Museo immaginario personale

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Museo immaginario personale
Laboratorio Arti Visive Antoni Muntadas, Alessandra Messali a. a. 2022/23 Università Iuav di Venezia
A— B—2
Museo immaginario personale

Università Iuav di Venezia a. a. 2022/2023

Laurea Magistrale in Arti Visive e Moda

Laboratorio di Arti Visive

Antoni Muntadas, Alessandra Messali

con il contributo di:

Edoardo Aruta, Cristina Baldacci, Cecilia Guida, Francesco Jodice, Paolo Rosso

un ringraziamento per il contributo alla sessione critica a:

Caterina Benvegnù, Renato Bocchi, Elisa Caldarola, Mario Ciaramitaro, Stefano Coletto, Paolo Garbolino, Roberto Grossa, Augusto Maurandi, Ute Meta Bauer, Maria Teresa Sartori, Chiara Trivelli, Angela Vettese

Riccardo Agostini e Matilde Ceccarelli

İnci Atabey

Nicole Carrasco

Ekin Çifter

Francesco Cremaschini

Elena Compassi

Barbara D’Alessandro

Gabriele Doro

Simone Fancello

Silvia Francis Berry

Angela Gioffrè

Alice Giorato e Maddalena Maggi

Debora Maurelli e Daniel Scordio

Felipe Minicucci

Giorgio Nigra

Giorgio Ogliari

Anastasia Penteriani

Clara Pugliese

Caterina Rigobianco

Federico Stoto

Menjie Zhang

un ringraziamento a: Laboratori per la didattica IUAV

Museo immaginario personale

Parole chiave: museo, valore assoluto, valore personale, istituzione, individuo, alterità, storia, collezione, archivio, memoria, ricerca, conservazione, immaginario, architettura, educazione, partecipazione, fruizione, anti-museo.

Il libro Le musée imaginaire di André Malraux è il punto di partenza per indagare la natura dei musei tradizionali in relazione all’idea di un museo immaginario personale. Secondo lo statuto dell’ICOM, il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto. Un museo personale immaginario non segue necessariamente le stesse regole, può avere valori esclusivi, può essere segreto, intimo o in certi casi irreale.

Il laboratorio ha accompagnato i partecipanti in un processo di lavoro e di studio che si è nutrito di idee e riferimenti teorici (attraverso letture, conferenze, proiezioni e brainstorming), per poi indirizzare ogni studente ad articolare e definire il proprio lavoro in piena autonomia ideologica e progettuale.

La proposta di lavoro è partita da una riflessione riguardante il museo immaginario personale per poi giungere all’elaborazione di 21 progetti. La metodologia adottata è variata in relazione all’individuo, alla sua pratica e al contesto ponendo l’enfasi sul processo. L’indagine è iniziata a partire da una prima intuizione legata ad idee e interessi, alla curiosità di

esplorare un territorio o una situazione determinata, per poi svilupparsi nel tempo ha attraversato una serie di fasi definite dalle necessità presentate dal progetto stesso.

Un processo aperto che rispondere agli interrogativi: Chi? Cosa? Perché? Come? Dove? Quando? Per chi? Quanto costa?

La seguente pubblicazione raccoglie i 21 progetti realizzati durante i tre mesi di laboratorio.

La normalità del nascondersi A—8 B—30 Riccardo Agostini, Matilde Ceccarelli

Hatasız Kulun Genel Evi .com A—9 B—32 İnci Atabey

“Nicole” A—10 B—34 Nicole Carrasco

La stanza delle mani A—11 B—36 Ekin Çifter

Feticcio Subconscio A—12 B—38 Francesco Cremaschini

ATROPO A—13 B—40 Elena Compassi

SÜSS FEL NAP A—14 B—42 Barbara D’Alessandro

LOTTAVO GIORNO A—15 B—44 Gabriele Doro

Antro A—16 B—46 Simone Fancello

Colui che mangia al tavolo di un altro A—17 B—48 Silvia Francis Berry

HOMESICKNESS: ricordi di casa A—18 B—50 Angela Gioffrè

You are in it A—19 B—52 Alice Giorato, Maddalena Maggi

Memorie Topiche A—20 B—54 Debora Maurelli, Daniel Scordio

Foto del 16.11.22 alle 22.13 A—21 B—56 Felipe Minicucci

Massa_Videosintesi A—22 B—58 Giorgio Nigra

DI CHI È LA CASA? A—23 B—60 Giorgio Ogliari

Onlyfanz A—24 B—62 Anastasia Penteriani

Lacune A—25 B—64 Clara Pugliese

È tutto oro ciò che luccica A—26 B—66 Caterina Rigobianco

Un’abrasione dello spazio slabbrata e pesta A—27 B—68 Federico Stoto

Piagnucolone nel sogno A—28 B—70 Menjie Zhang

Progetto Atlante Scheda
A—10 A—11 B—32 B—30
Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Judith Butler, Routledge, New York/London 1990 In a Queer Time and Place: Transgender Bodies, Subcultural Lives, J. Jack Halberstam, NYU Press, New York 2005 Anhell69, Theo Monntoya, Colombia, 2022 Dream Journal, Jon Rafman, 2016-2019 My Little Big Data, Eva & Franco Mattes, Milano, 2019 Cell: You Better Grow Up, Louise Bourgeois, Stati Uniti, 1993
A—12 A—13 B—36 B—34
Gestologie, Dyk Rudenski, Berlin, 1927 Still da TikTok video di Charlie D’Amelio, Charlie D’Amelio, 2022 Sunset Boulevard, Billy Wilder, Hollywood, 1951 Still da TikTok video di Charlie D’Amelio, Charlie D’Amelio, 2022 Untitled #571, Cindy Sherman, Berlin, 2016 Comfort Zones, Allan Kaprow, 1975 Offerings Series, Shirin Neshat, 2019 10 am is When You Come to Me, Louise Bourgeois, 2006 Le Tournesol, Paul Bouigue, 2019
A—14 A—15 B—40 B—38
Las Parcas, o Átropos, Francisco Goya, Museo del Prado, Madrid, 1819-1823 A niam-niam witch doctor, Richard Buchta Performance, Hermann Nitsch, 1975 GG Allin right before he died, 1993 My bed, Tracey Emin, 1998 Painting 1946, Francis Bacon, Museum of Modern Art, New York City, 1946 Sketchbook, Edward Hopper, Whitney Museum of American Art, New York, 1928 Venecia, Ignasi Aballì, LIX Esposizione internazionale d’arte di Venezia, 2022 Rothko Chapel, Mark Rothko e Philip Johnson, Huston, Texas, 1964-1971
A—16 A—17 B—44 B—42
Figure (Woman), Magda Cordell, Tate Modern, Londra, 1956–7 Russi a casa (Scritta sulla vetrina del Royal Hotel), Unknown, Budapest, 1956 Ritratto di Anna Achmatova, Nathan Altman, San Pietroburgo, 1915 La Madre Patria chiama!, Evgenij Vučetič, Volgograd, 1967 Carabinieri affiggono i sigilli in occasione di un sequestro, Cronaca, Piazza Dante, Roma, 2020 Name kit, George Brecht, 1965 Metrocubo di infinito, Michelangelo Pistoletto, 1966 Polizia scientifica raccoglie le prove nella scena del crimine, 2014

Foto

Screenshot

A—18 A—19 B—48 B—46
Fosfeni autoindotti, immagine dall’articolo di G. Oster, I fosfeni, 1970 Forme dei fosfeni, disegni di G. Oster, I fosfeni, 1970 Black Box, Tony Oursler, Kaohsiung Museum, Taiwan, 2021 Headspacing#1, installazione performativa di Michail Michailov, Vienna, 2018 Pitture rupestri nella Grotta dei Cervi ad Otranto, ph M. L. Leone, 2009 Studio per flip book, Silvia Francis Berry, Venezia, 2022 Dispersion, Christian Boltanski, Hangar Bicocca di Milano, 2017 ballerine Camper ricamate, Silvia Francis Berry, Depop, 2022 di un signore con una maglietta Desigual che mi piaceva, Silvia Francis Berry, Nuova Galleria dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, 2022
A—20 A—21 B—52 B—50
The Scrabble Game, David Hockney, 1983 Collage #2 Nostalgia, Roberto Melfi, 1902 ca. Anime. Di luogo in luogo, Christian Boltanski, Museo d’Arte Moderna di Bologna, 2017 Proyecto para un Memorial IV, Oscar Muñoz, 2005 Roma, Napoli e Firenze, Stendhal, 1817 Senza titolo, Stefan Draschan, Gallerie dell’Accademia, Venezia, 2020 Senza titolo, Elliott Erwitt, Museo del Prado, Madrid, 1995 Hermitage 2, Thomas Struth, Museo statale Ermitage, San Pietroburgo, 2005 I visitatori, Michelangelo Pistoletto, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 1968
A—22 A—23 B—56 B—54
Barra d’aria (schizzo per), Giuseppe Penone, Napoli, 1969 Relocating a structure, Maria Eichhorn, Venezia, 2022 Particle processed cafeteria, Daniel Turner, Berlino, 2016 Venecia, Ignasi Aballì, Venezia, 2022 La boîte blanche, Silvia de Marchi, Milano, 2022 TV Buddah, Nam June Paik, 1976 Poémes Mècaniques, Ilse Garnier, Pierre Garnier, 1968 Appendice per una supplica, Ketty La Rocca, 1972 I’m too sad to tell you, Bas Jan Ader, 1971
A—24 A—25 B—60 B—58
Frame da Sans Soleil, Chris Marker, Francia, 1983 Kappa Futur Festival Fake Wheelchair, Massimo Vitali, Italia, 2019 Quadri Specchianti, Michelangelo Pistoletto, Walker Art Center, Minneapolis, 1966 Museumbilder: Audience 11, Thomas Struth, Firenze, 2004 Frame da Videodrome, David Cronenberg, Canada, 1983 Contrapposto studies, I through VII, Bruce Nauman, 2015-2016 Illustrazione di rendering del cervello visto dall’alto Van Gogh. Il Sogno, Immersive Art Experience, Villesse, 2021
A—26 A—27 B—64 B—62
Fikafutura, Fikafutura, 1997 Untitled (Thinking of you), Barbara Kruger, 1995-2000 Bones Tan-Jones, Parasites of Pangu, 2019 Cent mille milliards de poèmes, Raymond Queneau, Robert Massin, 1961 Je vois, j’imagine, André Breton, 1991 L’Absente / The Missing One, Jean, Galerie Lumière des Roses, 2014 Oeuvres romanesques complètes, Paul Cox, Franck Bordas, 1999
A—28 A—29 B—68 B—66
Grabbing At Newer Vegetables, Anicka Yi, New York, 2015 Paradox of Praxis 1 (Sometimes making something leads to nothing), Francis Alÿs, Città del Messico, 1997 Sans Soleil, Chris Marker, Francia, 1983 Desastres, Marco Fusinato, Venezia, 2022 Walden (Diaries, Notes and Sketches), Jonas Mekas, Stati Uniti, 1968 Magnifying Glass, Roy Lichtenstein, 1963 Decasia, Bill Morrison, 2003 La Pluie (project pour un texte), Marcel Broodthares, 1969 Internet cache self portrait, Evan Roth, 2014-0ngoing
A—30 B—70
Il ragno che piange, Odilon Redon, 1881 Evocation of Roussel, Odilon Redon, 1912 Low Voice Out Loud, Rae Klein, 2022
I Had A Dream Last Night And You Were In It, Rae Klein, 2021

La normalità del nascondersi

Matilde

Ceccarelli, Riccardo Agostini Museo immaginario dei gesti nascosti

Il progetto parte da una domanda semplice ma piuttosto schietta: quali sono quei gesti, quegli aspetti della propria personalità, quei modi di esprimersi che una persona LGBTQIA+ si sente costretta a nascondere, mascherare, limitare o ridurre pur di passare per “normale” in una società eteronormativa?

Attraverso questioni, suggerimenti, spunti di riflessione, ci siamo posti di intervistare varie persone all’interno di questa comunità e di restituire le opinioni e interpretazioni della questione che ciascun individuo ci propone. Inoltre, ci siamo resi conto che ciò che è importante per noi è anche situare il quesito che poniamo ai diversi soggetti, ovvero, esplorare se e come Venezia come città possa o meno influenzare il comportamento di un individuo queer nella vita di tutti i giorni. Di conseguenza, è diventato essenziale comprendere anche l’importanza che un luogo (sicuro o meno) può avere nell’espressione di un’identità queer.

La nostra curiosità verso la gestualità e i modi di espressione, invece, si appoggia in particolare sull’idea di performatività di genere portata avanti dalla studiosa americana Judith Butler. Butler analizza come l’essere “maschio” o “femmina” sia in realtà semplicemente una performance di atti ripetuti nel tempo da parte di un individuo che si sedimentano in queste due categorie assolutamente non naturali. È chiaro l’interesse di questo concetto per il nostro progetto, in quanto domandarsi quali gesti vengano talvolta nascosti (per un’infinità di motivi) equivale a domandarsi come questi gesti possano informare o dimostrare un’identità non eteronormativa.

Il formato del nostro progetto è quello del biglietto d’auguri, che potrebbe essere considerato come anche un luogo classico per congratularsi con una

persona alle volte anche per avvenimenti legati alla sfera dell’identità di genere o all’orientamento sessuale (si pensi ai biglietti ideati per la nascita di un bambino o per un matrimonio, e così via). Per stravolgere l’immagine tipica di un tale supporto, in copertina vi sono le foto dei soggetti intervistati a cui abbiamo tentato di imporre un’estetica che strizza l’occhio al collage e anche a una certa cultura “trash”, un po’ kitsch ed eccentrica, figlia anche dai social media.

All’interno del biglietto, si ritrova invece sia la trascrizione dell’intervista stessa, sia la registrazione audio, così da poter dare voce ai volti in copertina. Inoltre, per restituire l’unicità di ciascuna persona intervistata, abbiamo deciso di chiedere cosa li facesse sentire rappresentati a livello culturale o mediatico (quindi quali opere d’arte, immagini, libri, film, canzoni o altro), considerando questo aspetto come un altro spazio dove i gesti e i modi di esprimersi vengono presentati per un pubblico e come questi possano ispirare e dare fiducia nella libertà di non nascondersi.

J.

J. Maes, Vieillir quand on est LGBTQ+, l’étouffante solitude, Elle Belgique, 2021 https://www.elle.be/fr/355883-vieillir-quand-on-est-lbgtq-letouffante-solitude.html

B—32 A—8
J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York/London 1990 Jack Halberstam, In a Queer Time and Place: Transgender Bodies, Subcultural Lives, NYU Press, New York 2005

Hatasız Kulun Genel Evi .com The General House Of The Faultless Servant

İnci Atabey

Museo immaginario degli errori

Non posso giudicare in maniera assoluta cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma posso valutare ciò che può potenzialmente essere giusto o sbagliato. Attraverso il mio museo immaginario personale ho esplorato questi assunti come componenti centrali del sé. Prima di approfondire ulteriormente, devo chiarire che il museo The General House of the Faultless Servant è costruito esclusivamente su valori etici soggettivi.

Lo scopo di questa simulazione è quello di visualizzare i glitch nella definizione di me stessa. Quale è il processo che porta alla ricostruzione dei valori, mettendo in discussione ciò che un errore definisce? Quando un’azione diventa un errore? Qual è il livello di coscienza durante questa azione? E quanto “controllo” contiene questo processo? Queste domande si riferiscono alla responsabilità delle proprie scelte.

Analizzando i miei glitch posso suddividerli in due categorie. Quelli che ho causato io, gli errori di cui sono responsabile, le mie azioni/decisioni che riconosco e definisco consapevolmente come errori, e quelli su cui non ho avuto controllo, le colpe della mia famiglia, gli errori del mio paese.

Più mi addentravo nel rapporto tra questi due gruppi e più vedevo l’inevitabile influenza che uno aveva sull’altro, sulle mie decisioni e sul modo in cui vengono stabiliti i miei valori.

Come già detto, i valori definiscono l’individuo. Mi domando se e da cosa sono imposti e quanto di noi stessi è una creazione indipendente? Così come i nostri errori? Il museo è il luogo in cui si svolge questa ricerca continua. La collezione di difetti, le loro relazioni e le loro evoluzioni nel tempo sono costantemente analizzate e aggiornate mentre il processo stesso viene documentato.

S. Freud, Toplum Psikolojisi, Düşünen Adam Yayıncılık, Istanbul 1994

B—34 A—9
E. e F. Mattes, My Little Big Data, 2019 J. Rafman, Dream Journal, 2016-2019

“Nicole”

Nicole Carrasco

Il museo immaginario della Diva

“Nel 1920 ero stata definita la donna più bella del mondo. Ed oggi ritengo di essere ancora la più bella donna del secolo”

Così cita Francesca Bertini, celebre attrice italiana del cinema muto dei primi decenni del 20° secolo. Ed è proprio in questo periodo, tra il fanatismo dell’industrializzazione, e l’innovazione del linguaggio filmico, che nascono le divinità dello schermo, le figure femminili che incarneranno doti di seduzione, avvenenza fisica, emblemi di aspirazione che si tradurranno in un rapporto irreversibile tra queste e il loro pubblico: il divismo. Inizialmente approcciate con distacco quasi magico-religioso, verranno velocemente ridotte dallo star system ad un fenomeno di esperienza comune, facendone dei simboli di carattere commerciale. L’avvicinamento a tali figure ci inviterà poi a fare parte del loro mondo, a voler essere loro in quel mondo.

“Nicole” indaga sulla figura della diva in un contesto contemporaneo, inizialmente analizzando le similitudini del linguaggio visuale comunicativo tra il cinema muto e TikTok. Confrontare i due momenti storici rivela come i processi del divismo siano cambiati nel tempo, dovuti alle oggi infinite possibilità di poter essere diva almeno per un giorno; da adorazione/ distanza a copia/vicinanza. Porre l’attenzione sul social media TikTok, significa indagare sulla percezione della diva moderna da parte di un pubblico adolescente, essendo questo il maggiore consumatore e produttore di questa figura. TikTok sponsorizza video trend ideati e poi emulati dagli utenti stessi che si auto-celebrano replicando connotati fisici e atteggiamenti di modelli intrinsechi e ormai invisibili. Il trend intrattiene, sopperisce alla noia, vende prodotti, creando una rete di copie che si impone con insistenza e verticalità nel feed di ogni

utente. La diva moderna si sfrutta da sé inconsciamente, attraverso apparati commerciali che esercitano forme di mercificazione sulla sua immagine.

Come suggerisce il titolo, “Nicole” si propone come video-performance di re-enactment di tre TikTok trend, che performati da me in prima persona, mostrano il reale processo ossessivo di imitazione; il solo utilizzo di make-up filters, ed effetti scenici già presenti nell’ app, esalta la facilità nell’impersonare il modello di riferimento. Il video svela l’effettiva azione performativa che queste esercitano nel loro quotidiano, che alla lunga inghiotte in un processo di auto-referenzialità, un loop fanatico di produzione e copia della loro stessa immagine. La citazione iniziale ad immagini di dive del secolo scorso ricorda la cristallizzazione velata delle figure agli inizi, sconvolte dallo star system e trasformate nella trasparenza pornografica delle immagini contemporanee. Riproposti attraverso un centinaio di video prove, i trend creano un atlante della stessa immagine che proiettato in grande schermo, si impone violentemente sull’audience che non ha scampo, è obbligata a guardare ne «l’inferno dell’uguale» (Han, 2014).

L’auto-rispecchiamento tragico, il limite tra il reale e il caricaturale che abitua il corpo e le esperienze quotidiane ad una routine di linguaggio ripetitivo, imitativo e performativo, formano un paradigma percettivo che annulla ogni increspatura della fiction, attraverso la trasparenza del privato.

B—36 A—10
G. Boehm, Die Bilderfrage, in Was ist ein Bild?, Wilhelm Fink Verlag, Munich 1994 B. C. Han, La società della trasparenza, nottetempo, Roma 2014 V. Codeluppi, ll divismo: Cinema, televisione, web, Carocci, Roma 2017 G. C. Castello, Il divismo, Ed. Radio Italiana, Roma 1957

La stanza delle mani

Ekin Çifter Museo immaginario della sicurezza

La sicurezza è un concetto che coinvolge ogni individuo a livello cognitivo ed emotivo, con o senza consapevolezza; è una sensazione intrinseca dell’uomo.

Il Museo immaginario della sicurezza: La stanza delle mani è un progetto di video animazione che si concentra sulla ricerca della sicurezza e sul suo intreccio con la nozione di destino, passato e futuro. L’intento investigativo di questa stanza del museo è nato dall’interrogarsi sul significato della parola sicurezza, delle sue caratteristiche e della sua presenza. Nel capire come si manifesta la sicurezza nella mia esperienza di vita in Italia, i riferimenti autobiografici e i ricordi sono diventati inevitabili fonti di riflessione, ma allo stesso tempo i motivi per i quali ogni definizione della parola sembrava imprecisa. Una sensazione difficile da ottenere una volta che si è vissuti in Turchia, sembra. Un luogo con un costante stato di instabilità nei notiziari, nelle strade e di conseguenza nella vita. Sembrava che fosse una conseguenza del destino non poter vivere a pieno questa sensazione perché il mio museo della sicurezza era stato derubato di un artefatto, di una possibilità.

La risposta a queste circostanze che si irradiava dal mio passato nel mio presente è stata quella di non individuare la sicurezza come una condizione per me senza speranza, ma di rivedere le linee del destino per cercarne di nuovo il significato. Riportare questo manufatto al museo, al mio corpo, a me.

C’era un’immagine che continuava a riaffiorare durante il processo di ricerca del progetto: Le mani. Il riconoscimento delle impronte nei sistemi di sicurezza, il rapporto tattile con le tecnologie, l’interazione precoce tra madre e figlio, il significato umano della pelle, gli agenti del gesto, l’intimità. Un’analisi più attenta di questa immagine

ha fatto emergere una componente preziosa del progetto: la superficie interna della mano, il palmo. Questa precisa intersezione del corpo, il trasmettitore del tatto, una congiunzione di momenti passati, un’immagine simbolica di ciò che verrà, un cosiddetto indirizzo del destino.

La letteratura sulla sicurezza contiene termini come teatro della sicurezza e scripting, in riferimento a una struttura cognitiva schematica della psicologia e una vulnerabilità della sicurezza del web. Sulla base dell’unione di questi elementi di finzione e narrazione, Museo immaginario della sicurezza: La stanza delle mani mostra una serie di cornici con rappresentazioni visive sulla storia della ricerca e della ridefinizione della mia sensazione di sicurezza. Le impronte del mio palmo emerse dalla tensione fisica contro la carta diventano tele nel momento in cui avviene l’impressione al rilascio dopo la pressione. Ritmo, movimento, texture e colore diventano personaggi indicativi in un viaggio di sensibilità ed emozioni.

S. Neshat,

P.Bouigue, Le Tournesol, 2019: https://vimeo.com/groups/519198/videos/376670516

B—38 A—11
A. Kaprow, Comfort Zones, Galeria Vandres, S. A., Madrid 1975 H. Molotch, Against Security, Princeton University Press, Princeton 2014 Allegiance with Wakefulness, 1994

Francesco Cremaschini

Museo immaginario del feticcio

Ognuno di noi possiede e custodisce un museo immaginario personale totalmente inaccessibile agli altri e a noi parzialmente accessibile. Il sottile tessuto che lo vela viene squarciato in occasioni singolari, momenti di sospensione che posseggono una natura liminale. Eventi liminali come il sogno, tra il sonno e la veglia; l’estasi, tra la coscienza e l’incoscienza. Sintesi disgiuntive che esaltano e uniscono le singolarità degli opposti tra cui si pongono. Questo museo è il subconscio: in tutta la storia, mai nessun museo è riuscito ad essere tanto immaginario quanto, al contempo, personale.

Partendo da questa percezione di subconscio come edificio ospitante ciò che di più immaginario e personale esista, ma al contempo creatore e curatore di tutte le opere esposte, l’opera che genera per poi essere esposta, il suo prodotto, non è altro che un Feticcio. L’oggetto-Feticcio, fin dalle sue origini, da corpo fisico e materiale ad un’energia metafisica ed immateriale. L’oggetto-feticcio sospende e conserva, come in un vuoto pneumatico, tempo, spazio e rapporti, in quanto immaginericettacolo di una forza invisibile sovrumana.

Il mio museo immaginario/subconscio, tenendo conto dell’evoluzione del Feticcio dalle sue origini etnologiche alle sue manifestazioni contemporanee, esibisce i feticci che lo abitano, cerca di dargli una forma ed un nome e di trovare la sala in cui vadano collocati. Ma la fruizione diretta e perenne di questa esposizione è riservata a me, curatore-spettatore della mostra, data la totale immaterialità e dunque inaccessibilità del luogo in cui prende forma.

Forse spinto da un impulso ecumenico o addirittura narcisista, ho sentito la necessità di rendere fruibili da tutti le opere esposte. Inizialmente ho pensato

di servirmi di vari medium materiali che restituissero, in seconda battuta, in una forma rielaborata, questo contenuto subconscio ed onirico, pur mantenendo la volontà di restituire e sottolineare anche la virtualità dell’esperienza subconscia.

L’idea iniziale era dunque quella di creare un setting ispirandomi a My bed di Tracey Emin (1998) ed appoggiare su di un letto vari oggetti che restituissero in seconda battuta al museo. Dopo aver individuato decine di oggetti per me fondamentali per rendere il museo fruibile, ho sentito una forte “spinta sintetica”, una necessità di sintesi formale, materiale e simbolica, ed ecco la Coperta. La Coperta è il letto, è la camera da letto, la mia camera da letto: spazio che testimonia la mia presenza materiale, ma è al contempo tramite per le altre dimensioni, come quella onirica e sessuale, pullulanti di fantasmi e feticci che fremono per uscire dalla “botola rituale” e dare vita ad una danza macabra. Il momento ideale per fruire della coperta è la notte culla di sogni, incubi e feticci; utero buio che ci contiene e al cui interno “mundus patet”, il mondo si apre e si mette in mostra.

B—40 A—12
H. Bergson, Plotino. Corso del 1898-1899 all’école normale supérieure, Textus, L’Aquila 2018 E. De Martino, La fine del mondo. Contributo alle analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2019 J. Lacan, L’istanza della lettera del subconscio o la ragione dopo Freud, conferenza del maggio 1967, in J. Lacan, Scritti, Einaudi, Torino 2002 M. F. De Sade, Le 120 giornate di Sodoma, Rizzoli, Milano 2014
Feticcio Subconscio

ATROPO

dove dimora l’inesorabile

Elena Compassi

Museo immaginario della morte dei morti

Dove Cloto e Làchesi tessono il filo dell’esistenza, regolandone il corso e il destino, Atropo l’inesorabile taglia. Il progetto si articola intorno al concetto e alla percezione dell’evento che noi chiamiamo morte inteso come evento personale e, entro certi termini, culturale. La nostra consapevole-inconsapevolezza sul tema, e le pratiche che noi consideriamo totalmente naturali nel loro decorso, come la biomedicina, hanno in realtà un carattere profondamente culturale, che riflette inevitabilmente il pensiero archetipale e condiviso di quella bolla sociale. In questo contesto, riconoscendo la nostra diversità nella distanza, possiamo affrontare anche il tema della multiculturalità, ritrovando infinite possibili storie ed esperienze.

Preferisco considerare il mio museo immaginario personale un museo dei morti, più che della morte. Il centro del mio interesse è come la persona affronta in sé stessa questa paura ancestrale e disperata, in qualsiasi modo si presenti effettivamente. Ho deciso di indagare il tema creando delle personas, ricostruendone vite e morti di immaginazione attraverso il supporto di ricerca online, offline e di interviste. Ho successivamente immaginato che queste personas producessero un proprio sketchbook, un diario visuale, di cui ho estratto le ultime 6 pagine. Cosa poteva pensare un’entomologo inglese nei suoi ultimi giorni, quando non poteva sapere che un terribile incidente stradale lo avrebbe ucciso? Cosa potrebbe disegnare una donna di mezza età, costretta in un letto d’ospedale dopo aver rifiutato la chemioterapia, in attesa che giunga il suo momento? Raccogliendo queste storie-diario secondo criteri o biografici o tematici, ho realizzato il primo volume di quella che potrebbe diventare una serie di libri d’artista.

Dr.

D.

E.

B—42 A—13
Sulle orme delle Moire, si intessono nello stesso libro sette vite, in cui la morte, la fine, Atropo, è il comune denominatore. E. Morin, L’uomo e la morte, Il Margine, Trento 2021 E. Kübler-Ross, La morte e il morire, Cittadella Editrice, Assisi 2022 Savorani, Argh!, Venezia, Bruno, Venezia 2022 Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi, Milano 2017

Barbara D’Alessandro

Museo dell’Unione Sovietica: caso studio maternità

Da troppo tempo, le donne subiscono pressioni sociali e politiche e la figura della madre è fortemente messa in crisi. In un momento della mia vita in cui il mio rapporto con la maternità è messo continuamente in discussione, voglio indagare le mie preoccupazioni, per analizzare il mondo che mi circonda ed esplorare questo concetto nell’epoca in cui vivo.

Durante le mie ricerche per il progetto, mi sono imbattuta in un’onorificenza “Мать-героиня” (Madre eroina), istituita l’8 luglio 1944 da Stalin. Le medaglie si distinguevano, per colore, dimensione, e materiali. Ognuna esprimeva un livello di prestigio determinato dal numero di figli che una donna aveva partorito e acccudito. Si partiva da un minimo di cinque figli (per il primo rango) fino ad arrivare a quello più alto che veniva riconosciuto alle madri che avevano dato alla luce almeno dieci figli. L’ordine veniva conferito al compimento del primo compleanno del figlio più giovane, ammesso che tutti gli altri figli, fossero ancora in vita, salvo chi fosse morto in battaglia.

Nell’agosto 2022, Putin ha firmato un decreto per ristabilire il riconoscimento “Madre eroina”, in un estremo tentativo di alleviare una crisi demografica nel paese, stimando un premio monetario si aggira intorno ad 1 milione di rubli. In una forma di critica e disappunto, ho immaginato una “contro-medaglia”. Un simulacro che intende sovvertire l’idea di un cerimoniale di consegna di un’onorificenza, ribaltare l’idea di un riconoscimento attribuito a delle donne soltanto per aver svolto una funzione necessaria ai programmi demografici e politici di uno stato, uno stato che sfrutta la funzione biologica della donna nel suo essere madre per affermare la sua egemonia. A questa medaglia ci si avvicina istintivamente, non viene consegnata. Un oggetto simbolico, che

vuole caricarsi di un compito gravoso: quello di dare riconoscimento e voce a donne che scelgono di vivere la loro vita non conforme al pensiero comune. Che si sono ritrovate a resistere in situazioni sfavorevoli e si trovano impossibilitate a manifestare pienamente la loro essenza di donne. Per riconoscere il loro valore e non dimenticarle.

Vorrei che il progetto desse voce: a chi non può avere figli / a chi non ne vuole / a chi sceglie un’altra strada / a chi è una lavoratrice gestazionale / a chi si sente obligata a procreare / a chi è rimasta sterile per agenti esterni inaspettati / In segno di rispetto, solidarietà e affetto / In un gesto di puro amore.

Per non lasciare tutto solo ad una mia interpretazione, ho voluto includere nel progetto delle interviste a delle giovani ragazze russe, mi coetanee. In queste, ho trovato un supporto alle mie idee, e uno spazio di condivisione per preoccupazioni, pensieri e desideri inespressi. Spero di poter conservare questa medaglia in una teca, affiancata alle video interviste, al aqb Project Space di Budapest. Spero di esporre il progetto, il 6 aprile del 2024 (giorno del decimo anniversario del governo di destra di Viktor Orbán).

A.

B—44 A—14
B. Brecht, Madre Courage e i suoi figli, Einaudi, Torino 1981 P. Rigolo, La Mamma: Una mostra di Harald Szeemann mai realizzata, Johan & Levi, Milano 2021 S. Aleksievič, Preghiera per Černobyl’, Edizioni e/o le Cicogne, Roma 2015
SÜSS FEL NAP
Akhmatova, Requiem, Swallow Pr, Ohio 2018

Gabriele Doro Museo immaginario del fake

Costruire situazioni, dare vita a cortocircuiti, entrare nella dimensione dell’apparente inganno. Un po’ come fottere chi si aspetta di trovare un’opera e consegnargli un catalogo. La mostra è finita da un pezzo, il tempo è già scaduto, non ti resta che vedere ciò che ne rimane. Lottavo giorno è il titolo di un azione che sembra aver già avuto un inizio, si tratta di un progetto che nasce dal collettivo/ gruppo #31#$!@%**£kk, entità anonima che ha gravitato nell’ambiente sottoculturale torinese negli anni precedenti all’inizio del 2020.

Io, tra l’essere intruso e ospite, curatore e interprete, mi ritrovo a raccoglierne le reliquie, oggetti che mi sono stati consegnati nella speranza di poterne fare qualcosa, tracciarne un racconto, rendere noto. Questo museo immaginario personale, che sembra coincidere con i temi della falsificazione e del contrabbando, dovrebbe circoscrivere un modo di agire o di far agire gli oggetti in un mondo dove la fiction ammanta ogni cosa e il confine tra reale e irreale gioca seri scherzi.

Si cercherà di dare forma a un ordine, l’ordine dell’informazione a cui il web ha abituato, randomico, per nulla logico, spesso caotico, certamente viziato. Uno spazio dove la fonte è costantemente inquinata, distorta e dispersa. Non un ordine che mira a mettere assieme gli oggetti secondo logiche scientifiche, ma più un catalogare e raccogliere nella prospettiva di dare forma a un agire. Ci si trova quindi costantemente esposti ad una frizione tra il realmente accaduto e il dubbio circa la veridicità di quanto mostrato. In tutto questo si è a conoscenza di un’azione che si sarebbe dovuta svolgere negli spazi di una nota galleria milanese ma che non riesce a raggiungere il proprio compimento, quindi ci si trova costretti a guardare gli oggetti per quello che sono, bloccati nella loro forma,

apparentemente slegati. Ma guardare dall’esterno non può che stimolare un percorso, raccogliere l’attimo congelato nel tempo, fermarsi lì dove le cose caricate di contenuti non tarderanno a mostrarsi nella loro natura più prossima. Gli oggetti, avanzi del rito, saranno quindi esposti in modo controllato come testimoni dell’azione, delimitati nell’area della stessa valigia all’interno della quale sono stati scovati. Attorno le prove saranno distribuite nella logica di come sono state raccolte, arrestate.

Recintate nella dimensione dell’inalterabile, sequestrate e allontanate dalla sfera dell’uso, percepiamo un’azione sospesa. Un sequestro cautelativo non fa che sottolinearne una volta ancora quella dimensione di allontanamento. Oggetti che svincolati dalle proprie funzioni sembreranno parlarci della propria singola natura, quella di essere merci tra le merci, manufatti umani.

B—46 A—15
R. Girard, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1980 E. Coccia, Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale, il Mulino, Bologna 2014
LOTTAVO GIORNO #31#$!@%**£KK
G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Milano 2005

Antro Studio sulle fotopsie

Simone Fancello

Museo immaginario di un inganno visivo

L’installazione è il tentativo di riprodurre nel buio una serie di immagini impossibili che esistono e allo stesso tempo sono illusione, un inganno visivo che si genera direttamente all’interno dell’occhio stesso. Quest’ultimo è un organo di senso la cui percezione può essere facilmente interrotta entrando in una stanza completamente buia o semplicemente chiudendo le palpebre. Tuttavia raramente si ha l’impressione di una completa oscurità. Man mano che gli occhi si abituano all’assenza di luce possono apparire una serie di immagini luminose, lampi generalmente di vari colori, partendo dal blu fino ad arrivare all’arancione, che di fatto non esistono realmente e che si generano dalla pressione meccanica sul globo oculare e di conseguenza dalla stimolazione delle fibre ottiche. Scientificamente questi fenomeni sono chiamati fosfeni (dal greco phos, luce e phanein, apparire), anche noti come fotopsie.

Attenendomi strettamente alle mie visioni personali percepite in quel dato momento di assenza di luce, per rendere l’inganno retinico ho realizzato un filmato con degli effetti grafici che simulassero il movimento ondulare, fulminoso e intermittente delle immagini fosfeniche. Video retroproiettato su un lenzuolo nero concavo dall’interno di una struttura simile ad una camera oscura. Lo spettatore potrà inserire la testa all’interno della piccola cavità costruita attraverso il tessuto in cui avverrà un gioco di luci flebili e a volte quasi impercettibili in cui prevedo che eventualmente anche le fotopsie dello spettatore possano entrare a far parte del museo immaginario composto dalla serie di immagini proiettate.

L’utilizzo della parola “Antro” per il titolo di quest’esperimento inoltre si riferisce ad un duplice significato: da una parte nel senso anatomico del termine

sta ad indicare una cavità, che in questo caso potrebbe essere quella del globo oculare in cui avviene il fenomeno analizzato che cerco di portare fuori e rendere tangibile. Dall’altra invece, antro inteso come cavità naturale all’interno della roccia, come grotta, attorno cui esiste un’affascinante teoria che nel corso della ricerca per questo lavoro è stata per me molto importante, secondo il quale nelle forme di alcune pitture rupestri rinvenute nelle cavità di alcuni antri preistorici (quella presa in esame dall’articolo di riferimento era la Grotta dei Cervi di Porto Badisco nel comune di Otranto) ci sia una somiglianza con le immagini dei fosfeni, generati dall’assenza di luce dovuta alla prolungata permanenza nella caverna.

M. Zucca, L’uomo di Similaun e i Fosfeni, Sei in Valle, 2015

https://www.seiinvalle.ch/i-colori/182-l-uomo-di-similaun-e-i-fosfeni

G. Oster, I fosfeni, 1970: http://download.kataweb.it/mediaweb/pdf/espresso/scienze/1970_021_6.pdf

M.

J.

B—48 A—16
L. Leone, La fosfenica Grotta dei Cervi. Manni Editori, San Cesario di Lecce 2009 Baudrillard, Simulacra and Simulation, University of Michigan Press, Ann Arbor 1994

Colui che mangia al tavolo di un altro

Silvia Francis Berry

Museo immaginario del dono parassita

Attraverso la creazione di una catena di montaggio i partecipanti al progetto cedono un indumento a loro scelta. Esso viene disegnato con quelli che sono visivamente i principi della mostra organizzata e, al termine dell’azione, l’indumento viene restituito al proprietario. Così facendo l’oggetto è impregnato dell’essenza dell’esposizione essendo al tempo stesso opera, supporto e catalogo.

Colui che mangia al tavolo di un altro ha l’obbiettivo di esistere uscendo completamente dallo spazio ufficiale del museo per vivere in autonomia al di fuori di esso. Una contemporaneità di eventi e di oggetti, considerati opere facenti parte del museo immaginario e personale, verranno liberati nello spazio in modo da vagare creando un’incertezza di collocazione e una temporalità infinita.

Sull’esempio fissato dagli artisti praticanti “un’estetica relazionale”, volti anche a contrastare la mercificazione dell’opera e le sue qualità in quanto “oggetto vendibile”, un ulteriore interesse sta nel creare una catena di montaggio di scambi reciproci basati su patti e regole ben precise. Partendo dal concetto di regalo, inteso, apparentemente, come positivo e generoso, ma rivelandosi in realtà un mezzo attraverso cui si costruiscono rapporti tramite un sistema di favori, in cui ci si aspetta sempre qualcosa in cambio e ci si sente indebitati, il gesto pensato si attacca al partecipante senza mai andarsene. I disegni realizzati vivono sul corpo degli indumenti in modo quasi parassitario legando tutti in una grande rete di collegamento.

B—50 A—17
M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Bologna 2002 N. Bourriaud, Estetica Relazionale, Postmedia Books, Milano 2010 C. Boltanski, H. U. Obrist, C. Parisi (a cura di), Take me (I’m yours) catalogue, Mousse Publishing, Milano 2018

Angela Gioffrè Museo immaginario della nostalgia

Homesickness: ricordi di casa è un progetto che deriva dal sentimento di nostalgia che provavo negli anni in cui ho vissuto lontana da casa. È particolarmente interessante vedere come, in inglese, l’aggettivo homesick contiene il termine sick, che in italiano viene tradotto come “malato”; la “nostalgia di casa” ha quindi un elemento di malessere, oltre che di mancanza.

Per evitare di vivere questo malessere dato dalla nostalgia mi sono resa conto che, mentre ero lontana da casa, i ricordi di determinate situazioni vissute a casa con la mia famiglia diventavano davvero importanti.

Infatti il sentimento di nostalgia è fortemente collegato ai ricordi: si pensa al passato attraverso ricordi, che possono essere sia materiali, come delle fotografie, che mentali. Eugenio Borgna, nel suo libro La nostalgia ferita scrive che «La nostalgia fa parte della vita come ne fa parte la memoria, della quale la nostalgia si nutre sulla scia dei ricordi [...]» (Borgna), parlando così di un collegamento tra nostalgia e ricordi.

La nostalgia non è solo relativa a specifici ricordi e situazioni, ma piuttosto a stati emotivi piacevoli che abbiamo vissuto: infatti, c’era un ricordo in particolare che era più presente rispetto ad altri, presente sia nella mia testa che in una fotografia, probabilmente perché era un ricordo che mi faceva provare molte emozioni positive.

Per questa ragione e perché era il ricordo che mi è stato più utile, ho voluto fosse l’elemento protagonista di questo progetto: era una giornata invernale e davanti alla stufa accesa c’eravamo io e le mie due sorelle sedute a mangiare patatine.

È importante però per questo progetto tenere a mente che il modo in cui ricordiamo e ripensiamo ai ricordi è costantemente distorto: questo elemento nei

miei collages è dato dai frammenti non solo del ricordo mentale (la fotografia della stufa) ma anche da quello della fotografia passata. I due ricordi si distorcono, rompono, si frammentano, si contaminano uno con l’altro fino ad arrivare al ricordo preciso, nitido.

L’elaborato finale è un album fotografico dove sono presenti stampe che raffigurano il processo di un ricordo, attraverso il collage, che da qualcosa di distorto e di quasi irriconoscibile diventa più chiaro e preciso.

D. Hockney, collages, 1982-1990

O. Munoz, Proyecto para un memorial, 2004-2005

E. Borgna, La nostalgia ferita, Einaudi, Torino 2018

B—52 A—18
H. Frampton, Nostalgia (all’interno della serie, Hapax Legomena), 1971
HOMESICKNESS: ricordi di casa

Alice Giorato, Maddalena Maggi Museo immaginario dello spettatore

You are in it è la nostra risposta alla domanda su cosa possa rappresentare per noi un Museo Immaginario Personale. Una risposta che si concretizza in una raccolta fotografica sotto forma di catalogo, nato da una riflessione e ricerca a partire dal ruolo che ricopriamo in quanto spettatrici dell’arte. Entrambe abbiamo riscontrato il comune fascino che proviamo nei confronti della gestualità ed espressività che caratterizza i singoli spettatori durante l’atto dell’osservazione in un luogo d’arte e riteniamo che questi atteggiamenti possano diventare un fenomeno da immortalare e studiare.

La fruizione e percezione di un’opera d’arte comporta inevitabilmente una reazione che si può manifestare attraverso particolari espressioni, gesti e movimenti del corpo, che sono distinti e unici per ciascuno di noi. A partire da questa constatazione e da una ricerca teorica basata su riferimenti bibliografici e artistici, abbiamo deciso di indagare queste gestualità inconsce, rendendo lo spettatore il protagonista del nostro museo.

Tramite l’ausilio della macchina fotografica abbiamo effettuato un’osservazione su campo, recandoci in luoghi d’arte veneziani, all’interno dei quali abbiamo ribaltato il nostro ruolo: al posto di fotografare, come abitualmente avremmo fatto, le opere in esposizione, abbiamo immortalato gli osservatori e osservatrici presenti, documentando le loro risposte psicofisiche alle opere.

Il risultato emerso dalla ricerca, che si potrà osservare sfogliando il nostro catalogo, è la ripetitività di gesti e atteggiamenti che accomunano le varie persone a prescindere dal contesto artistico in cui si trovano.

Inconsapevolmente il vasto pubblico diventa più simile di quanto si possa immaginare; l’arte ci rende partecipi di una comune esperienza in cui ci si ritrova

a essere coinvolti non solo emotivamente ma anche fisicamente. Sentiamo la necessità di toccare, indicare, avvicinarci ed immergerci.

Ed ecco perché You are in it vuole essere una raccolta fotografica dedicata a tutti, in quanto ognuno di noi potrà rivedere se stesso all’interno delle pagine del catalogo.

B—54 A—19
G. Magherini, La sindrome di Stendhal, Ponte alle Grazie, Milano 2003 J. Elkins, Dipinti e lacrime. Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro, B. Mondadori, Milano 2007 T. Struth, T. Bezzola, A. Kruszynski, J. Lingwood (a cura di), Thomas Struth: Photographs 1978-2010, Schirmer Mosel, Monaco 2010, pp. 218-219 (sezione Audiences)
You are in it
S. Basani, A. Ciresola, What Remains of a Rembrandt Torn into Four Equal Pieces and Flushed Down the Toilet, performance for museums and exhibitions spaces, https://bureau-basani-ciresola.com/what-remains

Debora Maurelli e Daniel Scordio

Museo immaginario delle memorie topiche

Sul piano teoretico le cose non sono come le vediamo, al contrario, esse hanno un’identità che va oltre la nostra comprensione. Meditare sulla loro trasformazione fisica, paradossalmente, ci allontana dal capire la loro essenza impervia; tuttavia, questo rimane lo strumento più vicino per poterle conoscere.

La materia si presenta ai nostri occhi solo attraverso uno degli stadi del suo ciclo vitale complessivo. La pietra, ad esempio, non è pietra bensì montagna, masso, ciottolo e sabbia, è essere in divenire, elemento fluido. «È solo un problema di tempo. La nostra durata di vita permette di dare valori di “duro” e di “molle” a certe cose, mentre il tempo li annulla».1 In questo universo di metamorfosi l’inanimato regna e noi esseri viventi siamo ospiti transitori.

Memorie topiche (2022) parte dalla volontà di minare la visione antropocentrica delle cose proponendo una meditazione su una delle cose più prossime a noi: i luoghi. Uno spazio architettonico ha la potenzialità di raccontare la sua storia e il rapporto tra sé e gli uomini che in esso vi hanno vissuto.

Partendo da questo, Venezia assume il ruolo di caso studio: la città lagunare, data la sua conformazione urbana limitata, è soggetta a una forte saturazione edile, motivo per il quale i suoi spazi sono stati e sono tuttora continuamente soggetti ad azioni di riconversione. Se tale riuso da una parte permette agli edifici di sopravvivere all’abbandono, dall’altra ne trasforma l’identità e questa trasformazione, se imposta dall’alto senza mettere in atto un reale «ascolto dell’esistente»,2 può talvolta essere inconciliabile con il passato del luogo. Questo porta a una maggiore difficoltà di lettura diretta della “memoria genetica” nella materia del luogo stesso. In un tentativo

non di definire l’identità del luogo, ma di avvicinarsi ad essa nelle sue sfaccettature, si propone una meditazione sulle monadi temporali di alcuni luoghi della città lagunare che sono caratterizzati da una migrazione funzionale evidente, servendosi di essi come sineddoche visiva dell’intera città. Uno degli esempi emblematici identificati è l’ex Cinema Teatro Italia, luogo che nasce a inizio Novecento come cinema, diviene una sala di proiezioni a luci rosse, poi sede universitaria e oggi, a seguito di un periodo di abbandono, ospita un supermercato. Allo stesso modo vi è il caso della falegnameria Pensa, diventata oggi la Galleria Alberta Pane, passando da un breve periodo in cui tra le sue pareti è stata ospita una sala da ballo, poi abbandonata.

Questi, insieme a tanti altri luoghi i quali ci parlano di uno stesso fenomeno di riuso, confluiscono in una mappa virtuale in costante aggiornamento, dove uno alla volta si concretizzano in dispositivi editoriali che ne presentano il racconto a partire dal primo caso studio della Galleria Alberta Pane. Ripercorrendo il luogo nel tempo, emergono nel libro le fasi vitali dello spazio, dove – tra le pagine – ogni fase vitale passata diviene presente.

1 G. Penone, Intrecci di metamorfosi, a cura di G. Celant, in Penone, Electa, Milano 1989, p. 17

2 R. Crignolo, La salvaguardia del patrimonio industriale, tra restauro e riuso”, in Patrimonio industriale, n. 07, aprile 2011, p. 18

A.

A.

B—56 A—20
A. Natalini, La logica della materia. Conversazione con Giuseppe Penone, in Giuseppe Penone, Prospettiva vegetale, Forma Edizioni srl, Firenze 2014 Tarpino, Sulle tracce dei ricordi, in Geografie della memoria: case, rovine, oggetti, Einaudi, Torino 2008
Memorie Topiche
Torsello (a cura di), Venezia. Cinema Teatro Italia. Restauro e riuso, Marsilio, Venezia 2017

Felipe Minicucci Museo immaginario dell’oblio linguistico

Incessantemente sommersi da messaggi persuasivi determinati algoritmicamente ci costruiamo una memoriasimulacro, ovvero una memoria senza riferimenti autonomi dalla loro rappresentazione. In questo complesso scenario appare sempre più difficile creare della frizione che ci permetta di vedere lucidamente le subdole dinamiche che si nascondono dietro ad un segno digitale. I media e i loro segni si insinuano sempre di più nell’invisibilità della loro natura e contemporaneamente sono sempre più articolati, stratificati e personalizzati. Risulta necessaria quindi una forma di indagine che sia in grado di far traboccare il contenitore dell’egemonia, ovvero l’interfaccia, attraverso lo smascheramento delle modalità seduttive e iper-personalizzate di produzione di significato — e conseguentemente di memoria — mediante l’infrastruttura digitale.

Questo progetto utilizza la lettura come momento di appropriazione impersonale di un testo, come luogo della différance, ovvero di quel fondamentale oblio che si nasconde nella frattura tra il significato e il significante. Nel momento in cui un testo viene letto cambia corpo attraverso il corpo, diventa voce e si estranea dal suo supporto di origine. «[...] la lettura, lungi dalla pretesa noiosissima di riferire lo scritto del morto orale, la lettura, dico, è non più ricordare, è non-ricordo, oblio» (Bene). Attraverso la pratica della lettura — quindi dell’esser-detti — si apre la possibilità di vedere il testo, di vedere e di indagare quella frattura del segno digitale im-mediato, che ora più che mai appare impercettibile.

La performance Foto del 16.11.22 alle 22.13 parte da un autoritratto digitale e, attraverso la lettura del suo codice .jpeg, viene messa in atto una metodologia di incarnazione e di smascheramento del testo che si

nasconde e che struttura l’artefatto digitale. Cosa vede davvero il computer? Cosa sono davvero per lui? Il codice è la vera immagine e si riferisce alla macchina, non a noi. La rappresentazione fotografica è solo la sua interfaccia. Leggendo il codice da stranieri e non potendo decifrare a fondo la sua sintassi, si sprofonda in quella che Barthes descrive come la «fenditura vertiginosa che permette al significante di costituirsi, [...] senza che alcun significato più lo sostenga» (Barthes). Con il suo insopportabile silenzio formato da “ÿ” e “”, la lettura del codice innesca una leggera catastrofe all’interno di un ambiente in cui i testi non tacciono mai... in questo senso, la voce fa il deserto.

Gî^B£$i4ê!∏ûM^øY≥X)9I’á@isîÏ}†K∫%Æ¡kø3z≤ƒ†Ùªg»6I´o_SÈT¢n*¸hX“&ƒ™©¨çZ(ä&¢ì¥E

C.

R. Barthes, Variazioni sulla scrittura — Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1999

S. McCaffery, Prior to Meaning. The Protosemantic and Poetics, Northwestern University Press, Evanston 2001

G. Lovink, Stuck on the Platform. Reclaiming the Internet, Valiz, Amsterdam 2022

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B—58 A—21
Bene, La voce di Narciso, Il Saggiatore, Milano 1982
Foto del 16.11.22 alle 22.13
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Giorgio Nigra

Museo immaginario della manipolazione della massa

Dall’alba della civiltà a oggi il potere di pochi cerca di dominare la moltitudine della massa. È un rapporto uno a molti di carattere top-down: il leader/interlocutore parla alla massa che riceve passivamente, senza la possibilità di elaborare un pensiero, di porsi domande e di rispondere. È una manipolazione che la rende assuefatta della sua stessa aura. Per Pasolini la televisione è il compimento del fascismo, non in senso ideologico, ma in quanto trasmissione agli spettatori di un ideale unico e veicolato appunto in modo verticale. La televisione è il paradigma del singolo soggetto/entità che parla alla massa, nonostante sia un mezzo personale. Viene fruita individualmente, ma ciò non significa che smettiamo di essere massa guardandola: diventiamo parte di una massa dislocata fisicamente, ma rimane comunque una singola emittente che trasmette a senso unico lo stesso segnale a tutti gli apparecchi riceventi.

L’artista islandese Björk, in un video dove smonta il suo televisore a tubo catodico, dice di essere affascinata dalla tv, perché quando la si guarda si smette di pensare. È possibile iniziare a far pensare lo spettatore che guarda la televisione? Si può interrompere questa ipnosi della trasmissione top-down? Questo progetto propone la pratica della videosintesi e del video-glitching analogico dal vivo per indurre uno straniamento nello spettatore, che arriva a rendersi conto di far parte lui stesso di questa massa fruitrice ipnotizzata riconoscendosi nel flusso distorto della massa che osserva in video. Attraverso la manipolazione del segnale video analogico su un mixer modificato, i video trasmessi – clip di archivi recuperate dalla rete e girate da me stesso in cui si assiste a una fruizione di gruppo (cerimonie religiose, sportive, militari, pubbliche) –vengono distorti e omologati, montati assieme

come un unico flusso di masse provenienti da luoghi e tempi diversi. Solo perché oggi in gran parte del mondo i regimi autoritari sono stati deposti non significa che le masse abbiano smesso di essere manipolate, anzi, proprio con mezzi più subdoli come la televisione, la creazione di una routine quotidiana standardizzata, di percorsi urbani prestabiliti, l’imposizione di medium e oggetti auratici da venerare, la manipolazione è ancora più forte.

Il medium del televisore a tubo catodico diventa fondamentale, sia in quanto oggetto simbolo di una ritualità di massa ma comunque fortemente personale e casalinga (oggi scomparsa con i display sempre più piccoli e una televisione sempre più on demand), sia in quanto, a differenza dei moderni schermi digitali ad alta definizione, non è composta da singoli pixel che si accendono o spengono individualmente; il suo segnale, anche qui, parte da una singola fonte (il cannone elettronico) e si propaga in maniera bustrofedica (da sinistra a destra e poi a capo da destra a sinistra) con la scansione raster. Anche nel tubo catodico quindi è presente una massa di linee di scansione interdipendenti, con una risoluzione più bassa, che permette di operare chirurgicamente una scomposizione e una distorsione dell’immagine, della massa, creando straniamento. La distorsione delle immagini in live performance, anche se provenienti da fonti diverse, le rende tutte parte dello stesso flusso, della stessa massa omologata attraverso diverse epoche storiche: tutto diventa un’unica massa che metaforicamente viene manipolata in maniera visuale, oltre che politica. Il museo immaginario della massa è un museo in cui si critica e si mostra la moltitudine dei fruitori vorace di adulazione, ipnotizzata e manipolata. È un museo inscritto nella storia umana.

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J. Baudrillard, Simulacri e Impostura: Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, PGreco, Milano 2008 E. Canetti, Massa e Potere, Adelphi, Milano 2015 D. Cronenberg, Videodrome, 89’, Canada 1983
Massa_Videosintesi
Ó. Jónasson, R. Heslop, The Sugarcubes: Live zabor, Islanda 1989:
https://www.youtube.com/watch?v=SNQtQWjXsA&t=187s&ab_channel=RetroRecipes

CASA?

_sulle allucinazioni mnemoniche e confabulazioni

Giorgio Ogliari

Museo immaginario delle allucinazioni del ricordo

DI CHI È LA CASA? è un progetto che nasce da un timore personale represso e identitario riguardo la conservazione di un ricordo e la sua successiva metamorfosi, frammento reale sensibile e condivisibile.

Da delle impressioni ottenute tramite un’osservazione diretta di uno stato anomalo della mente, logorata a tal punto da risultare incapace di correlare con logica i pensieri, mi sono dedicato ad immaginare come un ricordo di un cervello turbato, possa coesistere con la realtà vissuta dall’organismo ospitante la mente stessa. Comincio, dunque, da un’idea e da una successiva convinzione relativa proprio all’allucinazione del pensiero: quest’ultima, tra gli stati d’alterazione della realtà, dati da un sovrapponimento e da una mescolanza dei ricordi al presente vissuto, è una forma unica di immaginazione e di messa in discussione rispetto a ciò che l’organismo umano crede di percepire con i sensi e con il risultato del loro elaborato. La deformazione del pensiero può avere origine da differenti cause: traumi emotivi, incidenti, abusi, deficit mnemonici o malattie. Il risultato di queste falle dell’esperienza e/o dell’organismo, invece, si declina in gruppi e tipologie che differiscono per il modo in cui si mostrano:

_ allomnesie sono vere “illusioni della memoria”, con deformazioni di tracce mnemoniche realmente fissate che portano alla percezione di ricordi incompleti, distorti o falsati.

_ pseudomnesie, o confabulazioni, vengono intese come i processi durante i quali vengono sotituiti ai ricordi perduti dei falsi ricordi o ricostruzioni attuali e fantastiche di fatti realmente vissuti.

_amnesie ovvero la perdita parziale o totale della capacità di richiamare alla mente esperienze o eventi accaduti.

Il risultato del viaggio intrapreso si sviluppa in una mostra espositiva/esperienziale che possa indagare tramite elementi percettivi di video, sonori e d’immagine le dinamiche del parallelismo tra realtà e immaginazione vissuto da coloro che sono affetti da questi bug mnemonici. L’elemento fondante è la casa, intesa come luogo familiare, riconoscibile e come rappresentazione metaforica della mente. L’impostazione architettonica divide lo spazio in quattro macroaree e pone il fruitore all’interno di un percorso che lo accompagna in un ambiente decontestualizzato rispetto al presente vissuto, rendendolo partecipe di una riflessione sensibile ed avvicinandolo ad un mondo così vicino e contemporaneamente così distante dalla realtà.

La visita si svolge in quella che all’apparenza è una casa comune divisa in quattro stanze, in ognuna delle quali sono collocati uno o più pezzi d’arredo che lasciano intuire la natura dello spazio nel quale ci si trova. Lo scopo è quello di creare disorientamento grazie ad una serie di artefatti digitali come schermi, visori e proiettori che sfruttano la manipolazione visiva per cambiare la natura dello spazio abitato. Questi saranno supportati da una traccia sonora: grazie all’utilizzo di tecniche audio 8D il suono viene percepito in un ritmo continuo ed elaborato dalla mente come una macchia rumorosa immersiva ma confusa impossibile da isolare e distinguere.

E.

F.

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G. Buccola, Le Illusioni della Memoria, Rivista di Filosofia Scientifica n. 187, 1882-83 A. Pasternack, Oliver Sacks sulle allucinazioni, vice.com, 2015 A. Poe, Il Cuore Rivelatore, Dollar Newspaper, 1843 Zeller, The Father, F comme Film, 2020
DI CHI È LA

Onlyfanz Anarchivio transfemminist3 — Arti.Spazi.Controculture

Anastasia Penteriani

Museo della violenza di genere

Onlyfanz rappresenta uno spazio libero, in continua evoluzione. Uno strumento che si adegua alle esigenze che nascono durante la sua creazione. Sentendo l’incessante necessità di un’espressione che non sia costrittiva nei suoi dogmi natii, questo progetto editoriale si pone come luogo di scambio e possibile rivoluzione, sia formale che di contenuti.

La sua genealogia parte da una militanza femminista che vuole allargare la sua prospettiva attraverso la divulgazione di contenuti artistici e non solo, per questo motivo il format della zine, espressione di libertà e autodeterminazione, è stato scelto come strumento informale per tale scopo.

Il corpo è costituito da inserti artistici, nei loro più ampi significati, che fanno riferimento in linea di massima a un tema che cerca di ricorrere in tutte le sue pagine, cercando così di creare un filo conduttore (anche se non obbligato e/o obbligatorio). Ogni numero è composto da varie sezioni che spaziano dalle arti visive a quelle performative, dalla musica alla militanza, dalla divulgazione di spazi a nuove controculture.

MANIFESTO

Onlyfanz è transfemminist3.

Onlyfanz è sporc3, schifos3, riot, antisessist3, anticapitalist3 e antirazzist3.

Le parole che l3 definiscono sono attraversabilità, amore, sorellanza, sostegno, divulgazione, informazione, consapevolezza, autodeterminazione, ironia...

Vorremmo che questo spazio venisse usato come un anarchivio libero e in evoluzione, mostrando la nostra arte in un numero, sapendo che quelle pagine verranno poi usate da altr3 artist3 dopo di noi, creando così una rete divulgativa potenzialmente inarrestabile.

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M. Fragnito e M. Tola (a cura di), Ecologie della cura. Prospettive transfemministe, Othotes, Napoli-Salerno 2021 E. Goldman, Femminismo e anarchia, BFS Edizioni, Torino 2009 P. Ugolini, Artiste e femminismo in Italia. Per una rilettura non egemone della storia dell’arte, Marinotti, Milano 2022

Lacune Clara Pugliese Museo Immaginario dall’assenza

“Avoir des blancs” (avere dei bianchi) è un’espressione francese che significa avere dei silenzi legati a una dimenticanza o a una mancanza in un discorso o in una discussione. Punteggiare le frasi con il silenzio quando le parole non arrivano, cercare invano un altro modo per dirlo e confrontarsi con l’impossibilità di comunicare: è una cosa che affronto quotidianamente a Venezia poiché sono una francese che non parla bene l’italiano. Ma questa situazione può essere vissuta anche nel proprio paese d’origine con la propria lingua natale perché le idee e le parole non sono sempre facili da collegare. Lacune è un progetto che prende la forma di un oggetto editoriale interattivo.

Si compone di due parti: la prima è costituita da carte realizzate con immagini tratte da un giornale veneziano Il Gazzettino. Gli elementi di cui non conosco la traduzione italiana sono stati tagliati. Gli spazi bianchi lasciati dai tagli materializzano il vuoto, l’assenza. La seconda parte è un’edizione, in cui gli elementi ritagliati sono accompagnati da testi in italiano e francese che fanno riferimento ad essi senza nominarli. È un museo personale delle parole che non vengono, delle parole assenti. D’altra parte, sono stati lasciati degli spazi affinché il lettore possa associare la carta che ritiene rilevante. Il titolo Lacune, è evocativo del tema trattato e può essere letto sia in italiano che in francese, ma richiama la complessità, la sottigliezza di una traduzione perché il plurale dell’uno è il singolare dell’altro. La carta è un richiamo alle cartoline e quindi alla mia condizione di turista. L’utilizzo di un quotidiano veneziano Il Gazzettino, che ho visto molto nelle mani dei locali la mattina prendendo il vaporetto, mi permette di essere oggettiva nella selezione delle immagini, e quindi delle parole

mancanti. Mi permette anche di ancorare questo progetto a Venezia. Alla fine, troviamo soggetti che ritornano e che a volte sono specificatamente italiani o veneziani. Lacune è un’allegoria della mancanza di vocabolario e della ricerca delle parole giuste per le cose a cui vogliamo dare un nome.

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R. Queneau, Cent mille milliards de poèmes, Robert Massin, 1961 A. Breton, Je vois, j’imagine, 1991 P. Cox, Oeuvres romanesques complètes, Franck Bordas, 1999 Jean, L’Absente / The Missing One, Galerie Lumière des Roses, 2014

Caterina Rigobianco

Museo dell’effimero

Vivere di fretta, vedere senza guardare. Lo scorrere del tempo, mi provoca una sensazione dolorosa, sento che sfugge senza essere catalogato. Lo potrei riassumere in poche parole perché non ho prestato attenzione a ciò che ha occupato questo tempo. Cerco di tenere a mente la definizione che Austerlitz dà del tempo: «un’invenzione artificiosa, un calcolo umano che non fornisce una misura esatta e, nel suo legame con i pianeti che ruotano intorno al proprio asse, non meno arbitrario di un calcolo basato sulla crescita degli alberi».1

Da questo malessere nasce la necessità di celebrare l’effimero: qualcosa che nella sua breve durata costringe ad essere presenti per ammirarne l’esistenza. Istanti che andranno ad abitare il tempo della memoria. Ho deciso di documentare una camminata, attività che svolgo quando questa sensazione mi assale e che mi aiuta a riportare l’attenzione sulla dimensione fisica della realtà. Durante il percorso, immagini scorrono di fronte ai miei occhi e con esse momenti effimeri che non torneranno mai più. Riesco a cogliere negli istanti effimeri ciò che M. O’Neill individua nell’osservazione dell’arte effimera: la possibilità di fare «un’esperienza acuta del tempo».2 Il progetto vuole restituire l’esperienza di un’opera d’arte effimera: cioè un’opera che si sviluppa nel tempo fino a disgregarsi, in un periodo la cui durata è sconosciuta. Ciò viene sviluppato attraverso un’installazione video che risponde alla vicinanza dell’osservatore con una distorsione del tempo: l’attenzione prestata all’effimero ne aumenta la permanenza, modificando la durata complessiva dell’installazione.

L’installazione è costituita da una proiezione video che documenta ciò che vedo lungo il percorso a piedi e con i mezzi pubblici dalla mia casa presso

il Lido di Venezia alla sede Iuav Ca’ Tron: luogo in cui è esposta l’installazione. Un sensore Kinect rileva la distanza e l’avvicinamento dell’osservatore alla proiezione. All’avvicinarsi dell’osservatore corrisponde un rallentamento della velocità di riproduzione del video. L’imprevedibilità del comportamento dell’osservatore di fronte all’opera determina l’imprevedibile durata dell’installazione stessa.

Il progetto celebra l’effimero per catalogare il tempo e non lasciarcelo scorrere intorno. Esso è metafora del tempo di Maurice Merleau-Ponty: «non una linea, ma una rete di intenzionalità».3

Il titolo È tutto oro ciò che luccica rimanda alla natura effimera del bagliore emesso da ciò che luccica e quindi invita a valorizzare e dare la giusta attenzione a ciò che dura poco.

1 W. G. Sebald, Austerlitz, Adelphi, Milano 2002, p. 112

2 M. O’Neill, Ephemeral Art: Mourning and Loss, Loughborough University, Londra 2007

3 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della Percezione, Bompiani, Milano 2003, p. 534

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M. O’Neill, Ephemeral Art: Mourning and Loss, Loughborough University, Londra 2007 D. Birnbaum, Cronologia Tempo e identità nei film e nei video degli artisti contemporanei, Sternberg Press, Berlino 2005
È tutto oro ciò
A. Ishida, Role of the Ephemeral in recovery and Renewal, Virginia Tech, Blacksburg 2012
che luccica

Un’abrasione dello spazio slabbrata e pesta

Federico Stoto

Museo immaginario della realtà sfuggita alla coscienza

Il tempo della nostra vita scorre in un infinito flusso di immagini, un feed attraversato da un interminabile scrolling nel quale il margine dell’imprevedibilità viene sempre di più corroso dalla potenza algoritmica della predittività. In questa cornice qualsiasi interruzione verrà sempre incorporata come funzione del movimento.

Le immagini che quotidianamente produciamo sono pensate per indicare e testimoniare, il loro contenuto è trasparente e deve poter essere facilmente inviato e scambiato senza produrre attrito. Sopravvivono tenacemente alla nostra morte o scompaio all’improvviso senza lasciare traccia. La loro apparente immaterialità fa si che si accumulino a dismisura nella memoria dei nostri dispositivi fino a riempirli del tutto, costringendoci ad acquistarne una versione più capiente per continuare l’accumulo. Diventano sempre più simili a dei rifiuti che non si riesce a smaltire o che si svuotano all’improvviso quando sono troppo ingombranti, come la cache dei browser

In questo orizzonte in cui cerchiamo di trattenere tutto, le immagini di questa raccolta ci mostrano ciò che ci è sfuggito per sempre. Sono immagini provenienti dal cimitero, forse l’ultimo luogo che ancora ci obbliga a fornire un supporto materiale alle immagini. La foto, in quanto oggetto materiale, diventa allora inevitabilmente esposta alla degradazione, con tutte le fasi che questa comporta, fino a un praticamente totale riassorbimento nella natura.

Queste immagini, ormai tolte dall’album di famiglia, si scompongono nei loro particolari. Con il passare del tempo svanisce sempre di più il loro valore di segno, come è svanita la persona che indicavano e anche gli ultimi ricordi in cui questa persona era presente. Sono detriti di una realtà che è sfuggita alla coscienza e di cui la

natura finalmente si riappropria. Ciò che una volta era familiare appare ora «strano come un polipo delle profondità marine» (Kracauer).

In questo archivio di elementi estraniati dal loro significato originario ogni configurazione è provvisoria ed è concesso riorganizzare i frammenti creando combinazioni nuove. Immagini lontane nello spazio e nel tempo si attraggono spontaneamente tra loro suscitando storie e suggestioni che restano al livello della possibilità. A questa dimensione Siegfried Kracauer contrapponeva già nel 1928 il caos delle riviste illustrate. Noi oggi dovremmo forse sostituirlo con il caos ordinato ad hoc del flusso di immagini quotidiano, in cui non è prevista alcuna forma di opacità e dove possibilità dell’assenza svanisce sotto un eccesso di presenza. Questo archivio si presenta invece come un gioco di cui, in modo simile a quanto accade in un sogno, non si conosce il vero principio organizzatore.

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S. Kracauer, La fotografia, in La massa come ornamento, Prismi Editrice Politecnica Napoli s.r.l., Napoli 1982 D. Sisto, Ricordati di me. La rivoluzione digitale tra memoria e oblio, Bollati Boringhieri, Torino 2020 F. “Bifo” Berardi, E: La congiunzione, Nero, Roma 2021

Piagnucolone nel sogno Il demone sognante

Mengjie Zhang

Museo immaginario dei traumi nei sogni

Per me un museo immaginario è un archivio di sogni che si intrecciano tra memoria reale e desideri subconsci. Sigmund Freud riteneva che i sogni fossero un modo per il subconscio umano di elaborare pensieri repressi. I sogni sono la realizzazione di desideri inconsci e il travestimento di desideri infantili. I sogni seguono una logica propria che Freud chiama “lavoro del sogno”. Il lavoro onirico è la cifratura inconscia che trasforma il contenuto latente in contenuto manifesto. Un singolo frammento di sogno può portare con sé diversi pensieri onirici latenti, anche contraddittori.

Zhuāngzi è stato un filosofo e mistico cinese. Zhuāngzi sognò di essere una farfalla, racconta che una notte, Zhuāngzi sognò di essere una farfalla che volava leggera e spensierata. Dopo essersi svegliato era confuso, si domandò come potesse determinare se era veramente Zhuāngzi quando aveva appena finito di sognare di essere una farfalla o una farfalla che aveva appena iniziato a sognare di essere Zhuangzi.

Vorrei concentrare la direzione del progetto sulla reazione del trauma umano nel mondo dei sogni. I traumi vengono amplificati o guariti nei sogni? Interpretare i sogni può aiutare il cervello a guarire da traumi e depressioni emotive?

L’incubo che mi affligge è che le ferite che provo nella realtà si ripetono nei miei sogni. Le reazioni nei sogni sono spesso le prime impressioni della realtà. Le emozioni inconsce che non si vogliono affrontare, che sono nascoste, si perpetuano nei sogni. I traumi emotivi, come quelli provocati dalla vita reale, possono ingigantire questi segni rivelatori come una lente d’ingrandimento e, alla fine, essere sopraffatti dall’emozione.

I sogni funzionano per immagini, quindi i pensieri astratti che potrebbero essere alla base del sogno devono essere trasformati in un linguaggio pittorico e concreto prima di poter essere utilizzati in un sogno. Il mio lavoro è presentato sotto forma di fotografia autoritratto e in modo surreale per mostrare la trance, la sfocatura e le emozioni di inghiottimento e disperazione nel mondo dei sogni. Ho preso le emozioni che mi avevano ripetutamente ferito nel mondo dei sogni e le ho espresse in immagini. Siamo tutti piagnoni divorati dai demoni dei nostri sogni.

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S. Freud, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 2011 S. Freud, Studi sull’isteria, in Opere. Studi sull’isteria e altri scritti (1886-1895) vol. 1, Bollati Boringhieri, Torino 1977 Zhuāngzi, Zhuang Zhou Dreams of Being a Butterfly, On the Equality of Things

Museo immaginario personale

Pagine: 72

Formato: 210 x 297 mm

Carattere tipografico: Suisse Intl di Swiss Typefaces

Stampa interni: Iuav Multimedia Lab, Digitale

Stampa copertina: DoppioFondo, Serigrafia

Data di ultima consultazione dei siti web: 20.12.2022

İnci Atabey

Riccardo Agostini e Matilde Ceccarelli Nicole Carrasco Ekin Çifter Francesco Cremaschini Elena Compassi Barbara D’Alessandro Gabriele Doro Simone Fancello Silvia Francis Berry Angela Gioffrè Alice Giorato e Maddalena Maggi Debora Maurelli e Daniel Scordio Felipe Minicucci Giorgio Nigra Giorgio Ogliari Anastasia Penteriani
Clara Pugliese Caterina Rigobianco Federico Stoto Menjie Zhang

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