di osservazione di questa narrazione, lo studia scrupolosamente.

La tomba non è solo l’impulso più antico che muove l’architettura, intesa come costrutto simbolico e culturale oltre che come dispositivo materiale ed energetico, ma è anche la più palpabile testimonianza della “macchina antropogenica”, quell’artificio che produce il riconoscimento dell’umano dal non-umano4. In un certo senso, si può far coincidere l’inizio della “cultura” nella storia degli Ominini con l’invenzione del ricovero attrezzato per i morti, primo collaudato sistema di trasmissione culturale, attraverso cui l’Homo sapiens si è potuto distinguere e affermare sulle altre specie ominine5. Nel prolungare nel tempo ciò che l’involucro mortale (il corpo) custodisce (l’anima), la pratica funeraria – le cui tracce artistiche, architettoniche6 e documentali7 sono pressoché l’unica testimonianza del passato – ha dunque dato i connotati distintivi alla specie umana.

Emblematica a tal proposito l’invocazione a Osiride, dio dei morti nell’Egitto antico: «Questo mio corpo non deve svanire, poiché io sono integro [...], non marcisco, non mi gonfio, non mi decompongo e non mi trasformo in vermi. Io sopravvivo [...], non sono svanito con i miei visceri [...]. Il mio corpo perdura, non va in rovina, non svanisce in questa terra, per sempre»8. Per un tratto lunghissimo della storia umana, l’inseparabilità tra il mondo supero e il mondo infero era sancita dalle sacre parentele tra Zeus e Ade,

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tra Demetra-Gea-Cton e Kore-Persefone, o vere e proprie identità degli opposti, quella tra Iacco-Dioniso e Ade: tutte entità che incarnano la fecondità ciclica dei fenomeni terreni e celesti9. Tale specularità è la chiave di un vincolo tra natura e cultura che ha virtualmente unito le civiltà del pianeta fino al crepuscolo della modernità, fintanto che, nelle civiltà semitiche, indoeuropee e dell’estremo oriente si è guardato al regno dei morti, alla casa di Ade quale luogo “vitale” a cui attingere per “nutrirsi” a livello immaginifico, più che materiale. Ade è figura della profondità, della terra e della psiche, che torna instancabilmente nella realtà onirica10.

L’attraversamento dello spazio tra i due mondi, le cui formule magiche rappresentano, fin dalle prime grafie umane e interpretazioni filosofiche, il mezzo per approdare a una dimensione ultraterrena di conoscenza, assume nei secoli molteplici fisionomie e allegorie che esondano nella civiltà cristiana11.

Poi, in un contesto politico, scientifico e filosofico maturo, atto a innescare una “rivoluzione dei culti”12, un fatto cruciale provoca un cambio di rotta.

L’Editto napoleonico di Saint-Cloud, nel 1804, con l’istituzione del cimitero moderno fuori dai confini comunali, mette in crisi l’equilibrio tra la visione scientifica e la visione religiosa della morte, decretando l’universalismo del pensiero razionale. L’ostentato paradigma igienista e funzionalista, da cui scaturisce la rimozione collettiva del pensiero sulla morte, sancisce lo slittamento dal simbolico all’economico, la definitiva egemonia della “potenza politica” sulla società13. Ogni residuo dell’ancestrale potenza cosmologica sembra naufragare, come sembra sbiadire la rappresentazione di un mondo in stato di mutevole e continuo assestamento, che la complicità con le forze soprannaturali e l’impudica intimità con divinità ed entità spirituali è riuscita fin qui a coagulare.

Nell’Età dei Lumi, la morte diviene «una delinquenza, una devianza incurabile»14, afferma Jean Baudrillard, e il salto epocale alla modernità si configura come “rottura dello scambio simbolico con i morti”15, scambio attraverso cui, fin dall’umanità arcaica, per mezzo di pratiche rituali di preparazione, conservazione del cadavere e venerazione delle reliquie, si è trasferita la presunta “energia” del defunto alla stirpe degli umani anziché essere dissipata nel nulla abissale – un nulla comunque pregno di significati escatologici. Sabotato in quanto insopportabile manifestazione del dominio della natura sulla ragione, sigillato in una teca, talvolta molto suggestiva, o in un’urna, per definizione modesta, il corpo del morto – e il suo significato sociale – viene destituito, rimosso dalla vista, dal contatto, da ogni esperienza sensoriale16. In alternativa, diviene dispositivo scientifico, dissezionato nel tavolo anatomico, od oggetto esotico che in apparenza

16 Cronografia della
in
atti
morte
cinque

non desta alcuna emozione di terrore o empatia, esibito, fino ai nostri giorni, accanto a naturalia e artificialia nelle Wunderkammer e nelle gallerie dei musei, dalle mummie dell’Antico Egitto ai cadaveri di condannati a morte conservati con la plastinazione. L’atto di musealizzare il corpo morto, in fondo, è analogo a quello di collezionare vestigia archeologiche sradicate dai propri siti di appartenenza per essere denudate nelle pubbliche sale: ammesso che, per dirla con Giulio Carlo Argan, se ne consenta il «passaggio allo stato laicale, cioè allo stato di bene della comunità»17, l’oggetto si svuota di significati simbolici.

Nell’inebriante dibattito, che oggi traguarda il mondo delle scienze, in concomitanza con la rivoluzione industriale e con l’affermarsi dell’uso intensivo di combustibili fossili che hanno sensibilmente incrementato l’impronta antropica sulla Terra, il 1804 diviene una possibile datazione da cui far pretestuosamente cominciare l’Antropocene18. Se dal punto di vista della geostoria, la transizione energetica di fine Settecento rappresenta un marcatore fondamentale – con l’accelerazione delle emissioni di g as a effetto serra e l’alterazione degli equilibri climatici, chimici e biologici – dal punto di vista antropologico, la nascita del cimitero moderno è uno degli epigoni di un sistema di potere che assoggetta il corpo – vivo, morto e performativo – a un’azione repressiva, normalizzatrice e civilizzatrice. Il grande confinamento dei diversi (poveri, orfani, malati, vecchi e morti) in architetture alienanti è uno degli espedienti con cui avviene la transizione da «meccanismi storico-rituali di formazione dell’individualità a meccanismi scientifico-disciplinari»19. In queste infrastrutture, i corpi vengono privati della conoscenza sensibile, sensuale, performativa che scaturisce dalle incontinenze emozionali, tipiche delle prove iniziatiche e delle orchestrazioni catartiche, che da sempre sanciscono il vincolo tra i vivi e i morti. Bandire il lamento funebre – “tecnica del pianto” comune a tutte le civiltà religiose del Mediterraneo che serve a trasformare in azione rituale il disordine provocato dalla «crisi del cordoglio»20 – significa demolire l’orizzonte formale della sofferenza umana fino a negarne la natura inumana. Il rito del commiato non è infatti una prerogativa esclusiva dell’uomo, altri mammiferi e specie viventi adottano “comportamenti rituali” di fronte alla morte, per esempio di un cucciolo del branco, come “arma mentale” per sostenere le complicazioni piscologiche, potenzialmente letali21 Che lo si veda dalla prospettiva della storia antropologica o da quella della storia geologica, lo scarto tra l’illusione di un illimitato dominio dell’umano sulla natura e sul cosmo, e lo squilibrio derivato dalla riduttiva e minacciosa concezione scientifica – o “tanatocratica”, che dir si voglia – della vita, di cui l’abbandono di millenarie pratiche necrofile e credenze mistico-

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ACCAMPARE COMUNITÀ DEL DUBBIO

CATERINA PADOA SCHIOPPA

Attorno alla morte e alle nuove pratiche assembleari che la celebrano, talvolta solo in forma figurata, la «risorgenza religiosa»1 rilevata da Jürgen Habermas sembra manifestarsi come “circostanza” particolare dove maturare il sentimento di emancipazione da gangli settari e familiari. In tale circostanza dove la comunità si fa e si disfa nel tempo di una cerimonia – i cui partecipanti non sono necessariamente legati da vincoli di appartenenza socio-culturale, ma al contrario possono rappresentare in modo calzante l’instabilità delle categorie identitarie, tipica delle società odierne – sembra essere più che mai ammessa «la possibilità di un disordine [...] di un’oscillazione»2 che, come precisa Judith Butler, scompagina tutte le cornici normalizzatrici. La natura disordinata, provvisoria di chi abita lo spazio rituale occasionale fa vacillare l’immaginario conformista, contraddice le figure che, in senso anche statico, di consueto vengono attribuite alla cosa sacra – la solidità, la gravità, la solennità – e pone alla disciplina del progetto interrogativi inconsueti. Del resto, il crescente impulso spirituale, in contesti nonconfessionali, è stato finora affrontato in modo equivoco in tutti i campi del sapere. Alla discreta riflessione e sperimentazione progettuale rivolta allo spazio ecumenico, che si propone di “conciliare” visioni differenti al fine di costruire una “comunione di fedeli” – la visione unitaria delle chiese cristiane ne rappresenta lo sforzo più antico – fa eco una sostanziale assenza di trattazione dello spazio sincretico, che ha l’ambizione di tutelare il pluralismo e le sue possibili dissonanze. Lo spazio sincretico tiene traccia dell’originaria “inconciliabilità” tra elementi simbolici, mette in rilievo la loro creativa ibridazione e sostanziale caducità, assumendo la forma di un capriccioso “bricolage”3. La più elementare rappresentazione di tale spazio è il paesaggio domestico, spesso unico orizzonte formale delle religiosità erratiche, convertito in artigianale santuario per mezzo di amuleti, feticci, impasti sgrammaticati di «oggetti di affezione»4 verso cui si provano sentimenti devozionali – tra cui, non di rado, compare l’urna con le ceneri di un parente o di un amico. La versione aristocratica di questa estetica dell’accumulo, del resto, è il sontuoso cabinets de curiosités che John Soane costruì a partire dal 1792 a Londra, una casa stipata di capolavori archeologici e artistici con al centro, nel piano ipogeo, il sarcofago egizio con la mummia del faraone Seti I.

Al crescente fenomeno di “domesticazione” delle pratiche rituali, che riguarda anche le pratiche funerarie, si affianca la prassi, tanto antica quanto osteggiata dalle culture dominanti, di “occupare” luoghi sacri altrui, a conferma che i luoghi stessi hanno carattere di «ierofania», sono “manifestazione” di un sacro che permea oltre i culti e le dottrine

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TÈRRA

tèrra = lat tèrra |osco teerum, a. irl. tîr, galles. tir| che il Pottopina detto per *tèrsa |sottint. materia|: dalla rad. tàrs- esser secco, disseccarsi, che trovasi nel sscr. trs-yâmi ho sete, mi fendo per siccità, tarš-as |= zend. tars-na, got. thaurs-tei, ted. Durs-t| sete, il got. thaurs-ja = lit. tróksz-tu ho sete, il gr. tèrsô e ters-aínô secco, asciugo, inaridisco, tars-ós, tras-ià seccatoio, graticcio per disseccare, e il lat. tòrreo per *tòrs-eo | il cui participio passato è tòstos per *tòrs-tus | faccio disseccare, abbrustolisco [la vocale «o», che è in tórreo, ritrovarsi nel lituano e nel composto lat. ex-tòrris esiliato, cioè fuori della terra nativa]: prop. la cosa secca, arida, asciutta, in opposizione al mare, che è la cosa umida (cfr. Tarsia, Tarso, Testo, Torrido). L’Alighieri ha ripetuto la stessa idea, dicendo «la gran secca» per dire la terra (Infer XXXIV. 113).

La parte solida | o Suolo | del globo, ed estens. Tutto il pianeta abitato da noi; indi Regione, Paese, Castello, e più particolarmente Podere che si coltiva.

CATERINA PADOA SCHIOPPA

In un celebre articolo del 1962 James G. Ballard scriveva: «le trasformazioni più importanti nell’immediato futuro non avverranno sulla Luna o su Marte ma sulla Terra. È lo spazio interiore e non quello esteriore che deve essere esplorato. L’unico pianeta veramente straniero è la Terra»1. Per lo scrittore britannico la profezia riguardava l’ambito letterario che, con la rinuncia a estetizzare viaggi interstellari e forme di vita extraterrestri, doveva occuparsi di stati d’animo e nuovi livelli di consapevolezza. Tramare lo spazio interiore come strategia per una nuova mitopoiesi sembra molto più che un’ambizione letteraria, risuona come un ammonimento spirituale e, in senso politico, un manifesto rivolto a tutti – scrittori, poeti, architetti, artigiani. Occorrono nuove narrazioni simboliche del mondo.

Di certo Ballard non sbagliava nel prefigurare un futuro rivolto verso gli enigmi terreni e ultraterreni, naturali e sovrannaturali, radicati al più arcaico modo di abitare la Terra, intesa come suolo, crosta, zona di confine tra il sommerso e l’emerso, tra la morte e la vita. Nonostante gli sforzi moderni a rimuovere la morte, serrando le “bocche” di accesso al mondo sotterraneo – mondo che rende feconda la vita sulla terra in senso tanto letterale quanto immaginifico – e sciogliendo il vincolo con gli abissi, con Ade e con Persefone, lo spazio della morte ci avvicina al “terrestre”2. Nello spessore composito e instabile della terra, che, fuori da ogni metafora, è groviglio di corpi vivi ed estinti, organici e inorganici, umani e non-umani, la sovranità esclusiva dell’umano è beffardamente vana, inconsistente. In questo spazio costruiamo di continuo carnali complicità con creature viventi e creature fossili, con forze ctonie, reali e immaginarie. Perfino gli oggetti lapidei, che il tempo spoglia della originaria “carica libidica”3 – architetture che nel loro stato corruttibile acquistano un’aura sacra – partecipano a questa mescolanza anonima, a questa confusione che qualcosa può insegnarci sulla postura da avere nel mondo.

1. James G. Ballard, Which way to inner space?, in “New Worlds”, 1962, p. 193. 2. Cfr. Bruno Latour, Face à Gaïa: Huit conférences sur le nouveau régime climatique, La Découverte, Paris, 2015.

3. Ernesto De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, a cura di Marcello Massenzio, Einaudi, Torino, 2021 (1958), pp. 52-53.

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PER UN’ARCHITETTURA OLTRE E SENZA IL RECINTO

FELICE CIMATTI

1.«Atto di architettura per eccellenza», scriveva Vittorio Gregotti nel primo numero della rivista Rassegna. Problemi di architettura dell’ambiente dedicato al tema dei Recinti, «il recinto è ciò che stabilisce un rapporto specifico con un altro luogo specifico e insieme un principio di insediamento con il quale un gruppo umano propone il proprio rapporto con la natura-cosmo»1. Il gesto architettonico originario, e quindi il gesto che si ripete ogni volta che un architetto immagina un progetto di qualunque tipo, consiste nel delimitare uno spazio, e in questo modo istituire un dentro ed un fuori. All’inizio, allora, c’è il gesto del recintare, il primo e terribile gesto architettonico. È importante mettere in evidenza che il “fuori” esiste solo dal momento in cui questo gesto originario2 delimita un dentro. Prima di quel gesto non c’è né ordine né disordine, né cosmo né caos e soprattutto – di questo ci occupiamo in queste note – né vita né morte.

La distinzione fra vita e morte, in effetti, è una distinzione metafisica, dal momento che nel mondo naturale, cioè il mondo che raccoglie tutto quello che accade, la distinzione fra fenomeni viventi e non viventi non è assoluta e “oggettiva”, dal momento che – se si rimane al livello elementare della chimica – ogni fenomeno naturale consiste nell’assemblaggio e nel disassemblaggio di materia. Ogni entità vivente è fatta di materiale che in altri momenti della storia naturale del mondo non lo era, e più o meno presto tornerà ad essere materiale non vivente. È per questa ragione che il morire rappresenta per gli animali umani, e solo per loro, una questione così importante. Batteri piante virus animali non umani vivono e muoiono, e a parte il dolore del morire e a quello che alcuni animali sembrano provare per la morte di animali a loro vicini3, i due momenti non sono altro, in realtà, che tappe di un “unico” processo naturale. La morte, cioè, è un modo di darsi della vita, e viceversa. In questo senso non esistono, nel mondo animale non umano, né qualcosa come un cimitero e nemmeno dei rituali specifici – ad esempio il funerale – per dare senso alla morte. Quest’ultimo punto è particolarmente rilevante: gli animali non umani non hanno istituito rituali particolari per la morte appunto perché la morte, per loro, non fa problema. Della vita fa parte il morire, anche se nessuno vuole morire.

2.Se vivere, per qualsiasi vivente, significa sempre essere sul punto di morire, e quindi per quel vivente non c’è niente di particolarmente misterioso nella morte, questo non vale per il vivente umano, che appartiene ad una specie – che si è autodefinita sapiens – che invece si definisce proprio a partire da un particolare tipo di recinto psichico, l’io. Che cos’è infatti un io se non un

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recinto che delimita lo speciale spazio dell’interiorità rispetto a quello del non-io, cioè lo spazio del fuori? Siccome l’io è un recinto ma soprattutto è la sempre ripetuta azione del recintare sé stesso rispetto ad un fuori sentito come minaccioso proprio perché non è io, ebbene per un’entità del genere il morire rappresenta una vera e propria catastrofe. Sentirsi un io, infatti, non significa altro che sentirsi qualcosa di separato ed indipendente rispetto al resto del mondo naturale. La morte, per un’entità così innaturale come l’io, rappresenta la distruzione del recinto, e quindi l’irruzione distruttrice dell’esterno, cioè del non-io. Senza recinto non c’è io. Ma la morte è appunto la distruzione del recinto che istituisce io e lo separa dal non-io. Per questa ragione metafisica, sconosciuta al mondo animale non umano, la morte, per gli esseri umani, rappresenta un vero mistero, ossia qualcosa di assolutamente incomprensibile. La morte è il puro non senso. I riti funebri esistono esattamente per questa ragione, perché la morte rappresenta l’impensabile. Il rituale del cordoglio, del lutto, del funerale, e insieme a questi rituali i luoghi dove queste fondamentali operazioni vengono messe in atto – nella nostra tradizione la chiesa, oggi le sale per il commiato, i cimiteri – sono il modo con cui gli esseri umani, cioè gli unici viventi per i quali il morire e la morte rappresentano un vero e proprio scandalo del pensiero, cercano di pensare l’impensabile. In questo senso la morte è un mistero, anche oggi che in tutti i modi si cerca di trasformarla in problema tecnico e quindi, almeno in linea di principio, un problema risolvibile, se non ora almeno in un futuro non troppo remoto4. Al momento, comunque, la morte non è un problema, è un mistero. Anche se per l’io recintato è un pensiero assolutamente inaccettabile, si muore perché si vive.

3.Se mettiamo insieme il primo e fondamentale gesto architettonico, il recintare, e l’io in quanto recinto psichico, ci troviamo di fronte ad un’operazione e un ente del tutto innaturali. È naturale, infatti, tutto ciò che partecipa della vita inumana del mondo, e quindi il morire e la morte sono naturali quanto il vivere. Al contrario la specie Homo sapiens è l’unica specie vivente che non partecipa del movimento del mondo. E non partecipa perché la prestazione antropologica fondamentale di questa specie è appunto recintare, ossia interrompere l’intrinseco movimento del mondo inumano. Tanto peggio per il mondo, dirà l’irriducibile antropocentrico che è in ciascuno di noi (anzi, propriamente io non è altro che questa irresistibile pulsione antropocentrica), io continuo a recintare, sono fatto così, sono io stesso un recinto, perché dovrei smettere di essere così innaturale? In effetti la pregiudiziale antropocentrica non la si smonta dall’interno, bensì

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è disattivata dall’esterno, dal mondo stesso. Il nome della rivolta del mondo contro l’infezione antropocentrica è Antropocene. È il mondo stesso che ci sta dicendo, attraverso il global warming, che quel gesto originario alla fine rischia di distruggere la vita umana (non quella inumana, che forse in forme diverse da quelle oggi prevalenti sicuramente continuerà ad esistere sul pianeta terra5).

4.La questione dell’Antropocene, allora, riguarda direttamente l’architettura, ma non nei modi innocui, e infatti del tutto inefficaci, con cui finora è stata pensata la questione ecologica nella progettazione architettonica. Non si tratta di “recintare” con pali di bambù anziché con il cemento armato, oppure di circondare un grattacielo con un recinto di alberi, o immaginare forme di recinzione che provano a nascondere il proprio insuperabile – e violento – carattere di recinto. In questione è proprio il senso dell’operazione originaria del recintare, ossia di quella operazione, come scriveva Gregotti, che istituisce «un principio di insediamento con il quale un gruppo umano propone il proprio rapporto con la natura-cosmo»: cioè un principio in base a cui un io allontana da sé – ossia butta via – il non-io. Si comprende così che la sfida che pone l’Antropocene per l’architettura è molto più che un problema di materiali “naturali” e riciclabili. È in questione il principio stesso del recintare, ossia il principio violento in base a cui l’umano decide del mondo e per il mondo, cioè decide chi e cosa è dentro, e chi e cosa è fuori. Un gesto sovrano come questo è ancora possibile nel tempo dell’Antropocene?

5.La morte è un mistero perché è impensabile per io. Prendiamo il caso estremo e per questo esemplare della piramide egizia come “soluzione” architettonica per questo mistero. La stessa forma tridimensionale della piramide, che ne rende impossibile il ribaltamento, rende esplicito il suo intento: la piramide è progettata per non “morire” mai. E difatti, benché rovinata in più punti, la piramide sta ancora lì dopo più di quattromila anni. Il senso di questo imponente manufatto è affatto esplicito: il cadavere che vi sarebbe stato sepolto (secondo gli studiosi si tratterebbe di Khufu, faraone della quar ta dinastia) non è “realmente” morto, e per questo anche la sua “casa” non può essere distrutta. In questo senso, come dice Hegel nelle lezioni sull’estetica, nelle piramidi «noi troviamo fissato per sé l’interno di contro all’immediatezza dell’esistenza, e più precisamente l’interno fissato come il negativo della vitalità, come ciò che è morto»6. L’interno, quello che si trova al di qua del recinto, è il «negativo della vitalità», cioè appunto «ciò che è morto» e che,

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CADÚCO

cadúco lat cadúcus da càdere cader (v. q. voce). –– Che presto cade e perisce. Che ha breve durata. –– «Mal caduco» dicono l’Epilessia, perchè mancando in un istante le forze, quei, cui si dà questo male, cade a terra; chiamata con altre nome anche Benedetto.

GIULIO FELIZIANI

Sin dall’antichità il rito funebre reca con sé delle modificazioni spaziali, a prescindere dal contesto sociale, geografico, culturale e religioso in cui si manifesta. La dimensione domestica in particolar modo è interessata nel corso dei secoli da lievi interventi reversibili in occasione dell’evento luttuoso: intorno all’anno Mille in Bretagna e in Germania si instaurò la tradizione di asportare una tegola dal tetto in seguito alla morte di un inquilino, affinché l’anima potesse agevolmente abbandonare l’abitazione. Analogamente, nella Franca Contea e nella Scozia medievali, si soleva tenere spalancate le finestre per tre giorni ininterrotti, mentre a Treviri e nel Lussemburgo si faceva posto attorno al giaciglio del defunto per lanciarsi in una danza rituale. Nello stesso paese, dall’abitazione incominciava verso il luogo della sepoltura una lunga processione, che si dipanava seguendo un percorso particolarmente tortuoso, affinché l’anima del defunto non potesse ritrovare la strada per tornare a disturbare chi era rimasto in vita1. Evitare il funesto rientro dell’anima nell’ambiente domestico compiacendo chi è da poco perito era tra le ragioni che motivavano la realizzazione di scenografici catafalchi e castra doloris nelle chiese cristiane tra Seicento ed Ottocento in occasione di morti illustri: elaboratissime costruzioni temporanee progettate da grandi architetti sotto forma di magniloquenti ultime dimore trasformavano il luogo sacro in palcoscenico entro cui svolgere una complessa rappresentazione con importanti valenze politiche e religiose2 Nasce da tali premesse l’idea di un padiglione caduco per il rito funebre laico, attraverso cui si vuole ripristinare il carattere processionale ed effimero dell’architettura funeraria, componendo un organismo modulare e flessibile, capace di adattarsi a differenti contesti ed occasioni. Le modalità con cui realizzare il manufatto vengono individuate dal defunto stesso all’interno del diario che consegna ai propri cari, secondo i pronostici che Louis-Sebastien Mercier delinea nel romanzo utopistico L’an 24403. Come nelle tappe dell’itinerario terrestre della Chiesa d’Oriente (analoghe alle tappe del lutto di cui racconta Joan Didion4), il progetto consta di tre livelli interconnessi: lo “spazio domestico”, lo “spazio celebrativo” e lo “spazio della riconsegna”.

1. AA.VV. Lo spettacolo della morte: breve storia del funerale, L’Ornitorinco Edizioni, Milano, 2010.

2. Valeria Pinchera, Il rito funebre, in “Vestire la vita, vestire la morte: abiti per matrimoni e funerali, XIV-XVII secolo”, in Carlo M. Belfanti, Fabio Giusberti (a cura di), Storia d’Italia. Annali, vol. 19 “La moda”, Enciclopedia Einaudi, Torino, 2003.

3. Louis-Sebastien Mercier, L’an 2440, La Decouverte, Parigi, 2014.

4. Joan Didion, L’anno del pensiero magico, Il Saggiatore, Milano, 2021.

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Giulio Feliziani

POSTFAZIONE

ESTETICA E METAFISICA DEI SEPOLCRI

STEFANO CATUCCI

Fin dalle scuole elementari viene insegnato che la parola latina homo deriva da humus, terra, e che questo rinvia a sua volta alla pratica di seppellire i morti: humare. Il trattamento che si riserva alle spoglie dei defunti, quindi, sarebbe insito nel termine che ci connota, almeno nel linguaggio e nella tradizione dell’Occidente, così che la sepoltura si rivela essere un elemento determinante per il rapporto che la nostra cultura ha con la definizione di sé come specie animale, oltre che un tratto distintivo nei confronti di altre creature mortali, gli animali appunto non-umani. Meno immediato è il nesso con la metafisica che la pratica dell’inumazione porta con sé. Vi ha richiamato l’attenzione Peter Sloterdijk nel primo volume della sua trilogia delle Sfere, quello intitolato Bolle, con la sua tipica capacità di intrecciare filosofia, antropologia, psicoanalisi e, nel caso in questione, anche paleontologia. La sepoltura sarebbe allora l’espressione più evidente della metafisica della madre e dell’utero che è diventata dominante nell’«immaginario del mondo post-neolitico», quando i riti della copertura dei morti con la terra, e quelli già architettonici della tumulazione in costruzioni specifiche, dai sacelli alle piramidi, assumono il significato di una promessa simbolica, la reinfetazione, e «si propagano come un’epidemia», mentre la morte stessa comincia a essere proiettata verso il movimento di un «ritorno»1.

Ci sarebbe voluto ancora moltissimo tempo prima che Sofocle mettesse in scena, nell’Antigone, la pratica della sepoltura come emblema del conflitto tra le leggi della religione e quelle della città. È infatti ancora oggi il potere politico a decidere quale vita abbia dignità di essere raccolta in una tomba e quale no, in una sorta di condanna postuma dei reietti, dei traditori e degli anonimi la cui esistenza non conta nulla. Antigone, la storia è nota, vuole seppellire il fratello Polinice, morto combattendo contro l’altro fratello, Eteocle, che era stato riconosciuto quale erede al trono di Tebe. Il nuovo re, Creonte, vieta però di onorare con la tumulazione chi si era ribellato alle istituzioni della città e Antigone, che sfida il suo decreto in nome dell’amore fraterno, viene a sua volta sepolta, ma viva, in una grotta dove l’attenderà la morte. Tutta la discussione fra il Coro dei cittadini di Tebe, l’indovino Tiresia e lo stesso Creonte ruota intorno al diritto di essere sepolti che non può essere revocato da un’autorità civile e neppure dagli dèi, i quali ne hanno stabilito il rispetto una volta per tutte e sono essi stessi vincolati ad esso. C’è dunque una storia dei sepolcri che attraversa come una faglia ben visibile tutta la nostra storia. Affrontando la storia delle immagini, Georg es DidiHuberman ha scelto proprio la tomba come esempio del fatto che vediamo sempre “più” di ciò che viene offerto alla vista: non una pietra ma il segreto che essa cela, non il semplice Black Box di Tony Smith (1962) ma il mistero

153 Stefano Catucci

BIOGRAFIE

Mattia Baldini

è dottorando del XXXVIII ciclo del corso di Dottorato in Architettura. Teorie e Progetto, Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP), Sapienza Università di Roma.

Sarah Becchio

è architetta co-fondatrice di ErranteArchitetture. Si occupa di architettura a diverse scale con particolare interesse al lato narrativo e poetico del progetto. I suoi progetti hanno ricevuto premi e riconoscimenti e sono stati esposti in Italia e all’estero. Parallelamente all’attività professionale è impegnata nella ricerca e nell’insegnamento.

Lorenzo Casavecchia

è dottorando del XXXVIII ciclo del corso di Dottorato in Architettura. Teorie e Progetto, Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP), Sapienza Università di Roma.

Stefano Catucci

è professore ordinario, insegna Estetica alla Facoltà di Architettura della Sapienza Università di Roma. É coordinatore artistico e conduttore de I Concerti di Radio3 al Quirinale. Tra le pubblicazioni più recenti Imparare dalla Luna (Quodlibet, 2013 e nuova ed. 2019), Introduzione a Foucault (Laterza 2001, nuova ed. 2024) e Sul filo. Esercizi di pensiero materiale (Quodlibet, 2024).

Manuela Ciangola

è dottoranda del XXXVIII ciclo del corso di Dottorato in Architettura. Teorie e progetto, Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP), Sapienza Università di Roma.

Felice Cimatti

è filosofo e professore ordinario all’Università della Calabria dove insegna Semiotica e teoria dei linguaggi. Dal 2019 conduce su Radio3 Uomini e Profeti, programma di approfondimento di temi religiosi e filosofici. Tra le pubblicazioni che affrontano il sacro e la memoria: Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la morte di Dio (Codice, 2009); La vita estrinseca. Dopo il linguaggio (Orthotes, 2018); La fabbrica del ricordo (Il Mulino, 2020).

Stefano Colavita

è cerimoniere per la Socrem presso il Cimitero Monumentale di Torino dal 2014. Laureato in Lettere Moderne, nel 2011 ha conseguito il Dottorato di Ricerca con una tesi su fraseologia, lessico e costumi funebri nelle Valli Chisone e Germanasca. Drammaturgo e scrittore, con lo pseudonimo Ade Zeno ha pubblicato i romanzi: Argomenti per l’inferno (No Reply, 2009), L’angelo esposto (Il Maestrale, 2015) e L’incanto del pesce luna (Bollati Boringhieri, 2020, Premio Selezione Campiello).

Giovanni Corbellini

è architetto e professore ordinario presso il Politecnico di Torino, ha precedentemente insegnato a Ferrara, Milano, Venezia e Trieste. È membro del collegio dei docenti del dottorato Internazionale di architettura Villard. Tra le pubblicazioni più recenti: Le pillole del dott. Corbellini. Consigli agli studenti di architettura, Ex libris. 16 parole chiave dell’architettura contemporanea, e Lo spazio dicibile, tutti editi da LetteraVentidue.

Mariacristina D’Oria

è architetta e dottore di ricerca (Doctor Europaeus) con la tesi MeanTime. Expiring architecture, che indaga la relazione tra il progetto architettonico e la condizione di transitorietà nell’epoca contemporanea. Attualmente è ricercatrice presso la Escuela Técnica Superior de Madrid. Ha pubblicato: Expost: il riciclo dell’evento, l’evento del riciclo (Libria, 2021).

Alessandro Di Egidio

è dottorando del XXXVIII ciclo del corso di Dottorato in Architettura. Teorie e Progetto, Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP), Sapienza Università di Roma.

Niccolò Di Virgilio

è architetto e dottorando del XXXVI ciclo in Architettura. Teorie e Progetto presso il Dipartimento di Architettura e Progetto della Sapienza Università di Roma. Ha studiato all’Università degli Studi di Ferrara e alla Waseda University di Tokyo (Progetto Atlante). La sua attuale ricerca è incentrata sulla figura di Walter Segal e sulla sua pragmatica visione del “fare” architettura.

Giulio Feliziani

è dottorando del XXXVIII ciclo del corso di Dottorato in Architettura. Teorie e Progetto, Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP), Sapienza Università di Roma.

Marcello Massenzio

è storico delle religioni e antropologo culturale, già professore ordinario presso l’Università di Roma Tor Vergata, è l’attuale presidente dell’Associazione Internazionale Ernesto de Martino. I suoi interessi scientifici comprendono due filoni: la riedizione e la cura dell’opera di De Mar tino per Einaudi; la ricerca sulla ripresa del mito dell’Ebreo errante negli anni del nazismo e nel “dopo-Shoah”. Tra le pubblicazioni dell’ultimo decennio: Chagall. Solitude et mélancolie. 1933-1945 (L’Echoppe, 2013); L’ebreo errante di Chagall. Gli anni del nazismo (Editori Riuniti, 2018).

Laura Mucciolo

è dottoranda del XXXVII ciclo del corso di Dottorato in Architettura. Teorie e Progetto, Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP), Sapienza Università di Roma. Ha pubblicato: Terzo paradiso (Libria, 2022).

Giorgia Ioana Simion

è dottoranda del XXXVIII ciclo del corso di Dottorato in Architettura. Teorie e Progetto, Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP), Sapienza Università di Roma.

Marco Ugolini

è dottorando del XXXVIII ciclo del corso di Dottorato in Architettura. Teorie e Progetto, Dipartimento di Architettura e Progetto (DiAP), Sapienza Università di Roma.

Con contributi di

Stefano Catucci

Felice Cimatti

Stefano Colavita

Giovanni Corbellini

Niccolò di Virgilio

Mariacristina D’Oria

Marcello Massenzio € 22

In un mondo che non si scandalizza più del ricorsivo dominio della natura sulla cultura, e pensa alla “fine” come condizione di vulnerabilità universale che accomuna umani e non-umani, la morte si offre quale grande opportunità per escogitare strategie di vita e di progetto, atte a costruire relazioni carnali, empatiche tra simili e tra estranei. Riti, sepolcri e resti dell’umano definiscono tre distinte dimensioni dello spazio per la morte, mutate nel tempo in funzione dello scambio simbolico tra vivi e morti. Nel presente, mentre pratiche, tecniche e tecnologie, con il sovvertimento della gerarchia tra permanenza e impermanenza, preannunciano la drastica riduzione delle architetture per la memoria, le comunità della non-appartenenza chiedono con sempre maggiore insistenza spazi civili dove ritualizzare e celebrare il commiato. Con lo scopo di posare lo sguardo su una zona d’ombra, una “domanda di architettura” inedita, remissiva seppur emergente, questo libro tenta di abbozzare un primo affresco di riflessioni teoriche e visioni progettuali sulla morte post-secolare.

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