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Progetto/Projekt Giovani Madri-Junge Mütter Intervista a Maria Atz, Valentina Casagrande, Francesca Colucci
di Fabrizio Mattevi
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Valentina Casagrande è la coordinatrice del Progetto “Giovani Madri” , Francesca Colucciè la sua vice, Maria Atzun’educatrice. A loro abbiamo chiesto di aiutarci a conoscere questo servizio e a comprendere a che cosa è dovuta la forte crescita quantitativa registrata negli ultimi anni.
Come è organizzato il vostro lavoro, come si svolge la vostra giornata tipo? La “giornata tipo” non esiste: questo è il bello del nostro lavoro e anche un fattore di fatica, proprio Valentina Casagrande perché ogni giornata è diversa dalle altre. All’inizio della settimana, nella riunione di equipe, fissiamo il calendario degli appuntamenti con le signore che seguiamo e delle incombenze da affrontare con loro. Siamo impegnate in primo luogo a offrire un supporto pratico alle madri che ci sono affidate: ricerca lavoro e ricerca casa, documenti, assistenza nella spesa, inserimento dei figli al nido o alle scuole per l’infanzia, particolari incombenze quotidiane. Accanto al supporto operativo, diamo un sostegno nelle funzioni educative, offrendo indicazioni e suggerimenti sul modo di relazionarsi con il figlio, mettendo a disposizione, in casi particolari, anche un supporto psicologico. Chi sono le donne che seguite? Quasi tutte sono straniere, che spesso parlano poco la lingua italiana, non conoscono il nostro territorio e non sanno a chi e dove rivolgersi per i servizi di cui hanno bisogno. Noi le affianchiamo e le accompagniamo con l’obiettivo di far loro acquisire
l’autonomia. Ma negli ultimi anni il progetto ha affrontato una trasformazione, dato che inizialmente, una decina di anni fa, non era indirizzato a mamme straniere. Era stato pensato come intervento a favore di mamme molto giovani, in particolare donne ospitate nelle residenze assistite, che spesso rimanevano incinte in età precoce e non potevano più rimanere in comunità. Da due o tre anni a questa parte è cresciuto il numero delle mamme straniere, che ora costituiscono circa l’85% delle assistite. Questa nuova realtà, conseguente al fenomeno dell’immigrazione clandestina, e questi nuovi bisogni sono cresciuti rapidamente, determinando un aumento significativo di appartamenti destinati a ospitare queste donne.
Peraltro la quota più consistente di donne proviene dal Centro Africa, dalla Nigeria in particolare (circa un 30%), con più accentuate difficoltà di inserimento nel nostro ambiente quotidiano e di comprensione della nostra cultura. In molti casi sono analfabete: questo è un limite potente e pesante per un percorso di Equipe del servizio “Giovani madri” inserimento e integrazione. Poi seguiamo donne che provengono dai paesi balcanici, dall’Est Europa, dal Nord Africa. Alcune provengono da una famiglia straniera ma sono nate in Italia. Dove sono ospitate? Queste donne non hanno una loro abitazione, provengono spesso da Centri di prima accoglienza di altre regioni italiane, dalla strada, da Comunità. Alcune sono inviate con decreto di un tribunale, a causa di inadeguatezze genitoriali e dunque a rischio di vedersi sottratta la cura dei piccoli. Più mamme e i loro figli, per lo più neonati o comunque piccoli, sono ospitati in appartamenti messi a disposizione dall’IPES, a Bolzano e a Merano.

Nel limite del possibile cerchiamo di abbinare nella convivenza madri tra loro affini e compatibili. Curiamo anche il rapporto con condomini e vicinato, che è altrettanto delicato e prezioso. Con le nostre assistite affrontiamo anche questi aspetti (rispetto dell’altro, orari, modalità di relazione, rumori, toni di voce, raccolta differenziata…), poiché rientrano nel percorso di integrazione e di inclusione sociale. Che cosa ha spinto queste persone a lasciare il loro mondo? Alcune donne sono state oggetto di vera e propria tratta. Ad altre è stato detto che qui avrebbero trovato casa e lavoro. Molte sono immigrate economiche, spinte dal desiderio di migliorare le condizioni di vita. Alcune sono in transito, in attesa di poter arrivare in Germania, dove hanno dei conoscenti. Altre puntano a ottenere sussidi per inviare dei soldi ai familiari rimasti nel paese d’origine. Raccogliamo tante storie, anche molto differenti tra loro. A volte la priorità del dato economico ostacola o impedisce l’adesione a un reale progetto di trasformazione e inserimento. Un po’ quel che negli anni scorsi accadeva con i migranti maschi e pure con i migranti europei che agli inizi del secolo scorso partivano per gli Stati Uniti. Alcune di loro ora tornerebbero indietro. In queste storie di donne non ci sono figure maschili su cui contare? No, i maschi sono del tutto assenti e abbiamo il sospetto che spesso queste donne vengano sposate e poi messe incinte per favorire l’ottenimento del permesso di soggiorno; in altri casi raccogliamo storie di violenze subite durante il viaggio o la permanenza in Italia. In ogni caso i maschi non costituiscono per noi una possibile risorsa su cui contare. Di fronte a situazioni tanto drammatiche che obiettivi vi ponente nei vostri interventi?
Francesca Colucci (a destra) e Maria Atz

Di per sé un progetto dovrebbe concludersi allorché una mamma raggiunge una certa stabilità, anche economica, anche con l’aiuto dei sussidi messi a disposizione dall’ente pubblico. Negli ultimi anni operiamo però in vista di risultati minimali. Il primo, più immediato e fondamentale, è l’apprendimento della lingua italiana, quanto meno per l’uso quotidiano. La frequenza di un corso di lingua è il prerequisito per la continuazione del progetto. Altro fattore essenziale è l’iscrizione dei figli a scuola, al nido prima, alla scuola per l’infanzia poi. La scuola è fondamentale nel processo di inserimento. I bambini apprendono facilmente la nostra lingua, tanto che in alcuni casi possono aiutare la mamma a comprendere qualche termine o insegnarne di nuovi. Ulteriore aspetto su cui interveniamo è la pulizia domestica e l’attenzione alle norme igieniche, comportamenti che non sono affatto scontati.

Luana Maggioe Christian Albertin Traguardo decisivo è il lavoro, che comunque presuppone un po’ di competenza linguistica. Come è facile immaginare, è difficilissimo trovare lavoro per donne straniere. Puntiamo sugli stage e sulle opportunità offerte
dei corsi del Fondo sociale europeo. La difficoltà a essere assunte è aggravata dalla necessità di accudire i figli quando non sono a scuola. Spesso le mamme si scontrano con problemi di orari, dato che l’occupazione più frequente, nelle ditte di pulizia, impone orari differenti da quelli delle scuole. Anche i periodi di vacanza scolastica determinano situazioni di emergenza. Altrettanto drammatico è il problema della casa. Quasi impossibile sottoscrivere un contratto di affitto se hai un lavoro occasionale, ancora di più se sei straniero con permesso di soggiorno, e più ancora se sei donna con figli (anche perché lo sfratto è più complesso nel caso di una donna con bambini).
Anche i criteri di accesso alle graduatorie dell’IPES sono stati ristretti: gli anni di residenza o di lavoro continuativo richiesti sono stati portati da cinque a dieci. La maggior parte delle nostre assistite non può accedere. In ogni caso le differenze e le discriminazioni di genere sono molto potenti. Come si articola il vostro intervento in ciascun progetto individuale? Per ogni mamma operano due educatrici, normalmente per sei ore a settimana, dunque tre a testa. Nei casi più impegnativi possiamo chiedere che le ore salgano a otto o anche a dodici. Le ore coprono gli interventi in presenza e la parte accessoria, che comprende telefono, documentazione, riunioni di equipe. Ciascun operatore segue mediamente sei o sette mamme. Come comunicate? Là dove non abbiamo una lingua in comune con traduttori digitali, un po’ di inglese, il linguaggio dei gesti, l’espressività e la mimica, l’improvvisazione. L’equipe è tutta al femminile? No, abbiamo due colleghi maschi, che operano senza particolari ostacoli. Ovviamente evitiamo di far loro seguire donne con problemi di violenza alle spalle. Su quale arco di tempo operate? Varia a seconda delle caratteristiche e delle risorse di ciascuna donna. Si può andare da progetti che si completano in un anno e mezzo, a situazioni che si prolungano per più anni. A volte è la donna che interrompe e se ne va, altre volte siamo noi a chiudere un progetto perché non intravvediamo possibilità Francesca Colucci reali di coinvolgimento e di riuscita. Dalle vostre testimonianze emerge la percezione di un lavoro assai impegnativo e non sempre gratificante nei suoi esiti. Le soddisfazioni ci sono e allora sono realmente consistenti e belle. Con molte mamme abbiamo realizzato un progetto di accompagnamento verso una reale autonomia. Incidono le condizioni partenza. Il che non vuol dire situazioni facili, poiché abbiamo

avuto esiti positivi pur di fronte a condizioni di violenza e dipendenza da sostanze. Là dove invece vi è una condizione di totale analfabetismo i margini di intervento sono assai ridotti. Analfabetismo vuol dire non saper leggere i nomi delle vie, trovarsi in difficoltà negli spostamenti, non riuscire a decifrare i numeri e dunque non comprendere i prezzi, ignorare le ore del giorno… Anche la distanza tra modelli culturali e religiosi è molto incidente. In questi anni abbiamo rivisto l’impianto del nostro progetto, adattandolo alle nuove esigenze e calibrando gli obiettivi su queste realtà. Se con le mamme l’esito degli interventi è più o meno efficace, gli effetti sui bambini sono invece assai positivi, in termini di integrazione. Per loro questo progetto è un’opportunità significativa, una chance in più, che permette di godere di servizi e tutele, previsti dalla legge italiana, a cui non sempre le mamme straniere accedono. L’iscrizione al nido o alla scuola per l’infanzia fa sì che il bambino sia inserito nel canale dell’istruzione e possa dunque, in qualche modo, essere monitorato. Come avete affrontato questo anno di pandemia? È stata dura. Abbiamo sempre lavorato, anche nei momenti più critici. Questo ci ha evitato l’isolamento in casa e la sospensione del lavoro, però ci ha costretto a fare i conti con timori e ansie connessi al rischio del contagio. In più dovevamo gestire le problematiche degli utenti e le loro paure. Ci sono state mamme che non volevano lasciarci entrare in casa, per evitare contaminazione. Però l’abitudine al lavoro in equipe ci ha aiutato.