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Claudio Ansaloni - responsabile Area bambini e giovani
Ai dipendenti dell’Associazione “La Strada - Der Weg ONLUS” che hanno partecipato al convegno è stato chiesto un breve commento, in cui riferire impressioni, spunti, riflessioni suscitate dagli interventi dei relatori.
Claudio Ansaloni Responsabile “Area bambini e giovani”
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Conoscevo questa teoria e le riflessioni di Tiziano Vecchiato. Mi ha ugualmente colpito il nucleo essenziale, ovvero il tema della reciprocità nella relazione d’aiuto tra una persona che ha un bisogno e una persona/ente che a quella persona e al suo problema vuole prestare attenzione.
Nel considerare e tratteggiare correttamente questa situazione è indispensabile tenere presente che chi ha un bisogno si trova in una condizione di svantaggio, disparità, dipendenza, debolezza, la posizione di chi è in attesa di ricevere, mentre chi si prende cura è per lo più un professionista, stipendiato, “garantito”, che si trova in una posizione di vantaggio e privilegio, il privilegio di poter dare e aiutare.
Mi viene da citare delle esperienze che sto seguendo con interesse e coinvolgimento. Il progetto “Agevolando”, in Emilia-Romagna e Trentino, mette in relazione persone che sono ospitate o sono uscite da strutture socio-pedagogiche. Sto cercando di avviare esperienze simili nella nostra provincia. Mi è capitato di incontrare alcune persone, che hanno un passato all’interno di nostre strutture e mi sono accorto che in loro vi è un’energia residua che viene dalle esperienze vissute nelle strutture e si è trasformata in competenza. Anche questa è reciprocità, se pur diluita e procrastinata nel tempo. Molte dimensioni di “Strada” sono al limite tra queste due m o d a l i t à : assistenza e scambio. Lo scambio non va inteso in modo meccanico, “hai ricevuto mille e devi dare in cambio tot”, ma può avvenire a più e differenti livelli di restituzione. È il caso che nominavo prima, nel quale si può affermare che i clienti si trasformano in fornitori di competenze relazionali, con le quali promuovere processi simili a quelli che loro un tempo hanno ricevuto. Non possiamo procedere da soli, ma insieme ai vari soggetti che operano sul territorio.
In alcune situazioni si può partire da un contratto iniziale che già si pone entro una dimensione di scambio e reciprocità (“ti do se tu ti impegni a fare la tua parte e a restituire”), ma non sempre questa modalità di partenza è realmente possibile.
Un termine molto vicino a “generativo” mi pare sia “autonomia”, conquista dell’autonomia e della consapevolezza di questa autonomia.
Il percorso e il processo che portano all’autonomia e alla possibilità di restitu
zione hanno bisogno di tempo, di un adeguato periodo di incubazione.
Lavorando con i ragazzi questa prospettiva si identifica con l’essenza stessa dell’azione educativa. E tutti gli interventi in ambito sociale hanno una qualche connotazione educativa, in quanto puntano ad un accrescimento di autonomia delle persone assistite.
I tempi educativi, ossia la possibilità di verificare gli esiti della relazione educativa, non sono standard e programmabili con scadenze preordinate. L’educatore per definizione confida nel tempo e nei tempi lunghi per raccogliere dei frutti.
Al contempo occorre confrontarsi con la necessità della verifica del proprio operato e con la misurazione dei risultati raggiunti. I tempi per valutare gli esiti raggiunti sono uno o due anni dall’uscita dell’utente dalla struttura, anche perché oltre subentra l’incidenza di una molteplicità di altri fattori.
Rispetto agli strumenti di verifica ritengo fondamentale abbandonare la modalità del questionario di gradimento, in auge in questi ultimo decennio, con il quale tu utente dici a me servizio quanto sono stato bravo nell’erogare il servizio, per costruire strumenti e modalità con cui, insieme, troviamo indicatori per valutare gli esiti in termini di risultati. Occorre individuare strumenti di misura più condivisi. Guardo alla “generatività” come cambiamento di mentalità da parte di chi in questo momento ha “il coltello dalla parte del manico”.
Se uno è senza una gamba posso occuparmi di procurare una protesi e fare in modo che funzioni bene, ma posso anche preoccuparmi dell’altra gamba e delle braccia e di quel che sa fare, perché, magari, sa suonare benissimo il violino. L’introduzione del termine “diversamente abile” era un tentativo di andare in questa direzione, di guardare quello che è potente in questa persona e che non cogliamo, perché condizionati dal suo problema (come quando definiamo una persona come “non-vedente”) con cui alimentiamo i nostri pregiudizi e il nostro pietismo. Il modo cui “guardiamo” una persona, orientati dalle sue mancanze oppure attenti alle sue doti, condiziona le modalità con cui comunichiamo ed entriamo in relazione con lui.
Il modello dello sportello, che eroga un servizio e un pagamento a fronte di una richiesta e di un bisogno, educa l’utente a diventare un fruitore, a ricevere soltanto. Se io sono erogatore di soluzioni e sono in grado di risolvere un tuo problema, mi trovo in un ruolo molto potente e molto gratificante. Assai differente è l’intervento che non si sostituisce ma si preoccupa di modificare una situazione, cercando di incidere e trasformare ruoli e pregiudizi dei soggetti coinvolti (non vado io educatore a udienza al posto tuo di genitore, ma ti sostengo nell’andare a udienza e cerco il modo di “generare” nell’insegnante un atteggiamento non ostile e non pregiudiziale).
Purtroppo le tendenze oggi più diffuse a diffidare sempre e comunque, a seguire procedure via via più standardizzate e definite da paradigmi giuridici, rende più difficili e “sospetti” la dimensione relazionale, l’agire educativo e l’atteggiamento interpretativo.