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Intervista a Marco Lovera
di Fabrizio Mattevi
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Grazie Marco della tua disponibilità.
Ti propongo di ricostruire prima la biografia di Ermete Lovera, per poi dare spazio al ricordo che tu hai del tuo papà. Ermete Loveranacque a Torino nel 1915. Marco Lovera Aveva degli zii che per lavoro si erano trasferiti a Bolzano. Per questo conobbe l’Alto Adige, dove veniva l’estate, ospite dei parenti. Fu affascinato dai paesaggi di questa terra, dalle valli e dalle montagne, assai più dolci e verdi di quelle piemontesi e valdostane. In un suo scritto ricorda di aver guardato, dal Virgolo, Bolzano di notte, che pareva un grande presepe. Prese parte alla guerra, sul fronte francese. Era laureato in lettere e dopo l’otto settembre 1943, chiese di essere trasferito da Torino, dove viveva, a Merano, dove intraprese la carriera di insegnante. … conosceva la lingua tedesca? No, per nulla. Iniziò innumerevoli corsi, senza però riuscire ad apprendere adeguatamente la lingua. Parlava invece bene il francese, che aveva studiato a scuola e che lo legava emotivamente alla Francia, paese che amava. Però volle rimanere in Alto Adige? Sì, la scelse come la sua terra e proseguì il suo incarico di docente di italiano a Bolzano. Venne dunque a vivere in Alto Adige, insieme alla mamma. Mi raccontavano che per il trasloco approfittarono del passaggio su un camion della Lancia. Io nacqui qui nel 1942. Papà stato anche mio insegnante di italiano, poiché volle inserirmi una sua classe.
Lui a casa mi controllava e se non svolgevo i compiti, all’indomani, mi interrogava, facendomi fare pessime figure. Ma io lo ripagavo. A quel tempo, alla scuola media si insegnava anche il latino, materia per la quale ero negato. La notte, mentre lui dormiva, entravo silenziosamente nel suo studio, prendevo il mio compito e correggevo gli errori più marchiani. Un dispiacere che mi accompagna è di non essere riuscito a confessargli queste mie azioni prima che lui morisse.

1948, scalinata della Scuola “Giovanni Pascoli” a Bolzano: Ermete Lovera con una delle sue prime classi Come è proseguita la sua carriera nella scuola? Nel 1954 vinse il concorso da preside e ottenne il primo incarico presso la scuola di Bressanone, dove rimase per due anni, per poi essere trasferito a Bolzano, dove assunse l’incarico alla Scuola Ugo Foscolo, appena costruita in via Novacella, l’unica scuola media unificata allora esistente in città. Nel 1969 divenne preside del Liceo classico Carducci di
Bolzano, dove rimase per due anni, fino al 1971. Al “Carducci” visse i sommovimenti di quell’epoca… Sì, il papà era favorevole al cambiamento nel mondo della scuola. Fece proprie alcune istanze del movimento del ’68. Fu un precursore di soluzioni adottate poi più avanti nel tempo. In particolare era un sostenitore del voto unico a fine anno, al posto dei voti per singole materie. Proponeva uno scrutinio in cui il consiglio di classe arrivasse a una valutazione complessiva. Queste posizioni trovarono l’opposizione di una parte dei docenti, quelli più anziani e tendenzialmente più conservatori, mentre gli insegnanti giovani lo appoggiavano. Vi fu un’ispezione ministeriale, a seguito della quale mio papà, di fatto, venne silurato.
Fu retrocesso, diciamo così, a preside di scuola media e inviato prima a Breno in val Camonica, poi in un paese vicino a Verona, a Dossobuono. Anni fa mi capitò un fatto che mi fece piacere e mi emozionò: casualmente entrai in contatto, per lavoro, con una segretaria della scuola di Dossobuono, che aveva conosciuto mio padre e ne conservava un bel ricordo. Dopo l’incarico nel veronese… Fu trasferito più vicino a casa, in Trentino, a Mezzolombardo, dove concluse la sua carriera, alla fine degli anni ’70. In quegli anni il sindacato altoatesino gli chiese di assumere il ruolo di coordinatore didattico dei corsi delle 150 ore, che allora si organizzavano per permettere ai lavoratori di conseguire la licenza elementare o media. Lui accettò con molto entusiasmo. Ovviamente si trattava di un’attività al di fuori dell’ambito scolastico istituzionale, che portò avanti fino alla sua morte nel 1982, poco dopo la pensione. E come nacque il “Centro Ermete Lovera”? … e pure l’Associazione “Ermete Lovera”, dato che esisteva anche un’associazione a lui intitolata. Si trattò di un’iniziativa di don Giuseppe Rauzi, allora parroco presso la Chiesa della Visitazione, in viale Europa. Don Giuseppe, assai noto e apprezzato a Bolzano, fu a lungo insegnante di religione al Liceo Carducci e lì conobbe il mio papà. Ermete Lovera Nacque un’amicizia intensa, che durò a lungo nel tempo. Don Giuseppe volle, convintamente, ricordare l’amico, intitolandogli prima l’Associazione e poi il Centro costruito nel 1984 accanto alla chiesa.

Come ricordi il legame tra queste due persone? Quello tra mio padre e don Giuseppe fu un sodalizio soprattutto intellettuale e culturale. Il papà aveva una sua religiosità ma l’amicizia con don Rauzi non riguardava l’ambito della fede, non era un legame con il prete. Tra loro c’era una complicità alimentata da conoscenze, letture, curiosità condivise. E tu come ricordiil tuo papà? Come è il tuo Ermete Lovera? In adolescenza ha pesato un po’ il suo essere uomo di scuola, che ha condizionato le mie scelte di studio. Ma poi il nostro è diventato un rapporto tra amici. Ricordo che l’estate tornavamo in Valle d’Aosta, dove c’era la casa natale della mamma. Andavamo insieme in montagna e lui, in sostanza, aveva con me un rapporto da pari a pari. È sempre stata una sua caratteristica: non trattarmi da figlio, ma coinvolgermi nelle sue riflessioni, chiedermi consiglio, cercare la mia confidenza. Si è sviluppato un legame profondo, durato negli anni, fino alla sua morte. Ricordo un colloquio con lui, qualche anno prima che morisse, in cui abbiamo parlato insieme del fatto che lui sarebbe morto prima di me e consideravamo insieme questa evidenza con l’immediatezza e la serenità di due amici. Mi ha trasmesso la sua passione per la Francia, che entusiasma anche me. Ogni tanto ci lanciavamo e parlavamo insieme in francese. Da lui mi sembra di aver ereditato il piacere di stare con gli altri per trasmettere alcune conoscenze, ossia la vocazione di insegnante: non il docente che si mette in cattedra, ma più la figura dell’educatore che stimola la ricerca e la conoscenza condivise. La mia passione per l’insegnamento si è manifestata nell’anno scolastico 1964/65, quando ottenni un incarico annuale di supplenza nella scuola media del papà. L’esperienza con le classi, con una in particolare, fu così bella e coinvolgente che dissi a me stesso che quello era ciò che volevo fare. E così mi orientai in quella direzione, affrontando anche l’ambito dell’educazione degli adulti. E devo dire che papà era contento di questi miei propositi. Più avanti, anche io mi trovai coinvolto nell’esperienza delle 150 ore, ma ormai il papà non c’era più.
INTERNOS Edizione/Ausgabe: nr. 02/2021 - Luglio/Juli 2021
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