Università Iuav di Venezia AA. 2020-2021
Design della moda e arti multimediali - Primo anno Laboratorio di arti visive 2
Docente: Francesco Zucconi
Assistenti: Giuseppe Ferrari e Nicoletta Traversa
Progetto grafico a cura di Nicoletta Traversa
Con la partecipazione di Giorgio Fichera (Centre d’Histoire et de Théorie des Arts, École des hautes études en sciences sociales, Paris) Giacomo Tagliani (Università degli Studi di Palermo)
A cura di Francesco Zucconi Giuseppe Ferrari Nicoletta Traversa
I FILM, QUANDO (NON) INVECCHIANO, DIVENTANO UN LABORATORIO
Francesco Zucconi / 08
01 SE TI DICO ARANCIA MECCANICA...
Paolo Barbero - Alessandra Frabetti
Matilde Milan - Greta Rosso - Giulia Tornielli / 12
02 THE BIG BOOK
Giorgia Balbi - Agnese Cappellazzo - Sveva Conte
Kadidia Oumou Konsegre - Sofia Quarisa / 18
03 ATLAS
Giovanni Bon - Eleonora Busan - Linda Zanuzzi / 26
04
DANCEHALL
Carolina Cutini - Brenno Damian - Manfredi Destro
Martina Parisi - Bianca Vannucchi / 34
05 ULTRA-SESSO (EROTICA MECCANICA)
Margherita Gobbi - Celeste Lazzaro - Zandalee Pascon / 40
06
MOMMO
Lucrezia Bolis - Filippo D’Agnano - Gaia Liscia - Vishakha Moretto
Giorgia Silvestrini / 48
07
SOGLIA ESOTERMICA
Luce Carlotta Bonandini - Anthony Onno Brouwer Nicolò Brunetta - Giovanni Stocco - Stefano Stoppa / 56 08 BLACK BOX
Francesca Faggian - Martina Minaudo - Aurora Rò Mattia Rotelli - Elisabetta Venzo / 64 09 GULLIFIX
Denny Cester - Piero Hlavaty - Leone Maria Kervischer Sara Spatolisano - Alessia Trimarchi / 70
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LA CURA DEL BENESSERE
Quratulain Agha - Damiano Borgato - Sabrina Fedalto Tra Phuong Tu / 78 11 CONTRAZIONE
Luigi De Angelis - Riccardo Fabris - Alessia Franzese Alberto Marzari - Raffaele Morandi / 86 12 HY.S.T.
Elena Breda - Ángeles Fernández Ignacio Leonel Garbarino - Suchawadee Phiakhot Alessia Ugolin / 92 13 ARCHITETTURA MALIGNA G. S. / 100 14 THE
CARNIVAL’S ANALOGY
Vittoria Beltrame - Elena Cardin - Riccardo Carotenuto Luca Piludu / 106 15 INTERFERENZE
Francesca Bonani - Navid Khoshbaf - Matteo Rattini - Marco ReghelinErica Toffanin / 114
I film, quando (non) invecchiano, diventano un laboratorio
Francesco Zucconi
Settembre 1972. Alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, viene proiettato per la prima volta in Italia un film maledetto e benedetto, un’opera destinata a far parlare di sé per decenni. Qualcuno grida al capolavoro, altri allo scandalo. Ben presto, diventa un fenomeno sociale totale. Il regista viene accusato di aver incentivato, se non suscitato, con il suo film, una serie di azioni violente compiute da giovani sbandati, in tutto il mondo. Dopo aver ricevuto lettere minatorie, sarà costretto a ritirare la pellicola dalle sale del Regno Unito. Il film è A Clockwork Orange ( Arancia meccanica, 1971).
Il regista è Stanley Kubrick.
08
A distanza di cinquant’anni dall’uscita negli Stati Uniti, è il momento di tornare a chiederci che cos’è questo film e perché tanto clamore? Che cosa significa l’espressione gergale inglese “as queer as a clockwork orange” dalla quale deriva il titolo del libro di Anthony Burgess e del film di Kubrick? E cosa sono queste arance, che si comprano a basso costo al supermercato? È la nostra pelle una buccia d’arancia, oppure sono gli ambienti nei quali abitiamo e lavoriamo, gli oggetti dei quali ci dotiamo e con i quali facciamo corpo unico, le superfici sulle quali ci appoggiamo, la scorza delle istituzioni, le interfacce ruvide e/o sensibili dei dispositivi? E come intendere, oggi, l’aggettivo “queer” associato alla configurazione ibrida, post-umana o non-umana, di un’arancia a orologeria? Per rispondere a queste domande bisogna immergersi nella straordinaria macchina audiovisiva di Kubrick, considerando il film stesso come un laboratorio creativo. Per farlo, è necessario riflettere sulle architetture brutaliste presenti lungo l’intero film, sugli oggetti di design dislocati negli interni domestici, sui costumi progettati da Milena Canonero, sulla colonna sonora di Wendy Carlos. È dunque necessario intrecciare il pensiero del film con alcune riflessioni artistiche e filosofiche degli ultimi decenni: dal cantiere cinematografico di Vinyl (1965) di Andy Warhol – il primo a mettere in scena il libro di Burgess – alla “brutal aesthetic” identificata da Hal Foster in artisti come Dubuffet, Bataille, Jorn, Paolozzi e Oldenburg; dai classici scritti sulle forme di disciplinamento e controllo sociale di Michel Foucault e Gilles Deleuze al brutalismo tecnologico e politico al centro della ricerca di Achille Mbembe; dal pensiero del postumano di Donna Haraway alla riflessione sulla “queer art” di Renate Lorenz. Iniziato con la visione e con l’analisi integrale di Arancia meccanica, il lavoro del Laboratorio di arti visive 2 è proseguito identificano tendenze estetiche e pattern compositivi, ricostruendo i percorsi intertestuali e intermediali che fanno del film un oggetto complesso al crocevia di tensioni riguardanti la storia del Novecento, quella delle arti e dei media, la moda, la politica. Ogni gruppo di studentesse e studenti ha intrapreso un percorso di interpretazione “applicativa”, dove l’idea tradizionale di analisi si prolunga in un fare interattivo e creativo che dà luogo a un’implementazione dell’oggetto filmico stesso. As Queer as a Clockwork Orange è il display di un’opera cinematografica e un’espansione della stessa, un discorso sul passato e sul presente del cinema e dunque sulle forme tecnologiche, sulla loro invasività, sul conforto e lo sconforto che producono. È la messa a fuoco delle scelte registiche e compositive del film ottenuta attraverso una serie di esercizi di archeologia delle forme mediali: quindici progetti che ricorrono a tecniche digitali e analogiche con il comune obiettivo di riflettere su che cosa è un “capolavoro”, sul suo tempo, la sua memoria e dunque sulla sua vitalità nell’orizzonte estetico, culturale e politico contemporaneo.
Anthony Burgess, Arancia meccanica, tr. it., Einaudi 2014
Anthony Burgess, 1985, Serpent’s tail 1978.
Gilles Deleuze, Poscritto sulla società del controllo, in Pourparler. 1972-1990, tr. it., Quodlibet 2000.
Michel Foucault, Sorvegliare e punire, tr. it., Einaudi 2014.
Hal Foster, Brutal Aesthetics, Princeton University Press 2020.
Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg, tr. it., Feltrinelli 2018.
Renate Lorenz, Queer Art: A Freak Theory, Transcript Verlag 2012.
Achille Mbembe, Brutalisme, La Découverte 2020.
Gene Youngblood, Expanded cinema, tr. it., Clueb 2010.
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Se ti dico Arancia Meccanica...
Paolo Barbero - Alessandra Frabetti Matilde Milan - Greta Rosso - Giulia Tornielli
A cinquant’anni dall’uscita di Arancia meccanica, il mito dell’ultra-violenza è ancora vivo nella memoria degli spettatori? Questo documentario raccoglie testimonianze e percezioni, memorie familiari e sociali di questo “film maledetto”.
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“Vede l’Arancia meccanica, esce dal cinema e uccide un uomo”. Questo è un titolo di giornale, uno dei tanti casi di cronaca che i media hanno ricondotto al film di Stanley Kubrick. Nel corso degli anni, le testate giornalistiche hanno trasformato il film in un vero e proprio manifesto della violenza, alterandone in questo modo la percezione e al contempo rafforzando il fenomeno culturale che esso stesso rappresenta.
Qual è dunque il film o, meglio, l’immagine del film custodita nella memoria spettatoriale? Il pubblico identifica nel culto dell’ultra-violenza il fulcro indiscusso del film? È stato difficile sostenerne la visione? Qual è dunque il messaggio che trasmette? Cos’è Arancia meccanica?
Questo documentario raccoglie le testimonianze di spettatori passati e presenti. È proprio grazie al ricordo di chi lo ha visto, adorato, demonizzato, travisato, acclamato o rifiutato se Arancia meccanica è ancora vivo e discusso.
Le voci che compongono il documentario attraversano diversi macro-temi, declinati secondo diverse sensibilità ed esperienze, analizzando violenza, empatia, emulazione e contemporaneità di questo film straordinario. Gli intervistati costituiscono un gruppo eterogeneo per appartenenza generazionale ed esperienza spettatoriale (chi lo vide al cinema, chi lo ha visto di recente in streaming, chi si rifiuta di vederlo). Sei di loro sono stati ripresi da due videocamere all’interno dei propri ambienti domestici. La settima persona, che si è sempre rifiutata di vedere Arancia meccanica in quanto “troppo violento”, assiste per la prima volta al film mentre, attraverso l’uso di un saturimetro, viene monitorato il suo battito cardiaco. Il risultato è un percorso ricco di spunti di riflessione che emergono dai pareri talvolta affini e talaltra contrastanti. Scandalo e violenza emergono come i lati più visibili di quel prisma che si forma al punto d’incontro tra la memoria cinematografica e la memoria sociale.
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The Big Book
Giorgia Balbi - Agnese Cappellazzo - Sveva Conte Kadidia Oumou Konsegre - Sofia Quarisa
Traducendo la lingua Nadsat inventata da Anthony Burgess, The Big Book riflette sulla realtà al contempo attuale e straniante di Arancia meccanica. In che misura il mondo dei drughi diverge da quello che viviamo nella realtà quotidiana?
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Traducendo la lingua Nadsat inventata da Anthony Burgess, The Big Book riflette sulla realtà al contempo attuale e straniante di Arancia meccanica. In che misura il mondo dei drughi diverge da quello che viviamo nella realtà quotidiana?
Dal libro al film, uno degli elementi fondamentali di Arancia meccanica è costituito dal linguaggio Nadsat, inventato da Anthony Burgess. Questa forma d’espressione unisce la lingua inglese, parole ideate dallo stesso autore e termini derivati dal russo, con un’influenza del tedesco. L’obiettivo dell’invenzione del Nadsat è quello di creare uno slang giovanile capace di restare indeterminato, al di fuori da una collocazione temporale precisa. Burgess voleva che la voce del protagonista fosse unica e senza età, anche a sottolineare l’indifferenza del personaggio verso le norme della società, come se le sottoculture giovanili fossero indipendenti dalle regole del mondo circostante. Nel film, Alex parla in prima persona e, grazie al suo linguaggio, crea un rapporto forte e intimo con lo spettatore, il quale si sente un ‘’drugo’’, un compagno del protagonista.
Il progetto riporta in un libro-dizionario alcune delle parole in Nadsat utilizzate nel film. Il lavoro comprende un’analisi del linguaggio e l’introduzione di uno slang altrettanto straniante, attinto dalla “Generazione Z”, andando così a costituire un vocabolario del lessico contemporaneo corrispondente alla lingua utilizzata da Alex e dai drughi. La rielaborazione avviene non solo in chiave letteraria, ma anche visiva: lo spettatore è guidato in un percorso di sensazioni e riflessioni tramite fotografie, illustrazioni ed espedienti grafici. In questo modo, The Big Book si propone di ribadire l’attualità del film di Kubrick e di problematizzare la vicinanza del mondo dei drughi, spesso concepito come grottesco se non paradossale, alla realtà quotidiana del tempo presente.
The Big Book indaga il concetto stesso di “arancia meccanica”: qualcosa all’apparenza normale, ma che rivela al suo interno una struttura e un organismo complessi e problematici. Sebbene la copertina del libro non differisca da quella di altri comuni dizionari, una volta sfogliato, The Big Book rivela un mondo stravagante. Le traduzioni dal Nadsat al gergo giovanile e le illustrazioni interrogano lo spettatore: la violenza di Arancia meccanica è davvero così “inaudita”? In che modo i temi del film sopravvivono a distanza di cinquant’anni?
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Atlas
Un ritratto a-tipico, un cumulo che assume le sembianze di labirinto di segni, echi, richiami. Una geografia inorganica, ma sensibilmente fonica, dell’emotività di un personaggio.
Giovanni Bon - Eleonora Busan - Linda Zanuzzi
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Durante la visione di Arancia meccanica è lecito chiedersi cosa sia davvero questo “Gulliver” (“la testa”, nel linguaggio Nadsat inventato da Anthony Burgess e ripreso da Kubrick) o, in modo più opportuno, cosa si celi realmente al suo interno.
Atlas annulla l’indecifrabilità del Gulliver, offrendo allo spettatore la possibilità di guardarvi attraverso, rendendo fisica la trasparenza che ricerchiamo nel chiederci cosa contenga una mente complessa come quella di Alex. La scultura è stata realizzata modellando un blocco di polistirolo, fino a donargli le sembianze di una testa umana, sulla quale sono stati realizzati due calchi in gesso. Sugli stampi così ottenuti sono stati posizionati, in piccole composizioni, gli oggetti (alcuni realizzati artigianalmente), ricoperti infine da una colata di resina trasparente.
Guardando attraverso Atlas è possibile riconoscere alcuni oggetti appartenenti al personaggio di Alex, elementi che appaiono seppur talvolta velocemente e inosservati durante il corso della pellicola. Il progetto rifiuta di definire la personalità di Alex, non s’impone cercando di stabilire una gerarchia tra gli oggetti presentati, non delibera a proposito di bene e male, ma presenta gli oggetti nella loro silenziosa, ed eloquente, materialità per sottoporli all’analisi e al giudizio dello spettatore.
Atlas rievoca la figura mitologica del titano Atlante che sorregge sulla testa e sulle spalle il peso del mondo, ma Altas restituisce anche l’atlante emotivo di un personaggio del film. Come a volerci dire che, oltre gli oggetti e il loro “peso”, vive e pulsa un mondo inedito. Se imparassimo ad ascoltare gli oggetti e a riconoscerli come “segni di vita” potremmo avere accesso a una voce autentica, diversa dal linguaggio, ma forse più adatta a narrare e narrarci. Gli oggetti non sono mai casuali, possiedono un legame personale con la nostra esistenza, rappresentano l’inventario delle nostre azioni, sono i segni della nostra presenza nel mondo.
E se un insieme di oggetti può davvero essere una mappa da seguire, Atlas suggerisce allo spettatore di lasciarsi guidare per poi chiedersi nuovamente al termine: “chi è davvero Alex DeLarge?”.
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Dancehall
Carolina Cutini - Brenno Damian - Manfredi Destro Martina Parisi - Bianca Vannucchi
Utilizzando il formato del videoclip, un montaggio audiovisivo che sviscera, analizza e decostruisce il nesso relazionale di Alex e della modernità con la Stanza-Monade di Arancia meccanica e le sue finestre oggettuali.
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La centralità del riferimento alla musica classica, il design convesso e acuminato della coperta e l’enigma sessuale suggerito dalla lampada che illumina la stanza di Alex innescano una riflessione sugli oggetti e sull’ambientazione di Arancia meccanica.
Il progetto ripropone la stanza di Alex sotto forma di ambiente-dispositivo che si interfaccia con la quotidianità dello spettatore. Dancehall sfrutta il fenomeno sociale ed estetico del videoclip musicale come prodotto e surrogato della questione culturale esposta da Kubrick, discutendo l’impatto dei mass-media sulla contemporaneità. L’indigestione culturale del protagonista è qui inscenata attraverso il potenziale di interfaccia degli oggetti che lo circondano e lo costruiscono come soggetto. A partire dagli immaginari “Camp” e “Vaporwave” si dipana una modulazione dell’immagine kubrickiana e una sinestesia audio-visiva che satura la musica classica, inserendo un brano di John Williams, in una prospettiva neobarocca e commerciale. L’immagine di Beethoven come catalizzatore prospettico e nucleo sonoro del film dispiega lo scenario decadente in cui il protagonista-spettatore e le sue variegate proiezioni estetiche sono immersi. Design, Moda, Architettura, Musica partecipano di un processo di brutalizzazione dell’estetica sociale fino a condizionare i comportamenti anti-sociali del protagonista.
Attraverso un montaggio frammentario e serrato, Dancehall decostruisce ed espande il mondo caotico e violento dell’anti-eroe di Burgess e Kubrick, in un rapporto chimico fatto di erosioni e ricostruzioni. L’ambiente e il suo apparato oggettuale si scarnificano fino a diventare monade, “stanza senza porte né finestre”. Il progetto indaga e rivela la morfologia degli oggetti della stanza di Alex fino ad attivarne il potenziale di interruttore-finestra, scardinando il rapporto lineare soggetto-oggetto, film-spettatore. Dancehall integra e riassume la violenza politica dell’immagine pop attraverso un’analisi estetica e culturale della modernità, spingendosi a raccordare diverse ramificazioni dell’esperienza contemporanea come il gusto trash, la digitalizzazione dei criteri esperienziali, il mito del “comfort” e l’inabitabilità del fuori.
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Ultra-Sesso (Erotica meccanica)
Margherita Gobbi - Celeste Lazzaro - Zandalee Pascon
A partire dalla scena velocizzata presente nel film di Stanley Kubrick, Ultra-sesso (Erotica meccanica) intende svelare, attraverso un montaggio di immagini, l’automatismo meccanico insito nell’atto sessuale.
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In Arancia meccanica, Kubrick racconta l’esistenza distopica di Alex, un soggetto votato al sesso e all’ultra-violenza. Nel corso del film, il regista non si limita a mostrare Alex nei suoi panni di drugo, ma spoglia il personaggio fino a presentarlo privo di costruzioni, nudo di fronte allo spettatore. Alex viene mostrato nel suo percorso di deindividuazione, dal suo apice al suo declino, fino al completo smascheramento.
Una delle prime tappe di questo processo è la rappresentazione della sua vita sessuale, ben lontana dall’ultra-violenza e dall’ultra-latte. Kubrick sceglie di rappresentare il momento d’incontro tra Alex e le due ragazze conosciute nel negozio di dischi in modo ironico, velocizzando il movimento dei corpi celebrato dal crescendo rossiniano dell’ouverture del Guglielmo Tell.
Qual è dunque lo scopo di questa scelta registica? Non di certo mostrare la passione fisica o l’amore, quanto piuttosto rappresentare una sessualità fine a sé stessa, pura meccanica. Questa meccanicità insita nell’atto sessuale è il punto di partenza di Ultra-Sesso (Erotica meccanica). Il corpo viene analizzato nella sua sessualità meccanica attraverso un processo di sviluppo fotografico ispirato dal lavoro di Man Ray e delle sue Rayographie, realizzate a partire dagli anni Venti del Novecento. Come Man Ray esaltava il carattere paradossale e inquietante del quotidiano, prendendo in esamina alcuni oggetti comuni e ricorrenti, allo stesso modo questo progetto mette nero su bianco l’idea di sessualità epressa da Alex.
La composizione, articolata in nove tavole, mostra un kamasutra non più volto alla ricerca di un piacere condiviso tra le parti, ma reso ripetitivo, automatico e macchinico. Il corpo come catena di montaggio viene scandito attraverso un percorso visivo in cui le singole parti concorrono alla creazione di una narrativa. In questo modo viene svelato il rapporto conflittuale e allo stesso tempo simbiotico tra organico e inorganico, tra corpo e macchina.
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Mommo
Un montaggio video per indagare la dicotomia della figura materna in Arancia meccanica. Tale figura viene sintetizzata nell’elemento essenziale del latte, visualizzato attraverso differenti utilizzi; da un uso più quotidiano, semplice e familiare per poi evolversi in scene estremizzate, disturbanti e soffocanti.
Lucrezia Bolis - Filippo D’Agnano - Gaia Liscia - Vishakha Moretto Giorgia Silvestrini
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In Arancia meccanica, il latte è qualcosa di ambivalente, coincide con il bisogno e la ricerca dei drughi di qualcosa di “aumentato”, è il cosiddetto “Latte più”. Si tratta insomma di un latte a cui manca sempre qualcosa, che deve sempre essere alterato e corretto. All’interno del film vi è la tendenza alla ricerca di una figura materna idealizzata, come colei che nutre, che dà vita e che protegge. Tuttavia viene sottolineata l’assenza di questo ruolo lasciando spazio a una madre sottomessa, lontana dall’idillio del nido e molto più vicina a una realtà brutale, cardine dello sviluppo del personaggio.
Mommo si sviluppa a partire da questa dicotomia, analogamente al pensiero del protagonista tra idiosincrasia e bramosia, e si concretizza in un montaggio video rapido e animoso, che gioca sul dualismo degli elementi compositivi. In Mommo assistiamo a un crescendo e decrescendo continuo e grottesco di erotizzazione e brutalizzazione del latte.
Ad accompagnare questo processo, Casta Diva, brano dall’opera Norma (1831) di Vincenzo Bellini qui interpretato da Maria Callas, che progredisce in contrasto con l’intento iniziale della melodia, per poi giungere a una cacofonia in cui la voce accudente si trasforma divenendo frastornante ed inascoltabile.
Attraverso l’utilizzo di due luci, il progetto è caratterizzato da un’armonia cromatica basata sul contrasto. Una luce rossa e una blu pervadono e contrassegnano le varie scene alla ricerca di un equilibrio che viene costantemente destabilizzato dalla prevalenza di un colore sull’altro.
L’obiettivo è mettere in prospettiva un ruolo mitizzato e simbolico quale è quello della madre nella società contemporanea. L’immagine materna kubrickiana, causa ed effetto di alienazione e degrado, vittima e carnefice del suo ambiente, viene analizzata come elemento critico di sviluppo sociale e antisociale.
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Soglia esotermica
Luce Carlotta Bonandini - Anthony Onno Brouwer - Nicolò Brunetta Giovanni Stocco - Stefano Stoppa
Un progetto di installazione che prevede una porta delimitante uno spazio di transito da uno confortevole. Superando la soglia, lo spettatore esperisce l’intrusione in una stanza, pensata come un luogo privato, violando l’integrità di una proiezione.
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Il rapporto tra media caldi e media freddi studiato da Marshall McLuhan costituisce un’efficace chiave di lettura di Arancia meccanica. La temperatura dei media si presenta come uno strumento che condiziona e caratterizza i soggetti del film. Fondamentale in questa analisi è la presenza della porta che, nella sua duplice funzione di protezione e separazione, si presenta come un medium a due facce: una calda e una fredda. Per il soggetto all’interno della stanza confortevole, la porta è un medium caldo, protettivo e avvolgente. Per il soggetto posto all’esterno, la realtà è opposta: il medium è freddo ed è un ostacolo alla visibilità. La porta aperta dall’esterno viola l’avvolgente sicurezza del medium garantita a coloro che abitano l’interno della stanza. Tale meccanica è ben riconoscibile nella sequenza dell’omicidio della “Cat-woman”, dove la porta funge da soglia protettiva successivamente violata da Alex.
Soglia esotermica è un progetto di installazione mirato a suscitare l’esperienza di tale mutamento del medium. La progettazione di questo ambiente punta a ricreare una “stanza calda”, nella quale Arancia meccanica è proiettato sulla parete della porta d’ingresso. Tale proiezione serve ad evidenziare lo sbalzo termico del medium porta. È compito dello spettatore esterno, inizialmente ignaro del meccanismo, compiere l’intromissione che gelerà il comfort della stanza a cui sta accedendo, violando la proiezione video, dalla quale verrà colpito, e attirando verso di sé lo sguardo degli spettatori presenti. Lo stesso soggetto, nel momento in cui la porta verrà richiusa, diverrà parte dell’ambiente confortevole della stanza. All’interno di quest’ultima, lo spettatore troverà uno spazio avvolgente, arredato da due divani e un tappeto. Su una delle pareti laterali, è posta, all’interno di un lightbox, la didascalia dell’installazione stessa e, al suo fianco, la porta d’uscita.
Il progetto è una riflessione sul ruolo dei media in Arancia meccanica, ma anche un’occasione per comprendere come le temperature dei media siano assai più variabili rispetto al semplice rapporto caldo/freddo. L’interazione tra il soggetto e il medium gioca un ruolo fondamentale nella determinazione della temperatura di quest’ultimo. Sono e saranno le scelte individuali e collettive a far mutare questo legame in costante evoluzione.
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Black Box
Francesca Faggian - Martina Minaudo - Aurora Rò
Mattia Rotelli - Elisabetta Venzo
Un dispositivo di esplorazione visiva in cui inserire una serie di diapositive dal film Arancia meccanica per indagare le sue interconnessioni. Un visore nato da una “non ordinaria” visione filmica.
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Arancia meccanica è soprattutto la storia della sua ricezione cinematografica e degli effetti prodotti sugli spettatori. Tuttavia, il materiale filmico non conosce un’unica modalità di fruizione, ma può essere sottoposto a tentativi di velocizzazione, rallentamento o sovrapposizione con altro materiale.
Alla base di Black Box si trova un esperimento: la riproduzione contemporanea su due schermi; da un lato seguendo la sua scansione temporale ordinaria e dall’altra al contrario. Il test ha rivelato la presenza di due movimenti opposti, che partono dagli estremi della pellicola, congiungendosi nel mezzo, evidenziando così la possibilità di ripiegarla su se stessa. Emergono così dei punti di specularità formale e di contenuto.
Il visore risponde alla necessità di dare corpo e rendere fruibile la “ripiegabilità” del film: lo spettatore accosta il proprio occhio al foro laterale di Black Box e, contemporaneamente, attraverso una fessura presente sul dorso, inserisce delle diapositive del film. Queste, stampate su carta acetata, sono accoppiate cromaticamente secondo gli sfondi dei titoli di testa e di coda del film stesso.
L’associazione delle diapositive non è univoca: lo spettatore può scegliere quale porre in primo piano cambiando così la relazione che intercorre tra le due, immergendosi nell’osservazione prolungata di una sovrapposizione, a differenza del carattere effimero della proiezione cinematografica.
Il coinvolgimento tattile e visivo viene così reso possibile: chi osserva entra in relazione fisica con il visore, in uno spazio di fruizione privato e unico che lui stesso attiva. È infatti lo spettatore a fornire l’illuminazione retrostante le diapositive, posizionando la torcia del proprio dispositivo cellulare in un apposito sostegno dietro il visore. Il coinvolgimento dell’estensione-telefono produce un’ibridazione tra nuove e vecchie tecnologie, tra corpo e dispositivo, tra spettatore e film.
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Gullifix
Un reperto proveniente da un passato immaginario, dispositivo e prova di un certo approccio correttivo. I meccanismi proposti nella Cura Ludovico sono qui modellati su scala domiciliare, sotto forma di foglio illustrativo presente all’interno del kit correttivo.
Denny Cester - Piero Hlavaty - Leone Maria Kervischer Sara Spatolisano - Alessia Trimarchi
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Nel 2019, nel corso della riqualificazione delle Vele di Scampia a Napoli, sono stati rinvenuti numerosi foglietti illustrativi apparentemente appartenenti a un dispositivo correttivo domestico distribuito dal governo nel corso degli anni Ottanta. Questo dispositivo, del quale attualmente non si conosce la natura se non in virtù del foglietto illustrativo sopracitato, consisteva in un kit che rendeva il soggetto partecipe nel riprogrammarsi a piacere, deresponsabilizzandosi di fronte al proprio desiderio, attraverso un condizionamento mentale pavloviano di facile riproducibilità casalinga.
L’obiettivo del governo era quello di produrre contenuti a forte inquadramento etico e morale, mirati alla codificazione di valori specifici tramite una propaganda politica densa e ramificata, parallela alla distribuzione del kit. Un controllo attuato dalle istituzioni nel tentativo di minimizzare l’intervento dell’apparato giudiziario, spostando capillarmente, dal pubblico alla dimensione privata, la spettacolarizzazione della violenza esemplificatrice della punizione del XVII secolo, tramite un’ortopedia sociale prêt-à-porter.
All’interno del reperto è possibile osservare una serie di istruzioni, accompagnate da un accurato elenco di oggetti e immagini, che permettono di comprendere il funzionamento del kit, ritirato dal commercio e forse ancora reperibile da qualche parte nel dark web. La terapia proposta sembra oggi assimilabile al caso che scatenò, negli anni Settanta, un’onda di indignazione nella stampa pubblica contro il governo britannico, accusato di “atti disumani contro natura’’ ai danni del giovane omicida A. DeLarge, successivamente al suo tentato suicidio.
Il progetto apre a molteplici interpretazioni, ponendoci delle domande sul tempo presente che difficilmente possiamo ignorare. Cosa sarebbe successo se questo kit fosse veramente uscito in commercio? Che tipo di società è quella in cui tale oggetto viene accettato e, anzi, prescritto?
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La cura del benessere
Quratulain Agha - Damiano Borgato - Sabrina Fedalto
Tra Phuong Tu
Rielaborando il montaggio della Cura Ludovico, Alex è costretto a guardare sé stesso negli occhi, in un estenuante campo/controcampo. La sua agonia viene interrotta bruscamente da una serie d’immagini delle Alpi. Si tratta di una via di fuga dal trattamento o di una sua indefinita estensione?
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Una delle scene più violente di Arancia Meccanica si svolge all’interno di un cinema a sua volta collocato all’interno di una clinica. È il momento in cui il protagonista Alex viene sottoposto alla Cura Ludovico e obbligato a guardare scene di ultraviolenza, accompagnate dalle note della Nona Sinfonia dell’amato Ludwig van Beethoven.
La cura del benessere ripensa e rielabora radicalmente il dispositivo della Cura Ludovico: Alex è legato a una poltrona ed è costretto a fissare sé stesso negli occhi, nei suoi comportamenti violenti e nelle sue espressioni vendicative, come in uno specchio. Questo montaggio, attraverso la tecnica del campo e controcampo, suscita nello spettatore un’idea di autoriflessione e chiusura dello spazio drammatico. È un invito a riconoscere la pervasività della violenza così come il suo legame con la sfera dell’arte e della bellezza.
Alle evoluzioni melodiche della Nona si accompagna quella delle espressioni del protagonista… Il video lo mostra dapprima minaccioso, poi sofferente e, in fine, quando la musica cessa, Alex si deride da solo. Con un cambio di scenario, si passa dalla stanza chiusa nella quale si svolge la Cura Ludovico a un luogo all’aperto, dove lo spettatore può ammirare la maestosità del panorama alpino, vasto e pacifico nel suo naturale splendore, con i classici paesaggi da cartolina, sinonimo di “aria pura” e di “relax”. Con il passare dei minuti, però, la via di fuga apparentemente in contrasto alla Cura Ludovico, suscita emozioni tutt’altro che rassicuranti; le nuove immagini, accostate alla musica di Beethoven, creano un effetto di inquietante straniamento e alienazione.
Chiunque subisca questa nuova “cura del benessere” passa dal godere della bellezza dei paesaggi alpini fino a provare un sentimento di fastidio, una paradossale forma di malessere.
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contrAzione
Luigi De Angelis - Riccardo Fabris - Alessia Franzese Alberto Marzari - Raffaele Morandi
Una riflessione sul concetto di manipolazione. Un’indagine sull’effettivo potenziale della mano, organismo plasmante e plasmabile, strumento della mente senza il quale il pensiero sarebbe soltanto una chimera.
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Nel microcosmo poetico di Stanley Kubrick, la mano è considerata come un tratto distintivo della potenza dell’anthropos. In Arancia meccanica è in primis Alex a subire diverse forme di manipolazione: in carcere e nella clinica dove si svolge la Cura Ludovico. Ma l’azione manipolatoria raggiunge il suo apice nella sequenza finale, in cui Alex, caratterizzato da un’apparente condizione di immobilità, manovra con maestria l’altro da sé in modo del tutto inedito, esplicitando e portando ad autocoscienza l’intreccio sottilissimo che percorre tacitamente l’intero film, illuminandone le trame sotterranee.
Quali sono le effettive capacità della mano? E in che modo gli oggetti, intesi come media, mediatori, estensioni, alterano i nostri modi d’agire, di inter-agire, di plasmare il mondo? Quali le sintesi uniche di percezioni sensoriali che evocano in noi?
contrAzione si inserisce nella logica di azione/contro-azione, in cui l’oggetto funge da tramite per il gesto, che si distacca in tal modo dal semplice binomio di attivo-passivo allo scopo di divenire un gesto di controllo. All’interno del film di Kubrick, trova spazio un’estetica della violenza, che giunge a compimento anche attraverso la sessualizzazione di quest’ultima. Il design brutale di contrAzione gravita attorno al glossario iconografico del film, originando una sintesi non soltanto concettuale, ma anche estetica. Il risultato è un manufatto che individua il suo riepilogo formale all’interno di un tirapugni dall’esteriorità superlativizzata, dotato di un sistema GPS di monitoraggio, un sensore ideato per attecchire alle superfici epidermiche del corpo che tenta di controllo.
La dinamica del tirapugni è qui ribaltata: proprio in nome della sua configurazione, l’atto di tirare un pugno viene destrutturato in più azioni diverse, generando duplicità, innescando un rapporto di riflessività del dolore. La paradossale composizione dell’oggetto svolge una funzione di contenimento del canonico gesto per il quale è pensato, ostacolando l’azione in medias res, quasi a costituire una reificazione dei meccanismi alla base della Cura Ludovico.
In tal senso, contrAzione vuole essere la rappresentazione di un potenziale strumento biopolitico, specchio di una “società del controllo” che mira ad erigere barriere esimendosi dal costruire muri, necessitando il dispiegamento di forme quanto più possibile capillari e ibridate con il soggetto, al fine di monitorare quest’ultimo ininterrottamente e nella sua più profonda intimità. Attraverso l’impiego del GPS, il corpo del criminale viene modellato in relazione a una serie di posture previste dal design stesso, finalizzato alla produzione di un organismo docile. Un moderno dispositivo di ortopedia sociale, dunque, che consente di gestire l’individuo violento agendo come strumento di civilizzazione di una pura entità istintuale, garantendone la disciplina, senza tuttavia neutralizzarne l’eccitazione parossistica, senza che alcun tipo di percorso spirituale venga contemplato come ipotesi di redenzione. Il suo principale obiettivo è quello di meccanizzare un organismo che non potrà mai essere completamente meccanizzato. Fin dove è capace di arrivare lo slancio pulsante dell’arancia, ed entro quali termini può essere arginato dalla meccanizzazione? E se invece da quest’ultima potessero persino nascere dei “vantaggi”?
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HY.S.T. Hybrid Submission Thresholds
Elena Breda - Ángeles Fernández - Ignacio Leonel Garbarino Suchawadee Phiakhot - Alessia Ugolin
La traduzione digitale di alcuni fotogrammi attraverso un programma di modellazione tridimensionale. I fotogrammi scelti sono dei “momenti di soglia”, fasi di trasformazione di Alex nelle quali emerge lo scontro tra l’individuo e le strutture di potere che vogliono incorporarlo.
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Arancia meccanica è la storia di Alex che passa attraverso una serie di istituzioni preposte a correggere ortopedicamente i soggetti devianti, raddrizzandone le posture, plasmandone lo scheletro e i pensieri. È il corpo stesso il luogo in cui gli organismi di potere applicano l’azione trasformatrice del delinquente-malato. Il film è un inventario di queste strutture: ognuna applica un dominio peculiare sul protagonista, costringendo il suo corpo a modellarsi, perdendo il suo vitalismo esaltato e orgiastico. All’inizio Alex è un essere dinamico, la vita gli pulsa nelle vene senza sosta, così intensamente da renderlo insaziabile di ultra-violenza. Progressivamente diventa l’ombra di sé stesso, vittima delle architetture che lo ospitano. La creatura che emerge è sistematizzata, la sua energia viene incanalata per plasmare un individuo integrato, asservito allo stesso potere che ha appena finito di masticarlo.
HY.S.T. mette in luce i “momenti di soglia”, momenti di passaggio fra i molteplici meccanismi di disciplinamento e controllo. L’estetica scomposta del mondo esterno lascia spazio alla disciplina carceraria e poi ancora al biopotere sanitario, entrambe espressioni dell’onnipresente occhio statale. Il progetto si sviluppa attraverso una selezione di fotogrammi che presentano il contatto violento, il corpo a corpo tra Alex e l’istituzione. Più questa lotta modifica strutturalmente il soggetto, più la soglia è penetrata in profondità nell’organismo di Alex, rendendolo ibrido, “a orologeria”, un essere radicalmente diverso da quello di partenza. Attraverso quest’analisi, HY.S.T. tenta di rendere tattili le zone di sconfinamento tra soglie. Assegna tridimensionalità ai fotogrammi-soglia per mettere in luce il loro andamento materico. Come se queste parti del film ci fornissero degli sguardi privilegiati sulla “buccia d’arancia”.
L’esplorazione di queste metamorfosi avviene attraverso una plasmatura digitale dei fotogrammi che vengono importati in Blender, un programma di modellazione tridimensionale, e quindi processati in una configurazione attraverso un displacement modifier. Una plane surface viene dunque dislocata mantenendo il fotogramma di partenza come input di riferimento. Il risultato sono delle superfici curve, aventi come variazione di altezza il cambiamento di tonalità dei frame di partenza, in una riproduzione virtualmente tattile della progressione delle dinamiche di potere.
HY.S.T. si inserisce all’interno di un campo di riflessione critica sulle forme politiche del contemporaneo, facendoci riflettere sull’oppressione sistemica e sulle tecniche mediante le quali i poteri democratici sono legittimati a controllare e limitare le nostre vite. Quanto le tecnologie del potere possono incidere nella vita dei soggetti e quanta libertà possono sottrargli? Esiste un punto di non ritorno, una hybrid submission threshold oltre la quale la restrizione diventa disumanizzante? E se quella soglia viene oltrepassata, che ibridi potrebbe produrre?
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Architettura maligna
G. S.
I luoghi della periferia in cui vive il protagonista come metafora della sua stessa storia. Una proposta per una rilettura del film, tra illusioni e contrasti.
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Il valore ambientale è fortemente avviluppato alle vicende dei personaggi di Arancia meccanica. La periferia funge da potenza del negativo da cui scaturiscono le violenze: mai fatta oggetto della dovuta attenzione, contiene il germe di problematiche personali e sociali sempre più stratificate che ne diventano caratteristiche proprie. L’intervento dell’autorità si presenta distorto e si manifesta con il controllo e la repressione dei fenomeni di pericolosità sociale.
Una traduzione di questi aspetti è l’imprinting architettonico: i luoghi sono costruiti su un’idea di geometrizzazione e praticità dove stipare - quasi a rinchiudere - la massa popolare, che lì sviluppa quel senso di frustrazione che poi sfocia nel crimine.
L’architettura diventa qualcosa da temere, da cui difendersi, rappresenta l’illusione di una sicurezza che cela una tensione pronta a trasformarsi in azione imprevedibile. Vari sono i tentativi, da parte dei personaggi, di schermare la pesantezza della condizione di vita: un colore delle pareti, un certo tipo di abbigliamento, le sostanze stupefacenti. Azioni a vuoto, perché il male che incombe irrompe, e le cure (spesso peggiori del morbo) sono specchietti per le allodole che altro non fanno se non riportare alla situazione di partenza. In Arancia meccanica vi è un continuo ripercorrere vicende già vissute ma cambiate di segno, giocando proprio sul contrasto tra i tentativi del protagonista (e non solo) di vestire maschere nuove per superare un certo limite, e l’eterno ritorno a situazioni precedenti (per quanto con un ruolo diverso).
Il progetto vuole offrire una rilettura fotografica di questi aspetti della vicenda tentando di ragionare sul confine tra l’ideale di protezione e il controllo che un elemento architettonico offre, sul contrasto tra intenzione e realtà e sull’illusorietà che muove i tentativi di cambiamento. La scelta monocromatica, e l’ampio spettro di interpretazioni che offre, è specificamente volta a rappresentare la complessità dei fenomeni sociali al di là della vicenda qui raccontata: è indice di come alcune situazioni si ripropongano (anche visivamente) e indipendentemente da un luogo o contesto storico specifici, quasi fossero delle condizioni obbligate per ogni generazione.
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The Carnival’s Analogy
Vittoria Beltrame - Elena Cardin Riccardo Carotenuto - Luca Piludu Una rivisitazione di Arancia meccanica attraverso l’accostamento della celebre maschera napoletana di Pulcinella al controverso personaggio di Alex e ai suoi drughi.
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Ideato da Anthony Burgess e portato sul grande schermo da Stanley Kubrick, Alex DeLarge è uno dei personaggi più controversi della storia del cinema e della letteratura. Appassionato di ultraviolenza e di Beethoven, Alex incarna la figura dell’antieroe per definizione.
Il progetto nasce dall’idea di maschera, in particolare quella di Pulcinella, simbolo della tradizione napoletana, conosciuta come una delle più discusse e affascinanti della Commedia dell’Arte. In particolare, gli affreschi di Giandomenico Tiepolo conservati a Ca’ Rezzonico a Venezia offrono una grande varietà di episodi nei quali Pulcinella è rappresentato in moltitudine. Molti di questi episodi rievocano alcune scene del film Arancia meccanica e da queste coincidenze sorge la domanda: e se Kubrick si fosse ispirato al Pulcinella di Tiepolo per la scrittura dei suoi controversi personaggi? Il regista dopotutto era un grande amante di Venezia e presentò proprio Arancia meccanica al Festival del 1972. Oltre agli affreschi conservati a Ca’ Rezzonico, Giandomenico e Giambattista Tiepolo realizzarono centoquattro tavole nelle quali sono illustrate la vita, le avventure, la morte e la resurrezione di Pulcinella, raccolte in un album intitolato Divertimento per li regazzi alla fine del XVIII secolo. Queste tavole, riedite da Nottetempo nel 2015, includono dei testi e delle riflessioni filosofiche di Giorgio Agamben.
Prima di tutto, dunque, una somiglianza esteriore: la maschera di Pulcinella e i drughi sono molto simili. Si parte dall’aspetto fisico, con i loro abiti bianchi, e si arriva alle sfumature del loro carattere, alla loro ambiguità, doppiezza e beffardaggine, fino ai loro modi malsani e criminali di divertirsi.
The Carnival’s Analogy, realizzato nello stile di un album fotografico, accosta delle frasi tratte dalla sceneggiatura di Kubrick ad alcune tavole di Tiepolo, le quali a loro volta rimandano ad avvenimenti del film o alle caratteristiche dei personaggi. La disposizione delle immagini segue le vicende del film in ordine cronologico. L’obiettivo è quello di riflettere sul personaggio di Alex e sui drughi da una prospettiva insolita, nonché avanzare un’ipotesi sulle tracce dalle quali il regista avrebbe potuto ispirarsi per costruire i protagonisti del film.
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Interferenze
Francesca Bonani - Navid Khoshbaf - Matteo Rattini Marco Reghelin - Erica Toffanin
L’interferenza è un fenomeno fisico dovuto alla sovrapposizione di due onde che, scontrandosi in un punto dello spazio, liberano energia sotto forma di increspature e turbamenti della superficie.
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Nell’opera di Stanley Kubrick è possibile isolare un elemento ricorrente: una luce viene rivolta verso lo spettatore come se il fascio del proiettore, che solitamente è alle sue spalle, lo illuminasse frontalmente. In Arancia meccanica, nella scena in cui Alex sale sul palco per dimostrare l’efficacia della Cura Ludovico, questa ricorrenza si carica di un ulteriore significato: sia il protagonista che lo spettatore sono colpiti da una luce che li acceca, collocandoli in una posizione di evidente svantaggio rispetto a chi li osserva, celato nel buio della sala.
Questo particolare rapporto tra luce e spettatore inscena il ribaltamento di quella “soglia di descrizione” che Michel Foucault rilevava nel passaggio dal “regime di sovranità” al “regime disciplinare” dove il potere rende visibili coloro su cui si esercita, retrocedendo verso zone d’ombra.
L’illuminazione pressoché totale degli spazi urbani contemporanei e l’implementazione di sistemi biometrici nella rete di sorveglianza pongono gli individui in una condizione di costante controllo. Se l’illuminazione è una delle strategie attraverso le quali il potere si realizza, l’arma per sottrarsi alla sua presa è la luce stessa. Nelle recenti manifestazioni ad Hong Kong, i manifestanti hanno usato dei laser per disturbare le camere di sorveglianza e rendersi irriconoscibili; nonostante le immagini delle proteste abbiamo avuto una risonanza globale, il prodotto di questo scontro, ossia le interferenze nei video di sorveglianza, sono rimaste nascoste perché proprietà della polizia.
Simulando le stesse dinamiche, Interferenze si propone di fissare su medium fotografico le foto-testimonianze prodotte dalla collisione tra il fascio di visibilità di una videocamera di sorveglianza e la luce visibile del laser. A essere accecati non sono più Alex o lo spettatore del film ma il dispositivo di sorveglianza che, nel tentativo di catturare il soggetto in un’immagine nitida e riconoscibile, genera invece glitch, pixellature e artefatti che sanciscono la definitiva dissoluzione dell’immagine stessa.
La serie fotografica presenta delle superfici ruvide, dalle qualità quasi tattili che, pur essendo prodotto digitale, mantengono la materialità degli scontri di cui portano le tracce.
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Stampato su carta riciclata Crush Agrumi Favini, ottenuta con sottoprodotti di lavorazioni agroindustriali delle arance